Una “questione” di tempo
“Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”. Questa frase di Kant riassume il pensiero illuminista e laico della filosofia moderna. Il pensatore tedesco invita a trattare ogni persona umana come fine in se stesso, come degna di attenzione e di cura. Kant è forse il più grande pensatore laico; egli costruisce la sua visione del mondo e la sua morale cercando di attingere alla forza della ragione umana pura, e lascia in secondo piano le questioni teologiche sull’esistenza di Dio e sull’immortalità dell’anima. L’uomo è fine in se stesso, non solo in quanto creatura di Dio, ma soprattutto in quanto persona che non può mai essere piegata agli scopi di altri esseri. Ma da quando si può parlare di “persona”? Da quando l’uomo comincia a essere tale? Tutti i medici iniziano a contare i giorni della gravidanza dal momento del concepimento; e questa non è una questione di fede, non vengono chiamate in causa le credenze del singolo ginecologo. L’embrione viene considerato un essere vivente in crescita, come mostra l’etimologia, dal greco èmbryon, participio del verbo èmbryo, che significa “crescere dentro”. Appunto: in crescita, ma già vivente. Vale la pena spendere qualche parola sulla questione sollevata dal filosofo Emanuele Severino, secondo cui l’embrione non è un uomo, perché non lo è in atto e non è corretto neppure definirlo tale in potenza, data la contraddittorietà di questo concetto aristotelico. Tuttavia, come osserva giustamente il filosofo Enrico Berti, l’embrione umano non può svilupparsi come gatto o locomotiva: diventerà necessariamente uomo. Severino ha ribattuto alla critica affermando che, nel suo articolo, intendeva dire non che un embrione umano può essere in potenza un non uomo, ma che come ogni potenza ha in sé gli opposti, in questo caso uomo vivo-uomo morto. È a tutti evidente che, posta la questione in questi termini, ogni uomo vivo è potenzialmente morto. Anzi, diverrà necessariamente, presto o tardi, uomo morto, proprio per la sua stessa natura umana: è soltanto una questione di tempo. La potenza è degli opposti, ma questo significa, come dice Aristotele stesso nella Metafisica, che i due opposti non si possono attualizzare contemporaneamente, ma nulla vieta che divengano in atto uno dopo l’altro, come è appunto il caso della vita e della morte nell’uomo. In conclusione, dal momento che l’embrione umano non può svilupparsi altrimenti che come uomo, vivo o morto che sia, e non come gatto o locomotiva, esso sarà necessariamente uomo. Questa sembra essere diventata una questione fra cattolici e laici, invece è semplicemente una questione logica, con riscontri oggettivi e non legati a un credo religioso. Anche i non credenti non possono togliere valore alla vita né dire quando essa comincia, anche perché gli stessi scienziati sono divisi sulla data fatidica: questo dimostra una certa arbitrarietà per coloro che vogliono trovare una data fittizia, stabilita in laboratorio, da un certo mese in poi. L’unico punto fermo è che la vita ha inizio nel momento del concepimento: questo è il solo dato certo. Se non si ammettesse ciò, la vita tornerebbe a essere vista, come nel Medioevo, alla stregua di una sorta di soffio vitale infuso dall’alto, in un momento non precisato. Fortunatamente la biologia e la medicina hanno fatto passi da gigante, giungendo a scoprire che la vita fa parte già di quelle minuscole cellule che formano l’embrione fin dal preciso istante del concepimento: esse contengono tutte le informazioni che il DNA umano fornisce sull’individuo cui appartiene. Come chiamare allora qualcosa che ha in sé tutte le informazioni, le coordinate necessarie per essere uomo, e che è già vivo? Quale criterio fittizio potrebbe stabilire il momento in cui la vita, che verrebbe a essere una sorta di magica illuminazione, entra in un embrione? Per quale via? E soprattutto, con quale autorità qualcuno potrebbe prendersi la responsabilità di pronunciarsi su questo? La scienza e i dati empirici di certo sono più affidabili di queste supposizioni astratte: è stato provato che, a differenza di quanto si pensava fino a qualche tempo fa, l’embrione è in grado di provare dolore e di rapportarsi con la madre, già nella prima settimana dal concepimento. Inoltre il concetto di uomo è spesso criticato, nella filosofia contemporanea, anche quando si tratta di individui adulti: alcuni filosofi sono arrivati a dire che un soggetto in coma, o privato degli arti o di alcune facoltà sensoriali o mentali non è (più) un uomo. A maggior ragione, l’arbitrarietà e il relativismo in materia di embrioni, che hanno le loro caratteristiche umane meno in evidenza, sarà portato all’estremo. Proprio per questo è necessario stabilire dove stia la verità. Nel nostro caso siamo fortunati, perché è proprio l’empirìa a fornirci una verità certa e scientificamente osservabile e provata, grazie ai progressi delle moderne scienze biologiche e mediche e degli strumenti a nostra disposizione. Quest’ultima osservazione rende evidente il fatto che non si tratta di una discussione fra fede e ragione, fra laici e credenti, ma si tratta di una questione oggettiva.
