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autore: Autore: Nicola Rabbi

11. A Mandya si mette alla prova la riabilitazione su base comunitaria

Sunil Deepak, medico di origine indiana, è il responsabile dell’ufficio scientifico dell’Aifo dove lavora come cooperante da 22 anni.
Il progetto Mandya in India è iniziato nel 2008 con una ricerca sull’esperienza della riabilitazione su base comunitaria. Dato che le persone che lavorano in questo campo sono spesso sociologi, sulla RBC esistono soprattutto dei racconti, dei rapporti descrittivi e poco o quasi niente materiale scientifico per dire se questo approccio cambia e migliora la vita delle persone disabili.
Le istituzioni e gli esperti di riabilitazione considerano la RBC come qualcosa da paesi in via di sviluppo, per paesi poveri, non come valida alternativa.
Madya si trova a 150 km a sud ovest di Bangalore: è un distretto con due milioni di abitanti per 5 mila km quadrati.
In accordo con l’OMS che promuove la RBC abbiamo voluto fare una ricerca sulla validità del metodo e anche sui suoi limiti proprio in questa località. Da dieci anni due ONG sul territorio sostenute da Aifo, lavorano secondo principi della RBC e hanno coinvolto, nel corso del tempo, 22 mila persone disabili.
In generale la cultura locale non è accogliente; in una società povera se uno non contribuisce a far entrare qualcosa viene messo in secondo piano, ma questo per necessità, non c’è spazio per pensieri romantici; le aree rurali possono essere feroci verso i disabili, le donne, i ragazzi, tutti quelli che sono concepiti come diversi. I disabili sono pochi in queste regioni, sopravvivono meno degli altri.
Di solito il mondo è fatto per le persone che stanno bene, non per chi ha problemi.
Le Università di Firenze, Londra e Bangalore, che collaborano alla ricerca, hanno somministrato delle interviste e poi realizzato un’indagine statistica-sociologica.
Abbiamo però pensato che poteva essere valutata la RBC non solo da un punto di vista scientifico ma utilizzando gli stessi disabili come ricercatori; all’inizio dicevano che non era possibile fare diventare dei ricercatori delle persone che erano analfabete; e invece, grazie a dei ricercatori dell’Università anch’essi disabili che sono serviti da gruppo di sostegno, questo è stato possibile. Aifo ha partecipato come coordinamento e stimolo del fatto che questa iniziativa poteva essere fatta da persone disabili.
Per il pedagogista Paulo Freire anche le persone analfabete capiscono la loro situazione, sono in grado di capire, anche se non riescono a rielaborarla in un linguaggio colto; ma se una persona povera riesce a elaborarla in un linguaggio che si capisce questo porta all’emancipazione.
Non potevamo coinvolgere 22 mila individui ma abbiamo coinvolto le persone a diversi livelli; abbiamo individuato 26 persone che rappresentano tutte le disabilità, gente del posto, con titoli di studio diversi; questo gruppo ha fatto incontri con altre persone disabili per cercare di capire come fare la ricerca; hanno individuato 8 aree legate al tema della disabilità e hanno identificato 5 temi legati all’ambito di intervento (lavoro, salute, educazione, empowerment, legislazione) e gruppi di auto aiuto e associazioni dei disabili. Hanno infine individuato altri temi più trasversali (violenza, tempo libero, povertà…).
Su ogni tema (22 in tutto) hanno fatto delle riunioni, che duravano anche dei giorni, coinvolgendo persone disabili. Come metodologia hanno utilizzato le storie di vita cercando di capire quali erano i loro problemi e in che misura la RBC li aveva aiutati a risolverli. Alla fine di ogni riunione hanno documentato il tutto attraverso il filmato di circa un’ora.
I risultati di questo lavoro di analisi non sono univoci ma sono complessi; la RBC ha aiutato le persone ad accedere ai servizi, ha aiutato certi gruppi di persone disabili ma altre sono rimaste escluse e stiamo parlando delle persone ammalate di lebbra, le persone epilettiche, i malati mentali.
Il progetto è finito in aprile, in tutto sono state coinvolte 400 persone disabili, senza contare tutte quelle che hanno visto il video.
Ogni volta che vedo queste persone, mi rendo conto di come sono cambiate durante tutto questo lavoro: sono diventate persone più consapevoli. Ben 13 persone del gruppo si sono candidate alle elezioni comunitarie.

9. Fare RBC ad Alessandria d’Egitto

Conversazione con Simona Venturoli, project manager di Aifo.

Mi puoi parlare del progetto che state svolgendo in Egitto?
Nel 1997 Aifo insieme all’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva lanciato un progetto riguardante diversi paesi tra i quali l’Egitto per sperimentare la riabilitazione su base comunitaria nelle aree urbane. L’Egitto con il partner che attualmente abbiamo, il Centro Seti, era stato scelto tra vari paesi coinvolti. Nel 1997 Aifo è arrivata in Egitto con questo progetto realizzato insieme all’OMS e abbiamo cominciato a lavorare per attuare un programma nell’area urbana di Alessandria insieme al partner. Il progetto ha avuto molto successo e Aifo ha deciso di continuare a lavorare con fondi privati. Questo era un progetto pilota intitolato: “Promozione della riabilitazione su base comunitaria all’interno degli Slums”. Il progetto è terminato nel 2001 ma Aifo ha proseguito il suo impegno. All’inizio siamo partiti solo dall’area urbana di Alessandria mentre oggi si coprono almeno tredici aree. Negli anni il progetto è andato avanti ed è migliorato. Il nostro partner locale ha sede al Cairo ed è una ONG gestita dalla Caritas Egitto ma è registrata come ONG e ha sede anche ad Alessandria.

Il partner locale è un po’ particolare visto che si tratta della Caritas in Egitto…
Sì, è stata una grandissima sfida. Nel 1997 la situazione era molto diversa. La situazione del paese non poneva diciamo nessuna sfida. Nel 1997 la Caritas cristiana lavorava tranquillamente con la popolazione musulmana e con quella copta. Poi la situazione è cambiata. Con la guerra è peggiorato tutto e in questo momento è una grande sfida. Recentemente sono stata in Egitto, c’ero stata già nel ’93, ed essere tornata dopo tanti anni mi ha fatto scoprire un ambiente completamente diverso. L’Islam si era radicato in modo molto forte. Te ne accorgi anche da turista. Nel ’93 non c’era nessuno, per esempio, con abiti musulmani mentre oggi quasi tutti sono così. Si respira nell’aria che c’è scontro tra musulmani e cristiani. Questo partner, quindi, che è cristiano, lavora oggi in comunità che sono al novanta per cento musulmane. Oltre a lavorare sulla disabilità stanno dunque facendo anche un altro lavoro che sembra secondario ma non lo è, che è quello di lavorare sulla pace, sulla convivenza. Il loro staff, inoltre, è misto, sono sia musulmani che copti. In alcune aree tuttavia non riescono proprio a lavorare; in genere lavorano molto nelle comunità, nelle moschee, nelle chiese; spesso fanno un po’ i camaleonti alle rispettive riunioni, dato che la maggior parte sono cristiani ma si devono “abbigliare” in un certo modo per poter entrare, parlare.

Che tipo di intervento state attuando assieme? Oltre a essersi allargato dal ’97 in poi, il progetto si è anche strutturato in maniera diversa?
Il lavoro è sempre uguale, nel senso che ancora oggi è strutturato in fasi. La prima fase consiste nell’individuare una zona e vedere con le comunità chi è interessato a partecipare, poi c’è una fase di formazione. Prima di iniziare a lavorare il passaggio più importante è quello dell’identificazione delle famiglie, dei volontari, segue la formazione dei volontari e la costituzione di gruppi comunitari che possano poi gestire il progetto, perché alla fine è un progetto della comunità. Una fase, questa, che può durare anche un anno all’interno di una zona. Poi si passa all’erogazione delle attività che riguardano l’educazione (la novità è che in Egitto da quest’anno è uscita una legge per cui i bambini con disabilità “lieve” possono essere inseriti all’interno delle scuole che però non sono in grado di accoglierli). Questo progetto garantisce attività di educazione speciale; vengono fatte delle classi di soli bambini con disabilità che però alla fine fanno anche un esame pubblico. Ai bambini che finisco le scuole elementari viene concesso l’attestato di superamento dell’esame di stato.
Inoltre c’è la prevenzione della disabilità che viene fatta con le mamme in gravidanza, l’identificazione precoce della disabilità con i bambini e poi c’è la parte di riabilitazione fisica in collaborazione con i centri di salute pubblici. A questo proposito è stato fatto un accordo scritto con il Ministero della Salute; è importante fare rete e potenziare le risorse locali che sono già presenti sul territorio – le comunità, le parrocchie, le scuole, le moschee, i centri di salute – in modo che il lavoro non finisca con il termine delle attività svolte da noi.
Poi c’è tutta la parte sociale alla quale loro credono moltissimo. Vuol dire anche inserimento nel mondo del lavoro. Vengono fatti corsi di formazione e individuate aziende o artigiani che possano accogliere i ragazzi.

Stiamo sempre quindi parlando di minori? Di bambini in età scolare, di adolescenti che stanno per entrare nel mondo del lavoro…
Sì, stiamo parlando di questa fascia, da zero ai venti anni di età, talvolta arriviamo fino a trenta…

Sono presenti diversi tipi di disabilità?
Sì, anche se per la maggior parte sono disabilità mentali, paralisi cerebrali, purtroppo ci sono in Egitto molti bambini che, per una serie di motivi, nascono con paralisi cerebrali. Non c’è la cura prenatale, i più nascono in casa.

Esistono anche attività ricreative?
Hanno costituito dei weekly club, club settimanali in cui tutte le persone che si ritrovano in quella zona, si ritrovano per fare festa, per stare insieme. Vanno al Mc Donald’s, fanno gite turistiche per Alessandria.
Fanno addirittura un festival della paralisi cerebrale, una manifestazione molto grande, che è anche l’occasione per fare sensibilizzazione, in cui coinvolgono la municipalità e il governatorato.

Quante persone sono state coinvolte in questo servizio?
I beneficiari del progetto attualmente in corso sono circa 1.100 bambini da zero a sedici anni, ma anche persone più grandi, per la maggior parte con disabilità mentali e intellettive. Se aggiungiamo i genitori e i familiari raggiungiamo complessivamente circa 4.000 persone.

Qual è l’atteggiamento culturale delle famiglie nei confronti delle persone disabili? Immagino sia diverso dal contesto dell’Africa Subsahariana.
Sì in questo caso, più che come punizione, la disabilità viene percepita come una vita che non vale la pena di essere vissuta. Quando sono tornata giù, per farti un esempio, ho incontrato moltissime mamme che raccontavano che quando hanno partorito e si sono rese conto che il proprio bambino aveva problemi di disabilità, una volta che lo portavano in visita, il 90% per cento dei dottori consigliava loro di mettere per terra il figlio in un angolo e aspettare che morisse.

La religione permette tutto questo?
Sì perché, di fatto, non li uccidono… In generale ci sono forti discriminazioni e stigmatizzazioni, avere un bambino disabile è una disgrazia, perché è un peso. La maggior parte delle famiglie è senza speranza.

