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Vestita di Nuvole

Il racconto di una madre che poco alla volta si accorge che il proprio figlio ha qualcosa che non va. Il rapporto con i medici, le mille visite e le mille diagnosi da parte di tecnici indifferenti, distanti o addirittura ostili. La possibilità di trovare una via di uscita grazie alla capacità di reazione dei genitori

Medici

Letizia fece dunque il primo ingresso nella sua casa con tutti gli onori. Ilgrande fiocco rosa campeggiava sulla porta mentre, circondata dai miei bambini,entravo respirando felice l’aria di famiglia.
I primi giorni trascorsero abbastanza sereni, anche se Letizia non si attaccavaal seno e trascorreva quasi tutte le notti a piangere.
Percepivo uno strano disagio quando provavo ad allattarla. Avevo la nettasensazione che Letizia rifiutasse il mio seno, anche se in realtà volevaattaccarsi. Per un motivo che non riuscivo a spiegarmi lei non voleva me! Ne eroconvinta. Del resto non voleva stare nemmeno in braccio e anche questo mi facevasoffrire.
Istintivamente, avevo sempre preso in braccio o accarezzato i miei bambini perconsolarli. Ma con Letizia non funzionava. Anzi, sembrava che queste due cose lainfastidissero ancora di più.
Ero molto confusa e non sapevo più cosa pensare quando, a una settimana dallasua nascita, notai che, durante i brevi agitati sonnellini che faceva, le suebraccia scattavano in modo ritmico.
Provai a cambiarle posizione, mettendola a pancia in sotto, ma lei odiava starein quel modo (strano, vero?) e quindi la sistemai nuovamente supina.
Appena si appisolava gli scatti ricominciavano.
Chiamai quindi Tony. Ero spaventata. In quel momento tutte le ansie accumulatein quei giorni diventarono lacrime e nessuno riusciva a spiegarsi il perché ditanta disperazione da parte mia.
Insistetti molto e riuscii a convincere Tony a portare Letizia al prontosoccorso pediatrico.
C’era qualcosa che non mi convinceva. Mi sembrava infatti di riconoscere inquegli scatti qualcosa che mi faceva temere un disturbo epilettico.
Appena saliti in macchina, Letizia cominciò a piangere disperatamente. Sicomportava sempre così quando veniva avviato il motore, ma solo in quel momentomi resi conto che mia figlia era completamente diversa dai suoi fratelli.
Mi convinsi che c’era decisamente qualcosa che non andava.
Sono stati tanti i medici che Letizia ha dovuto incontrare, ma il pediatra chela visitò quella sera fu uno dei più superficiali e mi negò l’opportunità diriconoscere, ad appena una settimana dalla sua nascita, i problemi neurologicidella bambina. E quindi di fare subito qualcosa per lei.
La descrizione degli scatti di Letizia non bastò a convincerlo della presenzadi un problema.
Considerai molto scrupolosa la sua visita neurologica, ma evidentemente non eramolto aggiornato.
Letizia aveva un riflesso di Moro incompleto (quella particolare espressionespaventata che assumono i neonati quando cadono, anche leggermente,all’indietro, accompagnata da un tipico allargare le braccia) ma a questo eglinon diede molta importanza.
Inoltre, quando tentò di farla camminare (tutti i neonati, se sostenuti, hannoun riflesso innato di marcia, che perdono nel giro di breve tempo), Letizia -invece dei due o tre passi che generalmente i neonati accennano – sembrava nonvolersi fermare più.
"Dove vuoi arrivare" disse il medico aggiungendo, rivolto a me:"Ma non vede com’è vivace questa bambina? Voi mamme siete sempre cosìansiose!"
Non lo sapevo ancora, ma nei mesi successivi avrei dovuto ascoltare molto spessoquest’ultima frase.
Liquidò quindi gli scatti di Letizia come miocloni notturni e ci congedò.Assumendo un’aria compassionevole.
