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autore: Autore: Nicola Rabbi

Riabilitazione virtuale

Le possibilità offerte dalla realtà virtuale hanno già delle applicazioni pratiche, ancora poche e in fase sperimentale, che permettono, senza far volare l’immaginazione verso scenari fantascientifici, di verificare fin da adesso la loro utilità. E’ il caso della riabilitazione neuromotoria di un paziente disabile, dell’addestramento dei non vedenti e, anche, della funzione terapeutica nei confronti dei tossicodipendenti. Ma esistono anche delle controindicazioni.Un film americano di un paio di anni fa, "Il tagliaerbe", raccontava proprio la storia di un ritardato mentale che grazie alla realtà virtuale potenzia le proprie capacità fino a farlo diventare un superuomo; la connessione con la disabilità che fa il primo film sulla realtà virtuale, forse non è casuale, e significa ad ogni modo una serie di possibilità che ora si possono aprire per le persone svantaggiate.
Il sistema virtuale, ad esempio, può essere di grande aiuto nella riabilitazione neuromotoria.
"La realtà aumentata – afferma Alberto Rovetta del Dipartimento di Meccanica del Politecnico di Milano – cioè la realtà che associa ad immagini reali altre immagini inventate dal computer, costituisce già un metodo di valutazione per la misura dei gradi di attenzione della persona lesa…Inoltre rispetto alla riabilitazione tradizionale, gli ambienti offerti dalla realtà virtuale risultano essere molto più stimolanti di qualsiasi palestra "reale"".

Un sistema di guida virtuale

Un esempio pratico può essere rappresentato dal sistema di simulazione di guida che permette di monitorare le prestazione e le variazioni fisiologiche. L’esperimento condotto su alcuni volontari che si prestavano a guidare in un ambiente virtuale è stato portato avanti da una equipe formata dall’istituto Scientifico S. Maria Nascente, dalla Fondazione Don Gnocchi e dalla Medicina riabilitativa dell’ospedale di Passirana. "Il nostro punto di arrivo è lo sviluppo di modelli per il recupero cognitivo di individui che abbiano subito lesioni cerebrali – spiega Luigi Pugnetti, membro dell’equipe – la realtà virtuale può contribuire a rendere più efficace il lavoro diagnostico e quello riabilitativo grazie alle possibilità di simulare le situazioni che mettono alla prova le capacità di adattamento, la possibilità di condurre un’analisi più valida del comportamento, la possibilità di facilitare l’apprendimento delle strategie alternative (tramite un coinvolgimento più globale) e infine la possibilità di stimolare in vario modo la consapevolezza dei deficit e dei progressi".

Il progetto "MOVE"

Che senso può avere la realtà virtuale per un non vedente? Può averlo grazie alla creazione di una realtà virtuale unicamente acustica. A questo proposito si è formato il progetto "MOVE" (Mobility and Orientation in Virtual Enviroment) che ha l’intento di impiegare la realtà virtuale come strumento di sostegno alla riabilitazione per acquisire delle abilità percettive alternative in soggetti non vedenti.
"Al contrario di ciò che potrebbe succedere durante la riabilitazione in situazioni reali – afferma Stefan Von Prondzinski, presidente dell’Associazione Nazionale Istruttori di Orientamento e Mobilità – un errore grave nell’interazione con la realtà virtuale si paga al massimo con un "game over", ma non con la vita".
In questa particolare applicazione il cieco è dotato di una speciale cuffia idonea per la localizzazione del suono e di un bastone virtuale che facendolo oscillare permette al non vedente di spostarsi nella realtà virtuale e di addestrarsi.

Al posto della droga la realtà virtuale?

Le applicazione della realtà virtuale spaziano in campi molto diversi, anche in quello della terapia per le tossicodipendenze. In questo caso la realtà virtuale si pone come "modalità terapeutica aggiuntiva alla lenta

detossicazione". In che modo? Fornendo al tossicodipendente, durante le immersioni nel mondo virtuale, delle esperienze piacevoli tali da soddisfare quel desiderio della sostanza che spesso porta alla ricaduta.
Questa applicazione può comportare delle conseguenze negative: la prima è che si possa creare una sorta di dipendenza dalla realtà virtuale magari parallela a quella dalla sostanza. La seconda è che l’eccessiva frequentazione della realtà virtuale possa essere propedeutica all’uso delle droghe.
Se questi sono pericoli che non si possono ancora valutare in pieno rimane il fatto che la realtà virtuale, creando un mondo parallelo e immaginario a quello reale, contiene in sé delle prospettive contraddittorie, sia nel senso di una maggiore autonomia della persona svantaggiata che in una sua fuga dal reale e in una ulteriore forma di emarginazione.

Obiettori, per amore

Senza di loro la vita dei disabili in Italia sarebbe stata certamente più difficile: sono migliaia gli obiettori di coscienza che hanno svolto il servizio nel campo dell’handicap. A volte si è trattato di un contributo innovativo, altre si è concretizzato in un’azione politica. Per alcuni obiettori l’incontro con l’handicap ha anche trasformato completamente la loro vita. Intanto la nuova legge sull’obiezione tornerà presto in Parlamento.

II lavoro svolto dalle associazioni dei disabili e dai gruppi di volontariato deve sicuramente molto all’apporto degli obiettori di coscienza che, da quando esiste la legge, hanno prestato il servizio civile in questo settore. Molti progetti non sarebbero mai stati realizzati senza il loro contributo.
L’affossamento della riforma della legge sull’obiezione di coscienza voluta principalmente da Francesco Cossiga, creerà necessariamente un disagio anche in questo ambiente, dove la precisa regolamentazione del servizio civile è il presupposto per il suo buon funzionamento.
La sua rilevanza per il mondo dell’handicap proviene direttamente dalla constatazione che la maggioranza degli obiettori viene impiegata proprio nel settore dell’assistenza. Secondo i dati più attuali forniti dal
ministero della Difesa nel 1990, su 9525 obiettori operanti ben 3842 (più del 40 per cento) si sono occupati di assistenza contro il 32 per cento impiegato in attività socio-culturali, 1112 per cento in protezione ambientale e il 3 per cento nella protezione civile. Nel 1991 la quota degli obiettori impiegati nel campo dell’assistenza è salita al 50,9 per cento del totale. La percentuale sale al 57,8 per cento se ci si riferisce agli enti convenzionati con il ministero della Difesa che operano nel settore dell’assistenza.
Da questi dati emerge chiaramente che, pur tenendo conto del fatto che per assistenza si intende anche il servizio con i tossicodipendenti, gli anziani e i minori, il lavoro con l’handicap ha rappresentato e rappresenta una parte considerevole del servizio civile in Italia. Parte destinata ad aumentare vertiginosamente dato l’incremento geometrico delle domande per l’obiezione di coscienza che si sta verificando negli ultimi tempi (basti sapere che nel 1991 sono state presentate 18254 domande).

Un lavoro di assistenza e di animazione

II lavoro svolto dagli obiettori nel campo dell’handicap è stato ed è importante, anche se le prime generazioni di obiettori erano mediamente più agguerrite dal punto di vista delle motivazioni e dell’impegno. Dieci anni fa chi faceva l’obiettore viveva questa esperienza come un’avventura, ora il clima è cambiato, nonostante il problema legislativo irrisolto.
A questo si possono aggiungere i progressi ottenuti dai disabili per cui ciò che era innovativo e sperimentale 15 anni fa, ora è un servizio svolto dal servizio sociale, così normalmente un obiettore viene impiegato in un progetto già collaudato.
Nonostante tutto ancora oggi è facile rilevare l’importanza del lavoro svolto dagli obiettori, anche perché nel campo dell’handicap ci sono ancora delle grosse aree da esplorare come quelle che riguardano le questioni abitative.
"Da noi si fa un servizio civile molto impegnato, a tempo pieno, del resto chi viene da noi sa già cosa l’aspetta"; chi parla è Antonio De Filippis, 34 anni, responsabile degli obiettori della Comunità Giovanni XXIII. Quando fece il servizio civile nell’86 si autoridusse il periodo secondo una forma di lotta politica usata dagli obiettori di allora. Processato, è stato assolto dopo la sentenza della Corte Costituzionale che equiparava la durata del servizio civile a quello militare. Antonio si è anche fermato nella Comunità ed è ora responsabile di una delle case famiglia.
La Giovanni XXIII dispone ogni anno di una quarantina di obiettori che vengono impiegati nelle case famiglie (dove sono presenti delle persone handicappate) con funzioni assistenziali e di animazione; alcune di queste comunità sona nate grazie all’impegno di un obiettore e sono ancor oggi funzionanti.
Chi fa obiezione di coscienza molte volte ha anche alle spalle un’esperienza politica o comunque di impegno sociale che si traduce immediatamente nel nuovo servizio. NeII’89 un gruppo di obiettori della stessa Comunità distribuirono un questionario agli abitanti di Igea Marina per sensibilizzarli sul problema delle barriere architettoniche nella cittadina: l’azione ebbe dopo dei risultati concreti per quanto concerne il comportamento dell’amministrazione pubblica. Questo è solo uno dei tanti esempi che si potrebbero fare.

Un tuffo nel passato

A Bologna dal 1979 al 1981 un gruppo di obiettori lavorarono per l’inserimento di 8 ragazzi handicappati gravi nella scuola secondaria superiore: "A quel tempo c’era un clima carico di pregiudizi – ricorda Massimo Manferdini membro del gruppo – e nessuno al di fuori di noi poteva fare questo lavoro, la dimensione promozionale era la nostra competenza e in quegli anni ci sentivamo dei pionieri". Di fatto il loro compito era quello di fare da mediatori tra l’alunno disabile e professori, i bidelli, gli alunni; un campo nel quale allora c’era solo la sperimentazione ed era anche necessario trovare nuovi strumenti per comunicare, per far entrare in rapporto i disabili con il resto della scuola.
Da questa esperienza è stato tratto anche un libro, "Ti presto un braccio", pubblicato dalle edizioni Dehoniane nel 1983. Dal testo si capisce chiaramente il nesso che lega un obiettore al mondo dell’handicap: il rifiuto della violenza porta direttamente al discorso della solidarietà, così come il rifiuto degli sprechi (che comporta il mantenimento di un esercito e la costruzione e l’acquisto di armi), porta alla richiesta di una diversa distribuzione delle risorse, soprattutto verso i bisogni sociali.
Altri esempi di contributo del servizio civile all’handicap possono rifarsi alla nostra stessa esperienza; il Centro di Documentazione Handicap di Bologna nato nel 1982 è la creazione di un gruppo di obiettori di coscienza che prestavano il servizio civile all’AIAS e di un gruppo di disabili che ebbero l’idea di creare un luogo dove raccogliere tutto ciò che si pubblicasse sull’handicap.
Un luogo dove rielaborare il materiale raccolto, soprattutto tramite le riviste edite dal Centro, un luogo dove affrontare luoghi comuni sull’handicap e per proporre un tipo diverso di cultura dove il disabile non era più visto come un "oggetto" da curare, da riabilitare, ma come un portatore di esperienze, di bisogni, di una sua cultura per molti aspetti anticonformista. Certamente un’esperienza di questo tipo difficilmente sarebbe scaturita da un servizio pubblico e nemmeno da un’associazione tradizionale che non poteva contare sul contributo di nuove idee portate dagli obiettori.