Hai qualche storia da raccontarci?
Ce ne sarebbero molte. La gente ama molto raccontarsi, più che in Italia. Ho sentito tanti padri che mi hanno detto: “Per dieci anni mi sono vergognato di mio figlio e ora ne sono orgoglioso. Ha vinto un sacco di medaglie di karate!”. Per i papà poi è ancora più complesso agire, perché è considerato compito esclusivo della donna occuparsi dei figli e della famiglia.
Per quanto riguarda i fratelli hanno organizzato un gruppo che si chiama “Amici della RBC” (Riabilitazione su Base Comunitaria), composto dai fratelli e dai cugini dei bambini con disabilità, in modo da condividere le loro esperienze ed essere coinvolti nel progetto; producono degli oggetti da mettere in vendita e fare così raccolta fondi ma soprattutto vengono sensibilizzati in modo che siano orgogliosi dei propri fratelli.

Quali sono i problemi che di solito si incontrano in questi tipi di intervento?
Le difficoltà che si incontrano sono a tutti i livelli, anzitutto a partire dalle persone con disabilità stessa, che, soprattutto nei paesi del Sud, hanno una bassissima considerazione personale e sono i primi a non credere in se stessi e quindi i primi a non credere che possono anche essere protagonisti di questi progetti di sviluppo. Se pensiamo alle famiglie, per esempio a quelle del contesto africano, queste tendono soprattutto a nascondere le persone con disabilità all’interno delle proprie case perché, per credenze di vario genere, vengono considerate o frutti del demonio oppure colpe: io ho un bambino disabile, quindi, evidentemente, ho delle colpe da espiare. La pressione sociale su queste famiglie diventa così molto forte. C’è da lavorare sulle difficoltà della persona con disabilità con la famiglia stessa, e con la comunità da un lato e a livello nazionale dall’altro, dove con tutte le difficoltà che già ci sono, i problemi delle persone con disabilità sono sicuramente gli ultimi pensieri.
In questi contesti mancano quindi i servizi di base, mancano le risorse, manca veramente tutto. Per questo consideriamo più efficace la strategia di attenzione su base comunitaria rispetto a interventi che vanno a fornire servizi specifici, perché cadono nel vuoto. Bisogna creare qualcosa di completamente diverso, una cultura diversa, una sensibilità diversa e fornire servizi innovativi all’interno delle stesse comunità. Se si arriva in Liberia in cui non c’è uno psichiatra in tutta la nazione, non ci sono centri di riabilitazione specializzati, scuole in grado di accogliere bambini con disabilità, dove non c’è nulla, non ha senso riabilitare fisicamente cento persone e basta. Finisce lì.

6. “Tegsh duren”, le pari opportunità nelle vaste steppe mongole

Conversazione con Francesca Ortali, responsabile dell’ufficio progetti esteri dell’Aifo.

Come siete arrivati a lavorare in Mongolia su un progetto di RBC?
Nel periodo in cui siamo arrivati in Mongolia c’erano pochissime ONG e ancora oggi, a dire il vero, se ne contano poche. Quest’anno il progetto ha compiuto vent’anni. A compierli, in realtà, non è stata la nostra collaborazione ma “Tegsh duren”, il programma che in lingua mongola significa “pari opportunità”.
Ci siamo capitati perché la Mongolia era uno di quei paesi che l’OMS aveva identificato nel suo progetto pilota per implementare la riabilitazione su base comunitaria. Stiamo parlando dei primi anni ’90. Il rappresentante dell’OMS della Mongolia chiese all’OMS centrale di iniziare il progetto, dopo di che l’OMS ci propose di andare a vedere se c’erano le possibilità di fare uno studio di fattibilità e così iniziammo. Si trattava di un periodo molto difficile per la Mongolia, a causa del crollo dell’Unione Sovietica. Nel giro di sei mesi la popolazione si è trovata improvvisamente senza riscaldamento, senza acqua, senza petrolio.
La Mongolia era uno stato separato, nel senso che non era annesso all’URSS ma era conglobato e dipendente in toto da tutto il blocco sovietico. Ci sono due o tre generazioni di mongoli che hanno vissuto sotto l’egemonia russa. Tutta l’economia, quindi, era strettamente connessa alla Russia, dipendeva da lei e quando questa è caduta la Mongolia di riflesso ne ha sofferto moltissimo.

Anche se ricca di risorse naturali?
Di risorse naturali era ed è ricchissima ma la struttura economica e politico-amministrativa dell’URSS non li lasciava affatto indipendenti.
Nel ’92 si viveva dunque piuttosto male e il problema era iniziare a cambiare la mentalità della popolazione. Dopo due generazioni sotto l’URSS e in cui ti dicono che non devi pensare in prima persona ma lo fanno gli altri per te e tu fai solo quello che ti è assegnato, è difficile cambiare, ci vuole tempo.

Spiegami meglio che cos’è “Tegsh duren”
“Tegsh duren” è più che altro una sorta di programma, che al momento si estende in tutta la Mongolia; ora sta iniziando un loro programma portato avanti dal Ministero della Salute, che sarà inserito nei programmi di salute di base, perché, così come ci sono i programmi di vaccinazione, si vorrebbero inserire anche programmi di riabilitazione su base comunitaria.
All’interno del programma ci sono diverse attività. A partire dalla formazione, che è una formazione a cascata che comprende tutti i livelli amministrativi, da quello centrale a quello sotto distretto, alle piccole unità abitative.

Di che tipo di formazione si tratta?
Formazione rivolta ai medici e ai paramedici. Si va dalla formazione specialistica a ortopedici, a medici di famiglia, ai feltcher che sono figure intermedie, né medici di famiglia né infermieri, che seguono un certo numero di famiglie nomadi utilizzando il motociclo o il cavallo. L’hanno scorso abbiamo fatto una ricerca proprio sui feltcher, sul loro ruolo e la loro formazione e dei bisogni formativi ai quali possiamo venire incontro con progetti di RBC.
L’altra parte importante è la riabilitazione socio-economica che passa anche attraverso il credito rotativo; dei fondi cioè che passano da un gruppo all’altro. Ad esempio per un anno vengono date cento capre femmine a una famiglia, vengono ingravidate, e mentre i nuovi nati rimangono alla prima famiglia, tutte le capre passano a una seconda.
Si chiama fondo rotativo di animali, invece di dare gli interessi in denaro li dai con gli animali da allevare; in Mongolia funziona bene perché gli animali, di fatto, sono la vita per i nomadi, non possono vivere senza, soprattutto per quelli più vulnerabili della società che sono le persone disabili. Avere un gruppetto di animali li stimola sicuramente, tornano cioè a vivere economicamente ma anche socialmente, perché questo gli permette di essere riconosciuti dato che possedere un branco di animali procura una certa considerazione.

A proposito di persone disabili come vengono coinvolti nel progetto?
Questo progetto ci ha portato sempre più vicino alla Federazione delle Persone con Disabilità e alle organizzazioni di persone con disabilità stesse. Sin dall’inizio le abbiamo coinvolte ma nelle associazioni di persone con disabilità la leadership e la gestione non sono molto spiccate.
L’obiettivo di un programma di riabilitazione su base comunitaria è sì formare i professionisti ma occorre lavorare molto sulle persone disabili, occorre operare per un loro empowerment [rafforzamento/presa di coscienza – ndr]. Abbiamo avuto un finanziamento dall’ONU e nel 2006 abbiamo iniziato questa formazione specifica a due livelli per le organizzazioni di persone con disabilità che dovevano far parte della federazione. Naturalmente per le persone che non abitavano a Ulan Bator ma in campagna questo discorso è stato ancora più difficile da fare.
Da quest’esperienza è scaturito un manuale di formazione in moduli che la Provincia di Milano ha tradotto in italiano e altre lingue; l’ha pubblicato e l’ha utilizzato per la formazione del proprio staff e delle associazioni di persone con disabilità della provincia di Milano.
Ritornando alla Mongolia tutte queste formazioni hanno fatto sì che la rete delle persone con disabilità si è rafforzata talmente che ha fatto un rapporto “ombra” per la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità. Hanno addirittura ratificato la Convenzione prima dell’Italia.

Parlami del rapporto con i giornalisti locali, frutto anche questo di un processo…
Abbiamo sempre insistito sull’importanza della visibilità e di come fare comunicazione, attraverso video, foto… In questo caso abbiamo coinvolto la Commissione Nazionale per i Diritti Umani, che è un ente governativo che dovrebbe essere formalmente l’istituzione che si occupa di tutte le questioni riguardanti i diritti umani e quindi anche i diritti delle persone disabili.
La collaborazione in Mongolia con questa Commissione è stata molto interessante e sono state prodotte ottime pubblicazioni e video in lingua mongola. L’anno scorso addirittura ne hanno realizzato uno molto particolare che riguardava la formazione dei funzionari di polizia riguardo al loro relazionarsi alle persone disabili.
Per quanto riguarda il mondo dell’informazione ci si era resi conto che in occasione di un evento che riguardava i disabili, i giornalisti non venivano mai e, se venivano, non raccontavano i fatti focalizzandosi sui diritti umani ma molto spesso usavano un tono pietistico. Poi pian piano i giornalisti si sono avvicinati ai nostri responsabili e proprio loro stessi hanno chiesto di ricevere un corso di formazione. Da questo rapporto sono venuti fuori video, documentari, articoli, spot televisivi sul tema della disabilità finanziati dal progetto o su loro iniziativa.

4. “Saper coinvolgere la società civile”

Intervista a Mina Lomuscio, funzionaria della Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo.

