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Autore: admin

Ai limiti della riabilitazione

“Il recitare è una delle poche attività che si possono fare anche avendo limiti fisici e mentali enormi; in questo senso è importante il concetto di “possibilità espressiva” che il teatro offre, mentre la vita quotidiana no. Sul palcoscenico c’è una dimensione fungibile in cui tutto si può trasformare, fare, inventare, rendere plausibile; ci si sente meno limitati, meno disabili”. Intervista a Nanni Garella, regista teatraleDa alcuni anni, in collaborazione con l’Arena del Sole di Bologna, stai realizzando laboratori teatrali e spettacoli con attori disabili. Cosa ha significato per te questa esperienza?

Per me è stata una svolta abbastanza importante, per lo meno in ambito lavorativo, così come per i danzatori, gli attori, i tecnici, etc…Tutti hanno tratto grande giovamento da questa esperienza, forse perché lavorando in teatro si guardano le cose in maniera diversa rispetto alla realtà quotidiana; ci sono infatti diverse realtà, non solo quelle dei disabili, ma anche quelle dei poveri (“sono disabili anche loro”). E’ necessario “mettere il naso fuori dai teatri” per cercare di rappresentare il mondo, anche per chi come me fa teatro tradizionale (Goldoni, Pirandello, Shakespeare, ecc…); questo è stato lo stimolo iniziale per intraprendere questo tipo di esperienza, cioè confrontarsi con un mondo che noi tendiamo ad emarginare, a ghettizzare, col risultato di autoghettizzarci.

Cosa vuol dire affrontare le diverse forme di disabilità e qual è stato il tuo approccio?

Il laboratorio è partito con un’esigenza: trovare due attori da scritturare; quest’ultimo ha poi pian piano sviluppato una sua autonomia. Noi avevamo di fronte due o tre tipi di disabilità, sia fisica che mentale; nell’approccio con il teatro, cioè con la recitazione (che significa mettersi in discussione, costruire un personaggio, recitare davanti al pubblico) i ragazzi hanno avuto comportamenti differenti. Anche noi abbiamo imparato a comportarci in maniera diversa, a seconda dell’individualità con la quale si lavorava. D’altronde siamo già abituati a lavorare in questa maniera, gli attori stessi sono in parte disabili, come ho già più volte ripetuto. Per fare questo tipo di lavoro è necessario quindi lavorare “uno per uno”, per evitare che il risultato collettivo sia penalizzato.

Quali sono le peculiarità nell’affrontare un handicap fisico e quali invece per un handicap mentale? E ancora: esiste una diversità tra handicap e “normalità”? E se sì, l’hai riscontrata nel rapportarti ai ragazzi come “soggetti di teatro” ?

Ho rafforzato alcune convinzioni che avevo già: tutti possono recitare nella loro vita, ma non tutti sono attori (questo è naturale), perché non tutti hanno il talento. A parte questa distinzione, se noi consideriamo il teatro come forma terapeutica non credo che sia “buono” per tutti; può essere un’esperienza laboratoriale interessante da fare, ma dev’essere indirizzata in maniera che le persone riescano a tirar fuori le loro capacita relazionali e di superamento delle inibizioni. Ci sono persone per le quali questo “lavoro” ha una funzione unicamente terapeutica; per altre invece è possibile ricavare altri benefici da questa esperienza, sotto forma di capacità professionali o “artigianali” da utilizzare successivamente; in questo caso però entra in gioco il talento e la capacità dei singoli di farne uso (sono i casi di Vania, Elena e Valentina). Altra considerazione: le diverse forme di disabilità contano poco ai fini del risultato finale dal punto di vista artistico-estetico (così come non è rilevante la differenza tra attori esperti e meno esperti); la chiave di tutto è il talento.
Il “recitare” è una delle poche attività che si possono fare anche avendo limiti fisici e mentali enormi; in questo senso è importante il concetto di “possibilità espressiva” che il teatro offre, mentre la vita quotidiana no. Sul palcoscenico c’è una dimensione fungibile in cui tutto si può trasformare, fare, inventare, rendere plausibile; ci si sente meno limitati, meno disabili.

Il palcoscenico non è un set terapeutico, ma sicuramente ha effetti benefici: condividi?