Si dà e si riceve

D’altra parte è vero anche l’opposto; per molti obiettori il contatto con il mondo dell’handicap ha significato un cambiamento profondo della loro vita.
"Se gli obiettori sono stati e sono essenziali per le nostre comunità, anche per loro questa esperienza si rivela fondamentale" – così afferma Michelangelo Chiurchiù, 36 anni, responsabile degli obiettori della Comunità di Capodarco e presidente del Coordinamento Enti Servizio Civile. Sono decine le persone che hanno prestato il servizio civile nelle varie comunità di Capodarco sparse per tutta la penisola e circa il 30 per cento di loro si è poi fermato stabilmente una volta finito il servizio civile. Recentemente un ex obiettore ha fondato a Bergamo una nuova comunità.
"Per molti obiettori si forma una sorta di legame di tipo educativo – continua Chiurchiù – il tempo passato con noi diventa cosi una sorta di iniziazione alla vita, una presa in carico di responsabilità dato che ai nostri giorni nè la famiglia, nè la scuola riescono a dare un certo grado di maturità".
I risultati di questa formazione si realizzano poi nei modi più disparati, in un lavoro come operatore, in una scelta di vita ancora più drastica o semplicemente in una sensibilità particolare verso la diversità.
Un problema che si pone a questo punto è anche quello delle nuove generazioni di obiettori, che sono destinate ad essere molto più consistenti rispetto al passato; si tratterà cioè di dare un’adeguata formazione (nei tre mesi previsti dalla legge che dovrà essere approvata nella nuova legislatura, salvo imprevisti) a delle persone che, nella maggior parte dei casi, non sono mai venuti a contatto con il mondo dell’handicap.

Pubblicità… a muso duro

“La pubblicità va presa con le molle perché si sovrappone a culture preesistenti e si rischia di essere fraintesi”. Intervista a Pierangelo Bertoli sul rapporto tra pubblicità e handicap.Pierangelo Bertoli, cantautore modenese, poliomelitico dall’età di undici mesi, è stato il protagonista di una campagna realizzata da "Pubblicità Progresso". Questa la scena: Bertoli è testimone di un incidente motociclistico. Cerca di prestare soccorso telefonando da una cabina. Inutilmente: le barriere architettoniche glielo impediscono e la sua mano si ferma a pochi centimetri dalla cornetta.
D. Come mai ha collaborato a questa pubblicità?
R. Sono probabilmente l’handicappato più famoso d’Italia; perciò mi ha contattato un’associazione di Milano che riteneva che la mia persona andasse bene.
La cosa mi è molto piaciuta; a dir la verità io ero per un finale molto più violento, avrei buttato giù la cabina telefonica ma dal punto di vista legale saremmo andati incontro a delle noie.
D. Cose ne pensa in generale delle pubblicità che hanno come protagonista un handicappato?
R. Io ho fatto solo quella pubblicità; non è facile fare bene questo tipo di cose, in modo che non sia solo pietistico e che quindi ottenga l’effetto opposto a quello desiderato.
D. Ma secondo lei queste pubblicità servono a cambiare certi atteggiamenti, a modificare delle situazioni?
R. Sì, servono in generale; questi messaggi penetrano nella testa della gente ma purtroppo vengono dimenticati in fretta e perciò devono essere ripetuti massicciamente.
La pubblicità va presa con le molle perché si sovrappone a culture preesistenti, si rischia di essere fraintesi. C’è un grosso lavoro da fare perché la sensibilizzazione non sia solo pietismo che rimane fine a se stesso: bisogna fare cose pensate bene e campagne di lunga durata.
D. Non è pericoloso usare lo stesso mezzo, la pubblicità, che propone determinati modelli di uomo e di donne e determinati schemi mentali ben lontani dalla realtà del disabile?
R. E’ vero, ma la gente poi sa che tutto quello che si vede è falso, che sono tutte favolette e che nella realtà non esistono.
D. Non ha mai fatto pubblicità per altro, come un sapone o un dentifricio?
R. No, ma la potrei fare un giorno, tutto dipende dall’oggetto da pubblicizzare e dal modo; non sono contrario alla pubblicità, sono contrario a che si prenda in giro il pubblico.

Solidarietà in vendita

Farsi conoscere, sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema particolare, raccogliere fondi per promuovere le proprie attività; sono questi i motivi principali che spingono le associazioni operanti nel sociale ad affidarsi ai messaggi pubblicitari. E i risultati, in termini di popolarità e di soldi, non tardano ad arrivare.E’ sempre più facile scorgere, accanto alle pubblicità delle macchine e dei detersivi, anche quelle che si riferiscono a temi sociali; le campagne pubblicitarie televisive targate "Pubblicità Progresso" hanno raggiunto dimensioni notevoli e sono conosciute dalla maggioranza degli italiani.
I motivi, i contenuti e gli stili dei messaggi pubblicitari sono diversi da associazione ad associazione e l’unico comune denominatore è la consapevolezza che, in una società come la nostra, è molto utile anche per un discorso di tipo sociale e solidaristico ricorrere alla pubblicità e porsi "quasi" come un prodotto commerciale pur mantenendo caratteristiche proprie.

ARBORE COME TESTIMONE

C’è chi lo fa per procurarsi fondi, come nel caso della Lega del Filo d’Oro, l’associazione che si occupa della riabilitazione dei pluriminorati sensoriali. Hanno trovato un testimonial eccezionale in Renzo Arbore che compare accanto ad una bambina sordo-cieca spiegandone le condizioni. Accanto ad una campagna di sensibilizzazione verso una condizione di emarginazione sconosciuta ai più (almeno prima della campagna pubblicitaria), l’intento principale rimane quello della raccolta dei fondi. E i risultati non si sono fatti attendere; dice Rossano Bartoli membro della Lega: "La nostra associazione era conosciuta da poche persone e nel giro di 6 – 7 anni di promozione siamo oramai conosciuti in tutta Italia; per quanto riguarda i finanziamenti con la campagna di Renzo Arbore abbiamo raccolto qualche miliardo di lire".
La prima campagna pubblicitaria aveva come protagonista Alberto, un disabile conosciuto dal pubblico per la sua apparizione alla trasmissione "Buona Domenica" di Maurizio Costanzo. Ma l’utilizzo di un personaggio famoso rafforza un messaggio pubblicitario; "bisogna essere realisti il più possibile – afferma Rossano Bartoli – con un testimonial di questo calibro il riscontro è stato senza dubbio maggiore".
Per quanto riguarda lo stile "volevamo fare qualcosa che prendesse a livello emotivo senza pero scadere nel pietistico, né diventare aggressivi: volevamo raccontare una storia vera cercando di essere semplicemente realisti". Recentemente l’A.I.C.E. (Associazione Italiana Contro l’Epilessia) ha promosso una campagna pubblicitaria per sensibilizzare l’opinione pubblica su questa malattia e anche per far conoscere le attività della stessa associazione: "con questa iniziativa non cerchiamo soldi, né volontari – dice Sandra Malaspina, responsabile dell’A.I.C.E. – la nostra vuol essere solo una pubblicità informativa, dato che la conoscenza sull’epilessia è bassa; in secondo luogo vuol essere anche una promozione per la nostra associazione".
Oltretutto queste campagne non costano nulla; gratuitamente si prestano i testimonial, gratuitamente si offrono le agenzie pubblicitarie che poi realizzano concretamente il messaggio e gratuiti sono infine gli spazi pubblicitari offerti dai mass media. Di solito questi spazi vengono concessi solo nei mesi di gennaio e febbraio, quando il mercato degli inserzionisti registra un forte restringimento dopo l’abbuffata pubblicitaria natalizia.

GLI SPOT PREVENTIVI

"Una campagna che mira a sensibilizzare il problema delle malformazioni e a prevenirlo" così Antonella Sacchetti, dell’ufficio stampa dell’ASM (Associazione Italiana Studio Malformazioni), definisce le pubblicità che compaiono in questi giorni un po’ dappertutto. Due mani femminili congiunte formano una specie di nido dove sono posate due scarpine da neonato, una di lana rosa l’altra azzurra e sotto una scritta recita: "maschio o femmina l’importante è che sia sano". Qui l’informazione pubblicitaria insiste particolarmente sulla prevenzione, mentre in precedenza l’ASM aveva scelto un messaggio differente: "La nostra precedente campagna pubblicitaria aveva come protagonista una bambola con il braccio staccato – spiega Ruben Abbatista responsabile dell’associazione – ad un certo punto ci è sembrata che desse un’idea troppo drammatica e negativa del problema, noi volevamo dare invece un messaggio di speranza, che ci ponesse prima del problema, per prevenire il dramma".
Di solito all’agenzia pubblicitaria si dà solo un’indicazione come questa, che dopo è libera di interpretare come vuole. Sia nella prima che nella seconda campagna pubblicitaria il riscontro è stato enorme e sono arrivate all’associazione numerose telefonate e richieste d’informazione.
Improntata alla prevenzione è anche la campagna promossa dall’Associazione Paraplegici. La pubblicità presenta due fotografie, nella prima una persona sta facendo un’attività pericolosa, nell’altra la stessa persona è seduta su una carrozzina; sopra campeggia una scritta: "E’ meglio riflettere prima che dopo"
"A noi interessava mandare un messaggio di prevenzione alle persone – spiega Gabriella Furlani dell’Associazione Paraplegici – aprire loro gli occhi in un modo tranquillo". Non è facile avere un riscontro con pubblicità di questo tipo anche se dopo la campagna l’associazione è stata subissata di telefonate soprattutto di scuole o altre persone che volevano diventare soci. Un elemento caratterizza tutte le pubblicità che abbiamo esaminato: da tutti viene rifiutato un messaggio pubblicitario di tipo pietistico o commovente o che voglia informare con la paura. Ma questa scelta di stile è propria solo delle associazioni più moderne, che utilizzano la macchina pubblicitaria con una certa consapevolezza e in tutte le sue potenzialità. La stessa cosa non si può dire per tutti ed è ancora possibile imbattersi in pubblicità che puntano ancora a commuovere, a chiedere carità e aiuto per i "poveretti".