La nascita delle nuove linee guida
La Direzione Generale per la Cooperazione Internazionale e lo Sviluppo nel 2002 aveva già promosso delle Linee Guida sulla disabilità molto ben fatte, che avevano già in sé l’approccio successivamente adottato, un approccio di tipo partecipativo e inclusivo.
Ancor prima della Convenzione ONU abbiamo lavorato su questi aspetti in vari paesi in via di sviluppo e in particolare sulla deistituzionalizzazione dei minori, attraverso il coinvolgimento delle istituzioni ma soprattutto della società civile, delle organizzazioni di persone con disabilità, delle ONG, cercando proprio di adottare un approccio di tipo partecipativo fin dal principio del progetto. Il fatto che nel 2006 sia stata firmata la Convenzione ONU ha dato un impulso ancora maggiore alla nostra attività, benché la nostra esperienza fosse già all’avanguardia rispetto ai principi enunciati.
Quello che per noi resta di fondamentale importanza è l’articolo 32 che parla ben chiaro su quelli che devono essere i termini costitutivi della cooperazione alla quale viene affidata il ruolo di predisporre e di finanziare progetti capaci di coinvolgere la società civile in cui le persone con disabilità siano primi attori del processo.
L’Italia è stata tra i primi firmatari della Convenzione, per cui abbiamo ritenuto importante cercare di capire quello che la cooperazione italiana fa per lo sviluppo del settore, la metodologia utilizzata, il tipo di approccio. Abbiamo così fatto uno studio che ha preso in considerazione le iniziative che vanno dal 2000 al 2008, in cui abbiamo identificato le aree dove il nostro intervento è stato maggiore, aree che sono legate all’inclusione sociale, all’istituzionalizzazione; abbiamo preso anche in considerazione l’operato delle politiche legislative in materia, settore in cui siamo all’avanguardia e che ci viene riconosciuto in tutti i paesi. In questa direzione abbiamo fornito assistenza tecnica alle istituzioni che sono preposte alla promulgazione di leggi nella difesa dei diritti delle persone con disabilità.
A seguito di questo studio abbiamo fotografato gran parte della situazione nei paesi in via di sviluppo, benché ci siano ancora degli aspetti che non possono essere compresi in tutta la loro totalità, dato che fare una mappatura precisa non è stato possibile.
Tuttavia questo studio ci ha permesso di aggiornare quelle che erano le nostre linee guida nel 2002, sulla base proprio degli enunciati della Convenzione ONU. Questo lavoro è stato un lavoro di tipo estremamente partecipativo nel senso che abbiamo lavorato fin dall’inizio al nostro interno con i nostri uffici, che hanno diverse competenze di tipo finanziario, politico ed economico nel settore. Noi siamo l’Unità Tecnica Centrale Operativa per la Cooperazione allo Sviluppo ovvero siamo l’unità operativa che si occupa della formulazione, della gestione, del monitoraggio e della valutazione dei progetti. Al nostro interno esistono poi una serie di uffici che si occupano della programmazione e dei rapporti con gli organismi internazionali.
Partendo da questi presupposti diciamo che prima abbiamo fatto una mappatura all’interno del nostro ministero e successivamente abbiamo lavorato con le nostre unità tecniche locali, che avevano il polso della situazione in loco sulle varie attività, sulle esigenze e sui bisogni. Infine abbiamo coinvolto la società civile, le ONG e le varie organizzazioni di persone con disabilità, i ministeri e le istituzioni italiane, come il Ministero delle Politiche Sociali, gli Enti Locali e anche gli organismi internazionali.
Tale fotografia iniziale, predisposta alla redazione e all’aggiornamento delle linee guida, è stata fatta in collaborazione con la World Bank e la Global Patternship Disability Developement, un’alleanza di agenzie di cooperazione, organizzazioni internazionali, donatori…, che si occupa di disabilità e di favorire lo scambio di esperienze e di conoscenze. Tale collaborazione ci ha permesso di avvalerci anche di quello che era il punto di vista internazionale.
Successivamente abbiamo organizzato a Torino un forum in cui era presente parte del mondo della società civile e degli organismi internazionali e abbiamo invitato anche alcuni rappresentanti dei diritti umani di paesi dove noi lavoriamo, per avere così un contributo a trecentosessanta gradi. Abbiamo infine costituito un gruppo di lavoro che insieme all’Unità Tecnica Centrale ha lavorato sulla redazione delle Linee Guida. Il gruppo di lavoro era composto dalle istituzioni, dal Ministero delle politiche sociali ma anche da persone disabili.
A partecipare sono state soprattutto persone con disabilità che si occupano del settore normativo e legislativo della questione e della tutela dei diritti. Infine il documento è stato presentato e discusso a Torino e poi ripresentato nuovamente in una riunione ministeriale in cui abbiamo riconvocato tutti i partecipanti e di nuovo abbiamo raccolto commenti e suggerimenti. Tutto questo per dire che c’è stato un percorso accurato che è andato avanti nel tempo e ha visto la partecipazione dell’intero sistema Italia. Il documento delle Linee Guida è stato approvato formalmente nel novembre 2010, la redazione ultima è invece terminata a luglio. Rispetto alle linee guida del 2002, il documento del 2010 ha voluto essere molto più concreto, un documento operativo, basato sugli enunciati della Convenzione ONU.

Programmazione e metodologia
Nell’ambito della programmazione-monitoraggio dovremmo sicuramente cominciare a collaborare più strettamente con l’Osservatorio Nazionale per la Disabilità di recente istituito; anche la relazione che facciamo ogni anno al Parlamento dovrebbe avere una sessione dedicata alla disabilità. Molto spesso la disabilità è stata tenuta in considerazione come una tematica all’interno della Sanità mentre noi vorremmo darle un taglio completamente diverso, non la vogliamo più vedere secondo un approccio di tipo medico ma di tipo sociale.
C’è bisogno in questo senso di concretezza, di fare formazione e sensibilizzazione verso il personale del Ministero degli Affari Esteri e dagli Uffici. È importante sensibilizzare e informare. Abbiamo inoltre ipotizzato di fare formazione anche agli enti esecutori dei progetti, utilizzando soprattutto la rete universitaria, in collaborazione quindi con il mondo accademico. Recentemente abbiamo fatto un ciclo di seminari sui minori e la disabilità con l’Università La Sapienza, proprio perché riteniamo lo scambio teorico (quello dell’università) e pratico (il nostro intervento sul campo) come un aiuto per meglio indirizzare i nostri interventi. La formazione d’altro canto è in applicazione agli articoli della Convenzione.
È necessario anche continuare il nostro intervento sull’Inclusive Education, così come l’art. 24 lo espone e come è già messo in atto nella nostra esperienza. Dobbiamo proseguire questo tipo di attività che vede la deistituzionalizzazione dei minori applicata per progetti e in questo vedere un passaggio verso l’inclusione. Queste affermazioni per noi possono sembrare una banalità ma nei paesi in via di sviluppo ci sono ancora molti centri chiusi e il nostro intervento deve essere quello non di supportarli ma paradossalmente di fare il modo che vengano chiusi.
Per far sì che ci sia inclusione operiamo nelle scuole attraverso la formazione e l’assistenza tecnica che possiamo dare agli operatori, attraverso l’istituzione delle case famiglia e utilizzando il mondo del volontariato e delle ONG locali che hanno in loro molte potenzialità.
L’accessibilità delle strutture è un altro elemento di cui dobbiamo tenere conto in ogni progetto che la cooperazione fa. L’accessibilità non si riferisce solo agli edifici e alle strutture ma è anche un’accessibilità che si apre a livello tecnologico e informatico, quella che permette a tutti di aumentare il grado di preparazione e professionalità. Le nostre infrastrutture operanti nei territori devono contenere in sé questo elemento, dovrebbero essere costruite o riadattate sulla base degli standard di accessibilità.
La progettazione di un ospedale, per esempio, dovrebbe tenere conto di questi parametri. La formazione è necessaria affinché l’esperto preposto conosca effettivamente tutte queste problematiche e questo, purtroppo, non è così scontato. Se parliamo a degli addetti ai lavori questi discorsi sembrano banali ma per la maggior parte delle persone non è così.
Se io progetto un ospedale o un acquedotto devo tenere conto della strada per arrivare a quest’acquedotto. Una persona disabile ci può arrivare? Lo stesso vale per gli interventi di emergenza che facciamo, devono tenere conto delle persone con disabilità che sono quelle che più di tutti hanno bisogno di supporto e assistenza e che generalmente sono proprio le prime a essere dimenticate in tali situazioni. In questo senso si parla di mainstreaming della disabilità.
Accessibilità, emergenza, formazione, educazione, creazione di una rete di tutti gli attori coinvolti nella tematica, sono i contenuti delle nostre Linee Guida e tutto questo processo deve essere ovviamente supportato da una decisione politica concreta e operativa del nostro Ministero.

Documentazione e comunicazione
Esiste uno specifico paragrafo in cui dichiariamo che bisogna dare delle indicazioni di finanziamento sui progetti che facciamo. Quando formuliamo un progetto dobbiamo fare attenzione alla terminologia, a un’analisi ben precisa del contesto in loco, dei dati, un flusso di informazioni e comunicazioni che parte a livello locale e che poi deve arrivare a Roma dove approviamo effettivamente le iniziative. Prima di essere approvato un progetto deve tenere conto di tutti questi principi. Per quanto riguarda la comunicazione ci interessa intanto una comunicazione che riguardi l’intero sistema Italia. Tutto questo significa mettere in una rete tutto ciò che il Ministero fa, abbiamo un ufficio stampa, un settore dedicato alla comunicazione; la rete andrebbe costruita mettendo in relazione questi elementi. Insisto sulla comunicazione perché è un’indicazione che abbiamo avuto dal nostro direttore generale che ci invita a dare visibilità all’Italia e a quello che è il sistema italiano, mettendo in relazione tutti questi attori. Per mettere in relazione gli attori però bisogna prima comunicare e trovare dei momenti di incontro e di discussione nelle varie forme che possono essere definite.
All’interno delle Linee Guida noi parliamo di aspetti che più riguardano l’efficacia delle iniziative attraverso i nostri referenti internazionali. Sarebbe importante per esempio per noi che siamo tenuti a riportare le nostre attività all’OCSE-DAC (Development Co-operation Directorate) un indicatore che parlasse di disabilità che non è mai menzionata tra gli indicatori e i target. Esiste uno studio sugli Expert Meeting, un gruppo di esperti che ha lavorato sugli obiettivi del millennio, che sono tuttavia molto generali e in cui la disabilità non appare. Il problema è che la disabilità non è ancora una tematica trasversale che dovrebbe avere un suo rilievo proprio perché attraversa tutto, la povertà, i minori, le donne, il momento della nascita, una trasversalità che dovrebbe essere tenuta in considerazione nel momento in cui formuliamo il progetto.

Risorse e investimenti
Per quanto riguarda la disabilità abbiamo i vari finanziamenti ma non sappiamo quali saranno i risultati futuri dato che il nostro paese sta vivendo una situazione, come tutta l’Europa, di difficoltà e da questo non si può prescindere. Abbiamo sicuramente avuto indicazioni sulla riduzione delle spese. Ciò significa lavorare con pochi soldi, cercando però di mantenere una qualità alta degli interventi e di sfruttare al meglio le nostre potenzialità. Con tanti soldi ci si cura in genere di meno del dettaglio, con pochi soldi invece tutto quello che fai deve funzionare, è necessario fare molta più attenzione all’obiettivo, non devono esserci perdite o fuoriuscite che non portano poi a nessun risultato. Il principio della sostenibilità, che ovviamente già appartiene ai nostri progetti, diventa ancora più importante. Dobbiamo far sì che i nostri progetti siano sostenibili, lavorare affinché i nostri partner possano lavorare. L’analisi del contesto e delle sue potenzialità in questi casi diventa ancora più importante. La politica e la normativa diventano essenziali così anche per la persona con disabilità, il fatto di potervi fare riferimento. Sensibilizzare i governi sull’attività della società civile e far comunicare queste due entità soprattutto nei paesi in via di sviluppo diventa poi estremamente importante.

3. Disabilità e Organizzazioni Non Governative tra ONU, UE e Italia

Intervista a Giampiero Griffo di DPI Italia.