Proprio in nome del progresso scientifico si cerca di giustificare la ricerca sugli embrioni, per ottenere cellule staminali che servano per curare determinate patologie. Ma ciò significa sacrificare la vita di alcuni uomini per tentare di salvarne altre, che hanno già avuto la possibilità di vivere. Certi uomini, quelli che non possono opporsi né protestare, vengono così ridotti a pezzi di ricambio, a essere un oggetto di studio, un mezzo, e non un fine, come ogni individuo dovrebbe essere considerato. Si rischia di portare a termine quello che era il folle sogno del nazismo, oggi demonizzato da tutti a parole, ma non nei fatti: questi embrioni possono essere selezionati e scelti per le loro caratteristiche come a un supermercato dell’uomo perfetto, che più si avvicina ai canoni della bellezza esteriore e della efficienza produttiva. Ma la varietà della specie è la sua ricchezza e la sua possibilità di sopravvivenza.
Io sono una persona disabile e molte volte vengo chiamato a parlare della sofferenza, ma la prima cosa che dico è: “Chi ha detto che io soffro?” Quando bevo un bicchiere di buon vino sono felice, quando parlo con una bella ragazza sono felice, quando vedo la mia squadra del cuore vincere sono felice. Certo che quando ho male da qualche parte soffro, ma è una sofferenza comune a tutti gli uomini. Anche questa è una questione di tempo: c’è un tempo per gioire e uno per soffrire. Anche selezionando embrioni perfetti, chi dice che saranno uomini felici? Non è certo una selezione praticata arbitrariamente in un laboratorio a stabilire cosa dia la felicità.
La parola del corpo
Cercando per curiosità le parole handicap, disabilità e diversabilità su Internet, attraverso l’utilizzo di un comune motore di ricerca, mi sono trovato di fronte a dati davvero sorprendenti. Tali vocaboli hanno letteralmente milioni di ricorrenze nel caso di “handicap” e “disabilità”, e migliaia di ricorrenze nel caso di “diversabilità”. Queste categorie cui si fa così spesso riferimento sono troppo generiche, come dimostra anche questa ricerca, grazie alla quale è parso evidente come tali parole vengano usate per indicare le situazioni più disparate. D’altra parte, quanto più un vocabolo è generico e usato in un senso lato, allargato, tanto più esso perde qualcosa nella pregnanza del significato.
I termini “disabilità” e “diversabilità” non solo sono molto generici, ma sono anche troppo legati al mondo del lavoro, anzi, dell’industria e della produzione. La categoria di handicap come la conosciamo oggi nasce in Inghilterra all’inizio del diciannovesimo secolo, durante la seconda rivoluzione industriale, quando il valore di una persona divenne commisurato alle sue capacità di lavorare manualmente in una industria e di ripetere alcuni gesti in maniera automatica. Come si vede nel film di Charlie Chaplin Tempi Moderni, il protagonista è costretto a compiere ripetutamente e meccanicamente sempre il medesimo gesto, all’interno della catena di montaggio, tanto che tale movimento diviene per lui un tic; coloro che, invece, non sono in grado di compiere tale gesto a causa di un qualche problema fisico o psichico vengono a trovarsi in una condizione di emarginazione e di conseguente indigenza. Analogamente, il concetto di disabilità è associato alla non abilità di un certo individuo.