Il lavoro raccontato

Sfogliandoli distrattamente possono sembrare dei “giornalini” semplici e con poche pretese, ma attenzione, dietro queste pagine a volte strampalate e ricche di immagini si celano storie di persone e di rapporti, progetti di lavoro, montagne di emozioni che interi libri “scientifici” non riuscirebbero a descrivere adeguatamente. Ne parliamo con Andrea Canevaro, direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna.

Domanda. Sono ormai diverse le esperienze di piccole riviste, "giornalini" che vengono composti all’interno dei centri per handicappati, esperienze che si possono incontrare in varie parti d’Italia: ma qual è il loro valore educativo?
Risposta. II maggior valore credo che sia quello che riguarda la memoria; ci sono spesso tendenze a ridurre chi ha un deficit molto grave, ridurlo ad una persona che ha giornate sempre uguali, che fa le stesse cose; in questo siamo aiutati anche da una letteratura scientifica che ci racconta che il ritardato mentale grave ha una "viscosità", una ripetitività, ha bisogno di fare le stesse cose. Io penso che abbia bisogno come tutti di avere delle sicurezze, quindi c’è del vero in quello che si dice, però è anche vero che hanno una vita con una dinamica, e questa dinamica bisogna saperla leggere, non dimenticarla e i giornalini possono essere uno strumento utile
per mantenere un’attenzione a un qualcosa che può essere raccontato. La ripetitività fa sì che gli operatori che lavorano all’interno di un centro pensino di non aver niente da raccontare fuori agli altri, mentre il giornale è fatto anche per gli altri. Allora farlo può diventare un impegno con se stessi a scoprire quello che può essere raccontato agli altri e che non è la fotocopia della stessa giornata per 365 giorni all’anno.

D. Queste esperienze hanno un valore molteplice; da una parte hanno un significato interno, nel rapporto tra operatore e utente, dall”altro hanno anche un valore esterno, nel rapporto tra il centro riabilitativo e l’Usl, o il territorio che lo circonda; infine possono avere un valore anche tra i diversi centri e servire come collegamento.
R. Sì, hanno un intreccio di diversi valori; specialmente alcuni "giornalini" quando sono fatti con cura, servono come mediatori di rapporti, come possibilità che il rapporto non si esaurisca nell’assistenzialismo; lasciando una "traccia" e avendo una funzione di mediazione le riviste possono essere molto significative proprio per la qualità della relazione tra operatori e utenti, volendo proprio usare questi termini così burocratici.
Attraverso i giornali c’è inoltre una definizione progressiva, aperta e non imbalsamata dell’identità di un centro. Ecco un’altra utilità, quella di pensare la propria identità in rapporto a quella degli altri centri, ognuno dei quali ha una propria identità.
Fare una rivista per un centro significa allora scoprire la propria identità, mettere in luce le proprie valenze culturali e operative. Ci sono centri che sono legati per la loro storia al cinema, alla scrittura o al teatro, tutte caratteristiche che si riscontrano poi nei "giornalini". Ricordo il caso di un "utente" del Centro Galassia di Lugo di Romagna che da anni s’interessa alla scrittura; ora è possibile che non sia immediatamente una scrittura maggiorenne per un’editoria da grande pubblico, ma potrebbe essere molto importante per un "giornalino", se questo non è riduttivo e non diventa uno strumento da dopolavoro ferroviario, ma diventa un biglietto da visita d’identità che è sempre in farsi. Potrebbe essere giusto allora che ci siano delle vite da raccontare, in modi diversi, attraverso la poesia, la fotografia…
I "giornalini" servono proprio per scoprire la propria identità e metterla in contatto con l’identità degli altri centri e per costruire poi una rete che permetta delle valorizzazioni reciproche.

D. Come si presentano, che tipo di struttura hanno queste esperienze? Hai in mente qualche caso particolare?
R. L’esperienza che conosco meglio è quella di Ravenna; la rivista "Percorsi" ha proprio questa funzione di collegare le diverse identità.
Fatta con mezzi modesti, il "giornalino" esiste orma da una decina di anni e con il
tempo si è affinato, coniugando le esigenze interne con dei fini più alti. "Percorsi" ha cercato di dare dei contributi di grande serietà, evitando di essere noiosa, di avere un tono dimesso, per farsi leggere da un numero maggiore di persone. Prima ho parlato di giornalini da dopolavoro ferroviario, anche con un tono di simpatia, perché hanno il difetto di non raggiungere il lettore esterno, ma hanno un senso più di informazione interna; è proprio ciò che le esperienze di cui stiamo trattando devono evitare. Vorrei ricordare che questi "giornalini" non sono un patrimonio solo del nord Italia, in quanto ricevo continuamente nuove riviste e alcune di queste provengono dal sud.

D. Sei a conoscenza di esperienze analoghe all’estero?
R. Sì, ho visto pubblicazioni simili in Francia, nella Svizzera francofona, in Belgio, nel Canada.

D. Quali sbocchi possono avere queste riviste, come si possono sviluppare per diffondersi meglio o diventare più "raffinate"?

R. Per rispondere a questa domanda bisogna parlare anche dei Centri di documentazione, perché questi materiali sono sicuramente dei materiali fragili che vanno persi, si buttano via.
La funzione maggiore la dovrebbero avere i Centri di documentazione che non sono inerti ma che dovrebbero essere attivi, salvando il materiale prodotto e rendendolo anche consultabile. Poi dovrebbero consentire che qualcuno ogni tanto ci mettesse mano per riorganizzarlo; sarebbe interessante fare delle antologie o delle comparazioni antologiche, mettere insieme il meglio di quanto è stato prodotto. E per non renderli deperibili occorre trasformarli; ad esempio con alcuni numeri di "Percorsi" abbiamo fatto un libro.

Un jeans per persone veramente speciali

“Finalmente gli abiti si adattano a noi, non noi agli abiti”; con questo slogan una ditta di abbigliamento in provincia di Padova ha lanciato sul mercato un jeans confezionato appositamente per persone non deambulanti. È un primo passo per garantire al disabile il diritto di vestirsi come vuole.

Finché si è bambini non si fa molto caso a quello che si porta addosso ma, crescendo, uno comincia a chiedersi: "Perché devo sempre andare in giro con la tuta da ginnastica, con la felpa o con la camicia a quadrettoni?". Specialmente per un adolescente diventa difficile capire perché la sua disabilità fisica debba essere accentuata da un modo di vestire diverso dai suoi coetanei. E il problema non cambia crescendo perché, se ogni età ha il suo modo di vestire, per un disabile l’abbigliamento tende a non cambiare con gli anni.
Se in genere le famiglie e la mentalità comune sottovalutano questo problema per far fronte ad altre cose ritenute più importanti, può capitare di incontrare chi non la pensa così. La famiglia Silvestrin ha un figlio che si sposta su una sedia a rotelle a causa della spina bifida e ha la particolarità di lavorare nel campo dell’abbigliamento: "Se fossimo stati dei meccanici ci saremmo impegnati nel miglioramento delle carrozzine – dice Piergiorgio Silvestrin, un altro dei figli – ma, siccome in famiglia siamo tutti sarti e stilisti, ci siamo applicati a ciò che sapevamo fare".
Così l’azienda di abbigliamento a conduzione familiare ha creato un settore che si è specializzato nell’adattamento dei vestiti per disabili in carrozzina.
Per adesso fabbricano su misura solo i jeans: "il pantalone tradizionale è fatto per una persona che sta in piedi, non per uno che sta seduto; i nostri modelli sono più bassi davanti e più alti dietro per renderli più comodi; li confezioniamo con delle cerniere particolari o con le aperture a strappo lungo la coscia; anche per i problemi di incontinenza abbiamo delle soluzioni che mimetizzano l’ausilio".
Insomma la filosofia che sembra ispirare il loro lavoro è che gli abiti si devono adattare alla persona e non viceversa.
La realtà è invece un’altra; un disabile compera quel che trova e non quel che vuole ed è contro questa mancanza di opportunità che si muove l’iniziativa della famiglia Silvestrin. I jeans vengono venduti ad un prezzo che va dalle 60 alle 70 mila lire, un prezzo "sociale" quindi, che mira solo a coprire le spese di fabbricazione non volendo guadagnare nulla in questo settore: "i nostri guadagni – ci tiene a precisare Piergiorgio Silvestrin – non vengono da qua, questo è un discorso personale che portiamo avanti perché crediamo nella sua utilità".
Purtroppo il discorso stenta a decollare perché si scontra con la diffidenza delle associazioni: "In sette mesi di lavoro abbiamo vestito 50 persone, ma il giro si allarga lentamente. I presidenti delle associazioni accolgono con cautela i nostri inviti a diffondere l’iniziativa perché pensano che sia un’operazione commerciale ed anche che in definitiva il problema non sia poi così sentito".
Un modo per diffondere il prodotto potrebbe essere quello di vendere i jeans nei negozi ortopedici e sanitari ma questo porterebbe ad un notevole aumento dei prezzi (oltre le 100 mila lire) e alla perdita del contatto diretto con il cliente disabile.
Altra caratteristica è l’eleganza del prodotto: "Abbiamo applicato
ai nostri jeans le caratteristiche del "made in Italy", mentre all’estero hanno una concezione diversa che presta meno attenzione alla bellezza". Un modo come altri per dare la possibilità al disabile di vestirsi con accuratezza. E la moda? Risponde Piergiorgio Silvestrin: "L’handicappato non concepisce nemmeno
cosa sia la moda perché si veste solo con quel che trova, ma non è giusto che sia così". Se essere alla moda può essere un atteggiamento criticabile, il diritto di poterlo essere non lo è e deve essere garantito. Come? Ad esempio assicurando ai disabili altri capi di vestiario che non siano solo i jeans. Nei progetti della famiglia Silvestrin c’è anche l’intenzione di confezionare camicie e giubbotti adattati; i modelli disegnati ci sono gia, anche il materiale è stato scelto, ma per la loro realizzazione si aspetta di vedere come andrà con i blue jeans; se la loro commercializzazione coprirà le spese allora si potrà andare avanti.
(La ditta della famiglia Silvestrin è la "Taglieria S. Giorgio", loc. Arzercavalli, via Dossi 35 -35020 Terrassa Padovana (Pd). Tel. 049/538.30.14, fax 049/538.31.44)

L’informazione diretta e l’informazione mediata

Il Centro Risorse Handicap del Comune di Bologna è stato pensato soprattutto come sportello aperto al pubblico e anche come sportello telefonico; ma accanto a questi modelli di erogazione di informazione più tradizionali ne è stato progettato – e realizzato – uno che funziona tramite la rete telematica. Il nostro Informahandicap si è dotato infatti di un sito web, con un numero limitato, speriamo ancora per poco, di informazioni che possono essere lette andando a questo indirizzo web: www.handybo.it.
In cosa consiste la differenza tra l’informazione data direttamente da un ufficio da quella ricavabile da internet e accessori? Quali sono i loro pregi e i loro difetti e in che modo è opportuno miscelare i due modelli per averne il massimo vantaggio?
A queste domande cercheremo di dare una risposta sintetica nelle righe che seguono.