Dopo l’approvazione della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità e il suo recepimento da parte dell’Unione europea e dell’Italia come è cambiato il modo di lavorare delle ONG sul tema della disabilità?
La CRPD, Convention on the Rights of Persons with Disabilities, (www.un.org/disabilities) ha riconosciuto che le persone con disabilità sono parte della società e vanno rispettate nei loro diritti umani. In particolare l’art. 32 (sulla cooperazione internazionale) ha sottolineato che “la cooperazione internazionale, compresi i programmi internazionali di sviluppo, includa le persone con disabilità e sia a loro accessibile”. Inoltre ha riconosciuto il ruolo che possono giocare le organizzazioni di persone con disabilità nel partenariato con gli stati e le ONG. Anche nel campo degli interventi di emergenza umanitaria (art. 11) bisogna prestare dovuta attenzione alle persone con disabilità. Purtroppo rimane ancora una pesante disattenzione delle ONG rispetto alla nostra inclusione e la piena partecipazione. A livello internazionale le Nazioni Unite hanno promosso convegni e seminari che sollecitano una maggiore attenzione al problema. Vi sono documenti internazionali, come la Carta di Verona del 2007 (www.superando.it/docs/verona%20charter%20ITA%20con%20tutti%20i%20firmatari.pdf) sulle situazioni di emergenza; esistono risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che hanno collegato la disabilità agli obiettivi del Millennio; esiste un consorzio europeo di ONGs e DPOs (organizzazioni di persone con disabilità) che si occupano di cooperazione allo sviluppo e disabilità (IDDC). Nel complesso però i maggiori donors sono lontani dall’includere nei programmi e nei progetti le persone con disabilità, alcune agenzie nazionali di sviluppo (soprattutto dei paesi nordici) destinano una piccola parte dei fondi a progetti verso questa fascia di cittadini, ma secondo calcoli della World Bank siamo al disotto del 5% delle risorse complessive. In Europa l’European Disability Forum e DPI, attraverso azioni di lobbying insieme all’IDDC, sono riusciti a inserire nella Strategia sulla disabilità della Commissione Europea (2010-2020)  il tema della disabilità nelle relazioni esterne dell’Unione (finanziamenti a paesi terzi). Il nostro obiettivo è quello dell’approccio a doppio binario (twin track approach): aumentare le risorse destinate alle persone con disabilità (l’Unione Europea è il maggior donatore mondiale) e realizzare il mainstreaming della disabilità in tutti i programmi.
In Italia, purtroppo, solo poche ONG si occupano di persone con disabilità, spesso con una visione prevalentemente medica. Nel complesso le circa 130 ONG italiane che si occupano di cooperazione internazionale ignorano le persone con disabilità. Dal 1999, su iniziativa di DPI-Italia, si è costituito un gruppo di lavoro nazionale sul tema della disabilità a cui erano state invitate tutte le ONG italiane. Il lavoro comune (seminari, incontri …) ha fatto emergere che solo poche ONG erano interessate. In particolare con l’Aifo (www.aifo.it), DPI-Italia ha costruito progetti in comune, sperimentando forme di empowerment delle DPOs in alcuni paesi (Mongolia, India), che saranno trasferite in altri paesi (Liberia, Vietnam). Ne è scaturito un manuale sui diritti umani e l’applicazione della CRPD, un lavoro comune sulla riabilitazione su base comunitaria, attività di ricerca comuni. Per consolidare questo lavoro si è costituita l’anno scorso una rete di ONGs e DPOs (Rete Italiana Disabilità e Sviluppo, http://ridsnetwork.blogspot.com) formata da Aifo, EducAid, DPI-Italia e FISH, che ha messo insieme le esperienze italiane più avanzate in questo settore. La rete infatti riconosce la pari dignità e il partenariato tra ONG e DPO, sviluppa una serie di impegni progettuali basati sulla applicazione della CRPD, sull’empowerment delle DPOs dei paesi in cerca di sviluppo. Tra gli altri obiettivi, vorremmo far crescere la partecipazione di esperti con disabilità nei progetti: l’anno scorso abbiamo iniziato un’attività formativa in questa direzione.

Cosa ne pensi delle linee guida della cooperazione italiana sulla tematica della disabilità?
La DGCS (Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo) del Ministero degli Affari Esteri (MAE) aveva già elaborato delle linee guida sul tema della disabilità nel 2003, senza coinvolgere le DPOs italiane. L’impostazione era centrata sui diritti economico-sociali. L’anno scorso il MAE ha riformulato quelle linee guida, aggiornandole sulla base della CRPD. È il primo – e unico attualmente – concreto atto del governo in direzione dell’applicazione della CRPD, anche se non totalmente soddisfacente. Questa volta nel gruppo di lavoro erano rappresentate anche delle DPOs con esperti competenti in materia di disabilità e attenti al dibattito internazionale ed esperti con disabilità.
Le linee guida individuano più livelli di attenzione: il livello di competenza del MAE, con lo scopo di applicare la CRPD e in particolare l’art. 11 e 32; il livello di competenza europeo e internazionale. I capitoli riguardano sia le azioni di raccordo con le politiche generali (collegamento con l’Osservatorio sulla condizione delle persone con disabilità, competente sull’applicazione e monitoraggio della CRPD, introduzione di un capitolo sul tema della disabilità nel rapporto annuale al Parlamento italiano), l’identificazione di politiche di mainstreaming (formazione, progettazione, approccio doppio binario, emergenza, direttive sull’accessibilità, raccolta dati), la collaborazione con istituzioni italiane ed estere (mondo imprenditoriale, istituzioni italiane competenti, ONG, Agenzie di cooperazione di altri paesi), il coinvolgimento diretto delle DPOs nella definizione dei programmi e delle politiche e loro empowerment nei paesi in cui si realizzano progetti di cooperazione del MAE. Purtroppo queste linee guida sono state licenziate in un periodo in cui il governo italiano ha ridotto (e ridurrà ancora di più) il budget a disposizione: ormai, invece dell’obiettivo dello 0,7% del PIL, siamo arrivati sotto lo 0,1%, fanalino di coda tra i paesi industrializzati.

Che ruolo devono avere le persone con disabilità in tutto questo?
La CRPD rappresenta uno standard internazionale universalmente accettato (sono ormai 100 i paesi che l’hanno ratificata). La sostenibilità reale della Convenzione però sarà possibile solo dove vi sia una rappresentanza forte e competente delle persone con disabilità. Per questo è necessario che le DPOs dei paesi in cerca di sviluppo siano tra i beneficiari dei programmi e degli interventi di cooperazione. Le DPOs dei paesi industrializzati devono premere sui governi e sui donors perché si occupino dei diritti delle persone con disabilità. Un dato esemplificativo: della rete delle 600 Fondazioni internazionali, solo due o tre di esse si occupano di questa fascia di persone. Eppure le persone con disabilità sono un settimo della popolazione mondiale, nei paesi del sud del mondo solo il 2% delle persone con disabilità gode di sostegni e servizi, più di 40 milioni di bambini con disabilità non ha accesso a sistemi scolastici ufficiali, la disoccupazione tocca percentuali superiori al 90%. Il sostegno delle DPOS occidentali alle loro sorelle di questi paesi è quello di rafforzarne le competenze sulla CRPD, favorire lo sviluppo organizzativo, accompagnarle nelle politiche di lobbying verso i loro governi e verso i donors. Un esempio significativo è stato il progetto del MAE in Kosovo [di queste esperienze e delle altre che seguono se ne parla in articoli presenti in questa monografia, ndr], per definire un Piano di azione nazionale sulla disabilità partecipato e un sistema di monitoraggio. Altro elemento è quello di costruire alleanze con le ONG più attente ai diritti delle persone con disabilità. Esemplare è stato l’accompagnamento da parte dell’Aifo, attraverso vari progetti, alla Federazione mongola di associazioni di persone con disabilità nel processo di ratifica e implementazione della CRPD, in alleanza con la Commissione mongola per i diritti umani. Ancora innovativa è la ricerca “emancipatoria” che si sta sviluppando nel distretto di Mandya in India, che coinvolge le DPOs nella ricerca sulla condizione delle persone con disabilità, costruendo nello stesso tempo l’empowerment  delle stesse persone con disabilità che diventano i realizzatori della ricerca. In questa direzione influenzare l’Unione Europea è un altro dei compiti primari, come previsto nel punto 8 della Strategia europea sulla disabilità. Cito l’intero capitolo per far capire i nuovi compiti da realizzare: “L’UE e gli Stati membri devono promuovere i diritti delle persone con disabilità nel quadro delle loro azioni esterne, tra cui i programmi di allargamento dell’Unione, di vicinato e di aiuti allo sviluppo. La Commissione opererà, ove necessario, in un contesto più ampio di non discriminazione affinché la disabilità diventi un tema essenziale dei diritti umani nel quadro delle azioni esterne dell’UE. La Commissione farà opera di sensibilizzazione sulla Convenzione dell’ONU e sui bisogni delle persone disabili, anche in materia di accessibilità, nel settore dell’aiuto d’urgenza e dell’aiuto umanitario; essa consoliderà la rete dei corrispondenti per la disabilità e sensibilizzerà maggiormente le delegazioni dell’UE alle questioni relative alla disabilità; essa assicurerà che i paesi candidati e potenzialmente candidati rinforzino i diritti delle persone disabili e farà sì che gli strumenti finanziari degli aiuti pre-adesione siano utilizzati per migliorare la loro situazione.
L’UE sosterrà e completerà le iniziative nazionali finalizzate ad affrontare le questioni in materia di disabilità nel dialogo con i paesi terzi e, ove appropriato, a inglobare la disabilità e l’attuazione della Convenzione dell’ONU tenendo conto degli impegni presi a Accra in materia di efficacia degli aiuti. L’UE incoraggerà i forum internazionali (Nazioni Unite, Consiglio d’Europa, OCSE) a raggiungere accordi e a prendere impegni”. Questi impegni di principio dovranno esere sostanziati in politiche, azioni, programmi, progetti.

Che attenzione è data ai temi della comunicazione e dell’informazione nei progetti in atto nei paesi in via di sviluppo che riguardano le persone con disabilità?
L’informazione è un tema importante. In molti paesi in cerca di sviluppo la gran parte della popolazione vive in aree rurali e remote, dove la circolazione dell’informazione è problematica, specialmente per le persone con disabilità. In questo senso utilizzare lo strumento della CBR (riabilitazione su base comunitaria) diventa essenziale. Anche qui è necessario rafforzare la partecipazione reale e competente delle DPOs locali alle decisioni delle comunità. La circolazione delle informazioni in queste aree deve tener conto delle condizioni reali in cui vivono le persone con disabilità e le loro famiglie. Spesso queste persone sono analfabete e devono farsi aiutare per tutte le informazioni scritte. L’accesso all’elettricità e ancora alle tecnologie informatiche, è ancora problematico. La possibilità di spostarsi è spesso impossibile. Per questo le strategie devono partire da un’analisi dei territori in cui si opera.

Secondo te che tipo di esperienze (sul tema dell’informazione) andrebbero fatte?
Molto efficace è la costituzione di un sistema di self-help group, che operano nei villaggi per mantenere un contatto con le persone più escluse. In alcune realtà di programmi di CBR la presenza di uno o più gruppi in ogni villaggio ha permesso di accrescere il flusso di informazioni e la capacità di autodeterminarsi. A volte basta offrire uno spazio d’incontro alle DPOs per creare immediatamente la circolazione delle informazioni, che è prevalentemente orale. La produzione di pubblicazioni piene di immagini, la costruzione di reti organizzate decentrate e collegate tra di loro, la creazione di campagne di sensibilizzazione utilizzando strumenti appropriati, risulta spesso più efficace di una centralizzazione delle informazioni in un infocenter, strumento efficace in aree urbane estese. In questi contesti piuttosto che centri informativi, funzionano i centri per la vita indipendente che offrono non solo informazioni, spesso legate a problemi pratici (accessibilità dei servizi, housing, risorse del territorio), ma anche servizi di sostegno (trasporti, servizi di aiuto personale, manutenzione degli ausili…).

Ti vengono in mente delle esperienze sul tema dell’informazione svolte da ONG straniere?
Particolarmente attento all’informazione è Handicap International (www.handicap-international.fr), una grande ONG francese, che è una specie di multinazionale. Il suo progetto Source  rappresenta la più grande banca dati mondiale sul tema della disabilità e salute legate alla cooperazione allo sviluppo. Per quanto operi prevalentemente in ambito sanitario, nei suoi progetti realizza centri informativi, che diventano centri di aggregazione e diffusione delle informazioni. Altro esempio sono i centri risorse, luoghi di sostegno alle comunità locali che si organizzano sulla base delle esigenze del territorio: operano sulle priorità identificate dalle comunità e quando includono la disabilità operano con metodologie di mainstreaming. Un progetto recente è quello della Global Disability Rights Library, promossa dall’agenzia nazionale americana (USAID), l’University dello Iowa attraverso il progetto WiderNet in collaborazione con l’United States International Council on Disabilities (USICD – www.usicd.org). Il progetto, partendo dalla difficoltà di accedere a internet nei paesi del sud del mondo, vuole costruire una biblioteca mondiale on-line dove è possibile scaricare i documenti e gli strumenti più importanti relativi alla promozione e rispetto dei diritti, alle soluzioni realizzate per promuoverli e applicarli e alle pratiche di empowerment delle DPOs e delle persone con disabilità.