Come abbiamo visto, esistono tre parole, handicap, disabilità e diversabilità, che dovrebbero esprimere un’unica realtà, ma è necessario approfondire questo discorso. Non è soltanto una questione di termini, il linguaggio non è solo l’espressione fonica, ma è ciò che fa sì che le cose siano percepite in un determinato modo: “Nessuna cosa è/dove la parola manca”, come dice il poeta Stephan George nella sua poesia La Parola. Commentando questa poesia nel saggio In cammino verso il linguaggio, Heidegger arriva a sostenere che il linguaggio è la dimora dell’essere. Il filosofo tedesco afferma che il linguaggio deve dire qualcosa e mette in luce la differenza che esiste fra parlare e dire. Si può parlare tanto e non dire niente, si può tacere e, attraverso il silenzio, dire molto. Parlare l’uno all’altro significa dire l’un l’altro qualcosa, mostrare reciprocamente qualcosa e credere in qualcosa. Il non espresso non è soltanto ciò cui è mancata l’espressione fonica, ma il non detto, il non ancora mostrato, il non ancora giunto a manifestarsi.
È significativo pensare all’etimologia della parola “dire”: essa, infatti, anche nell’originale latino dicere, presenta la stessa radice del greco déiknumi, che significa “mostrare”. Infatti la parola deve proprio mostrare qualcosa, rendere manifesto il suo significato; invece i vocaboli “disabilità” e “diversabilità” non mostrano apertamente il loro senso, anzi, tendono a nascondere la realtà delle cose. Anche per Aristotele le parole rappresentano gli oggetti, attraverso le affezioni dell’animo: il linguaggio, cioè, deve rispecchiare la realtà.
Ho letto di recente un articolo che racconta la storia di un uomo che, a causa di un aneurisma cerebrale, aveva perso non solo gran parte delle sue funzioni motorie, ma anche la memoria e l’uso della parola. Fortunatamente, grazie all’aiuto di un carissimo amico, è riuscito a recuperare anche quest’ultimo, e il cammino lungo e difficile per riuscirvi è stato raccontato dall’amico in un libro. Esso racconta vari aneddoti di questa riabilitazione, durante la quale il malato inventava di sana pianta strane parole per indicare oggetti di uso comune, quasi a volerne ricostruire il nome proprio, senza però ricordarsi quello corretto. In tal modo aveva ribattezzato “libro” con “runo”, “pagine” con “lapsule” e via dicendo. La cosa più strana, però, era che, mentre cercava di imporre un nome proprio agli oggetti materiali, le persone, uomini e donne che fossero, dalla moglie, agli amici, alle infermiere erano diventati tutti mario, rigorosamente con la minuscola. Questo mi ha fatto pensare proprio alle parole in questione, “handicap”, “disabilità” e “diversabilità”: usare queste parole in modo generico, come di solito avviene, è esattamente la stessa cosa che chiamare tutti “mario con l’iniziale minuscola”. Infatti ogni singolo handicap, ogni disabilità è diversa da un’altra, perché ha cause diverse o semplicemente perché si tratta di persone diverse.
Pertanto la cosa più corretta da fare sarebbe partire dal corpo e non dall’handicap, per non creare equivoci. Partire dal corpo significa chiamare le cose col loro nome, distinguere cioè una tetraparesi spastica da una sindrome di Down o da un deficit sensoriale, anche se possono avere effetti simili, anche se questo non è molto comodo e richiede qualche sforzo critico in più, nel senso letterale del termine, da krino, distinguere. Infatti, usare i “nomi propri” delle diverse forme di disabilità dice già quello che uno può fare o non può fare, non in modo generico, ma concretamente. Ad esempio, se sono affetto da tetraparesi spastica non posso correre i cento metri piani in dieci secondi, ma posso laurearmi, avere molti amici, ecc. Ecco perché partire dal corpo significa evitare, per quanto possibile, equivoci e una eccessiva generalizzazione, che tiene conto di cosa una persona non ha o non sa fare, e non della persona stessa. Il tentativo di aggirare questi ostacoli che si compie utilizzando la parola “diversabile” è senz’altro apprezzabile, perché toglie l’aspetto negativo presente negli altri due vocaboli, ma ricade nello stesso difetto di questi, essendo comunque troppo generica, dal momento che non dice nulla della persona, anzi, dice una caratteristica comune a tutti, quindi ancora più generica, dal momento che tutti noi abbiamo, in quanto uomini, abilità differenti.