Solamente due anni dopo venni a conoscenza, dati gli atti di un simposio tenutodiverso tempo fa sulle patologie neurologiche neonatali, di un particolaresconcertante: un riflesso di Moro incompleto e un numero di passi superiore atre o quattro nei neonati, insieme con altri sintomi facilmente rilevabili, faprevedere, vista la notevole incidenza sui casi osservati, un ritardopsicomotorio più o meno accentuato già durante il primo anno di vita.
Ma un altro avvenimento, un mese dopo, mi avrebbe fatto addirittura incontrareil relatore di questo particolare argomento a quel simposio, senza che questisentisse il dovere, dopo un’accurata visita alla bambina, di informarmi suiproblemi di mia figlia.
Quindi non è forse giusto condannare il medico del pronto soccorso pediatrico.Anzi, ripensandoci ora mi suscita addirittura tenerezza. Forse, con un po’ menodi presunzione e un po’ più di umanità avrebbe potuto dare ascolto a unarappresentante di quella categoria che può vantare la più vasta esperienza delmondo in fatto di bambini: quella delle mamme!
E forse mi avrebbe permesso di aiutare subito Letizia.
Tornai dunque a casa felice come non mai. Io mi ero rassicurata, anche seprovavo un certo disagio.
Fu in quell’occasione che Tony, per la prima volta, mi chiese di essere piùserena e di non fissarmi troppo sugli atteggiamenti di Letizia.
I problemi della bambina però non regredirono, ma io mi guardai benedall’esternare le mie preoccupazioni, nel timore che fossero considerate fruttodella mia ansia.
Tuttavia, passavo tutto il mio tempo libero, poco a dire il vero, a consultareenciclopedie scientifiche e testi universitari, alla ricerca di qualcosa che nonsapevo nemmeno io.
Speravo che una parola, una breve spiegazione potessero finalmente indicarmi lavia giusta da seguire. Insomma, volevo capire che cosa non andava.
Quei vecchi libri polverosi, che un tempo dovevano servire a prepararmi a esamimai sostenuti, mi tennero compagnia per un paio di settimane e talvolta Tony misorprendeva in cucina, nel cuore della notte, intenta a divorarne il contenuto.Se ne tornava sempre a letto sospirando, senza dire una parola, ma io sapevoquello che pensava e mi sentivo sempre più frustrata.
Letizia aveva poco più di un mese quando si presentarono nuovi disturbi, questavolta a livello digestivo.
L’allattamento naturale, come avevo previsto, era fallito. Dopo quella primavolta in ospedale non era più riuscita ad allattare la bambina direttamente alseno e così si era nutrita di latte materno solo per una ventina di giorni.
Il passaggio al latte artificiale era stato graduale e non aveva presentatoproblemi, quindi le sue scariche diarroiche di consistenza, odore e colorestranissimi, colsero di sorpresa anche me.
Inoltre, la testa di Letizia manteneva una strana forma un po’ troppoasimmetrica. Il volto era molto gradevole sul lato sinistro, strano eschiacciato dall’altro. Al contrario, la sua nuca era normalmente arrotondatasulla parte destra, mentre dalla parte opposta sembrava gliene avessero tagliatauna fetta. Deformità posturali che sarebbero regredite nel giro di pochigiorni, mi avevano garantito. Ma così non accadde.
Dopo un paio di giorni di diarrea, cominciai a temere che Letizia sidisidratasse. È abbastanza facile nel neonato ed è un rischio piuttosto serio.
Eravamo alla metà di agosto e quando consultai Aldo Pennacchi, l’altro nostrostraordinario medico di famiglia, lui, con la sua consueta modestia sicuramentefuori luogo, mi confessò di non sentirsi sicuro sulle cure da praticare a unneonato in certi frangenti.
Sia Massimo Freccero sia la pediatra Bianca Maria Nigro erano in ferie e quindil’unica scelta era nuovamente l’ospedale.