DPI Italia Onlus
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I Millenium Development Goals e la disabilità

L’iniziativa ONU del Millenium Development Goals (MDG) mira a ridurre la povertà nel mondo entro il 2015. Ecco i punti attraverso cui si articola l’azione dell’ONU e alcuni dati che servono a capire come questo problema genera e si ripercuote sulla disabilità.

  1. Sradicare povertà estrema e la fame
    – l’82% di pcd (persone con disabilità) vivono nei paesi in cerca di sviluppo
    – il 20% delle infermità derivano da malnutrizione (DFID 2000)
  2. Conseguire l’educazione primaria per tutti

– su 104 milioni di bambini che non accedono a una educazione primaria oltre 40 milioni sono bambini con disabilità nei paesi in cerca di sviluppo (Unesco)

  1. Promuovere l’eguaglianza di genere e l’empowerment delle donne
    – il 100% delle donne con disabilità sono picchiate a casa, il 25%  delle donne con disabilità intellettiva sono violentate, il 6% è sterilizzata forzatamente (Orissa, India 2004)
  2. Ridurre la mortalità infantile
    – i bambini con disabilità raggiungono livelli di mortalità infantile in alcuni paesi poveri dell’80% a confronto del 20 % di altri bambini (DFID 2000)
  3. Sviluppo della salute durante la maternità
    – 20 milioni di donne l’anno – 30 donne al minuto – subiscono una disabilità o una complicanza nel periodo della gravidanza e del parto (UNFPA 2003)
  4. Combattere HIV/AIDS, malaria e altre malattie
    – le donne e gli uomini con disabilità sono notoriamente tra i gruppi più vulnerabili all’HIV/AIDS, ma non hanno accesso ai programmi di prevenzione esistenti (CBMI Tanzania)
  5. Assicurare la sostenibilità ambientale (l’accesso all’acqua e a condizioni igieniche e di sicurezza)
    – 100 milioni di persone sono disabili a causa di malnutrizione, mancanza di condizioni igieniche accettabili, di accesso all’acqua e a servizi sanitari
    – un 1/3 di tutte le malattie che producono una disabilità sono causate da fattori di rischio ambientale
  6. Crescita di una partnership globale per lo sviluppo
    – solo il 2-4% dei fondi destinati alla cooperazione internazionale sono destinati alle persone con disabilità
    (Giampiero Griffo)

1. Introduzione

Quando la cooperazione allo sviluppo si occupa di disabilità nei paesi poveri
A cura di Nicola Rabbi, responsabile comunicazione del Centro Documentazione Handicap
Sbobinature delle interviste a cura di Lucia Cominoli

Sono circa 650 milioni le persone con disabilità nel mondo, solo il 2% di loro riceve servizi o sostegni; l’80% delle persone con disabilità non è occupata, il 98% dei bambini con disabilità non ha accesso a un’educazione formale.
Le persone con disabilità rappresentano più di un quinto dei più poveri del mondo o, detto in un altro modo, chi è disabile ha anche molte più probabilità di essere povero.
Molte persone che si occupano nei paesi occidentali di inclusione delle persone con disabilità non hanno una percezione reale dello stato di abbandono in cui versano nei paesi in via di sviluppo, anche in quelli che hanno delle economie emergenti.
In Italia le ONG che fanno cooperazione allo sviluppo sul tema della disabilità in modo continuativo sono molto poche, ma le cose stanno cambiando, si comincia a respirare un’aria nuova in questo settore.
Dopo la ratifica da parte dell’Italia (2009) della Convenzione Internazionale sui diritti delle persone Disabili (ONU 2006), sono state approvate le nuove Linee Guida sulla disabilità da parte del Ministero Affari Esteri. Queste linee guida prendono spunto dall’articolo 32 della Convenzione ONU che parla proprio direttamente di cooperazione allo sviluppo e di disabilità.
Da un lato questo movimento legislativo e culturale potrebbe portare a una crescita sia della progettazione che della sua realizzazione, dall’altro però ci troviamo di fronte a un periodo di crisi economica perdurante e drammatico, il peggiore che il nostro paese ha dovuto affrontare dal dopoguerra. Questa crisi economica si traduce, almeno con questo governo, in una progressiva riduzione degli stanziamenti a favore della cooperazione italiana, già dotata di poche risorse se paragonata ad altri paesi europei. Ma la crisi non deve essere un pretesto per questi tagli, visto che la cooperazione non è carità, anzi cooperare allo sviluppo vuol dire sviluppare anche se stessi, soprattutto in un mondo come il nostro, dove tutto è sempre più connesso e dove lo sviluppo di una parte a scapito di un’altra, oramai si sa, danneggia l’intero sistema nel lungo, ma anche nel medio, periodo.
Per scrivere questo approfondimento abbiamo intervistato persone che lavorano all’interno delle ONG, rappresentanti della Direzione generale cooperazione allo sviluppo e un rappresentante italiano (Giampiero Griffo) di DPI Italia – Disabled People International.
La maggior parte dei contributi provengono da una sola ONG, l’Aifo, il gruppo che storicamente si occupa in Italia di cooperazione allo sviluppo e disabilità.
Il lavoro è suddiviso in tre parti, la prima di carattere generale e contestuale, la seconda che racconta esperienze di cooperazione e l’ultima che si occupa solo del tema della comunicazione o, meglio, dell’importanza che la comunicazione deve avere sia per quanto riguarda il racconto dei progetti in sé e la loro diffusione, sia per quanto riguarda l’uso di strumenti informativi all’interno dei progetti stessi, campi ancora da sviluppare in modo adeguato.

3. Volti e parole: il video “Mio fratello è figlio unico”

Il filmato, realizzato tra novembre e dicembre 2010, vuole documentare l’esperienza di essere fratello o sorella di una persona disabile.
La selezione delle persone intervistate si è basata su due variabili che influenzano moltissimo la particolare situazione che stiamo descrivendo: il fatto di essere nati prima o dopo del fratello (o sorella) disabile e, in secondo luogo, il tipo di disabilità del fratello/sorella (fisica, psichica o entrambe).
Abbiamo così proposto a nove persone, che vivevano situazioni molto differenti, di essere intervistate davanti a una videocamera, spiegando loro peraltro che il contributo dato sarebbe stato reso pubblico.
Solo 4 su 9 hanno accettato la nostra proposta (una persona non ha potuto per motivi di salute).
Le domande fatte nelle interviste, realizzate in un unico incontro con i singoli, sono state le seguenti:
• Come ti è stato detto che avresti avuto un fratello disabile? Che cosa hai provato? Come sei venuto a conoscenza di questo fatto?
• Che cosa significa per te essere fratello/sorella di una persona disabile? Il genere ha una sua influenza?
• Come sono cambiati i rapporti interni alla famiglia dopo che è nato? Come li hai vissuti?
• Come è il tuo rapporto con il fratello/la sorella disabile? Come influenza la sfera delle tue amicizie e delle tue relazioni affettive?
• Se pensi al tuo futuro, come credi che verrà influenzato dalla tua situazione?
Le testimonianze raccolte sono di Catia 40 anni sorella di Andrea, disabile fisico di circa 10 anni più vecchio di lei; Filippo 26 anni, fratello di Francesca, ragazza Down adottata, più giovane di qualche anno; Francesco 32 anni, fratello maggiore di Caterina e Maria, ambedue disabili psichiche; Elisa 28 anni, sorella di Agnese, ragazza con la Sindrome di Down di alcuni anni più giovane.

Gli ecosociali

Quali sono i punti di contatto e, viceversa, le differenze tra le associazioni che operano nel sociale e quelle impegnate nella difesa ambientale?

Come si confrontano su un tema come quello del lavoro (un modo di lavorare attento alle esigenze della persona, non teso solamente ad una sempre maggiore produzione). E che idee hanno sul tempo (diviso tra tempo occupato e tempo libero: da dedicare a chi, e per che cosa)?

Sono queste le domande da cui sarebbe interessante partire per cercare di fare un discorso che coinvolga le associazioni ecologiste e quelle che si occupano del sociale.

In questo numero di HP ci siamo occupati soprattutto del concetto di diversità, riferito alle persone (alla questione etnica) ma che trova un suo parallelo nella complessità ambientale che, a differenza di quella umana, non tende alla omogeneizzazione, alla semplificazione.

Un’azione politica comune?

Ma i punti in comune non valgono solo per le idee ma anche per le azioni politiche. A livello locale (di politica locale), ad esempio, vi sono parecchie iniziative che possono vedere coinvolti le associazioni ecologiste e quelle che operano nel sociale. Prendiamo un tema per tutti, quello della mobilità nelle città; qui l’interesse per il disabile o per l’anziano di potersi muovere senza barriere coincide con quello delle persone che vogliono un centro meno trafficato, i marciapiedi sgombri dalle macchine e dalle motociclette…Recentemente in occasione della settimana di mobilitazione per il rispetto del D.P.R. 503/1996, il decreto che rende obbligatoria l’accessibilità degli edifici e dei servizi pubblici, si è avuta una convergenza di iniziative tra la Federazione dei Verdi e varie associazioni impegnate sul tema della disabilità che in ben 90 città italiane hanno verificato l’accessibilità di strade e di edifici e il grado di applicazione delle leggi vigenti.

Il tema della mobilità è solo un esempio; ce ne possono essere altri. Così vale anche per il tema della salute; una città con l’aria e l’acqua più pulita significa anche una qualità di vita migliore, meno "invalidante". Ma forse, ed è questo il punto, l’attenzione per l’altro e per l’ambiente, dovrebbero essere una cura per ogni cittadino e non solo per alcuni.

Delusione di maggioranza

Il decreto sarà approvato quasi di sicuro entro il primo trimestre del ’97. Metterà ordine nel settore sanitario dove lavorano però solo il 40 % degli oltre 20mila educatori. Per gli altri, impegnati nel settore sociale, probabilmente sarà necessario un secondo decreto.
Intervista a Mauro Alboresi della CGIL nazionale.

Mauro Alboresi, della Funzione Pubblica della CGIL nazionale, sta incontrando per tutta Italia gruppi di educatori per spiegare cosa può significare questo nuovo decreto per la loro professione; gli poniamo alcune domande sull’argomento.Come si è arrivati a questo decreto?Il ministro della Sanità in base all’articolo 6 della legge n. 502 del 1992 ha il potere di individuare i profili di interesse sanitario, cosa che ha poi fatto il ministro Rosy Bindi per diverse figure, non solo per quella del tecnico della riabilitazione, anche per quella, ad esempio del terapista occupazionale.Quali saranno i tempi di attuazione?