Guardandoti negli occhi
Gli sportelli informativi aperti direttamente al pubblico non sono semplici da gestire, vanno progettati meticolosamente sia nell’architettura che si vuol dare alla propria informazione che nelle capacità delle persone che devono di fatto dare le risposte.
Il primo punto viene già trattato in un’altra parte di questa pubblicazione, basta quindi ricordare che una precisa categorizzazione dell’ informazione e una scrittura chiara della stessa rendono il lavoro molto più semplice (anche da aggiornare).
Il secondo aspetto riguarda direttamente il nostro argomento. La persona che riceve le domande deve essere opportunamente formata non solo nella conoscenza della materia ma deve anche capire qual è la vera domanda dell’utente, che alcune volte non riesce ad essere espressa. Anche il rapporto interpersonale che si instaura, pur se di pochi minuti, deve essere gestito con professionalità. È chiaro che un tipo di rapporto così diretto può esserci solo in una situazione come questa, dove accanto al linguaggio verbale se ne accompagna uno non verbale teso anch’esso ad una migliore comprensione reciproca.
Tutte queste componenti fanno sì che la risposta dell’operatore possa essere molto più precisa o per lo meno riesca da avvicinarsi alla reale richiesta. La “vicinanza” può permettere anche l’instaurarsi di un rapporto più profondo tra operatore e utente. Chi sta allo sportello, che tra noi chiamiamo “fisico” per differenziarlo da quello telefonico e telematico, ha ben presente questa situazione che vede tornare più volte le stesse persone con domande sempre rinnovate.

Mi specchio nello schermo
La duttilità nella risposta, che proviene anche dall’intesa che si può avere con una persona che ci sta di fronte, non è certamente replicabile nello sportello telematico. La nostra comunicazione viene in questo caso mediata da un computer o meglio da due computer collegati tra di loro.
Che la comunicazione cambi se non è diretta tra due persone ma è mediata da qualcosa, lo si capisce facendo un semplice esempio. Normalmente due persone che si urtano per strada si fanno le scuse o al massimo fanno finta di niente. Se le stesse due persone si trovano a fare una mossa azzardata all’interno delle loro rispettive macchine, è molto probabile che il loro comportamento sia più aggressivo; il semplice involucro metallico di una automobile ci modifica notevolmente (è anche vero che in questo caso entrano in gioco altri fattori, come lo stress da traffico a cui tutti siamo sottoposti).
I tipi di comunicazione che possiamo avere tramite la telematica, o meglio tramite le opportunità da noi offerte fino a questo momento, sono due:

• l’informazione pubblicata sul nostro sito
• la possibilità di chiedere informazione tramite posta elettronica

Se l’informazione che abbiamo su supporto cartaceo fosse pari a quella reperibile sul sito, si potrebbe liquidare il nostro dilemma dicendo che lo sportello fisico ha degli indubbi vantaggi, come abbiamo visto sopra.
A queste considerazioni se ne deve aggiungere un’altra relativa all’utenza. La conoscenza della telematica non è poi così diffusa tra la popolazione italiana, e questa ignoranza, o la mancanza della strumentazione necessaria, potrebbe rendere il mezzo ancora più inadeguato. O meglio, si avrebbe allo sportello telematico soprattutto un’utenza di un certo tipo (più le associazioni o i servizi sociali pubblici piuttosto che il disabile, e la sua famiglia).

Ma allora a cosa serve?
Il digitale, ad ogni modo, comporta dei vantaggi tutti suoi, vediamo quali.
L’informazione pubblicata sul sito è sempre lì e una persona non deve aspettare l’orario trisettimanale dello sportello “fisico” per averla. Inoltre non deve nemmeno spostarsi dal luogo in cui è, facendogli risparmiare un bel po’ di tempo. Ricercando dal suo computer chiunque può reperire l’informazione (o scaricare un modulo da compilare) che cerca a qualsiasi ora e senza muoversi.
Anche lo sportello telematico presenta il vantaggio che si può formulare e spedire il proprio quesito via e-mail quando si vuole e la risposta da parte nostra non è certo vincolata dall’orario di apertura dello sportello.
Lo sportello telefonico si pone invece a metà strada tra i due casi, dato che permette una buona interattività con l’utente, non lo obbliga a spostarsi ma rimane vincolato ad un orario.

L’informazione on line ha anche altri vantaggi, se viene progettata bene e sviluppata.
Oltre a presentare degli archivi facilmente consultabili direttamente dagli utenti, il mezzo digitale permette l’utilizzo dei file multimediali, che possono essere uno strumento di conoscenza più completo. Una galleria fotografica o un filmato possono rendere bene l’idea, tanto per fare un esempio, delle barriere architettoniche che presenta un percorso.
L’interattività con l’utenza può espandersi in molte direzioni; si possono creare spazi dove gli stessi utenti pongono i loro problemi o le soluzioni che hanno trovato; spazi visibili sul web poi da tutti gli altri navigatori.

Concludendo, lo sportello “fisico” non esclude quello telematico e viceversa. I due strumenti, mantenendo delle peculiarità specifiche, possono essere complementari e offrire all’utenza una gamma più ampia di opzioni, dato che lo stesso materiale informativo può essere fruito in più modi.

Scuole e nuove tecnologie: L’Ausilioteca di Bologna

L’ausilio è uno strumento importante per l’integrazione scolastica di uno studente disabile?
Prima di rispondere a questa domanda è indispensabile chiarirsi sul concetto stesso di “ausilio” che non può essere inteso solo come strumento tecnico. L’ausilio è un insieme di fattori di carattere tecnico, metodologico e contestuale. Pensiamo ad un bambino con difficoltà di scrittura manuale; non è sufficiente individuare la tastiera idonea. Perché questa diventi lo strumento di lavoro che il bambino utilizza sul suo banco di scuola per scrivere ogni giorno, occorre un insieme di altri fattori, come un’adeguata postazione di lavoro, una particolare organizzazione dell’attività con la classe, una solida figura di riferimento. Inoltre, secondo la recente definizione dell’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health), la disabilità viene definita come la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizioni di salute dell’individuo, i fattori personali, e i fattori ambientali che rappresentano il contesto in cui vive l’individuo. A causa di questa relazione ambienti diversi possono avere un impatto molto diverso sullo stesso individuo con una certa condizione di salute. All’interno dei fattori ambientali l’ICF include i prodotti tecnologici, visti come uno dei diversi tasselli che possono concorrere alla maggior partecipazione della persona disabile alla vita sociale. Se concordiamo con tutto questo sicuramente la tecnologia può fornire validi strumenti per favorire l’integrazione scolastica.

Dove trovare un ausilio e come sceglierlo?
Proprio per quanto detto sopra la scelta di un ausilio è un processo complesso, che non può essere affrontato sfogliando un catalogo o adottando soluzioni preconfezionate. Proprio per questo sono nati dei servizi specializzati di consulenza sugli ausili tecnologici. A Bologna per esempio esiste da venti anni il Centro Ausili Tecnologici, un servizio pubblico gestito dall’Azienda USL di Bologna che offre attività di consulenza, supporto, formazione e informazione sulle tematiche degli ausili tecnologici per persone con disabilità. L’equipe del servizio – composta da figure riabilitative, educative e tecniche – valutando le potenzialità della persona disabile e gli obiettivi, ipotizza soluzioni di ausilio che non si limitano all’indicazione di uno o più strumenti ma prevedono anche la costruzione di un percorso educativo e didattico. Facciamo un esempio. Spesso al nostro servizio arrivano richieste per migliorare la comunicazione di un bambino; di fatto la soluzione, il più delle volte, non è un computer anche se adattato, ma l’impiego di ausili più semplici spesso non basati sulle nuove tecnologie (a volte sono sufficienti delle tabelle cartacee per la comunicazione). Altre volte si danno semplicemente delle indicazioni di tipo educativo su come rapportarsi con il bambino per sviluppare in lui l’intenzionalità e l’iniziativa comunicativa. Anzi, in alcuni casi sarebbe un errore proporre soluzioni tecnologiche. All’interno del nostro servizio è possibile inoltre provare degli ausili di ogni genere provenienti da diverse fornitori che, in ambito locale, possono anche essere prestati.

L’organizzazione della scuola incide sull’efficacia nell’adozione di un ausilio?
L’organizzazione della scuola incide fortemente nell’integrazione scolastica di un bambino disabile e ciò ha una ricaduta anche nel caso dell’adozione di un ausilio. I problemi sono diversi, dal turn-over degli insegnanti agli orari, dalla mancanza di un’unica figura di riferimento agli spazi offerti dalla scuola: tutti problemi che derivano indirettamente da certe scelte politiche. Il problema che più frequentemente si riscontra è il turn-over degli insegnanti di sostegno: per esempio può capitare che al momento della consulenza per l’individuazione di un ausilio sia presente un insegnante che, al momento dell’arrivo dell’ausilio a scuola, sarà stato sostituito da un collega. Quest’ultimo, a volte, si ritroverà con uno strumento senza sapere i motivi e gli obiettivi per cui era stato richiesto e adottato. Di questa situazione sono gli insegnanti stessi a soffrirne per primi. Alcuni ausili inoltre necessitano di un momento formativo per rendere l’insegnante in grado di utilizzarli al meglio delle loro possibilità. Siamo noi stessi a fare questa formazione. Ma se ogni anno ci si ritrova a lavorare con insegnanti diversi si rischia di ricominciare ogni volta da capo. Anche la barriere architettoniche sono un ostacolo al nostro lavoro; può sembrare paradossale ma ci è capitato il caso di una bambina che, pur essendo in grado di utilizzare il computer con un ausilio, non poteva partecipare alle attività nell’aula informatica perché questa non era a lei accessibile.