La dottoressa Nigro: che amicizia importante!
È una pediatra della vecchia guardia, come ama definirsi lei. Di quelle cheusano i sensi per fare le diagnosi. Ha sempre seguito la crescita dei mieifigli, specialmente nell’alimentazione, e in questo campo è davveroimbattibile.
Ma quello che ho sempre ammirato di più in lei è la grande umanità, senzapietismi, che insieme a professionalità, vastissima esperienza (non è propriogiovanissima!) e saggezza di madre più che di medico, fa di lei il pediatraideale. Mi mancava tantissimo in quel momento.
Portai quindi Letizia all’ospedale pediatrico dove, dopo una brevissima attesanelle sale dell’immenso ambulatorio, fui ricevuta da un medico dall’aspettorassicurante. Capelli brizzolati, espressione paterna e una discreta mole: ilclassico gigante buono, per capirci.
Dopo la visita non persi l’occasione per descrivergli i leggeri spasmi cheLetizia presentava nel sonno.
Un sorriso gli illuminò la bocca e gli occhi chiari mentre mi spiegava che labambina era semplicemente… allergica al latte!
Gli spasmi erano solo la risposta neurologica di un cervello ancora immaturo acontrazione intestinali che potevano essere anche molto dolorose.
Continuava a spiegare, ma io non lo sentivo più.
Quella parola mi martellava il cervello senza che riuscissi a cancellarla.
"Neurologica… neurologica… neurologica…"
Prescrisse a Letizia una dieta rivoluzionaria: sostanze vegetali, latte di soiae integratori a base di frutta liofilizzata.
Uscii di lì, ma ero più angosciata di prima.
L’angoscia! Per quanto tempo ancora mi avrebbe affiancato! Sarebbe stata l’unicacompagna di lunghe notti insonni per molti mesi, ma anche l’ancora di salvezzaper me e soprattutto per Letizia.
Senza quel macigno sullo stomaco, sempre pronto a torturarmi, non avrei maicercato una strada alternativa.
Ora considero l’angoscia una sorta di difesa dell’organismo, come il dolore. Lasofferenza permette infatti di riconoscere la presenza di una malattia e quindimette in grado di scegliere una cura. Così, se non si è stretti nella morsadell’angoscia, è più difficile scoprire che qualcosa non va e quindi cambiarela situazione.
"Neurologica… neurologica… neurologica…"
Sapevo di essere sulla strada giusta, anche se Letizia fece regolarmente la suadieta e guarì nel giro di pochi giorni.
Grazie, gigante buono, anche se la mia bambina non è mai stata allergica allatte, ma probabilmente aveva avuto solo un’infezione intestinale.
Al ritorno dalle ferie, una settimana dopo, Bianca Maria Nigro mi consigliò dipassare decisamente al latte vaccino.
E tutto filò liscio: ormai Letizia aveva l’età giusta.

Bugie!

Ci sedemmo sulle sedie di legno rendendoci subito conto che quello non era unluogo allegro.
In piedi davanti a noi c’era una ragazzina down che ridacchiava continuamenteguardandosi intorno, a scatti. Vicino a lei c’erano due giovanotti poco piùgrandi d’età, che l’assomigliavano molto.
Alla mia destra era invece seduta una coppia anziana con in mezzo un bambinettodi sette o otto anni.
Con il viso contratto da mille smorfie, non stava fermo un attimo sulla sediache sembrava bruciargli sotto. Il padre gli stringeva la manina deformata dallaevidente spasticità, mentre la mamma aveva gli occhi fissi davanti a sé.Immobile.
Ero turbata a quella vista e non sapevo dove guardare.
Mi resi presto conto che quei due non erano vecchi, ma lo sembravano, e nellostesso istante Tony mi disse: "Andiamo via. Sei proprio fuori di testa sepensi che Letizia abbia bisogno di un posto come questo".