Il decreto, già firmato in ottobre dal ministro, deve essere sottoposto al parere del Consiglio di Stato e poi a quello della Corte dei Conti, dopodiché sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale; solo allora sarà valido. Visto che il Consiglio di Stato ha un lungo elenco di questioni su cui dare un parere l’iter si concluderà entro il primo trimestre del prossimo anno.Ci sono altri problemi che potrebbero far rinviare o modificare il decreto?Nel pacchetto dei decreti firmati, ve ne sono alcuni che sono già stati oggetto di osservazioni; è quanto ha fatto l’AITR (Associazione Italiana Terapisti della Riabilitazione) riguardo l’individuazione del proprio profilo professionale. Il ministro non è tenuto a rapportarsi con queste categorie professionali, ma poi per ragioni di opportunità politica potrebbe anche farlo.Perché inserire la figura dell’educatore professionale tutta all’interno del settore sanitario?Per il ministro della Sanità questa figura professionale riassume in sé diverse figure che hanno operato nella sanità e/o quelle figure professionali che sempre in questo contesto venivano formate per rispondere alle richieste di un certo tipo di utenze (handicap, tossicodipendenza, salute mentale).Tale scelta non dimentica il fatto che queste utenze hanno problematiche che non coincidono solo con il settore sanitario, ma anche con quello sociale. Così pure la formazione deve coniugare ambedue i settori.Quali sarà a questo punto l’iter formativo per un educatore?Per quanto riguarda l’area sanitaria, vi lavorerà chi ha fatto un percorso formativo ad hoc: un diploma universitario di tre anni che verrà definito all’interno della facoltà di Medicina e Chirurgia e che probabilmente partirà dal prossimo anno accademico. Per quanto riguarda i titoli acquisiti in passato, il ministro della Sanità in concerto con quello della Pubblica Istruzione e della Ricerca per l’Università, dovrà emanare un decreto che sanerà l’equipollenza dei percorsi formativi pregressi, i corsi regionali triennali e i corsi di riqualificazione sul lavoro che fino ad ora solo 11 regioni (per lo più nel centro nord) hanno fatto.Vi sarà il problema di come rapportarsi a chi si è laureato o si sta laureando in Scienze dell’Educazione (indirizzo educatore professionale).Ma solo una minoranza degli educatori oggi lavora nel settore sanitario, la maggior parte lavora nel sociale; cosa cambia per loro?

In effetti degli oltre 20mila educatori che lavorano in Italia solo il 40% lavora nel settore sanitario, come quelli che operano nei SERT, quelli che lavorano sul territorio in convenzione o dipendenti del Sistema Sanitario Nazionale; tutti gli altri lavorano nell’area sociale. Per costoro si pone adesso il problema del riconoscimento del proprio profilo, diverso da quello definito dal decreto del ministro della Sanità e che necessita di un secondo decreto emanato dal ministero competente

Un profilo incompleto

L’associazione più rappresentativa degli educatori professionali (ANEP) contesta il decreto sotto vari aspetti. L’educatore viene a dipendere da figure professionali mediche e la riabilitazione viene concepita in termini riduttivi. Anche l’università, i centri di formazione non sono d’accordo sulla normativa.

Intervistiamo Manuela Salani, presidente dell’ANEP (Associazione Nazionale Educatori Professionali), in merito al decreto proposto dal ministro della Sanità.

Recentemente i delegati dell’ANEP si sono riuniti per discutere su questa normativa: che cosa è emerso, qual’è la posizione dell’associazione?
E’ stata riconfermata la linea dell’associazione che contesta il decreto in vari punti. Da questo testo emerge un profilo professionale che non corrisponde a quanto fa un educatore all’interno del servizio sanitario. Viene posto un accento eccessivo sulle tecniche e inoltre la figura dell’educatore viene a dipendere da altre figure professionali, come quelle mediche. Rispetto agli spazi di verifica e di progettazione il tecnico dell’educazione non ha spazi di autonomia.Questo decreto porta con se un modo riduttivo di concepire la riabilitazione; questa deve essere il frutto dello sforzo congiunto di diverse professionalità (medici, educatori, neuropsichiatri, terapisti…) e non si deve fermare al livello del servizio.

Il decreto e quanto lei ha detto fin d’ora, riguarda solo una fetta di educatori; gli altri, la maggioranza, lavoranon nel settore sanitario ma in quello sociale: cheriflessi avrà questo decreto per loro?
Infatti, l’educatore non è una figura sanitaria, anche il decreto Degan (1) lo diceva. L’educatore ha senso là dove apporta un approccio pedagogico; come lo psicologo o l’assistente sociale hanno uno specificità ben definita, cosi deve essere per l’educatore. Invece il decreto riguarda solo un aspetto della sua professionalità; la figura dell’educatore deve invece essere unitaria e polivalente.Un modo per uscire da queste contraddizioni sarebbe quello di approvare una legge quadro ad hoc, che preveda l’iter formativo, l’albo, l’inquadramento…

E’ molto probabile che il decreto passerà cosi come è stato scritto: come vi muoverete allora come ANEP?
Si, il decreto passerà, ma noi vogliamo far sentire la nostra voce; ci muoviamo in accordo con il sindacato e con altri interlocutori, come, l’università, i centri di formazione…, tutti soggetti che hanno espresso la loro perplessità sul decreto in questione. Come ANEP vedremo in che termini monitorare la situazione e controllare sulla sua applicazione.

Quale sarà l’iter formativo per diventare educatore dopo questa normativa e cosa accadrà a quelle persone la urea te in Scienze dell’Educazione con indirizzo da educatore professionale?
Di fatto tutte quelle persone laureate in Scienze dell’Educazione non potranno spendere il loro titolo di studio all’interno del settore sanitario che non prevede figure con il titolo di laurea per questo tipo di lavoro.
Per quanto riguarda l’iter formativo bisognerà gestire questo periodo transitorio.Nel settore sanitario entreranno tutte quelle persone con il titolo triennale; riprenderanno alcuni corsi di riqualificazione sul lavoro; l’Emilia Romagna ha chiesto l’autorizzazione di farne ancora uno e in Liguria ne è appena partito un altro. Nel settore sociale e culturale invece lavoreranno educatori con titoli molto diversi tra di loro, da quelli che hanno la laurea a quelli che non hanno ancora un titolo.

(1) E’ il D.P.R. n. 162/’82 che riguardava il riordino della Scuole dirette a fini speciali, delle scuole di specializzazione e dei corsi di perfezionamento. Rimandava alla Università il compito di formazione di tutte le figure professionali dopo il diploma di scuola media superiore (N.d.R.)

Comunicare il terzo settore

Per chi lavora nel terzo settore e presta un minimo di attenzione al tema della comunicazione e dell’informazione ben presto si accorge che il rapporto con il mondo dei mass media non è per niente facile. I motivi sono sia di ordine interno al terzo settore che non si è ancora attrezzato con gli "strumenti" idonei, sia esterni, nel mondo dell’informazione, che per le sue caratteristiche poco si presta, oggi, in Italia, ad affrontare con serietà dei temi che non possono essere sempre semplificati nella storia emblematica o all’intervista al prete famoso.
Come è difficile comunicare con i mass media senza bad news.
Quando il terzo settore diventa oggetto di informazione raramente il prodotto finale (l’articolo o il servizio radiotelevisivo) è soddisfacente. I motivi per cui i mass media hanno questa difficoltà a rappresentare il sociale sono abbastanza conosciuti e studiati.

a) I giornalisti si rivolgono solo ad un numero limitato di fonti, di solito quelle istituzionali o comunque rappresentanti gruppi con un certo potere. Questo motivo porta all’esclusione come fonti informative di parecchi gruppi che operano nel sociale e non hanno delle strutture forti.

b) Non esistono, all’interno del e redazioni, dei giornalisti specializzati nel terzo settore; anzi di solito questi sono i classici argomenti che vengono affidati agli "ultimi" arrivati in redazione. In questo modo il cronista ogni volta deve cominciare da capo, visto che la sua conoscenza dell’argomento è scarsa e non gli permette di approfondire la notizia.

c) I ritmi di produzione delle notizie non permettono il trattamento di questo genere di notizie che sono complesse e trovano un loro spazio ridotto solo nella cronaca spicciola. Di fronte a questi problemi sono state proposte anche alcune soluzioni: innanzitutto l’arricchimento delle fonti, la specializzazione giornalistica, il ripensamento delle categorie di genere dove il sociale trova spazio (cronaca, come dicevamo prima, e dibattito politico).

Per quanto riguarda le fonti, assistiamo oggi al fenomeno che alcuni fonti del terzo settore sono diventate molto visibili, si sono istituzionalizzate; questo a scapito delle altre. Cosi quando si parla di tossicodipendente si sentono sempre e solo quei due o tre religiosi impegnati, quando si parla di volontariato il giornalista intervista esponenti delle due o tre organizzazioni più note. C’è da chiedersi se queste semplificazioni non siano dannose per l’intero terzo settore e se si possano trovare delle strategie per moltiplicare il numero delle fonti.
La specializzazione giornalistica va letta, a mio parere, come una conoscenza di fondo delle tematiche del sociale, conoscenza che dovrebbe essere trasmessa durante il percorso formativo del giornalista, senza per questo voler creare una nuova figura come il giornalista parlamentare o quello sportivo.
Riguardo agli spazi riservati al terzo settore dai giornali e dalle televisioni, questi dipendono strettamente da come sono fatti i servizi. Finché questi si baseranno, come oggi succede nella maggior parte dei casi, solo sul fatto di cronaca o sul dibattito politico, non potranno mai essere realizzati prodotti di approfondimento opportunamente contestualizzati.

Le colpe del terzo settore.

Se esiste questa situazione tra mass media e terzo settore, questo è dovuto in parte anche al fatto che molti gruppi hanno sottovalutato e continuano a sottovalutare l’importanza di questo rapporto. In una società basata sull’informazione, dove l’emarginazione si produce ancor prima che per le deprivazioni economiche per l’esclusione dai circuiti informativi, non prestare la dovuta attenzione a questo rapporto comporta dei rischi enormi. In concreto basterebbe poco per cambiare le cose in questo campo. Basterebbe che ogni gruppo, cooperativa o associazione si attrezzasse al suo interno e delegasse una persona a fare il portavoce con i mass media organizzando un piccolo ufficio stampa, il che vuol dire semplicemente avere un elenco completo dei mass media locali con il corrispettivo fax e la lista dei giornalisti "fidati" con cui tenere i rapporti. In questo modo si diventa delle fonti più forti e attendibili di fronte ai giornalisti.
Inoltre esistono anche degli strumenti, poco incisivi a dir la verità, che permettono al lettore/protagonista di una vicenda raccontata su un mass media, di reagire di fronte ad una notizia mal raccontata (il dovere di rettifica, la varie carte dei doveri del giornalisti a cui appellarsi, il codice penale per la diffamazione… ).
Sono strumenti che non vanno vissuti come "vendicativi" ma come occasione per migliorare la qualità informativa e che noi come cittadini/lettori abbiamo il diritto di richiedere.

Cambiamo argomento.

Una nuova opportunità viene offerta, al mondo delle associazioni, al singolo cittadino, dal mezzo telematico: grazie ad Internet e alle reti di BBS è possibile accedere ad informazioni che prima potevano essere raggiunte (se mai lo potevano) solo da poche persone, per lo più giornalisti e specialisti. Ora dal proprio tavolino, digitando dalla propria tastiera, si possono leggere i fatti usando fonti diverse, farsi delle opinioni leggendo cose che ben difficilmente, per motivi diversi, trovano posto sui mass media tradizionali.
Viceversa è possibile informare, con velocità e in modo economico, un gran numero di persone, confezionando notiziari che riportano la nostra personale (o della nostra associazione) ricostruzione di un fatto e le nostre considerazioni. Ci fermiamo qui per ora, non approfondendo i problemi e le sfide, per il terzo settore, per la società, per il mondo dell’informazione, che il mezzo telematico porta con sé (ma lo faremo in un prossimo numero di HP).
Per finire un ultima questione: chi sono, che professionalità hanno quelle persone che lavorano all’interno del terzo settore ma nel campo della comunicazione? Degli operatori sociali abituati a comunicare, o dei giornalisti specializzati, oppure, degli operatori dell’informazione di un settore specifico? Sono tutti termini che indicano cose molto diverse per un tipo di professionalità in attesa di definizione.