L’ausilio non va vissuto come una risposta ma come un mezzo al problema dell’integrazione, capita a volte l’opposto?
A volte gli insegnanti vengono in Ausilioteca presentandoci come obiettivo l’individuazione di un ausilio senza avere avuto ancora l’opportunità di costruire dei solidi obiettivi didattici. A volte si ha quasi l’impressione che l’ausilio venga percepito come già dotato in sé di un contenuto educativo. In realtà in molti casi è necessario lavorare prima sugli obiettivi didattici, lavorando prima con materiali poveri e non tecnologici. In queste situazioni risulta molto importante che venga garantita un’adeguata formazione su questi temi.

Ausilioteca Via Giorgione 10 – 40133 Bologna Tel: 051/642.81.11 – fax: 051/38.59.84 http://www.ausilioteca.org E-Mail: info@ausilioteca.org

 

Séreza, il figlio di Anna

Le meditazioni del bambino si riferivano agli argomenti più vari e complessi. Egli si immaginava ora che suo padre sarebbe forse stato decorato con gli ordini di Vladimir e di S. Andréj e che, per conseguenza, sarebbe stato più indulgente per quanto si riferiva alla lezione del giorno; poi si diceva che lui stesso, quando fosse stato grande, si sarebbe guadagnate tutte le decorazioni esistenti e anche quelle che sarebbero state inventate al di sopra del S. Andréj. Intanto il tempo passava; quando giunse l’insegnante, la lezione di grammatica sui complementi di tempo, di stato e di luogo non era preparata e il professore si dimostrò non solo scontento, ma addolorato. E questa afflizione del maestro commosse Seréza. Tuttavia non si sentiva colpevole: la lezione, per quanto si sforzasse, non riusciva a impararla; mentre il maestro spiegava, egli credeva di capire, ma non appena restava solo, gli era impossibile capire e neppure ricordare perché mai, per esempio, una frasetta così breve e così facile come: ‘tutt’a un tratto’ dovesse diventare un complemento di modo. Gli rincresceva, comunque, di aver dato un dispiacere al suo insegnante e voleva consolarlo. Approfittando di un momento in cui questi cercava qualcosa nel libro, gli disse: “Michaíl Ivanyc, quando è il vostro onomastico?” “Sarebbe meglio che pensaste al compito; che importanza ha per un essere ragionevole una festa di onomastico? È un giorno come tutti gli altri, nel quale si deve lavorare.” Seréza guardò attentamente il professore, ne esaminò la barba rada, gli occhiali che si erano abbassati sul naso e si immerse in riflessioni tanto profonde che non sentì più nulla di quanto gli si stava spiegando. Sentiva che il professore non pensava quello che diceva, lo sentiva dal tono della voce. " Ma perché sono tutti d’accordo nel dirmi, allo stesso modo, tutte le cose più inutili e più noiose? Perché questo qui mi allontana da sé e non mi vuole bene?" si domandava il fanciullo con tristezza, e non sapeva trovare la risposta. (Tratto dal romanzo Anna Karenina di Lev Tolstoj)

Seréza è il figlio di Anna Karenina, non la vede da parecchio tempo, dato che ha abbandonato il marito per il principe Vronskij. È un ragazzino sensibile senza madre, con un padre piuttosto rigido da cui non riesce a ricevere la tenerezza e l’affetto di cui ha bisogno. Viene educato in casa, come normalmente accadeva per i rampolli delle famiglie benestanti nella Russia zarista; ma “non va bene a scuola”, non riesce ad apprendere. Il suo tutore e il padre gli spiegano le materie ma di tutto questo lui percepisce solo delle parole vuote, parole senza “affetto”, quindi da scartare. Che cosa mai gli potranno dare? Ecco invece Seréza ricorda bene gli insegnamenti del suo maggiordomo, che gli racconta piccoli aneddoti con parole affettuose. Ma il padre rimane deluso degli scarsi progressi del figlio, mentre il maestro ne è addirittura afflitto. Ma come è possibile imparare senza affetto? Questa domanda naturalmente Seréza non riesce a farsela, dato che è ancora troppo giovane, se la immagina vagamente. D’altronde, non vale così anche per tutti noi? Qual è l’insegnante da cui abbiamo imparato di più? Forse da quello che ci faceva più paura o da quello di cui percepivamo, magari sotto sotto, una simpatia, un accenno di affettuosità o di partecipazione diretta a quanto noi stavamo facendo?

Sveglia Hanno Buddenbrook, è ora di andare a scuola!

L’orologio a sveglia scattò e si mise a strepitare coscienzioso e spietato.
Era un rumore roco, fesso, più un gracidio che uno scampanellio, giacché lo svegliarono era vecchio e logoro; ma durò a lungo, terribilmente a lungo, perché la carica era completa.
Hanno Buddenbrook si destò spaventato. Come ogni mattina, allo scatto improvviso di quella sveglia maligna e fedele. Lì sul comodino, a un palmo dal suo orecchio, le viscere gli si torsero per la rabbia e la disperazione. In apparenza però rimase calmo, non si mosse, e si limitò a spalancare gli occhi, strappato a qualche confuso sogno mattutino.
Nella camera fredda il buio era assoluto; egli non distingueva alcun oggetto, e non poteva vedere le lancette dell’orologio. Ma sapeva che erano le sei, perché la sera prima aveva messo la sveglia su quell’ora….la sera prima…. Mentre stava supino e immobile, con i nervi tesi, lottando per risolversi ad accendere la luce e a scendere dal letto, gli ritornò a poco a poco nella coscienza tutto ciò che lo aveva penetrato la sera prima….
Era domenica, e poiché aveva dovuto lasciarsi malmenare dal signor Brecht per parecchi giorni di seguito, sua madre in compenso l’aveva portato con sé al  teatro Civico, a sentire il Lohengrin. Aveva vissuto tutta la settimana nella lieta attesa di quella serata. Peccato che prima di una simile festa dovessero sempre accumularsi tante cose spiacevoli, guastando fino all’ultimo momento la libera e gioiosa prospettiva. Ma finalmente il sabato anche le ore di scuola erano terminate, e il trapano aveva ronzato per l’ultima volta nella sua bocca dolorante…. Tutto era passato e superato, perché egli aveva risolutamente rinviato i compiti al di là della domenica sera. Che cos’era lunedì? Sarebbe mai arrivato? Non si crede al lunedì quando alla domenica sera si deve andare al Lohengrin…..Si sarebbe alzato presto lunedì mattina per sbrigare quelle stupidaggini, e basta! E in tanto se n’era andato attorno libero e leggero, covando quella gioia in cuore, aveva fantasticato al pianoforte e dimenticato ogni contrarietà.
Poi la felicità s’era avverata. Era scesa su di lui, consacrazione e delizia, con i suoi brividi segreti, i suoi palpiti, i suoi singhiozzi che scuotono improvvisi l’anima, tutta la sua ebrezza estatica e insaziabile…. Certo nel preludio i violini mediocri dell’orchestra avevano stonato alquanto, e quell’uomo grasso e tronfio dalla barba rossiccia era arrivato nella navicella un pò a balzelloni. Nel palco vicino poi c’era il tutore, il signor Stephan Kistenmarker, e aveva brontolato contro quei divertimenti che distoglievano il ragazzo dai suoi doveri. Ma la dolce, trasfigurata magnificenza dei suoni che udiva lo sollevò al di sopra di tali miserie….
Poi era venuta la fine. La gioia canora e sfolgorante era ammutolita e spenta; con la testa in fiamme, ritrovandosi in camera sua, si era reso conto che appena un paio d’ore di sonno lo separavano dalla grigia realtà quotidiana. Allora aveva vinto una di quelle crisi di sconforto che conosceva tanto bene. Aveva sentito quanto male ci possa fare la bellezza, come possa gettarci nella vergogna e nella struggente disperazione, e annientare tuttavia in noi anche il coraggio e la capacità di vivere la vita comune. Si era sentito cosi terribilmente disperato e oppresso da un peso cosi immane, che come tante altre volte aveva pensato che non potevano essere soltanto i crucci personali ad opprimerlo: fin dal principio un carico aveva gravato sulla sua anima, e l’avrebbe schiacciato un giorno o l’altro.
Poi aveva messo la sveglia e aveva dormito come un sasso, come si dorme quando non si vorrebbe svegliarsi più. E adesso il lunedì era venuto, erano le sei, e lui non aveva preparato una sola lezione!
(Tratto dal romanzo I Buddenbrock di Thomas Mann)

Il personaggio di Hanno, l’ultimo dei Buddenbrock, lo si trova solo nella parte finale del romanzo e si muove soprattutto in un ambito scolastico. La sua è un’esperienza decisamente angosciante scandita dalla  campanella che separa un’ora di lezione dall’altra. E ogni ora è una lenta attraversata in una giungla piena di insidie, con l’orecchio teso ad ascoltare i nomi degli studenti che saranno interrogati. Ma il nostro brano non parla di questo, si colloca prima, al mattino, quando Hanno si sta per svegliare e acquista poco a poco consapevolezza di ciò che lo attende. Vive il difficile passaggio dalla domenica pomeriggio al mattino successivo, quando il giorno di festa declina e il nostro (dico nostro perchè tutti noi lo abbiamo provato) stato d’animo muta. La spensieratezza se ne va e si deve ricominciare una settimana di impegni, interrogazioni, voti e valutazioni continue sulla propria persona; 7 vali, 4 non vali niente, 6 vali pochino…
Nel caso di Hanno (ma è così solo per lui?) esiste un’aggravante, ama la musica, non la scuola, ama l’arte, ama ciò che comunque è lontanissimo (o gli sembra che sia) da quello che studia a scuola. Domenica sera è uscito, con la sua impenetrabile madre, a sentire il Lohengrin, questo gli ha impedito di preparare le lezioni del giorno dopo; sono il giorno dopo, appunto, il presente è ascoltare Wagner al teatro civico e poi “ Non si crede al lunedì quando alla domenica sera si deve andare al Lohengrin”. Qui sta la sua (la nostra) differenza; si cerca di scegliere ciò che piace (in questo caso la poesia e la musica) ma la realtà (scolastica) impone i propri programmi, le proprie misure. Hanno vorrebbe misurarsi con l’arte piuttosto che con le materie scolastiche e questa è una   condizione diffusissima nelle nostre scuole. Sempre più gli insegnanti descrivono la situazione di studenti, magari capaci, ma completamente disinteressati, o meglio interessati solo “alla loro musica e ai loro videogiochi”. Questa situazione di disagio (per studenti, genitori, insegnanti) aumenta nel passaggio alle scuole medie e ancora di più nelle superiori. Anche se gli interessi culturali di Hanno sono più sofisticati, il risultato è lo stesso: il disinteresse. A questo punto una domanda: “come può la scuola integrare anche questi studenti? Come può arginare un impoverimento culturale di cui ne è reponsabile solo in minima parte? Intanto Hanno non vuole abbandonare le sue coperte che sono calde e morbide, fuori c’è il freddo invernale e la scuola con le sue campanelle.