L’isola dei normali
Oggi più che mai il potere dei mass media, della televisione in particolare, di influenzare l’opinione pubblica e di creare correnti di pensiero è così forte da sembrare quasi esclusivo. È soprattutto la televisione a inculcare i modelli che la gente cerca di imitare, ovvero i criteri che definiscono la cosiddetta normalità e, di conseguenza, escludono tutti quelli che non vi si adeguano. Ma si tratta dell’estremizzazione di un fenomeno che è sempre esistito in altre forme. Nell’antica Grecia, per esempio, uno dei fondamenti della cultura di massa era costituito dai poemi di Omero. Nell’Iliade, Tersite è deriso da tutti perché gobbo e storpio, dunque inadatto per la guerra. Oltretutto osa opporsi ad Agamennone dicendo che gli Achei saranno sconfitti. Omero presenta questo antieroe come un personaggio del tutto negativo. Più che una descrizione, ne fa una caricatura: “Era l’uomo più brutto che venne sotto Ilio. Era camuso e zoppo di un piede, le spalle erano torte, curve e cadenti sul petto; il cranio a pera, e radi i capelli” (II, 216-219). Aveva una voce stridula e, oggi diremmo, non sarebbe certo un personaggio telegenico, che “buca il video”. Anzi, Tersite, tra i primi “disabili” della storia della letteratura, svolge un “compito degradato di suscitatore di riso, miserevole contraltare alla prestanza epica dei guerrieri protagonisti, i quali – per statuto sociale e simbolico – non fanno mai ridere, semmai fanno spesso piangere nemici in campo o semplici contraddittori” . È interessante notare, inoltre, che Tersite viene deriso sebbene abbia detto in realtà le stesse cose affermate pochi versi prima dall’eroe Achille. Le stesse parole, pronunciate da un eroe bello, forte e vincente, secondo l’ideale greco della kalokagathìa, e da un inabile alla guerra, brutto e petulante, assumevano valenze completamente diverse agli orecchi dei Greci che le ascoltavano.
Oggi, nella cultura di massa, non è quasi mai la letteratura a creare i personaggi. Quasi sempre questo ruolo è assunto dalla televisione e, in particolare, negli ultimi anni, dai reality shows. Recentemente un articolo proponeva in maniera provocatoria la partecipazione di un disabile a un reality come l’Isola dei Famosi. Temo che un disabile in un reality non sarebbe visto in maniera positiva; farebbe crollare l’audience, a meno di non suscitare nella gente un’ondata di compiaciuto pietismo. Il meccanismo di questi programmi non prevede la presenza di disabili che non potrebbero portare a termine le prove che vengono proposte.
Inoltre, la televisione ha tempi rigorosamente veloci, spesso addirittura frenetici, anche nelle trasmissioni cosiddette “di approfondimento”, con discussioni e dibattiti. Come potrebbe parteciparvi chi non riesce a parlare velocemente? In un dibattito televisivo un silenzio che duri più di un secondo suscita già qualche turbamento. Se poi una persona dovesse impiegare cinque secondi per cominciare a esprimere la sua opinione, sarebbe probabilmente interrotta dal conduttore che, convinto di agire nell’interesse del pubblico, parlerebbe per lei (dicendo, naturalmente, quello che pensa lui). E se addirittura quella persona dovesse impiegare dieci secondi, come resistere alla tentazione di valorizzare l’attesa inserendoci uno spot pubblicitario?