L’arma della pubblicità

“Le associazioni non riescono ad avere un buon rapporto con i mass media, è sempre sbilanciato. Noi abbiamo fatto delle campagne pubblicitarie con un’agenzia di pubblicità (Conquest Europe), questo è stato il nostro modo per essere presenti sui mass media, per reagire a certe cose, usando la pubblicità sociale”. Intervista a Ernesto Muggia dell’UNASAM

Ernesto Muggia è il fondatore del Coordinamento Lombardo Psichiatria (CLP) e uno dei responsabili dell’UNASAM (Unione Nazionale delle Associazioni per la Salute Mentale), fratello di un malato, "a un certo punto della vita a furia di aiutarlo ha deciso di cambiare mestiere ed è diventato psicologo, dopo essere stato ingegnere". A lui abbiamo fatto alcune domande su come vengono "trattati" i malati mentali sui mass media e come le associazioni di familiari possono difendersi dalle informazioni scorrette proponendole altre.

Informazione sulla malattia mentale e mass media: come è nato l’interesse specifico per questo tema?
Mi sono reso conto che in questo campo regna sovrana l’ignoranza e il pregiudizio; ritengo che questo sia uno dei problemi principali per poter esercitare un’azione di pressione nel campo dei servizi e della cultura, perché se si riesce a coinvolgere la gente tramite i mass media, se c’è la pressione dell’opinione pubblica le cose si muovono, le leggi si applicano; per quanto riguarda la psichiatria le leggi ci sono ma non sono applicate, perché l’opinione pubblica è lontana, estranea. La malattia mentale fa paura a tutti e preme dentro di noi; secoli di pregiudizio hanno caricato i malati di mente di una pericolosità che non esiste (le statistiche della criminalità riportano dati contrari). E poi c’è la vergogna, perché nella nostra cultura se qualcuno è colpito da qualche guaio, la è colpa sua. Per vincere questi problemi bisogna muoversi.

Qual è il panorama che si presenta in Italia? Che tipo di informazione viene fatta?
I media sono addirittura peggio di quello che la gente pensa, dei loro luoghi comuni e delle loro paure, in quanto solletica gli istinti più bassi, fomenta le paure raccontando solo certe cose e in un certo modo.

Le associazioni dell’area come si rapportano al mondo dei mass media? Che atteggiamento hanno? Cosa potrebbero fare per essere meno indifesi di fronte ai giornalisti?
Le associazioni non riescono ad avere un buon rapporto con i mass media, è sempre sbilanciato. Noi abbiamo fatto delle campagne pubblicitarie con un’agenzia di pubblicità (Conquest Europe), questo è stato il nostro modo per essere presenti sui mass media, per reagire a certe cose, usando la pubblicità sociale. Lo slogan recitava, "Matto, demente, pazzo, scemo, l’insulto peggiore è l’ultimo". Sono stati molti i giornali che lo hanno pubblicato. Poi abbiamo utilizzato anche il mezzo radiofonico; qui il testo era letto da una persona veramente malata e l’impatto è stato fortissimo.
Il risultato più clamoroso lo abbiamo raggiunto però plagiando una pubblicità infelice della Benetton (tutta la famiglia Benetton appariva in una foto con una camicia di forza) .
Dopo una serie di riunioni con la Conquest abbiamo deciso di rifarla a nostro modo. La stessa foto è stata ripresa ma le persone nella camicia di forza erano i malati, i parenti, i medici. "Siamo anche noi una famiglia", era scritto in basso, un messaggio capovolto in risposta alla pubblicità Benetton. In quell’occasione ci hanno regalato 400 milioni di pubblicità .

Che strumenti si possono adoperare per essere "preparati" di fronte ai mass media (addetti stampa per ogni associazione, la possibilità di appellarsi alle varie carte di doveri dei giornalisti…)?
Anche nel caso del bambino violentato gli scorsi mesi i giornali hanno tirato fuori la storia del pazzo.
Abbiamo protestato (perché un pazzo non era, era un altro tipo di malato) e alcuni giornalisti ci hanno dato ragione. Ma ci hanno anche detto che spetta a noi reagire prontamente con delle notizie mandate tempestivamente in redazione. Il problema è che non sempre ci sono le risorse per reagire, occorre un giornalista amico, avere una struttura, difficile da finanziare.
Per quanto riguarda l’esperienza televisiva ci siamo accorti che è meglio non andare perché sei manipolato, a meno che tu non abbia un conduttore amico.
Prendendo come esempio le trasmissioni di Maurizio Costanzo, lui fa quello che vuole con te. Bisogna andare in diretta, soltanto se si ha messaggio pronto, sicuro, supportato con dei dati, occorre insomma essere preparati senno ti manipolano facilmente.

Massmedia e associazioni: un rapporto difficile

Per chi lavora nel terzo settore e presta un minimo di attenzione al temadella comunicazione e dell’informazione ben presto si accorge che il rapportocon il mondo dei mass media non è per niente facile.

I motivi sono sia diordine interno al terzo settore che non si è ancora attrezzato con"strumenti" idonei, sia esterni, nel mondo dell’informazione, che perle sue caratteristiche poco si presta, oggi, in Italia, ad affrontare conserietà dei temi che non possono essere sempre semplificati nella storiaemblematica o all’intervista al prete famoso.
Il nostro gruppo fin dall’inizio ha posto al centro delle proprie riflessioni edel proprio lavoro il tema della documentazione e dell’informazione; anzi, siamopartiti, si può dire, proprio da questo tipo di discorso, consapevoli del fattoche, in una società come la nostra, l’emarginazione dai circuiti informativirappresenta un ulteriore svantaggio.
Come è difficile comunicare con i mass media senza bad news. Questo breve fraseriassume la condizione del terzo settore di fronte al mondo dell’informazioneche ‘chiuso’ nelle proprie leggi, si preclude, anzi preclude al lettore, unacorretta conoscenza del terzo settore e in generale della realtà.
E’ risaputo, quando il terzo settore diventa oggetto di informazione raramenteil prodotto finale (l’articolo o il servizio radiotelevisivo) è soddisfacente.I motivi per cui i mass media hanno questa difficoltà a rappresentare ilsociale sono abbastanza conosciuti e studiati (Cardini 1990).

L’eldorado degli albanesi

Milena Magnani, 31 anni, vive a Bologna, città dove è nata e lavora comeeducatrice in una comunità-alloggio per disabili mentali. Dopo aver esorditocon un romanzo-saggio sul tema della tossicodipendenza, sta per pubblicare oraper la casa editrice Vallecchi il romanzo Delle volte il vento ambientato nelSalento.

Perchè questa ambientazione così lontana? Non era più facile scriveredella propria realtà quotidiana?

Ho scelto di ambientare il romanzo nel Salento per due ragioni ben precise.
La prima è perchè, rispetto ad altre realtà italiane, nel Salento sono piùevidenti le contraddizioni del nostro sistema capitalistico. Il Salento è unaterra del sud, una terra in cui l’illusione del benessere garantito rompe piùgrossolanamente le sue maglie, evidenzia sacche macroscopiche di sfruttamento epovertà.
La seconda ragione per cui ho scelto il Salento è perchè è il territorioitaliano più esposto ad oriente, è una terra di confine, una terra anfibiacircondata da due mari, testa di ponte verso l’alterità.
Alterità che nei secoli è stata quella degli invasori, Turchi e Saraceni,Borboni, Piemontesi, ma anche quella che io ho rappresentato nel romanzo con ilvento, quello secco di levante, che viene dai Balcani. Un vento che, fino a seianni fa, ha portato con sè, insieme all’odore d’oriente, anche tante fantasiesu quel mondo comunista dirimpettaio. Quelle misteriose montagne d’Albania,dall’altra parte del mare, che in certe condizioni di luce si scorgono dal Capod’Otranto e stavano a rappresentare l’incognita di una società diversa,distante solo quaranta minuti di mare, un’incognita davvero prossima eppurinavvicinabile per via della cortina di ferro che separava i due mondi.
In questo senso l’ambientazione salentina riveste, per me, anche il significatodi un luogo dello spirito, luogo in cui io colloco tutti coloro che essendosimisurati con i vizi di fondo del nostro sistema hanno fantasticato uno scenariopiù giusto dall’altra parte del mondo.

In che modo ti sei accostata al tema della recente immigrazione in Italia?Come emerge dal tuo libro?

Rimasi molto colpita, nel ’91, dal primo esodo in massa dei profughi albanesi.
Dall’entusiasmo acritico con cui quel popolo si tuffava nelle bracciadell’Occidente.
Pur comprendendo la legittima urgenza di fuggire da condizioni di miseria earretratezza, mi inquietò l’ubriacatura che li aveva colti, l’esaltazione chemostravano per i simboli più effimeri del nostro benessere.
In particolare mi colpì il fatto che muovessero i loro primi passi nei paesidel Salento con l’eccitazione di chi cammina in un Eldorado. E che non siaccorgessero di muovere i passi della loro sconfitta storica dentro un’altrasconfitta, altrettanto macroscopica, che è quella del nostro capitalismo,incapace di sanare le proprie miserie e le proprie iniquità.
Di questo ho cercato di parlare nel romanzo: del contrasto tra l’entusiasmo deiprofughi e le problematiche della terra del Salento.
Una terra in cui, a tutt’oggi, nonostante il generale innalzamento delbenessere, si paga un prezzo ancora troppo alto per vivere.

Protagoniste del romanzo sono due donne, Lume, immigrata albaneseincarcerata nel suo paese per via del suo modo radicale di intendere ilcomunismo e Carmelina che vive in condizioni di disagio la propria realtà.Perchè due donne come protagoniste e due donne così caratterizzate?

Ho scelto due donne perchè in entrambe le tradizioni, quella albanese e quellasalentina, le donne hanno ricoperto e continuano a ricoprire un ruolosubordinato e marginale.
In Salento, ad esempio, fino agli anni sessanta era ancora fortemente vivo ilfenomeno delle "tarantate".
Le "tarantate" erano donne che, supponendo di essere state pizzicatedalla taranta, inscenavano per la comunità una danza di liberazione dallapossessione del ragno, che poi era liberazione dal loro essere numeri anoniminella società.
E’ rifacendomi a questo fenomeno e all’istanza di liberazione che vi sottendeva,che ho creato i personaggi di Lume e Carmela. Due donne che fanno del loro corpoil teatro di una coraggiosa ribellione. Due donne che cercano di liberarsi dalmorso di uno scenario sociale senza prospettive.
Lume lo fa scegliendo l’isolamento e l’immobilità, Carmela lo fa ricorrendoall’antico linguaggio del ritmo e della danza.
In entrambi i casi si tratta di comportamenti che non trovano alcunacomprensione da parte degli ipocriti abitanti del paese. Quei paesani che nelromanzo stanno a rappresentare un’umanità che sbadiglia il suo asservimento adun’unica e piatta logica del mondo.

Due termini ricorrono spesso nel romanzo, scritti oppure solo accennati,ma sempre presenti tra le righe: la memoria e l’utopia.
Che cosa intendi con questi termini e perchè li associ così spesso con l’ideadi perdita?

