Quando nasce un figlio disabile tutto viene messo in discussione, a maggior ragione per chi, fino a poco tempo prima, svolgeva una professione nel sociale e si trovava dall’altra parte, dalla parte del tecnico, dell’operatore. La difficoltà dell’accettazione di un figlio diverso e l’importanza della comunicazione che non si deve limitare al momento della nascita ma deve proseguire
L’esperienza emotiva della madre
È nato
Guido è nato alla fine di dicembre, due settimane prima del previsto. Datre o quattro settimane avevo smesso di lavorare e stavo bene. Avevo solo 26anni e né in me né in mio marito – Giangi – e nelle rispettive genealogie nonavevamo riscontrato elementi di rischio inerenti alla procreazione.
La perdita del tappo mucoso e le contrazioni sempre più regolari sono stati isegnali che mi hanno indotto a telefonare a mia madre per informarla dellasituazione e per chiederle di accompagnarmi all’ospedale, poiché Giangi nonprevedendo una nascita anticipata era assente tutto il giorno. I miei amici econoscenti erano quasi tutti lontani per le vacanze di Natale.
Accompagnata all’ospedale da mia madre e da mio fratello, dopo solo poco più diun’ora è nato un esserino caldo, molle, che non piangeva tanto.
Qualche tempo dopo la nascita mi sono ricordata che non lo sentivo nemmenomuoversi molto nella mia pancia.
L’atteggiamento della levatrice e del medico nei miei confronti mi sono sembratiun po’ opachi, attutiti quasi, come se volessero smorzare la gioia che lanascita di Guido comportava per me, ancora inconsapevole del problema che avreidovuto affrontare.
Il nome oramai era già stato stabilito in anticipo con Giangi. Ero sicura chefosse un maschio: sarei stata molto delusa se fosse nata una femmina.
Guido è un nome che riveste un significato di una certa importanza; suscitavain me l’idea di una certa sicurezza, rispecchiava un certo carisma perché loidentificavo al nome di personaggi che in me avevano lasciato una tracciadurante la mia adolescenza.
Trovandomi in braccio quell’esserino per la prima volta, fortunatamente non eroin grado di fare un confronto tra lui e le aspettative racchiuse nel nome cheoramai avevamo scelto.
E’ diverso?
Non so fino a che punto mi sono resa conto che c’era qualcosa di diverso.Apparentemente non mostrava al primo approccio dei segni fisici significativi,salvo il tenere spesso gli occhi socchiusi, e la mancanza di una certa tonicitàmuscolare.
Queste osservazioni però le ho fatte a posteriori, facendo il confronto con lanascita del secondo figlio, Giovanni.
Facevo fatica ad allattarlo, era poco resistente e dimostrava affaticamento edifficoltà a tenere in bocca il capezzolo.
La mia poca esperienza relativa ai neonati e soprattutto i sentimenti di gioiaper la nascita di un figlio superavano i dubbi e le incertezze che siaffacciavano alla mia mente, momentaneamente e a sprazzi, quasi avessi timore asoffermarmi più del necessario per evitare un esame realistico dellasituazione.
Il ricordo della minaccia di aborto subentrata nei primi mesi della miagravidanza si affacciava nei miei pensieri, anche se dopo di allora avevo quasidimenticato l’episodio, poiché la mia condizione fisica era ottima.
Tutto però era a livello inconscio; non ero in grado di comunicare agli altriqueste mie perplessità e questo mio ricercare a posteriori degli elementipremonitori, come appunto una minaccia di aborto.
Non potevo permettermi di pensare di aver messo al mondo un neonato non integro.
I bigliettini per la nascita di nostro figlio elaborati e creati da noi stessierano quasi pronti; mancava solo la foto che avrebbe ritratto me e Guido,prototipo di un intenso legame a due che ci avrebbe coinvolto per diversi anni:ma allora ero lontanissima dal pensarlo.
Il sospetto
Mentre mi sottoponevo all’inquadratura ero particolarmente turbata dallanotizia che Giangi mi aveva dato poco prima. "Sospetto di trisomia21!" (in altre parole: sindrome di Down!). Questo era il verdetto che miomarito aveva ricevuto in un corridoio del vecchio ospedale, dal primario diginecologia.- vero ci sarebbero stati ancora esami da eseguire, ma da allora larealtà nuda e cruda non mi ha più permesso di rifugiarmi nell’illusione, nellaconvinzione che "questo capita solo agli altri". Ricordo che al Centrofisioterapico per cerebrolesi dove lavoravo negli ultimi mesi di gravidanza, unacollega, probabilmente per esorcizzare anche per lei l’eventuale possibilità miaveva chiesto: "E se ti nascesse un bambino handicappato?". Pensandoai miei piccoli allievi di allora così cari e così duramente colpiti le horisposto con tutta la mia franchezza e sicurezza: "lo non potreimai!".