Dunque non era bastato l’esperienza di qualche sera prima e lui mi consideravadi nuovo pazza.
"Restiamo, per favore", risposi. "Sentiamo cosa ci dicono e poiti prometto che non chiederò più niente."
Ero più che mai convinta che quel bimbo accanto a noi rappresentasse il futurodella mia bambina. Non sapevo perché, ma lo sentivo dentro. Ne ero certa.
Dovevamo assolutamente fare qualcosa e la visita di quel giorno poteva essere larisposta . Finalmente uno specialista avrebbe spiegato a Tony che i miei dubbinon erano frutto di fantasia e, cosa più importante, mi avrebbe indicato cosafare.
Non mi sfiorò nemmeno per un attimo, il pensiero che il bambino spastico chesbuffava a due passi da noi i propri problemi non li aveva risolti. E nemmeno isuoi genitori.
La prima impressione che ebbi del dottor G. non fu affatto positiva.
Mi guardava dall’alto in basso, anche se la sua statura piccola glielopermetteva solo metaforicamente parlando. E per la prima volta ebbi la nettasensazione – mi è capitato molte altre volte, ma solo ed esclusivamente conmedici di un certo prestigio – che fosse molto infastidito dalle mie domandeposte con un linguaggio, diciamo, tecnico.
Volevo forse invadere il campo?
Naturalmente non ero all’altezza, e non ne facevo un mistero, ma sono tuttorasicura che avrebbe preferito avere davanti persone con le quali utilizzaretermini medici dal significato oscuro.
Il dottore si fece descrivere minuziosamente la vita di Letizia, dallagravidanza a quel giorno. Poi, dopo aver riempito la cartella dell’anamnesi,effettuò su mia figlia una serie di test neurologici. Senza pronunciare nemmenouna parola.
Tra gli esami riconobbi solo quello relativo al controllo del riflesso di Moro eanche se ogni tanto tentai di chiedere a cosa servissero, non riuscii a ottenerealtro che chiari cenni d’invito a tacere.
Letizia era completamente nuda, ma faceva molto caldo. Ciò nonostante aveva lapelle d’oca ed era livida.
Terminata la visita, il medico si sedette nuovamente dietro la scrivania e,mentre rivestivo la bambina, continuò a riempire la cartella. Quindi ci invitòad accomodarci davanti a lui.
Disse solo poche parole senza accennare mai un sorriso e dichiarando bruscamenteche Letizia aveva una sindrome da ipereccitabilità.
"Di che cosa si tratta?" gli chiesi.
"È una patologia difficile a spiegarsi, ma è molto evidente in vostrafiglia", rispose senza aggiungere altro.
Cominciavo a sentire la rabbia crescere dentro di me mentre Tony, che se n’eraevidentemente accorto, mi stringeva un ginocchio con la mano, invitandomi conquel gesto alla calma.
Ma porca miseria, quello credeva che fossimo lì solo per un giretto in centro?Io volevo sapere che cosa aveva mia figlia e che cosa potevo fare per lei.
Respirai a fondo e cercai di controllarmi.
"E quegli strani spasmi? Che difficoltà dovrà affrontare in futuro labambina? Problemi di ordine psicologico?" domandai, pensando alla parola"ipereccitabilità".
"Esattamente!" rispose l’altro. "Cercate di farla vivere in unambiente molto tranquillo. Tenetela lontano dai rumori e dalla confusione. Glispasmi passeranno, comportatevi come se non li avesse."
Devo essergli sembrata sicuramente un’ebete, perché in quel momento ebbi lanetta sensazione che il mio viso avesse proprio un’espressione del genere,mentre la mia bocca accennava un sorriso che non corrispondeva assolutamente aquanto si rimescolava dentro di me.
Tony era contento. Me ne accorsi dal fatto che si agitava sulla sedia esorrideva apertamente.