Per memoria intendo la capacità di conservare la coscienza storica di ciò chesiamo stati, di ciò in cui si era creduto e per cui si era lottato. Una memoriache si sta perdendo sempre di più nelle maglie di un mondo rumoroso esfavillante da televisore. Un mondo catodico a servizio del capitale, che portaad un continuo inquinamento delle forme, che induce a trasferire sui beni diconsumo ogni spinta vitale di cambiamento e di ribellione.
Pare quasi che lo sguardo delle persone si sia progressivamente atrofizzato, siacortocircuitato nel rapporto privato con lo schermo. E’ subentrato un passivoadattamento al presente, un atteggiamento di ripiegamento sul proprio cortileprivato che legittima il non farsi carico delle problematiche esistenziali di unaltro.
Questo fenomeno, contestualizzato alla terra del Salento, trova conferma in unarealtà paradossale.
Il Salento è infatti una terra in cui fino a pochi decenni fa, eranopreponderanti il latifondo, lo sfruttamento dei braccianti e delle donne, lostrapotere mafioso della politica corrotta e della Chiesa. E’ una terra da cui,durante il boom economico degli anni ’60, partirono migliaia di lavoratori aingrossare le fila degli emigranti verso gli altoforni della Germania e dellaSvizzera.
Eppure proprio questo popolo, che ha vissuto sulla pelle il perpetrarsi diiniquità feroci, sembra diventato incapace di solidarizzare con chi a tutt’oggivede i propri diritti negati.
E’ in questa cecità, in questa incapacità a riconoscersi nell’altro che iovedo insita l’idea di perdita. Perdita di memoria e al tempo stesso perditadella capacità di abitare utopie, di pensarsi artefici di altri possibiliscenari.
Nel romanzo cerco di mettere a fuoco questo fenomeno anche rispettoall’atteggiamento dei profughi albanesi. Poichè mi è parso che abbiano buttatonella spazzatura insieme alla loro dolorosa storia anche quella culturadell’essenzialità e della modestia da cui, a mio parere, noi occidentaliavremmo avuto tanto da imparare.

In che modo la tua professione incide nel tuo lavoro di
scrittrice?

Lavorare a fianco di persone in difficoltà, persone la cui vita è inequilibrio su un filo, ha portato indubbiamente la mia scrittura a corteggiarela marginalità.
Dietro i problemi psichici delle persone con cui lavoro, ci sono storie davverodure, storie che si consumano nel tentativo eterno di riprendere un equilibrio.
Guardando la realtà dalla loro angolazione appaiono inevitabilmente più chiarele ipocrisie della nostra società, si è costretti ad ammetterle, a provarerabbia.
Non so quanto questo influisca sullo stile e sui contenuti della mia scrittura,so però che spesso è la rabbia che mi fa prendere in mano la penna.

E’ nata Letizia

Maria Simona Bellini vive e lavora a Roma; nel suo libro, il primo, edito daSperling & Kupfer, narra la sua esperienza di madre di una bambina disabile.L’autrice ha vissuto un’odissea tra ospedali e visite mediche accanto allapropria figlia cerebrolesa. Con un liguaggio scorrevole la Bellini racconta lecontraddizioni, i luoghi comuni con i quali ogni genitore di un bambino disabilesi trova a fare i conti.

D. Perchè raccontare questa storia?

R. La storia di Letizia non è una storia speciale, anzi. E’ una storia chefamiglie come la nostra, vivono ogni giorno praticamente da sempre. Ma nessunolo sa. Tali drammi quotidiani restano infatti chiusi in ambiti ben definiti comele mura domestiche o le strutture sanitarie. Tuttavia basterebbe dareun’occhiata ai numeri per rendersi conto di quanto il problema sia diffuso. Ognianno nascono in Italia 35.000 bambini handicappati (su 500.000 neonati) edalmeno altrettanti sono destinati a diventarlo negli anni successivi per traumio per esiti di malattie. L’angoscia della scoperta, la ricerca spasmodica disoluzioni, l’invito da parte dei medici alla rassegnazione sono dunque realtàper migliaia di famiglie e il percorso sembra essere praticamente obbligato. Lelettere che ho ricevuto dopo l’uscita del mio libro me lo dimostrano. Ciò cheinvece rende diversa la storia di Letizia non è nel suo problema specifico manelle possibilità che le sono state offerte. Per concludere credo che lo scopodi questo tipo di narrazioni sia prima di tutto l’informazione perchè lefamiglie sappiano che è possibile praticare percorsi alternativi e chequalcosa, e più di qualcosa, si può fare.

D. Con prima informazione intendiamo il momento in cui il medico comunicaai genitori che il neonato ha qualcosa che non va; come è stata la suaesperienza, che tipo di informazione, in senso generale e che va oltre leparole, vi hanno dato?

R. L’informazione che gli specialisti ci hanno fornito sullo stato di salute diLetizia sono sempre state abbastanza ambigue e spesso prive di coerenza. C’erachi parlava genericamente di difficoltà, chi di situazione apparentementenormale, o ancora chi paventava per Letizia una vita vegetale. Questo ci haportato ad apprezzare maggiormente l’umanità dei medici generici che hanno ilcoraggio di ammettere la loro impossibilità a fare previsioni e sono spessopronti a condividere con le famiglie la scelta di tentare qualsiasi strada.Dunque la medicina non è una scienza esatta e l’unico rapporto che essa ha coni numeri sono le statistiche che poco hanno a che fare con un pianetainesplorato quale il cervello umano. Credo dunque che si dovrebbe rifletteremaggiormente prima di pronunciare sentenze che possono cambiare la vita diintere famiglie. E di sicuro non in positivo. Ciò che le famiglie chiedono almedico è semplicemente che egli sia sincero sulle reali condizioni del bambinoe informazione su tutte le terapie disponibili senza alcun preconcetto.

D. In generale nel libro è molto descritto il rapporto con i vari medici,con le loro diagnosi; in base a quanto le è capitato come vede il mondo medicoe l’organizzazione sanitaria?

R. In base all’esperienza vissuta con Letizia io ho la sensazione che i varisettori del sistema sanitario siano notevolmente scollegati e che la lorodelicata funzione venga spesso demandata alla disponibilità personale delsingolo. La sensibilità necessaria a chi svolge (mi preme sottolinearlo perscelta!) tale fondamentale professione nell’ambito della società, è semprestata, per quanto ci riguarda, molto carente. Per non parlare poidell’atteggiamento, molto diffuso tra i neuropsichiatri, di trincerarsi dietroposizioni preconcette quasi mai avvalorate da cognizioni approfondite sueventuali terapie alternative. Tutto ciò è a noi avvenuto in particolar modonell’ambito del privato più che in quello della sanità pubblica.

D. Alcune volte i genitori nella ricerca della cura per i propri figli, sisostituiscono ai medici, trovando o ricercando soluzioni che non erano stateprese in considerazione, è il suo caso, e quello di altri (sto pensando al casodescritto nel film L’olio di Lorenzo). Perchè questo accade, e qual’è ilmargine che divide questo dai viaggi o dalle cure della speranza che moltefamiglie intraprendono, spendendo energie e soldi per poi approdare a nulla?Qual’è la differenza?

R. Sono diverse le reazioni di chi si trova davanti alla realtà che il propriobambino ha un handicap grave. Alcuni genitori reagiscono con l’insofferenza ocon l’apatia delegando del problema medici e paramedici. Sono quelli chesoffrono di più e vi garantisco che non trovano alcun supporto di tipopsicologico. Altri non si contentano e trascorrono molto del proprio tempo allaricerca di nuove soluzioni che al sistema sanitario potrebbero sfuggire o cheper essere praticate su larga scala richiederebbero quelle conferme scientificheche spesso non ci sono. Naturalmente ai genitori quest’ultimo aspetto interessapoco se poi, nella pratica, riescono ad ottenere risultati concreti. Ladifferenza tra chi non smette di cercare e chi invece si affida ai viaggi dellasperanza è dunque nella posizione che si assume all’interno della vicenda.Coloro che sono alla ricerca del miracolo o della soluzione positiva istantaneasono sempre persone disperate che subiscono passivamente l’evento drammatico chesi trovano a vivere. Coloro che si attivano energicamente anche a costo diassumere un atteggiamento combattivo nei confronti delle istituzioni, non sonoalla ricerca del miracolo ma di una soluzione che li coinvolga e non mortifichila loro dignità di genitori, e soprattutto che riconosca al bambino il dirittoalla cura, a prescindere dagli interessi di chiunque.

D. A differenza di altri libri del genere, lei usa un linguaggio asciutto,"arrabbiato" si, ma senza esagerare nell’uso di parole come"coraggio", "speranza", "fede": in che termini siè posta il problema del linguaggio, di come esprimere la sua esperienza?

R. Nello scrivere questo libro la scelta del linguaggio è stata praticamenteobbligata. Non era giusto rischiare che il testo non fosse comprensibile aipiù. Naturalmente sono stata favorita dal fatto di svolgere la mia professionein un ufficio stampa dove il linguaggio essenziale è praticamente legge.Tuttavia la cura maggiore l’ho riservata alla sequenza logica dell’esposizionenel timore che quanto a me appariva scontato non fosse poi così chiaro a chi mileggeva. Un discorso a parte merita invece la sostanza di quanto è statonarrato. Ho cercato, per quanto possibile, di selezionare e limitarmi a narrareepisodi che potessero essere di una qualche utilità a genitori come noi.Considerando anche che il semplice sapere che altri hanno vissuto le tue stesseesperienze ti fa già sentire meno solo. E’ come avere un amico, qualcuno che ticapisce. E se quello che ho raccontato è servito anche ad un solo genitore perritrovare la grinta e il desiderio di non mollare, vuol dire che il libro haraggiunto lo scopo per il quale è stato scritto.

D. Ancora sulle parole: molto spesso lei si ferma su singole parole("ritardata", "cerebrolesa", "neurologica") cheevocano immagini ben precise, per poi rielaborarle secondo una dimensione nuova,più sua; che cosa ha da dire in proposito?

R. Su questo aspetto ho riflettuto molto e sono convinta che fino a che nonsiamo in grado di liberarci dei nostri stessi pregiudizi potremo fare poco peraiutare i nostri figli. Intendo dire che non dobbiamo permettere alle parole difarci del male. E credo di poterlo affermare proprio perchè è accaduto anche ame di ritrovarmi in quel tunnel che io chiamo dell’angoscia. E’ un tunnel chenon porta da nessuna parte ed è costruito proprio su parole che riportano allamente immagini stereotipate di infelicità e emarginazione. La realtà èun’altra cosa ed include tutta una gamma di sensazioni, sentimenti e vicende chepur nella loro drammaticità non possono essere che interpretati come eventipositivi, come possibilità di gioire che a noi genitori di figli diversivengono offerte mentre ai più sono negate. In conclusione se vogliamo essereattivi e costruire il futuro di nostro figlio giorno per giorno, con lesoddisfazioni e le disillusioni che una lotta tanto dura comporta, dobbiamoprima di tutto non lasciarci condizionare, pronunciando senza timore proprioquelle parole che ci sembrano tanto terribili ma che alla fine restano pursempre solo parole. Per capire questo a me è stato sufficiente esplorare losguardo di tanti bambini gravemente cerebrolesi. Il loro corpo non risponde aglistimoli e si riesce a percepire ben poco di ciò che provano. Ma nellaprofondità dei loro occhi c’è un mondo che non ha bisogno diparole.__________________________