Hans sotto la ruota

Hans seguitò a campare per qualche tempo ancora grazie a quello che aveva studiato in precedenza, come una marmotta con le provviste accumulate per l’inverno. Poi cominciò una vita di stenti, penosa, inframmezzata da brevi slanci privi di energia, la cui inanità appariva derisoria a lui stesso. La smise di faticare senza costrutto, lasciò perdere Omero e il Pentateuco, l’algebra e Senofonte  e assistette impassibile al graduale tramonto del suo prestigio agli occhi dei maestri, da ottimo a soddisfacente, da soddisfacente a mediocre e infine a insufficiente. Quando non aveva il mal di testa che costituiva di nuovo la regola, pensava a Hermann Heilner, si perdeva nei suoi sogni a occhi aperti e seguiva per ora il filo di pensieri appena abbozzati. Ai rimproveri sempre più fitti dei maestri rispondeva con un sorriso umile buono. L’istitutore Wiedrich giovane e cordiale era l’unico che provasse pietà di quel sorriso smarrito, l’unico che trattasse il ragazzo fuorviato con affettuosa comprensione. Gli altri insegnanti erano indignati lo punivano trascurandolo, o tentavano sporadicamente di risvegliare la sua ambizione assopita con lo stimolo dell’ironia.
“Se per caso in  questo momento non avesse voglia di dormire, potrei pregarla di leggere questo brano?”.
Il rettore lasciava trasparire una dignitosa  riprovazione. Vanitoso com’era confidava molto nella   potenza del suo sguardo e andava fuori di sé quando Giebenrath opponeva al suo  cipiglio regale e minaccioso il solito sorriso rassegnato pieno d’umanità, che a poco a poco finì con l’innervosirlo. “Non sorrida così stupidamente. Avrebbe di che piangere piuttosto”.
Maggior effetto ottenne una lettera di suo padre che lo supplicava spaventatissimo, di migliorare. Il rettore aveva scritto a Giebenrath padre, e questo era rimasto inorridito. La lettera che Hans ricevette era un compendio di tutte le esortazioni incoraggianti e di tutti gli appelli morali di cui il brav’uomo era capace, ma lasciava trasparire involontariamente un accoramento piagnucoloso che gli fece male.
Tutte queste guide della gioventù votate al dovere, dal rettore ai professori e agl’istitutori fino a Giebenrath padre, vedevano in Hans un ostacolo ai loro desideri, qualcosa  d’inceppato e di pigro ch’era necessario riportare a forza sulla buona strada. Nessuno, tolto forse quell’istitutore compassionevole, comprendeva che il sorriso smarrito dell’affilato volto giovanile celava la sofferenza di un’anima che stava affogando, e che si  guardava intorno con disperata angoscia.  E nessuno  pensava che la scuola e la barbarica vanagloria di un padre e di alcuni insegnanti  avevano spinto a tal punto la fragile creatura. Perché l’avevano costretto a lavorare quotidianamente fino a tarda sera, proprio negli anni così sensibili e pericolosi dell’adolescenza? Perché l’avevano privato dei suoi consigli, perché  l’avevano allontanato di proposito dai compagni di ginnasio, perché gli avevano proibito lo  svago della pesca, perché gli avevano iniettato il vacuo basso ideale d’una meschina, estenuante ambizione. Perché non gli avevano concesso neppure le  sudate vacanze dopo gli esami?
Ora il puledro affiancato dal gran correre si era accasciato al margine della strada, e non c’era più niente da fare per lui.
Verso l’inizio dell’estate il medico dichiarò di nuovo che si trattava d’una debolezza nervosa provocata soprattutto dallo sviluppo. Hans avrebbe dovuto seguire una buona cura durante le ferie estive, nutrirsi  in abbondanza e trascorrere le giornate nei boschi e sarebbe guarito  in breve tempo. Purtroppo non arrivò fino all’estate. Mancavano tre settimane alle vacanze quando Hans durante una lezione pomeridiana, si attirò una severa reprimenda dal professore. Mentre questi continuava a rimproverarlo, Hans si arrovesciò all’indietro nel banco scosso da un tremito d’angoscia, e scoppio in un pianto convulso che non finiva più e che mandò all’aria la lezione, lo fecero restare mezza giornata a letto.
Alcuni  giorni dopo, l’insegnante di matematica lo chiamò alla lavagna perché disegnasse una figura geometrica e dimostrasse un teorema. Uscì dal banco, ma davanti alla lavagna fu colto da una vertigine armeggiò con il gesso e con la squadra, tracciando linee senza senso li  lasciò cadere entrambi e come si chinò per raccattarli finì a terra in  ginocchio, incapace di rialzarsi.
Il medico era piuttosto irritato col paziente che gli giocava tiri simili. Non si pronunciò chiaramente sui sintomi, ordinò un periodo immediato di riposo e caldeggiò il consulto di uno specialista per le malattie nervose.
“C’è il pericolo che gli venga il ballo di san Vito” sussurrò al rettore, che accennò di sì  con la testa e giudicò opportuno di cambiare l’espressione accigliata e irosa del volto in una paternamente addolorata, che gli riusciva facile e gli si addiceva.
Sia lui sia il medico scrissero ciascuno una lettera al padre di Hans, la infilarono in tasca al ragazzo e lo spedirono a casa. La collera del rettore si era trasformata in una grave preoccupazione… che cos’avrebbero pensato le autorità scolastiche, ancora scombussolate per la faccenda di Heilner di questo nuovo guaio? (tratto dal romanzo Sotto la ruota di Hermann Hesse)

 

Siamo a cavallo tra Ottocento e Novecento, Hans Giebenrath è un giovane di belle speranze che abita nella provincia tedesca. Il padre, l’intera comunità in cui vive lo mandano in un famoso collegio per studiare; è il vanto di un’intera comunità, il suo successo è il successo un po’ di tutti. Ma Hans non è solamente un giovane dotato per gli studi; ospita dentro di sé un dissidio, lo stesso che ritroviamo in tanto protagonisti dei romanzi di Hermann Hesse. Cultura e natura, ragione e passione, rispetto dell’autorità e desiderio di libertà cozzano dentro di lui e lui stesso si scontra con il rigido ambiente del sistema scolastico di quei tempi. Il principio che guidava quel sistema (soprattutto di area protestante) era improntato alla Leistungsethik, all’etica del massimo rendimento; così doveva comportarsi ogni alunno, ogni studente pena la fuoriuscita dal sistema stesso con tutto il carico di sensi di colpa e di delusione che questo comporta. Così capita a Hans, viene schiacciato dalla ruota di questo sistema. Da sotto la ruota ne uscirà una persona nuova, “rotta” nello spirito e che non riuscirà più a integrarsi nella vita paesana. Hans Giebenrath morirà gettandosi (cadendo?) in un fiume.
I sistemi scolastici contemporanei non sono certo improntati alla Leistungethik, né gli insegnanti dei nostri giorni, nella maggior parte dei casi, riescono ad avere in aula quel controllo sulla classe come viene descritto in questo e in tanti romanzi simili. È anzi patrimonio culturale condiviso (anche se da qualcuno mal digerito) che un insegnante deve curare oltre all’aspetto didattico anche quello relazionale, educativo con l’allievo. Capitano ancora però, e i mass media sono sempre molto puntuali nel riportare la notizia, i casi di suicidio da scuola; adolescenti che si gettano da finestre o sotto i treni per paura di una bocciatura o di qualche debito formativo. Basterebbe così poco per evitarli, un cambio di scuola, un supporto psicologico o anche la fine del percorso scolastico e l’ingresso nel mondo del lavoro. Basterebbe far passare l’idea che loro sono ben altro che degli studenti scadenti, che la loro personalità, così “fresca”, così in divenire (e perciò ancora così ricca di possibilità) non si ferma in questo momento di crisi scolastica, ma andrà ben oltre. “Tu non sei solo questo – così si dovrebbe dire a questi ragazzi – altre cose ti aspettano: a un periodo di buio e di depressione ne verranno degli altri, più luminosi”. Ce la sentiamo di dire questo ai nostri allievi, ai nostri figli anche se ci deludono e ci irritano?

Disabili 1.0

Servizi, relazioni sociali e barriere: Internet per i disabili

INTRODUZIONE

Il lavoro che segue ha l’obiettivo di mostrare come l’uso di internet s’incroci con la vita quotidiana di una persona disabile, di un suo familiare, di un operatore sociale, di un insegnante.
Internet, e-mail, browser, web, chat… sono tutte parole che si riferiscono al mondo delle nuove tecnologie della comunicazione. È un mondo oramai sempre più conosciuto dagli italiani, soprattutto da parte delle nuove generazioni, che ha e avrà importanti conseguenze per tutti; che lo vogliamo o no queste tecnologie sono destinate a cambiare la nostra vita quotidiana. Fare la spesa, acquistare un libro, prenotare un biglietto per un viaggio o una visita specialistica, relazionarsi con altre persone, sono tutte occupazioni comuni che grazie alla tecnologia saranno svolte in modo differente. Soprattutto per le persone che hanno problemi di mobilità questi cambiamenti potrebbero essere decisamente positivi.
Il nostro filo conduttore sarà rappresentato dalla telematica, ovvero del luogo dove l’informatica e l’informazione s’incontrano dando nuove e sostanziose possibilità a tutti, non solo alle persone disabili naturalmente.
È anche nostra convinzione che le tecnologie non assicurino da sole l’integrazione e un migliore livello di vita alle persone disabili; possono farlo solo in concomitanza di altri fattori, quali precise scelte politico-sociali e la presenza, dall’altra parte del filo, ma, ancor meglio, nella stessa stanza o accanto, di altre persone che sono disposte a spendersi, a esserci.
Nel ’97 assieme a Carlo Giacobini scrissi il libro “L’handicap in rete”, dove, attraverso l’analisi approfondita di vari siti, davamo una prima immagine dell’informazione sulla disabilità presente in rete. A distanza di soli pochi anni le coordinate di riferimento sono del tutto mutate: gli utenti in Italia sono passati da poche centinaia di migliaia a più di 10 milioni, la rete è diventata sempre più efficiente e capace di fornire servizi sofisticati attraverso una banda di trasmissione dati sempre più ampia. Per questi motivi, assieme a una maggiore conoscenza di internet da parte di tutti, questo scritto è profondamente diverso dal predecessore e, dando per scontata una minima alfabetizzazione telematica da parte del lettore, segue altre strade.