Il fatto che ora non ricordo di aver sviluppato fantasie particolari ingravidanza potrebbe essere interpretato come una rimozione intervenuta aposteriori, sulla base dell’aspetto traumatico rappresentato dalla nascita delbambino.
Adesso ero lì che stringevo quel fagottino fra le braccia e facevo fatica atrattenere le lacrime per la foto che avrebbe testimoniato agli altri la miaavvenuta maternità, l’inizio di una nuova vita e dei ruolo parentale che io eGiangi ci apprestavamo ad assumere inconsapevoli di quanto ci preparava ilfuturo con nostro figlio, ma sinceramente felici di essere diventati genitori.
In quei momenti la gioia per la mia maternità superava tutto ciò che, legatoalla malattia di mio figlio, mi sembrava penoso. Un caro amico rispondendoall’annuncio della nascita aveva notato una certa somiglianza con suo figlio daneonato. Questa comunicazione da una parte mi aveva rassicurato, macontemporaneamente dentro di me sentivo che Guido non sarebbe mai stato comelui.
Nello stesso tempo mi faceva tenerezza e mi rallegravo, quando ad esempio messonell’incubatrice, a causa della bilirubina piuttosto alta, mi dava l’impressionedi un piccolo bagnante al sole con la mascherina sugli occhi e il sederinodisinfettato, pitturato di rosso.
So che nei momenti in cui mi sentivo felice con lui, ripensando al momento delparto, per me molto facile e naturale, mi veniva la voglia di ripeterel’esperienza, magari pensando di fare subito un altro figlio. Mi chiedo adesso,se oltre questo mio desiderio non ci fosse già allora inconsciamente lanecessità di riparare e di rifare questo figlio imperfetto. Avevo molto latteanche perché su consiglio della nonna continuavo a bere tè di finocchio chefavorisce l’aumento della montata lattea. Mi rincresceva perciò buttarne unabuona parte poiché per Guido era troppo e non si riusciva, se non raramente, asomministrarglielo a qualche neonato prematuro.
Quando sono tornata a casa dall’ospedale, e a malincuore lasciandovi Guidoperché ancora sotto peso, questi faceva 6 pasti bevendo circa 60-70 g perpasto. Pompavo il latte a casa con l’apposita macchinetta e poi ogni giornoglielo portavo, somministrandoglielo con il biberon. Ricordo che mentre bevevami guardava e spesso socchiudeva un occhio. Naturalmente per me questa eraun’osservazione al momento senza significati particolari, e non avrei maisupposto che dietro questo suo atteggiamento, mesi e mesi dopo, avremmo scopertodei gravi disturbi visivi: una cataratta bilaterale congenita.
L’angoscia
L’angoscia che ho provato nella prima visita pediatrica si è ripetutainnumerevoli volte nella mia vita e ancora adesso ricompare in situazioniestreme, anche se in forma più attenuata, anche grazie all’ottimo rapporto conil pediatra che in seguito si è occupato di Guido per 10-12 anni.
Solo allora ho potuto capire l’angoscia dei genitori degli allievi che ho avutoprima della nascita di Guido.
Prima di allora facevo fatica, anche se mi sforzavo, a comprendere la reazionedi una madre che a un certo punto abbandona l’incontro in cui si parla di suofiglio (incontro convocato fra lei e le insegnanti proprio su suo desiderio),perché troppo angosciata. Non capivo che il viversi come prolungamento delfiglio ("tutto ciò che tocca a lui tocca a me") provocava l’unicomodo di reagire possibile per quella madre in quel preciso momento della suavita, in rapporto al figlio. Facevo perciò fatica a comprendere che, nonostantela nostra "sensibilità", l’esame di determinati comportamenti delfiglio risultasse così doloroso.
Bisogna pur dire (l’esperienza me lo dimostra) che nonostante una buona volontà"intellettuale" è molto difficile per un operatore capire veramente,con empatia, con il cuore, ciò che si muove nel mondo emozionale di ungenitore.
Prima della nascita del secondo figlio, Giovanni, avvenuta cinque anni dopo, alsentire la parola "genitore" durante le riunioni di sintesi nellescuole speciali dove lavoravo, mi prendeva un nodo alla gola e mi si riproponevain tutta la sua drammaticità il periodo particolarmente gravoso che stavamoattraversando con i vari interventi e le ospedalizzazioni di Guido, per iproblemi di ordine visivo.