La normalità che in questo modo viene definita è quella della prontezza nello scambio di battute, in un dibattito in cui è raro che gli interlocutori si ascoltino veramente, perché sono piuttosto interessati a far trionfare la loro tesi. La maggior parte delle discussioni televisive è impostata secondo questo modello, che risponde più alla logica dello spettacolo che a quella dell’informazione e dell’approfondimento. Come tra gli eroi dell’Iliade, non ci sono tanto dialoghi quanto alterchi che introducono al duello. Non solo i portatori di deficit, ma quasi tutte le persone sarebbero inadatte o si sentirebbero a disagio a partecipare a questo tipo di dibattiti.
Il modello di normalità così proposto è proprio come un’isola chiusa in se stessa, dove si giocano giochi che non hanno alcun riferimento alla vita vissuta dalle persone reali. Ma proprio ciò rivela che tutti i modelli sono fondamentalmente falsi, perché gli uomini e le donne reali sono sempre portatori di qualche differenza – e, perché no, anche di qualche disabilità – personale.
Se sappiamo accettare noi stessi al di là dei modelli, scopriamo che la vita reale è molto più interessante di uno spettacolo che di reality porta soltanto il nome.
Volontariato: il crocevia del corpo
“Vengono sempre molte persone a trovarmi. Tante persone. Così diverse e con mondi apparentemente inconciliabili fra loro. Però con me ciascuno ha un rapporto. Sì, attorno a questo letto c’è il mondo rappresentato, il mio piccolo grande mondo”.
Chiara M., Crudele dolcissimo amore, Ed. San Paolo, Milano, 2005, p. 134.
Questo libro di Chiara M. racconta la storia di una ragazza attiva e vitale che si trova, giovanissima, a dover combattere contro una malattia degenerativa che la mina fortemente nel fisico, fino a renderla completamente non autosufficiente. Tutta la vicenda narrata è un esempio evidente di come la persona disabile riunisca attorno a sé persone completamente diverse l’una dall’altra. Chiara, infatti, negli anni della malattia sembra acquisire un carisma tutto particolare: ovunque vada trasmette a chi la incontra una serenità e un’energia che a lei, a sua volta, vengono dalla profonda fede, la quale le permette di affrontare con coraggio anche gli aspetti più gravi e dolorosi della sua malattia. La sua esclusione, derivata dal deficit, produce inclusione. Tante persone, completamente diverse, si ritrovano accomunate dall’affetto e dall’ammirazione per lei, ma anche dalla volontà di esserle d’aiuto nelle sue necessità quotidiane. Da lei, tuttavia, sono proprio questi amici e assistenti a ottenere i benefici maggiori, a essere realmente aiutati da Chiara nei momenti bui e nelle difficoltà quotidiane.
È proprio il desiderio di aiutare gli altri che poi diventa sentirsi accolti come si è, con tutti i propri deficit invisibili. Coloro che, aiutando la persona disabile, ne cercano il conforto e l’amicizia e sono arricchiti da tale conoscenza, sono spesso portatori di svariati deficit, anche se non altrettanto evidenti.
La persona con deficit ha bisogno di cure essenziali che tutti o quasi possono darle. Per dare da bere un bicchier d’acqua, ad esempio, è indifferente essere laureati in lingue orientali o fare il manovale. Ci sono casi in cui l’aspetto dell’assistenza è interamente curato dai genitori. La mamma o il papà sono gli unici “esperti capaci di manovrare” il figlio con deficit. Questo, tuttavia, porta all’isolamento, e anche al problema cosiddetto del “dopo di noi”, ovvero di cosa ne sarà del figlio disabile quando i genitori verranno a mancare. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, quasi tutti gli amici possono aiutare. Sono proprio i genitori a doversi aprire per creare dei figli che sappiano accogliere e valorizzare personalità e caratteri tanto diversi l’uno dall’altro, che sappiano comprendere l’identità più profonda di ogni persona.
Infatti, tutti noi abbiamo molte identità, molte maschere intercambiabili che ci servono a entrare in relazione, con i diversi gruppi di persone, che compongono il nostro universo: con i colleghi di lavoro possiamo avere in comune un progetto, anche se ci stiamo reciprocamente antipatici; con altri possiamo condividere il tifo per una squadra di calcio anche se, politicamente, abbiamo idee opposte. Gli esempi potrebbero continuare all’infinito. Ognuno possiede tante maschere quanti sono i suoi interessi, ma queste maschere non sono tutte uguali tra loro: alcune ci stanno strette e le indossiamo di malavoglia, altre invece ci calzano a pennello, tanto che sembrano il nostro vero volto.