Le relazioni, i servizi, le barriere…

Il lavoro è stato scritto nel corso di due anni e in parte è già stato pubblicato dalle riviste “TN” dell’ANMIC nazionale e dalla “Rivista del volontariato” della FIVOL, i cui responsabili di redazione ringrazio per avermi permesso di riutilizzare il materiale inserendolo in una cornice più ampia.
Gli articoli sono raccolti in sezioni che trattano del rapporto tra internet e i disabili da angolazioni diverse e sono divise nel modo seguente:

  • Temi: in questa sezione vengono trattati due argomenti particolari, le informazioni di carattere giornalistico che riguardano la disabilità reperibili in rete e quelle sull’integrazione scolastica. Questa scelta dipende dall’importanza che attribuiamo all’informazione scritta con tecnica giornalistica (chiarezza e sinteticità) ai fini di una maggiore conoscenza condivisa e dall’importanza che “HP-Accaparlante” da al tema della scuola
  • Relazioni: parliamo di quegli strumenti (community, chat, blog, reti sociali) che permettono a un individuo delle relazione sociali molto più ampie e potenzialmente ricche di occasioni
  • Servizi: è un discorso molto pratico dei servizi che fino a oggi offre la rete, come, ad esempio, l’acquisto di un biglietto per viaggiare o per andare al cinema, la prenotazione di una visita specialistica, la spesa da casa
  • Barriere: anche il web come gli ambienti reali quotidiani può presentare delle barriere che ostacolano le persone disabili, ma non solo loro, all’uso completo della rete
  • Ricerche: sono descritti alcuni studi empirici che tentano di raccontare l’uso di internet da parte delle persone disabili e quello che queste persone vorrebbero trovare ma ancora non c’è
  • Cultura: vengono definite alcune questioni di cultura digitale che ci riguardano tutti e la cui evoluzione influenzerà in modo decisivo l’uso di internet (il copyright, il digital divide e la privacy).

Lo scritto termina con una sintetica bibliografia dei principali libri cui abbiamo attinto.
Come potete vedere si tratta di un lavoro molto vario ma non per questo poco approfondito che è stato scritto utilizzando un linguaggio chiaro ma soprattutto in modo sintetico per permettere di toccare degli argomenti anche distanti tra di loro ma collegati appunto dalla rete, da internet (non è questa la sua natura?).

Uno strumento di liberazione?

I cambiamenti che la tecnologia ci propone ogni giorno in forme sempre variate non sono a senso unico; come le medicine, hanno le loro controindicazioni, e potranno avere una valenza positiva e subito vicino averne un’altra negativa.
Le nuove tecnologie basate sul digitale portano con sé un elemento di estrema duttilità che permette di includere tutti, ma il pericolo di esclusione rimane pur sempre presente. Facciamo un esempio: l’invenzione della locomotiva come mezzo di trasporto ha permesso a tutti di spostarsi più rapidamente ma ha creato (naturalmente con il passare del tempo e in un clima culturale attento ai diritti delle persone disabili) dei problemi nuovi di accessibilità per i disabili motori; se i gradini rimangono insormontabili, se gli scompartimenti sono stretti o mal congeniati a cosa serve a uno spastico un Eurostar che raggiunge i 200 chilometri all’ora? A nulla. Così vale anche per le applicazioni delle nuove tecnologie: se non sono pensate anche per i disabili il rischio di esclusione rimane.
Stiamo parlando di possibilità, di potenzialità (che oramai sono molto più che promesse) da cui viene esclusa la maggior parte della popolazione mondiale. La telematica, internet sono cose da mondo occidentale, da paesi ricchi; laddove le infrastrutture (linee telefoniche, energia elettrica, ecc.) non esistono o dove l’analfabetismo è endemico, queste conquiste dell’umanità non arriveranno mai. Quindi – un’altra contraddizione, un altro paradosso – questi benefici ricadranno là dove le condizioni di vita delle persone disabili sono migliori, e rischiano di non riguardare la maggior parte dei disabili che, come è noto, vive nei paesi poveri.

Il soggetto disabile e il popolo della rete

Dove è possibile trovare la voce della persona disabile e dei suoi familiari su internet? Questo tipo di incontro lo si può fare più spesso in quegli spazi dove viene assicurata un’interattività migliore: ovvero dove si può comunicare direttamente. È in questi luoghi che si trova il popolo della rete.

Il popolo della rete

La rete offre altri strumenti di interazione che non necessariamente passano sul web. Stiamo parlando delle mailing list, dei newsgroup, delle chat e di altre applicazioni che permettono tutte queste cose assieme e anche altro.
Le mailing list sono dei gruppi ristretti di discussione che viaggiano su posta elettronica (è necessaria l’iscrizione per parteciparvi); i newsgroup invece sono delle bacheche pubbliche (elettroniche) che vengono usate utilizzando degli specifici software; le chat sono degli spazi di discussione in tempo reale (anche in questo caso esistono dei sofware specifici). Se è vero che molti di questi strumenti sono stati “webbizzati” (ovvero sono visibili anche sul web), queste possibilità comunicative funzionano molto bene anche al di fuori del web (forse meglio). In questi spazi, forse meno visibili, molte persone disabili e non si “incontrano” per parlare assieme.
Di mailing list e di newsgroup ve ne sono decine di migliaia nel mondo; attualmente in Italia esiste il newsgroup it.sociale.handicap che è possibile vedere andando sul motore di ricerca Google (www.google.it) e cliccando sul pulsante in alto a destra “Gruppi”.
Di mailing list ricordiamo “sociale-edscuola” che è una mailing list di Educazione&Scuola, una rivista telematica su Scuola e Formazione (per iscriversi andare a questo indirizzo web: www.edscuola.com/mailing.html), la mailing list “Dw-Handicap” (per iscriversi andare su http://groups.yahoo.com/group/dw-handicap). Ambedue le liste si occupano molto del tema dell’integrazione scolastica. Anche sulla rete telematica eco-pacifista Peacelink (www.peacelink.it) esiste una mailing list intitolata “Volontariato” dove spesso vengono trattati i temi della disabilità. Anche in questo caso diamo un indirizzo web per permettere anche a chi non è iscritto di farsi un’idea del dibattito: www.peacelink.it/webgate/volontariato/maillist.html.
Esistono mailing list a seconda del tipo di deficit; ad esempio a questo indirizzo http://web.tiscali.it/simod/disabili/liste.htm potrete trovare alcune risorse espressamente dedicate ai non vedenti (non tutte sono aggiornate).
Infine, se volete farvi un’idea delle mailing list e dei newsgroup esistenti nel mondo potete documentarvi a questi indirizzo: http://gate.dongnocchi.it/mailing_newsgroup/mailing.htm.
Si potrebbe continuare a lungo con l’elenco, infatti basta mettere in un qualsiasi motore di ricerca le parole disabili, handicap, mailing list, newsgroup, lista e incrociarle tra di loro in più tentativi per accorgersi della moltitudine di riscontri.

Il caso delle community

Le community sono una sezione di un sito web che ha come scopo quello di creare una comunità di lettori/partecipanti al proprio sito. È un modo per fidelizzare la propria utenza/clientela che viene praticato in ogni tipo di sito web (ogni portale ha la sua community). L’esempio migliore di community la si può trovare al sito di Superabile (www.superabile.com). La sezione offre ai propri utenti uno spazio forum e uno spazio chat. I forum sono un qualcosa a metà strada tra le mailing list e i newsgroup; attualmente sono una trentina i forum su Superabile e trattano di svariati argomenti (dallo sport, ai fatti di cronaca, dalla mobilità alla legislazione). Un altro caso di community la si può trovare su Disabili.com (www.disabili.com); in verità è un po’ tutto il sito a essere organizzato come una community. Anche qui abbiamo lo spazio forum (una ventina in tutto) e lo spazio chat.

Di che cosa si parla

Chi scrive in queste mailing list e in questi newsgroup sono soprattutto familiari di disabili, i disabili stessi, gli insegnanti, qualche operatore sociale e qualche volontario/amico. Ma di che cosa si parla in questi spazi? Pur non volendo fare una casistica, vi sono alcuni temi che ritornano  spesso; si trovano molti racconti di esperienze, di situazioni, come le difficoltà di integrazione scolastica per il proprio bambino, la ricerca di un centro specializzato adatto al proprio caso, il metodo riabilitativo efficace sul proprio figlio. È soprattutto osservando il numero dei “replay”, ovvero il numero delle risposte a un particolare messaggio, che si può misurare l’interesse per un dato argomento. Questi esempi che ho appena citato vengono ripresi numerose volte da altri partecipanti che commentano, forniscono un consiglio, criticano il messaggio iniziale. I rapporti che s’instaurano a volte sono molto intensi, le persone cominciano a conoscersi poco a poco, nascono amicizie e intese, a volte senza vedersi mai (altre volte capita anche di darsi degli appuntamenti fuori rete).
Altri argomenti trattati riguardano la segnalazione di un libro, di un seminario o di una trasmissione televisiva, la notizia o il commento di una novità legislativa.
Alcuni esperti della rete dicono che i newsgroup sono gruppi di discussione più ampi, con un numero elevato di messaggi giornalieri, caratterizzati da una certa confusione nei temi trattati; queste peculiarità non facilitano lo spirito di gruppo. Viceversa le mailing list, di solito partecipate da un numero minore di persone e aventi un tema più specifico di discussione, permettono una maggiore coesione del gruppo, un dibattito più approfondito. La mia esperienza personale non è questa, anche i newsgroup offrono delle discussioni interessanti, semmai la differenza è psicologica: a una mailing list ti devi iscrivere e il messaggio di posta elettronica arriva direttamente nella tua casella postale e questo forse può aumentare il senso di appartenenza a un gruppo.
Un discorso a parte merita il caso delle chat. Si “chatta” in tempo reale con un’altra persona, direttamente. I canali in cui si chiacchiera, se si usano dei software specifici sono infiniti perché ogni persona può crearne uno diverso. In questo campo non si può sapere quanto si parla di disabilità, si possono fare solo delle congetture. Le chat facilitano sicuramente un approccio più diretto ed è verosimile pensare che sia il luogo dove una persona disabile può sviluppare relazioni, sia affettive che sessuali, che nel mondo reale ha meno opportunità di trovare.