La vergogna
Forse il desiderio di lasciare l’ospedale è stato più forte del dolore didover lasciare Guido. Andando ad allattarlo, i momenti che restavo con lui e conil personale erano più brevi e credo che sfuggivo così a quei sentimenti divergogna, di rimprovero che vivevo nei confronti degli altri che erano aconoscenza della condizione di mio figlio. Questo era naturalmente il miovissuto; evidentemente il personale infermieristico era molto competente e si èdimostrato sempre capace nei confronti di Guido e premuroso verso di me.
Quando sono tornata a casa se da un lato ero triste per aver"abbandonato" mio figlio, dall’altro ero felice di avere il tempo dioccuparmi anche di me stessa, di riposarmi, di iscrivermi a un corso diginnastica dopo-parto, di preparare con calma le ultime cose che mi occorrevanoper il suo arrivo.
Con questa vacanza forzata cancellavo d’un colpo la mia esperienza recente dimaternità e mi illudevo di ripristinare la mia immagine di "prima",di ricuperare altri aspetti che mi facessero star bene. à stato unatteggiamento che ho avuto per anni, dopo la nascita di Guido, questo bisogno diricupero, di pensare a me come donna e come individuo.
Questa impressione di vergogna, di essere giudicata inferiore non l’ho piùavuta quando Guido è tornato a casa dopo circa 3 settimane.
C’è voluto molto tempo però per fare in modo che questo ricupero non fossesolo una fuga e un non voler affrontare il problema, ma anche una effettivarivalutazione di me stessa. Solo quando abbiamo ricevuto il risultato delleanalisi del cariotipo di Guido, che effettivamente dimostrava il suo handicap,la presenza di una trisomia 21 a mosaico, abbiamo comunicato la diagnosi, io eGiangi assieme, ai nostri rispettivi genitori.
La loro reazione è stata pacata e positiva e hanno accolto Guido connaturalezza. A volte avevo l’impressione che non avessero capito la realesituazione di Guido ed ero tentata di rispiegarla loro da capo: la diagnosi, itrattamenti, la prognosi; questo mi succedeva in particolare con le nonne, chesi occupavano intensamente di lui nei primi tempi. Più tardi avrei capito comequesta mia insistenza sottintendesse una rivalità con loro che come madriavevano messo al mondo figli sani.
L’esperienza emotiva del padre
La sorpresa
Guido mi ha giocato un brutto scherzo già dall’inizio: è nato duesettimane prima del tempo, senza preavviso, mentre io me ne ero andatotranquillamente a sciare. Quel giorno non lo aspettavamo proprio! Così, in tutada sci per la fretta, prima ancora di vedere Daniela e Guido, ho incontrato ilginecologo in corridoio che mi ha espresso subito i suoi dubbi sulla normalitàdi Guido:
– Probabile trisomia – Quale trisomia? – rispondo, come se ce ne fosserocentomila.
– L’ipotono…, i tratti del viso…, una parziale sindattilia al III e IV ditodel piede… – Quella ce l’ha anche mio zio, e la nonna paterna… – Vedremo!Psicologo, quasi psicoanalista, analisi in corso… il diniego scatta anche perme, e come diniego parziale durerà ancora a lungo.
L’incontro con Guido (il nome non gli era ancora stato dato) non ha quindipotuto avvenire nella gioia, ma si è accompagnato alla preoccupazione discrutare e negare segni clinici, e nello stesso tempo al tentativo di nasconderea Daniela quel sospetto. Forse anche lei covava quella preoccupazione, ma nonabbiamo potuto dircelo per alcuni giorni, fin quando il ginecologo ha propostol’esame cromosomico. Ne ho allora parlato a Daniela, e insieme abbiamo ancoratentato di negare, o almeno di minimizzare.
D’altra parte, come tre settimane dopo si è potuto verificare, la diagnosi di"trisomia 21 a mosaico" (cioè caratterizzata dalla presenza di unacerta percentuale di cellule sane) lasciava sperare in un quadro non grave:anche i segni clinici non erano gravi. Non avendolo saputo non si sarebbedetto…
Dal canto suo la pediatra cercava di convincermi che nell’iride c’erano dellemacchioline bianche tipiche che io non vedevo, pur scrutando gli occhi di Guidoper settimane. Non c’erano davvero o io negavo? ero cieco io? In cambio peròavevo notato che la pupilla era fosca: la pediatra diceva che non era niente.Era cieca anche lei? Dopo un anno infatti, come vedremo, un altro pediatra sumia insistenza ha esaminato bene l’iride e ha emesso la diagnosi di catarattacongenita…
I ricordi di quel periodo sono sfumati, non tenevo ancora un diario, ma ricordobene la sensazione di crollo che avevo addosso proprio nei momento in cui stavocostituendo laboriosamente la mia nuova identità professionale: comepsicoanalista mi stavo definendo figlio di qualcuno (il mio psicoanalista, chemi ha accompagnato fin lì) e potenziale padre, madre o fratello di altri (imiei pazienti, le persone che avrei curato).