Tra le tante maschere che ci piace indossare c’è anche quella del “volontario”, del buon ragazzo che si occupa delle persone in difficoltà. Ma questa maschera ha una caratteristica: è più fragile delle altre, si rompe con maggiore facilità, lasciando così vedere il suo volto autentico. Se è vero che a ogni punto di aggregazione sociale, a ogni crocevia corrisponde un’identità e una maschera, al crocevia del corpo questa identità viene messa radicalmente in discussione, e ciò permette di scoprire chi si è veramente, consentendo anche agli altri di instaurare una relazione autentica.
Quando uno desidera “aiutare” gli altri, infatti, si scontra con delle difficoltà dovute anche al carattere di chi deve essere aiutato. Per questo le maschere cadono, e cadono le illusioni che assistere gli altri sia una cosa semplice e bella. Anche in questo, come in tutte le attività e in tutti i rapporti umani, ci sono molte complicazioni e motivi di scontro che non possono essere superati mantenendo la maschera di “volontario” di cui si tende a dotarsi. Questo, infatti, è un tipo di rapporto molto personale che richiede di mettersi in gioco per come si è veramente, senza ipocrisie, perché inevitabilmente si è a contatto con un’altra persona in un modo molto intimo. Ciò richiede la massima fiducia gli uni nei confronti degli altri, e quindi è necessario conoscersi molto bene, senza finzioni: insomma, è una questione di feeling. Se non si ha fiducia nel proprio operatore, per esempio, non si riesce neppure a permettergli di svolgere i compiti più semplici, come farsi dare da bere.
Le maschere possono essere portate solo fino a quando non si entra in contatto con ciò che c’è di più intimo nell’altro, con il suo corpo: a quel punto l’attore deve lasciare posto alla persona reale.
E vinse la tartaruga: elogio della lentezza
“Potrei essere rinchiuso in un guscio di noce e sentirmi re di sconfinati spazi”. (W. Shakespeare, Amleto). Questa citazione è la preferita di Stephen Hawking, scienziato erede della cattedra di matematica applicata che fu di Newton a Cambridge, famoso per i suoi studi sull’universo in espansione e i buchi neri, ma soprattutto per il fatto di compiere questi calcoli complicatissimi e queste ricerche a memoria, essendo da più di 30 anni costretto all’immobilità, ora quasi totale, dalla sclerosi laterale amiotrofica, malattia che, di solito, non concede più di 2 o 3 anni di vita dal momento della sua diagnosi. Questa sua resistenza alla malattia si unisce a capacità intellettuali che fanno sì che venga sovente definito l’erede di Einstein, Newton e, soprattutto, Galileo, il suo scienziato preferito.
Proprio in nome di questa sua stima particolare per Galileo Galilei, Hawking ha accettato l’invito della Città di Padova a tenere una lezione davanti a 4.000 studenti delle scuole superiori, nonostante ormai viaggi pochissimo e, avendo perso del tutto l’uso della voce, si esprima solo attraverso un sintetizzatore vocale che aziona col movimento delle palpebre.
L’aspetto che più colpisce di questo evento, al di là del contenuto scientifico della lezione, è l’attenzione che questo gruppo di adolescenti ha prestato, incantato, alle parole di Hawking. Parole espresse, dicevamo, con immensa fatica, che proprio per questo hanno affascinato i 4.000 studenti che ascoltavano la traduzione in religioso silenzio e protesi nello sforzo di cogliere ogni singola parola dello scienziato.
Gli stessi professori si sono detti estremamente meravigliati di tanto, inaspettato silenzio e disciplina e di una tale attenzione per una lezione, oltretutto particolarmente impegnativa da seguire, considerando non solo l’argomento, ma soprattutto le difficoltà di espressione di Hawking.