"No, nessun controllo", rispose il dottore alla mia richiesta, mentrescribacchiava un biglietto per il nostro medico. "Non ne vedo lanecessità."
Salutammo e ce ne tornammo verso la macchina mentre riflettevo che dovevo essereimpazzita veramente! Dunque la bambina non aveva nulla di cui preoccuparsi.
Beh, meglio così, pensai.
Tony stava per dirmi qualcosa mentre avviava il motore ma, non appena questopartì, Letizia cominciò a piangere disperatamente. E così tacque, mentre iocercavo di consolarla.
Non affrontammo l’argomento per parecchi giorni mentre io mi aspettavo da unmomento all’altro un bel "Che t’avevo detto!" o un "È ora che lafai finita".
Il giorno dopo la bambina iniziò a prendere i farmaci prescritti dal medico,uno per ridurre i disturbi legati alle coliche e un altro definito comericostituente neurologico (?).
Su tutti i testi che consultai non vi era traccia della fantomatica sindrome daipereccitabilità, né i medici che ebbi modo di interpellare ne avevano maisentito parlare.
Nel frattempo Letizia cominciava ad accusare un evidente strabismo.

La diagnosi

Il telefono squillò mentre stavo lavando i piatti del pranzo.
Mi asciugai in fretta le mani e alzai il ricevitore. La voce dall’altro capo delfilo disse: "Buonasera, signora, sono la professoressa S. Ho in mano irisultati della Tac di sua figlia".
Le gambe mi tremavano ed ebbi bisogno di sedermi. "Mi dica, la prego."
"Se devo essere sincera io non vedo un granché. La bambina ha uncervellino perfettamente normale. Esistono alcune aree della corteccia cerebraleatrofizzate, ma questo non dimostra nulla."
Mio Dio, cos’altro credeva di trovare?
"A questo punto", proseguì, "io non so più cosa fare per lavostra bambina."
Ma perché, cos’aveva fatto fino a quel momento, oltre misurarle la testa?
"Io posso darvi solo un consiglio. Quando verrà a ritirare il refertopassi dall’infermiera che le darà un mio appunto dove le indico il nominativodi un neurochirurgo dell’ospedale D. Ho qualche dubbio che possa trattarsi dicraniostenosi e lui potrà valutare meglio di me l’opportunità di unintervento."
Un intervento al cervello? E cosa diamine era questo craniostenosi?
Non feci domande e, dopo aver salutato, riattaccai.
Dovevo sapere di cosa si trattava esattamente, ma non avevo nessuna voglia diconsultare ancora i miei libroni. Quel breve colloquio mi aveva tolto ognienergia, mi aveva come svuotata.
Spiegai a Tony la situazione e mentre parlavo lo vedevo illuminarsi in viso. Io,invece, ero terrorizzata all’idea che potessero aprire il cranio di mia figlia.
"Ma non capisci, questa è la soluzione che stavamo cercando. Un miocollega ha vissuto una cosa del genere, e ora suo figlio è un bambino come glialtri. Se dovesse essere così sarà dura, ma finirà presto."
Forse aveva ragione, ma io non mi aspettavo assolutamente una prospettiva delgenere, non ero preparata.
Ritirai le copie della Tac e pochi giorni dopo eravamo all’ottavo pianodell’ospedale D. in attesa del professor Rocco, che ci avrebbe ricevuto senzaappuntamento.
Era una persona di grande cortesia e di immensa umanità.
Sistemò le radiografie sulla lavagna luminosa e le studiò per breve tempo. Poici chiamò accanto a lui.
"Guardate qui. Questo è il cranio della bambina", disse accennando unmovimento circolare, "e quest’area scura subito sotto le ossa è il liquidoin cui è sospesa la massa cerebrale. La craniostenosi provoca una grandesofferenza al cervello, poiché viene compresso nella scatola cranica che noncresce come dovrebbe.