Le reti sociali

Uno dei tratti distintivi della rete telematica è lo spirito di cooperazione tra gli utenti. Nonostante internet sia diventato un campo di battaglia per tante lotte politico-economiche, questa matrice originaria non è stata certo cancellata. Continua anzi a riproporsi in forme diverse, suggerite dalle innovazioni tecnologiche, come è il caso delle reti sociali. Anch’esse sono un fenomeno recente di internet e stanno sempre più diffondendosi, accompagnate però da alcuni pregiudizi che le vedono come un luogo (virtuale) dove la gente può incontrarsi per degli “intorti”. Certo la ricerca di un partner può essere una motivazione forte, ma le reti sociali non si riducono solo a questo e, anzi, sono destinate a svilupparsi in molte altre direzioni che prevedono il mutuoaiuto sui più svariati argomenti.

Trovarsi in rete

“Si ha una rete sociale quando una rete di computer connette persone e organizzazioni”. Questa è la definizione che dà Fabio Metitieri in un suo articolo pubblicato sul numero di gennaio 2004 di Internet News (articolo da cui prenderò altri spunti). In questo modo si sposta l’attenzione dalle macchine (che si connettono tramite cavi) alle persone che intrecciano invece tra loro relazioni di tipo diverso (amicizia, amore, lavoro…). Le reti sociali offrono i cosiddetti servizi di dating, ovvero delle banche dati con i profili di centinaia di migliaia di persone che possono così conoscersi in rete in base ai loro interessi. Il servizio di dating, che è una sorta di servizio di incontro, è l’evoluzione delle chat e dei messenger, dato che è molto meglio organizzato. Di solito ci si deve iscrivere fornendo alcuni dati come l’età, il sesso, gli interessi, l’area geografica e l’e-mail; una volta completata la registrazione, si è inseriti in un database che è possibile consultare. In questo modo si possono incontrare prima in rete e poi nella vita reale le persone con cui si condividono gli stessi interessi; addirittura, dato che la conoscenza avviene anche tramite presentazione tra utente e utente, si possono organizzare eventi collettivi, dove il gruppo di persone conosciutesi in rete si incontra fisicamente.

Incontri significativi?

Parlare di reti sociali è anche un modo per far vedere che dietro la tecnologia c’è sempre la persona, e che la prima deve essere al servizio della seconda. La diffusione di questo fenomeno del resto è coerente con lo spirito originario della rete internet che è stata, soprattutto all’inizio, una rete costituita dalle relazioni tra persone, allora ricercatori e studenti, oggi il cittadino comune (anche se ancora di un certo status economico).
Del valore poi di questi incontri, di quanto possano essere occasioni di amicizia, di lavoro e rapporti sentimentali significativi, questo è un altro discorso, con i suoi pro e i suoi contro. Facendo solo un esempio, alcuni studiosi del fenomeno sostengono che la facilità che si ha nel mettersi in contatto con gli altri può essere anche un preludio per degli incontri vissuti superficialmente. Una cosa è certa, la maggior parte dei contatti on line che diventano significativi per le persone coinvolte passano poi all’incontro reale: è in quel momento che si cementa, o si sfalda, quanto si era sentito o intuito in rete.

I siti più noti

E ora qualche indirizzo dei siti più famosi che offrono questi servizi. Il più noto è Friendster (www.friendster.com) che si rivolge a chi vuole incontrare degli amici nuovi o dei partner. Linkedin (www.linkedin.com) invece serve per ricercare occasioni di lavoro. Per ultimo citiamo Tribenet (www.tribe.net) che si caratterizza come un luogo dove una persona può farsi degli amici che la possano aiutare in tanti piccoli problemi pratici.
Questi sono siti statunitensi, in lingua inglese, dove è però possibile anche trovare degli italiani; non esistono per adesso dei servizi simili sui siti italiani. L’esistente è soprattutto rivolto al servizio di incontri a scopi sentimentali: il più noto è Meetic (www.meetic.it) che raccoglie nel suo database oltre 600 mila profili di persone. Altri servizi simili sono offerti da Supereva (incontri.supereva.it) e Virgilio (match.virgilio.it).

Gli e-book, i libri elettronici

Leggere on line un libro è un’opportunità oramai a portata di tutti, ma il libro elettronico (l’e-book), a differenza di tante altre innovazioni portate dalle tecnologie dell’informazione, ha trovato e trova diversi ostacoli alla sua diffusione.
Eppure l’e-book è uno strumento indispensabile chi non vede o per chi (molti di più) è ipovedente. Tramite uno screen reader e un sintetizzatore vocale, un testo digitale può essere ascoltato. Ma non solo; anche per chi ha problemi di mobilità, l’opportunità di leggere dal proprio computer un testo senza andare a consultarlo in biblioteca o comprarlo in libreria è uno strumento prezioso. In generale anche per molte altre persone il libro digitale faciliterebbe la vita; pensiamo agli studenti o a quegli insegnanti che vivono in realtà decentrate dove la biblioteca locale è scarsamente rifornita o a tutte quelle persone che non hanno il tempo di “passare in libreria”. Come si vede l’e-book rappresenta un’ennesima rivoluzione nel nostro comportamento, una rivoluzione che però incontra degli ostacoli.

Leggere stanca

Il libro, il bel libro di carta, a cui siamo abituati da secoli presenta in effetti alcune caratteristiche che il libro digitale non offre. È molto “portabile”, lo si può leggere sotto un albero o a letto, sull’autobus attaccati alla maniglia, in spiaggia. I caratteri sono molto definiti e risaltano molto bene sulla pagina bianca, così gli occhi si stancano di meno. Ancora, il libro non è retroilluminato e quindi leggerlo è meno fastidioso di un normale schermo di computer. Non dimentichiamoci che un libro non si scarica mai e lo si può leggere dall’alba fino al tramonto (dopo o prima si può accendere semplicemente la luce). Invece un computer portatile, o un hardware tascabile, qualsiasi ha il limite di una batteria con una durata limitata.
Leggere su uno schermo (almeno fino a oggi) non è così rilassante; da numerosi studi risulta che l’80% dei lettori di internet non legge parola per parola ma scorre la pagina (la “guarda”) e che la lettura sullo schermo è il 25% più lenta di quella su carta (anche per questo una delle più ferree norme di chi scrive sul web dovrebbe essere la sinteticità).

Software e hardware per leggere on line

Occorre a questo punto fare una piccola precisazione. Quando si parla di e-book si tende a confondere le applicazioni che presentano i testi (software) con i dispositivi fisici che ne permettono la conservazione e anche la lettura (hardware).
Per quanto riguarda i primi, esistono varie offerte sul mercato;  i più noti “lettori” di e-book sono il Microsoft Reader, l’Adobe Acrobat Ebook Reader, il Tk3 ebook reader che permette di usufruire oltre al testo anche dei suoni e dei video. Questi software si ispirano per lo più all’immagine che noi abbiamo del libro, offrendo nei loro comandi la possibilità di sfogliare le pagine, di mettere dei segnalibri. Solo poche applicazioni cercano di offrire qualcosa di più – ciò che il libro non può avere – ovvero la possibilità di prendere degli appunti o di interagire con altri lettori.
Hardware: molte persone non sanno che questi libri possono essere letti non solo dai normali computer, anche se portatili, ma da speciali dispositivi. I più noti sono il Notebook e il Tablet PC; si tratta di oggetti di piccole dimensioni, poco pesanti, ma dotati di ampi schermi e di una memoria che può contenere migliaia di e-book (è come avere in un solo “libro” un’intera biblioteca). I limiti di questi dispositivi sono quelli enunciati poco sopra: difficoltà di lettura, scarsa “portabilità”, anche se il mercato offre prodotti sempre più raffinati. Di recente la Sony ha commercializzato LIBRI, un lettore di e-book basato su una tecnologia electronic paper (e-paper), la stessa che in futuro promette l’avvento di display flessibili e arrotolabili. Sì, avete capito proprio bene, in poco tempo avremo sul mercato dei prodotti che potremo utilizzare come dei libri, li potremo piegare e mettere in tasca, li potremo leggere da qualsiasi angolazione. Saranno una sorta di fogli di plastica su cui potremo leggere intere biblioteche.

Link e multimedia

Di fatto gli e-book possono offrire molto altro che non la sola lettura. Fin dagli anni ’80, lo statunitense George Landow sperimentava con i suoi studenti dei software collegati a una rete telematica che permettevano di leggere una moltitudine di testi, di commentarli e di collegarli tra di loro.
Inoltre come abbiamo già visto nel caso del Tk3 ebook reader, i libri elettronici non offrono solo testi ma qualsiasi elemento multimediale.
Possiamo così immaginarci, in un futuro non molto lontano, dei libri da leggere, da ascoltare e da vedere; dei libri collegati alla rete, da cui possono attingere continuamente delle nuove risorse. In questo modo anche la figura del lettore viene profondamente modificata, in quanto diventerebbe un lettore – ma anche un utilizzare di materiale audiovideo – che può commentare quello che legge, magari confrontandosi con altre persone in rete, diventando lui stesso una sorta di autore.

Le risorse sul web

Torniamo ora a quello che possiamo già fare: per chi voglia conoscere più approfonditamente cosa sono gli e-book e dove possa trovarne gratuitamente, consigliamo alcuni siti su internet.
In lingua italiana il più noto è Liber liber (www.liberliber.it) che ha festeggiato da poco i suoi 10 anni di esistenza. Liber Liber  è noto per il progetto di biblioteca telematica accessibile gratuitamente (progetto Manuzio) che raccoglie oramai centinaia di opere non coperte dal diritto d’autore (ovvero il cui autore è morto da più di 70 anni o dove questi diritti non sono richiesti da chi li detiene). Il lavoro è il frutto della collaborazione di centinaia di volontari che si occupano della digitalizzazione dei testi e della loro correzione.
Esistono poi dei siti costruiti per i non vedenti, come quello dell’Istituto Cavazza (www.cavazza.it) che offre 2500 testi coperti dal diritto d’autore che possono essere visionati solo tramite un’iscrizione in cui si danno le prove del proprio deficit. Ancora più vasto è il servizio offerto dalla Fondazione Galiano (www.galiano.it) sempre per i non vedenti.
Per avere, invece, un’idea approfondita di cosa siano gli e-book, è molto interessante la sezione offerta da Alice (www.librialice.it/ebook/ebookhome.htm) dove sono elencate anche varie risorse dove prelevare gratuitamente dei libri elettronici.