Tutto da rifare?
A poco a poco, con il trascorrere dei mesi mi rendevo conto che, almenomomentaneamente, non sarei stato in grado di continuare la consultazioneinfantile poiché la preoccupazione per mio figlio mi rodeva troppo. I genitoriche mi consultavano per motivi che io ritenevo banali mi indisponevano; quelliche "trattavano male" i loro figli mi suscitavano rabbia perché"non si rendevano conto cosa significa avere figli sani"; i bambinigravemente malati non li potevo vedere perché mi facevano pensare all’eventualedestino pesante che avrebbe aspettato Guido…
Così mi sono buttato nei problemi di tossicomania, di adolescenti, e di adulti.Solo alcuni anni dopo avrei potuto riprendere la consultazione infantile conmaggior competenza e sensibilità di prima.
La nascita del mio primo figlio, maschio, invece di coronare il raggiungimentodi un’adeguata identità personale, sessuale, professionale, e di coppia, harimesso tutto in discussione. Da lì ho però iniziato un lungo lavoro dirimessa a punto che, tra ansia e depressione, mi ha portato sulla via di unanuova maturità.
L’inconscio mio e di Daniela era un calderone in ebollizione con il fondo mezzobruciato. Il nostro rapporto di coppia aveva generato un figlio malato. Allora,che coppia era? dov’era, e di chi, la colpa? Tutto da rifare! Ci sarebberovoluti alcuni anni di sofferenza, un secondo figlio, sano, e un nuovo assettoprofessionale per rimettere le cose a posto.
Ma per un padre che fa un altro mestiere, come vanno le cose? allo stesso modo,penso, salvo che l’identità professionale non è messa direttamente indiscussione, a meno che un crollo ansioso o depressivo non intralci gravementequalsiasi progetto o attività. Alla ferita dell’amor proprio bisogna poiaggiungere il sentimento di aver a che fare con un grosso fardello, che siscaricherebbe volentieri. La realtà si impone, non si può più negare. Allorao la cosa è leggera e la si accetta a poco a poco (ma quanti bambini rifiutatiper un nonnulla!) oppure le fantasie di veder scomparire il fardello si fannostrada tra un sacco di difese. Tutti lo pensano inconsciamente, ma solo pochipossono ammetterlo. E i sensi di colpa galoppano.
A questo proposito ricordo un episodio che mi aveva, di primo acchito, moltoscosso, ma che ho riconosciuto in seguito come molto utile per elaborare i mieisentimenti di rifiuto e la mia aggressività negati.
Mi trovavo dunque solo, all’estero, per un corso, e ne avevo approfittato perfar visita ad una coppia di amici e colleghi (Aldo, medico, e Lucia, psicologa).Era la prima volta che parlavo con loro dei problemi di Guido e delle difficiliesperienze che stavamo attraversando con i primi ricoveri ed interventi. Aldo inparticolare seguiva con molta partecipazione il mio racconto, ed alla fine lasua tensione scoppiò: "Io non potrei sopportare una cosa del genere!penserei subito all’eutanasia. Vero Lucia che mi aiuteresti? mi scolerei unabottiglia di grappa, ed una fiala di Valium risolverebbe tutto!…".
Il discorso finì lì, io facevo di tutto per nascondere il mio turbamento: eromolto scosso e quasi incapace di pensare.
Un sogno rivelatore
Qualche settimana dopo quest’episodio che ha messo in moto dentro di me unforte movimento di autoanalisi, ho fatto un sogno:
Mi trovavo al mare con Daniela e Guido nato da poco. Mentre camminavamo lungouno stretto pontile di legno Guido si trasforma improvvisamente in un gamberettoe cade in acqua. Vedendolo in pericolo, agonizzante nell’acqua salata efortemente inquinata del porto (eppure un gamberetto dovrebbe trovarsi a suoagio nell’acqua del mare…) volevo metterlo in un recipiente con dell’acquapulita per tentare di salvarlo. Pur accorgendomi con stupore che si tratta diGuido e non di un gamberetto decido però di lasciarlo dov’è con ladeterminazione di accelerarne la morte per porre così fine alle sue sofferenzeed alla sua irreversibile agonia. Lo scenario del sogno cambia improvvisamente:mi ritrovo con Daniela in un villaggio montano dove sto cercando degli oggettiantichi. In una chiesa abbandonata e diroccata trovo un piccolo gruppo statuariorappresentante la "Sacra Famiglia", molto simile a quello che si trovatuttora nella casa della mia infanzia. Tento di strappare l’oggetto dal suosupporto, rompendo perfino "involontariamente" la testa del GesùBambino, ma l’arrivo di qualcuno mi dissuade dall’impresa furtiva.