"La presenza del liquido nel cranio di vostra figlia dimostra senza ombradi dubbio che qui non c’è alcuna craniostenosi. Mi dispiace dovervelo dire, maqui il problema non è che il cervello sia compresso nel cranio. È il cranioche non aumenta di volume perché la massa cerebrale non stimola la crescitadelle ossa. E tutto questo accade perché la corteccia cerebrale di vostrafiglia è lesa. Ecco, guardate qui", spiegò indicandoci delle zone diintensità diversa dalle altre.
Si trattava di una doccia fredda.
La soluzione, anche se dolorosa, sembrava a portata di mano e ora inveceripiombavamo nell’incertezza, anzi, in una drammatica certezza.
Letizia aveva il cervello leso e tutti sappiamo cosa si prova o quali immaginivengano alla mente nel sentire pronunciare queste parole.
Ero prostata, ma trovai ancora la forza per chiedere cosa mai si sarebbe potutofare per mia figlia.
"Bombardatela di stimoli. Vista, udito, olfatto, gusto e tatto sono i sensiche mettono una persona in contatto con il mondo esterno. Non dimenticatenessuno e offritele ogni opportunità per attivare i sensi."
Uscimmo di lì più depressi che mai.
Io mi sentivo come in un vicolo cieco, senza alcuna possibilità di proseguire.Davanti avevo come un muro: quello della lesione cerebrale per la quale nonesisteva alcun rimedio.
Ma io non potevo fermarmi. Avrei continuato a cercare finché qualcuno non miavesse detto che per Letizia si poteva fare qualcosa.
Era un po’ di tempo che mi frullava per la testa l’idea di portarla da un medicomolto conosciuto nel suo ambiente e quindi mi misi subito in moto per ottenereun appuntamento.
Quando venni a conoscenza dell’importo della parcella che avrei dovuto pagareper poco non svenni. Era una cifra esorbitante, quasi pari al mio stipendio diun mese. Ma non ebbi un attimo di incertezza e fissai l’appuntamento.
Il colloquio e la visita si svolsero molto tranquillamente.
Naturalmente il dottor F. volle saper tutto di Letizia, che stesa sul lettinogli sorrideva storcendo la bocca. Nonostante tutto sembrava una bambinavivacissima e i suoi occhi non si fermavano attimo.
Mi sentivo molto in colpa per aver taciuto a Tony quel nuovo incontro, ma temevouna discussione e in quel momento di grande depressione non me la sentivoproprio di peggiorare la situazione con un litigio.
Quindi il verdetto dello specialista mi colse da sola e mi colpì duramente.
" Qui non c’è proprio assolutamente nulla da fare", esordì, "ea me non resta che darle un consiglio: trovi un buon istituto. Ha altri trefigli che possono darle molte soddisfazioni e soprattutto devono condurre unavita normale. Lei non sa quale angoscia sia crescere un figlio in questecondizioni."
Ero stralunata, ma trovai la forza per porre una domanda: "Che livello disviluppo potrà raggiungere?"
"Nessuno, o poco più di quello che già vede. Sua figlia sarà un neonatoper tutta la vita. Mi creda, deve rassegnarsi. L’affidi a chi può assisterlameglio, e faccia di tutto per dimenticare. Lo deve agli altri suoi figli."
Avevo voglia di urlare, ma me ne andai senza una parola.
Bene! Avevamo conosciuto un altro pessimo rappresentante della categoria deimedici, ma giurai a me stessa che sarebbe stato l’ultimo.
Letizia aveva bisogno di noi e noi di lei, nessuno ce l’avrebbe mai strappata.
E quanto ai suoi fratelli, era vero, avevano diritto ad una vita normale, maquel medico e io avevamo opinioni molto differenti su come raggiungere talescopo.
Nessuno di noi avrebbe mai più potuto vivere serenamente senza Letizia.

(*) Tratto dal libro "Vestita di nuvole" , Sperling § Kupfer,Milano, 1996




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