Ciò stupisce ancora di più nell’era della comunicazione rapida e superficiale degli sms e delle e-mail, che rispecchiano ormai gli unici sistemi che i giovani conoscono per comunicare fra loro. Senza il cellulare o il computer, strumenti che imparano a usare fin dalla più tenera età, i giovani non riuscirebbero più a dirsi nulla, a mettersi d’accordo per vedersi, o anche per non vedersi, ma per parlarsi attraverso le chat o il telefono.
Dunque da cosa deriva tutta questa attenzione dedicata a chi, come Stephen Hawking, ha difficoltà a esprimersi rispettando i tempi frenetici imposti dalla comunicazione in società, in televisione, in politica, ecc.? Non può essere solo una questione di buona educazione, anche perché, come ammettono gli stessi professori, questi ragazzi ne sono quasi del tutto privi. Il fatto è che si rimane davvero colpiti da un modo così diverso di comunicare, cui non si è abituati. Si pensi ai tanti che si esprimono con difficoltà e, soprattutto, lentezza, e che non dispongono dei sofisticati mezzi di cui si serve Hawking, ma affidano la propria comunicazione a una tavoletta di plexiglass con le lettere dell’alfabeto, o a un operatore che traduca, o a sintetizzatori vocali e via dicendo. Anche queste persone, spesso, come è nella mia personale esperienza, ottengono grande attenzione e un reale sforzo nell’ascolto di quanto cercano di esprimere.
I giovani soprattutto, ma anche gli adulti capiscono che è questa la vera sfida, una grande sfida umana e della comunicazione. Non c’è nulla di negativo né noioso in questa lentezza, c’è solo una maggiore elaborazione e profondità di concetti, da parte di chi ha tempo di pensare bene prima di parlare, perché non si può permettere (fortunatamente) di dare risposte istintive o precipitose, cosa che la velocità del parlato spesso non consente di fare. La lentezza, che è quasi sempre vista come qualcosa di negativo e penalizzante, può essere dunque una grande risorsa.
Questo elogio della lentezza ricorda il famoso paradosso del filosofo Zenone, secondo il quale Achille piè veloce, gareggiando con una tartaruga, non avrebbe mai potuto raggiungerla, se solo le avesse lasciato qualche metro di vantaggio. Ugualmente, sembrano esistere due tipi di parole: parole-tartaruga e parole-Achille, più veloci le seconde, più lente le prime. Le tartarughe vanno lente perché si portano dietro la loro corazza, che è anche la loro casa, e devono coordinare i movimenti con molta precisione. Le parole-Achille, invece, sono leggere e passano, a volte senza che nessuno se ne accorga, e proprio per questo perdono il confronto con le parole-tartaruga, che vincono sulla lunga distanza.
E a proposito di paradossi, anche la posta elettronica ne ha uno: il suo simbolo è una chiocciola che, al pari della tartaruga, portandosi dietro il guscio, procede lenta, esattamente all’opposto di quello che in realtà avviene per le e-mail.
Anche la citazione iniziale è un paradosso. Questo termine, etimologicamente, indica qualcosa che va contro l’opinione comune: i paradossi mettono in luce le contraddizioni e aiutano a comprendere la realtà al di là delle apparenze. Ciò è molto utile in una società come la nostra, basata proprio sull’immagine. Il paradosso dunque è come l’handicap: rivela proprio ciò che la mentalità comune tende a nascondere o a dimenticare. Per questo io faccio il tifo per la tartaruga.
Il Codice Da Vinci della solitudine
Dal Trattato della pittura di Leonardo da Vinci: “E se tu sarai solo, tu sarai tutto tuo, e se sarai accompagnato da un solo compagno, sarai mezzo tuo”.
Leonardo è da considerarsi fra i capostipiti dell’epoca moderna sia per le sue invenzioni, sia per il suo pensiero che si contrappone a quello medioevale.
In particolare, in questa sua frase è evidente l’anelito dell’uomo moderno e contemporaneo a non dipendere da nessuno, a essere l’unico protagonista del suo destino e a vivere in completa autonomia per essere “tutto suo”.