Ambivalenza ed elaborazione
Quell’episodio così marcante (l’incontro con i colleghi) ed il sogno mihanno aiutato a prendere coscienza definitivamente della mia grande ambivalenzaverso Guido, ad analizzarla ed elaborarla, "digerire" queidolorosissimi contrasti emotivi e placare quella tempesta emozionale che agitavail mio mondo interno, in modo prevalentemente inconscio: il bisogno di eliminarequel fardello doloroso, ma nello stesso di voler salvare, o almeno restaurare,quel prodotto deteriorato, quel primo figlio che ha fatto crollareimprovvisamente in me l’illusione di poter continuare la mia infanzia, rimanereil bambino spensierato e prediletto, il Gesù Bambino della Sacra Famiglia.Certo che ogni figlio, soprattutto il primo, deve svolgere per i genitori questafunzione di liquidatore della propria infanzia, e la cosa avvieneprogressivamente. Il figlio malato, handicappato non si situa invece come un"liquidatore" maturativo ma si propone come un ciclone che spazzatutto lasciandosi dietro sofferenza, sentimenti di "morte" e sensi dicolpa. Bisogna quindi rassegnarsi all’idea che la Sacra Famiglia non la si puòpiù ricuperare, nemmeno rubandola. Bisogna lasciarla dov’è, in altro luogo edin altro tempo. Bisogna però poter conservare il ricordo e la nostalgia comeelementi positivi, altrimenti il Bambino si rompe definitivamente la testa.
Il bambino handicappato è un oggetto bizzarro, imprevisto ed imprevedibile,inquietante, che non si lascia ricondurre alla propria esperienza infantile (ameno di aver avuto un fratello o una sorella malati). Questa è stata dunque lamia reazione elaborata retrospettivamente, evidentemente non l’unica possibile,ma probabilmente rappresentativa di ciò che in tutti può accadere, che rimanenella sfera dell’inconscio, e che può quindi manifestarsi attraverso una grandevarietà di sintomi e di comportamenti: negazione, depressione ed angoscia,vergogna, attese vane, iperstimolazione maniacale del bambino, rigurgitiaggressivi, oppositività nei confronti degli interventi, rifiuto manifesto.
Se non si elaborano queste esperienze così complesse (e molti genitoripotrebbero beneficiare di un aiuto psicoterapeutico), il bambino handicappatopuò risentirne ulteriormente nella sua crescita, vittima dell’ambivalenza digenitori che potrebbero a loro volta imboccare il vicolo cieco della malattia edella sofferenza psichica cronica.
Guido arriva a casa
Il piacere dell’arrivo di Guido a casa è stato offuscato da un velo ditristezza, preceduto da qualche sentimento di invidia spuntato quando vedevamoaltri genitori che portavano a casa i loro figli sani. Poi tutto si è messo inmoto come per tutti gli altri genitori. Il papà continuava il suo impegnoprofessionale e di vita quotidiana collaborando come poteva e, come tutti ipadri, osservando un po’ dall’esterno la coppia mamma-bambino. Come abbiamodescritto nel capitolo precedente rimuginava ed elaborava prevalentemente perconto proprio i suoi crucci, i suoi problemi, e i suoi piaceri. È naturale chesia così nei primi mesi di vita di un figlio. Lasciamo quindi che sia ancora lamamma da sola a parlare di quel periodo in prima persona.
Letture e diari
Il mio desiderio di leggere, di informarmi sull’handicap di mio figlio eranel frattempo spuntato. Forse per proteggermi dall’angoscia leggevo, consultavo,rileggevo testi sull’educazione precoce. La mia formazione e la mia recenteesperienza professionale mi avevano già accostata, al tema, ma ora eroparticolarmente motivata ad osservare, a proporre, ad escogitare, ad annotaregiorno dopo giorno tutto ciò che lo concerneva.
I diari di questi primi anni sono particolarmente ricchi di annotazioni sulcampo educativo, alimentare e medico, tanto è vero che un’infermiera nel corsodi una delle visite che Guido ha subito all’ospedale si era meravigliatadell’accuratezza con la quale annotavo ogni più piccolo fatto.
Moltissima parte del mio tempo e delle mie energie infatti li dedicavo a miofiglio, ma avevo l’impressione che la cosa non mi pesasse, anzi mi sentivogratificata dal compito che mi ero assunta organizzando e coordinando il miotempo anche in funzione di altre attività extra familiari che svolgevo. Eroancora in congedo di maternità e avrei ripreso a lavorare parzialmente soloquando Guido avrebbe avuto circa 10 mesi.
Lottare contro l’impotenza
Quando, a inizio febbraio è arrivato il risultato dell’esame del cariotipodal laboratorio di genetica, che confermava la trisomia 21, le annotazioni suldiario sono divenute estremamente concise: accanto al termine tecnico un puntodi domanda. Dovevo lottare contro il sentimento di morte, contro l’impotenza,dare un senso alla mia vita occupandomi attivamente di mio figlio: è quello cheho sempre fatto e che continuo a fare in misura diversa tuttora.
I miei stati d’animo di allora passavano velocemente da un grande desiderio difare, di essere attiva, a sentimenti di depressione che mi mettevano a confrontocon i limiti della situazione che stavo vivendo. Le annotazioni sul diario eranoa senso unico, parlavo solo di Guido, non potevo parlare di me. Era troppodoloroso soffermarmi sul nostro rapporto e su ciò che questo figliorappresentava.
Ricordo i sentimenti di imbarazzo, di vergogna quando portavo a passeggio Guidoi primi tempi, e qualche conoscente o qualche passante si chinava a scrutarlonella carrozzina, dove lui stava il più delle volte beato nel sonno.
Dopo i complimenti per la nascita, la conversazione sul piccolo si arrestava. Avolte ero io che dopo un certo sforzo accennavo a qualche considerazione suGuido, dimostrando così che si poteva parlare anche di lui. Avevo il più dellevolte l’impressione che la situazione si sbloccasse, ricevendo in tal sensoun’eco positiva dai miei interlocutori occasionali. Io d’altro canto mi sentivomeno angosciata, come se una prova fosse superata, e mi sembrava allora di poteravere il coraggio di affrontare le successive occasioni simili a queste che misi sarebbero di nuovo presentate.
Pensando alle possibili reazioni altrui mi tornava alla mente il mio primocontatto con i ragazzi handicappati quando, a 18 anni, avevo fatto con loroun’esperienza di colonia. Allora la mia reazione immediata era stata di rifiuto,e mi sono detta: "Non potrò mai lavorare con loro!".
Capisco pure che se un estraneo si trova di fronte tutto ad un tratto a unhandicappato di qualsiasi tipo possa provare imbarazzo (almeno secondo unostereotipo e l’esperienza comuni), e capisco pure che per evitare l’imbarazzoegli possa assumere un atteggiamento evasivo, sfuggente. Era questo forse che mipesava, ed in questo pensiero implicavo un po’ tutti: dal personaleinfermieristico, ai medici, ai conoscenti. Il più delle volte avevo lasensazione, puramente soggettiva, di essere svalorizzata appena mi ritrovavo inloro presenza con mio figlio. Bastava però che entrassi in relazione con loroparlando di lui, che Guido diventasse il soggetto principale dellaconversazione, perché di conseguenza mi ritrovassi con la mia immaginerestaurata, quella di una brava madre che si occupava di lui.
Molti ricordi a cavallo tra la fine del primo anno e l’inizio del secondo annodi vita di nostro figlio sono offuscati da un velo di tristezza, come lacataratta che si era manifestata, poiché in quel periodo ha inizio il calvariodegli esami medici, delle ospedalizzazioni, degli interventi chirurgici. Era unlungo tunnel che ci aspettava, dal quale saremmo usciti solo parecchi anni dopo.
L’immagine di Guido tuttavia ci si riproponeva nella sua naturalezza al di làdei momenti drammatici che a volte ci coinvolgevano, Ricordo la suapartecipazione alle canzoncine ritmate, ai giochi tipici che si propongono aipiccoli di questa età, alle prime favole, fra le quali aveva predilettoCappuccetto Rosso, che si prestava molto bene per suscitare la sua attenzione eil suo gioioso coinvolgimento, grazie alle onomatopee, e ai giochi di movimentoe di parole che permetteva.
Nascita ed all’impatto con il bambino diverso
In quanto madre e padre di un bambino handicappato non abbiamo potutodescrivere che separatamente i nostri vissuti profondi e la nostra esperienza, inostro impatto con l’arrivo di Guido, nonché l’assunzione della coscienzadell’handicap. Riteniamo che, proprio per la specificità dei ruoli paterni ematerni e delle sottostanti identità sessuali, i primi movimenti emozionali edi elaborazione avvengano in modo differenziato, e solo progressivamente sistrutturano in movimenti comuni, di coppia, a meno che i genitori stessi sitrovino in una condizione grande dipendenza reciproca, o precipitino in talecondizione in modo traumatico al momento della nascita del figlio malato,soprattutto se si tratta del primo.