Questa è anche l’ambizione delle persone con deficit, o almeno di quelle con difficoltà fisiche. È un desiderio che, anche se è naturale, viene ingrandito molto dai modelli di vita proposti dalla società di oggi. Bisogna fare una distinzione tra la solitudine dell’artista o del letterato e quella di vita. Ad esempio io, per “creare i miei capolavori”, ho bisogno anche di stare un po’ da solo, ma nella vita quotidiana mi piace stare in compagnia e questa per me non è soltanto una necessità dovuta ai miei bisogni concreti, ma rappresenta un piacere.
Scrive Steiner nelle sue Grammatiche della Creazione: “Nelle arti, nella musica, nella filosofia e in quasi tutta la letteratura seria, la solitudine e la singolarità sono essenziali. Affermano che soltanto nella solitudine austera si può percepire la pulsazione della vita nella sua vibrazione più intensa”. E Bichsel: “Scrivere è un lavoro solitario, leggere è un lavoro solitario. La letteratura è una forma di solidarietà fra solitari”.
Queste affermazioni sono vere, se si tiene conto della distinzione fatta prima. In questo caso si fa riferimento a ciò che si potrebbe definire un luogo comune, quello della solitudine e dell’esclusione sociale di animi sensibili e introversi quali quelli degli artisti, dei poeti e dei geni. Tuttavia, nel mio caso, la lettura e la scrittura non sono lavori solitari: anche se l’idea per scrivere o per leggere è solo mia, nella pratica io scrivo e leggo sempre con qualcuno e questa non è per me soltanto una questione di necessità concreta, ma il confronto con chi scrive e legge per me mi arricchisce. Questo dialogo mi aiuta a trovare nuove fonti di ispirazione o ad approfondire le mie argomentazioni, grazie al confronto diretto e immediato con chi scrive per me e, magari, intanto commenta le mie parole.
Anche la psicologia clinica riconosce che, nella solitudine, esistono moltissime sfaccettature: talvolta essa è forzata, imposta dalle circostanze della vita. Altre volte la solitudine è cercata, come fuga dagli affanni della quotidianità o, come dicevamo prima, come fonte di ispirazione creativa. Vi sono anche solitudini imposte dalla società. I mezzi di comunicazione, spesso, invitano a isolarsi, a distinguersi, accentuando l’individualismo. Ma, come dice Aristotele, l’uomo è animale sociale. Per sua stessa natura non è fatto per vivere isolato, non è autarchico, ma ha bisogno dei suoi simili non solo per vivere meglio la propria vita sociale, ma ne ha necessità proprio per sopravvivere. Anche l’artista, lo scrittore, il creativo si ispirano alla vita quotidiana, che è fatta di relazioni di tutti i tipi. Quindi senza queste relazioni anche la solitudine creativa non porterebbe risultati. Inoltre, l’arte è creata perché tutti ne possano fruire: nessun artista dipinge per se stesso, nessuno scrittore si aspetta di essere l’unico a leggere i propri scritti.
L’isolamento volontario diventa una forma di egoismo: il non voler ricevere nulla dallo scambio col prossimo implica necessariamente il non mettersi a disposizione a propria volta, a non condividere con la società tutta i propri carismi, le proprie abilità. La solitudine può essere un momento utile per la meditazione, per elaborare i pensieri e le emozioni, ma solo se questo porta frutti che siano condivisibili con gli altri, e arricchiscano non solo noi stessi ma anche chi ci sta vicino. La solitudine feconda non può prescindere dalla relazione con l’altro senza scadere in isolamento, poiché condurrebbe al rifiuto dell’altro come diverso da sé.
Vivere autonomamente è di certo una grande conquista per la persona con qualche difficoltà e, grazie ai progressi della tecnica, oggi non è più un’utopia. Ma l’autonomia non significa isolamento. Si può essere autonomi anche se si vive in compagnia di qualcuno. Per essere “tutto tuo” è necessario confrontarsi con gli altri, perché solo grazie al confronto con chi ci sta vicino si forma e si prende coscienza della propria individualità e personalità
La frase di Leonardo è come il Codice Da Vinci: bisogna interpretare bene le parole del grande maestro. D’altra parte i suoi capolavori non sono mai soli!