Dentro la coppia mamma-bambino
La normale dipendenza reciproca che esiste nel rapporto madre-neonato siaccentua nel rapporto madre-neonato malato, a meno che, all’estremo opposto, nonscatti un immediato meccanismo di rigetto, come non di rado succede. Conl’accentuazione della dipendenza tra sé ed il bambino la madre si difende puredai sentimenti di vergogna, di colpa, dal dolore dovuto alle fantasie dideterioramento della propria femminilità, di sconfitta di fronte alle fantasiedi rivalità con la propria madre.
È sulla base di queste problematiche che non è difficile incontrare dellemadri che si chiudono in un rapporto fusione, parassitario, con il figliomalato.
Accanto a questa coppia chiusa madre-bambino il padre può ritrovarsi piùfacilmente in posizione di esclusione, di solitudine, di rabbia.
Per la coppia, all’inizio è veramente difficile scambiarsi i propri vissuti, edil rischio che ognuno "vada per conto proprio" alimentando vere eproprie scissioni coniugali, non è di poco conto. Non è un caso che unanascita perturbata "provochi" una rottura del rapporto di coppia, Sulversante opposto si può invece assistere allo sviluppo di alleanze inadeguatesviluppate dalla coppia "contro" interventi e realtà esterni vissuticome "nemici".
Questi fenomeni opposti non si escludono necessariamente a vicenda, ma possonocoesistere in misura diversa, o alternarsi.
Di chi la colpa?
Non sono poi da trascurare le possibili accuse reciproche o autoaccusecoscienti o inconsce, comunque difficilmente esprimibili, riguardanti i fantasmidi trasmissione familiare: di chi è la colpa? dove si situa la "causaereditaria"? La presenza di possibili cause ereditarie reali, comprovate,determina comunque la rappresentazione (conscia o inconscia) del coniuge"trasmettitore" della malattia, e ne deteriora l’immagine: anchequesto può provocare gravi conflitti, magari "solo" latenti, maproprio perché latenti di difficile elaborazione. A questo punto non si puòevitare un riferimento ai possibili sensi di colpa, di cui si parla sovente. Ilsenso di colpa cosciente dovuto al fatto di aver procreato un figlio malato è,secondo noi, solo la punta visibile dell’iceberg. Sotto si nascondono sensi dicolpa inconsci, derivanti da due livelli. Il livello più profondo riguardaantichi fantasmi: "se il destino ci ha punito con la nascita di un bambinomalato significa che abbiamo delle antiche colpe da espiare, risalenti aidesideri proibiti dell’infanzia". Ad un livello più "attuale", isensi di colpa coscienti nascondono il senso di colpa meno cosciente dovuto aisentimenti aggressivi che si covano nei confronti del bambino, all’impulso dieliminarlo o per lo meno ai pensieri del tipo "sarebbe stato meglio se nonfosse nato".
Nel nostro caso l’elaborazione di questi sentimenti e pensieri ci ha portato a"rileggere" retrospettivamente la minaccia di aborto che eraintervenuta al terzo mese di gravidanza: era un provvedimento che la naturaaveva preso autonomamente in presenza di un difetto congenito? non sarebbequindi stato meglio lasciare che la natura facesse il suo corso?… Ci sarebbestato un altro Guido… ma non è ancora detto che la natura o la cultura ciavrebbero evitato altri guai.
Per quanto ci riguarda, se ora possiamo parlare di queste cose così tragiche inquesto modo, significa che siamo stati capaci, anche grazie alle nostre analisipersonali, di evitare tali impervie zone emozionali. Evidentemente la percezionee l’elaborazione della nostra sofferenza e dei nostri conflitti interni nonhanno travalicato la sfera privata, nella quale solo pochi intimi (specialmenteamici e colleghi) trovavano posto.
La comunicazione della diagnosi ai genitori
Riteniamo giusto dedicare un po’ di spazio e qualche riflessione,nell’interesse di operatori e genitori, al problema della comunicazione delladiagnosi riferendoci sia alla nostra esperienza sia ad un paio di lavorisperimentali prodotti in Ticino.
Vorremmo citare a tal proposito un solo lavoro di ricerca effettuato nell’ambitodella nostra realtà: quello di G. Merzaghi, M. Merzaghi e A Bronner, Lacomunicazione dell’handicap alla famiglia (1989), che riunisce per la primavolta in un documento i vissuti e le esperienze di 47 famiglie residenti inTicino, confrontate con la nascita di un figlio portatore di handicap. Il lavoroè motto interessante e ne consigliamo lo studio integrale piuttosto chesoffermarci sui dettagli perché ci porterebbero troppo lontano.
Ne riprendiamo qui solo un aspetto che secondo gli autori vale la pena di essereripensato e modificato "quel tanto da permettere di attenuare almeno inparte le difficoltà e le complicazioni artificiose… delle quali le famigliefarebbero volentieri a meno", cioè i rapporti medico-genitori, rapportisovente caratterizzati da difficoltà emozionali.
Solitamente in Ticino sono due i medici che seguono la mamma rispettivamentedurante la gestazione e dopo il parto. Sono il ginecologo e il pediatra.
Quando tutto si svolge senza complicazioni, il ginecologo esaurisce il suocompito alla fine del parto (o alcuni giorni prima se non è presente al parto)e gli subentra il pediatra.
Questo avviene regolarmente, sia che la mamma dia alla luce il suo primo figliosia che ne abbia avuti altri in precedenza. Questo cambio di persona sembraessere la cosa più logica e apparentemente avviene senza creare vuoti ostrappi.
Chi aiuta i neo-genitori?
Il quesito che poniamo è il seguente: questa prassi non dovrebbe essereripensata qualora il neonato, indipendentemente dai motivi, presentasse problemiimportanti, tali da essere comunicati subito ai genitori? La presenza dei duespecialisti non sarebbe di maggior aiuto per tutti? Le informazioni e lerisposte date non sarebbero più complete e rassicuranti? Noi crediamo di sìperché, mentre il ginecologo, oltre ad avere a disposizione i dati clinicidella gravidanza, ha l’enorme vantaggio di conoscere almeno la mamma e d’averegià un rapporto di fiducia con lei, il pediatra si trova generalmente di frontea genitori mai conosciuti prima e non dispone, comunque, dei dati relativi allagravidanza.
Questi non sono aspetti trascurabili né per i genitori né per i mediciconsiderato l’onere emozionale che si apprestano ad affrontare.
Ancora sulla comunicazione dell’handicap, Merzaghi e collaboratori riferisconoche nella maggior parte dei casi la comunicazione viene fatta a uno solo deigenitori oppure ai due ma in momenti diversi. Questo fatto oltre ad aumentare latensione nella coppia non evita le accuse reciproche e non favorisce sicuramenteil sostegno vicendevole fra i genitori.
Una figura forte e competente per coordinare
Sempre per ciò che concerne il momento dell’annuncio e i momenti successivinei quali si resta disorientati e angosciati, sentiamo il bisogno come genitoridi essere informati, vogliamo porre delle domande sull’origine dell’handicap,sulla prognosi e sulle possibilità d’intervento, d’educazione. La nostraesperienza ci suggerisce di pensare alla possibilità della vita associativa nonsolo nell’ambito delle associazioni di genitori con figli handicappati, ma anche(e soprattutto) nell’ambito di gruppi spontanei o strutturati aventi i piùsvariati scopi: sportivi, ricreativi ecc. Ciò permette un vera socializzazionee una buona riparazione dell’immagine attraverso attività o incontri condivisiin ambienti relativamente strutturati e al riparo da fattori depressivanti.
Per concludere diremo che la comunicazione della diagnosi non consiste solo inun’azione puntuale e unica, ben condotta che sia: è invece l’inizio di unprocesso continuo che consiste nel fare sistematicamente il punto sullo statoevolutivo del bambino e delle sue necessità, per verificare e adattare di voltain volta gli interventi. Questa verifica dinamica dovrebbe essere condotta dauna "figura forte" (pedopsichiatra o psicologo clinico di vastaesperienza) e non lasciata alla individualità dei singoli operatori, pena ilprodursi di una mappa spezzettata della realtà del bambino e dei genitori.Nella nostra esperienza abbiamo sentito molto la mancanza di questa "figuraforte". Purtroppo e paradossalmente, soprattutto all’inizio dellascolarità, e forse prima, in molti casi siamo stati noi stessi a coordinare gliinterventi e le alleanze di lavoro tra operatori (e a volte anche apromuoverli), con tutte le difficoltà e le rivalità del caso. L’alternativasarebbe però stata lo spezzettamento di interventi singolarmente validi, madiscordanti se non addirittura contraddittori.
(*) Tratto dal libro Vivere con un figlio Down, di Daniela e GiangiacomoCarbonetti, Franco Angeli editore