Ci sono forme terapeutiche come lo psicodramma; noi però non abbiamo fatto questo in quanto oltre all’effetto terapeutico ci interessava costruire un oggetto d’arte, un oggetto che fosse guardabile da un pubblico normale (infatti questo pubblico è venuto a vedere il nostro spettacolo per una settimana, anche se era ancora in uno stato laboratoriale). L’obiettivo estetico non era stato trascurato; per ottenerlo si è lavorato in gruppo, un gruppo formato dai ragazzi disabili e da danzatori e attori professionisti.

Che tipo di metodologia è stata utilizzata?

Abbiamo utilizzato una metodologia simile a quella di uno spettacolo normale, con in più un tipo di lavoro di elaborazione sul testo (utilizzando una sorta di “drammaturgia quotidiana scritta”), in modo che ci sia spazio per le storie personali; si aprono dei varchi nel lavoro, nei quali i ragazzi possono immettere i loro contributi privati. Questo lavoro di drammaturgia deve andare di pari passo con un tipo di lavoro tecnico, che riguarda le possibilità espressive del corpo (mimica) e della voce (espressione verbale); noi abbiamo puntato molto sull’espressione del corpo, proprio per avere consapevolezza di se stessi. Alla fine abbiamo cercato di fondere i due aspetti, facendo piccoli passi e controllando i risultati giorno per giorno.

Queste sono le tecniche che utilizzi normalmente nel tuo lavoro?

Veramente no, nel senso che solitamente il testo non viene modificato (salvo eccezioni e comunque prima delle prove); dal punto di vista tecnico invece sì. Quindi la parte di “scrittura drammatica” quotidiana è un aspetto differente rispetto al mio standard di lavoro.
…Il teatro nasce dalla possibilità di trasferirsi in qualche altro mondo con la fantasia e di mettere radici in un’altra persona; la molla è il gioco ma non manca di certo la serietà. La possibilità per il disabile (come per tutti) di cogliere l’anima segreta di sé e degli altri mentre lavora con gli altri, è sicuramente un aspetto fondamentale; paradossalmente c’è più intensità e serietà nel fingere teatrale rispetto alla realtà.

Per Andrea, Marcello e Cristina il discorso dello spettacolo era relativo al “fare finta”; per altri invece poteva e potrebbe sembrare difficile distinguere le due cose (la realtà e la rappresentazione teatrale).

Io mi auguro che i ragazzi abbiano avuto la possibilità di mettere da parte qualche aspetto di questa esperienza, in modo che tutto ciò possa esser loro utile per il futuro; spero inoltre che l’esperienza abbia un seguito.

Tornando al gioco, alla base di questa esperienza c’è stata la volontà di farla, perché sicuramente ci si divertiva. Quanto c’è di divertimento in un lavoro teatrale (anche tradizionale)?

Dipende da quanta componente di divertimento le persone riescono a mettere nel lavoro e per quanto riescono a farlo; è chiaro che tutti ci auguriamo che la gioia e il divertimento facciano sempre parte degli spettacoli, anche se purtroppo non è sempre così.
Le cose più belle che nascono a teatro sono quelle dettate dalla gioia e dal divertimento, anche dal punto di vista estetico. In sostanza noi tentiamo di imitare la naturalità della gioia (un esempio è la “Valentina versione sposa”, così naturalmente gioiosa, come un fiume che scorre).

Non è un controsenso ricercare un senso artistico senza possedere certe conoscenze di base riguardo ai ragazzi disabili?

E’ chiaro che quando ci si avventura in una situazione così nuova, qualcosa inevitabilmente viene sacrificato; se uno però giunge ad un punto d’arrivo prefissato (salvo modiche in corso) il risultato è già buono. Infatti lo scopo dell’esperimento non era tanto far acquisire ai ragazzi capacità teatrali (così come prima, anche dopo non le possedevano; è necessario infatti lavorare tanti anni), quanto verificare le possibilità e i desideri delle persone coinvolte, rispettando le loro volontà. Se qualcuno ha espresso delle perplessità, lo ha fatto sul mio modo di fare teatro che è uguale per tutti gli spettacoli.
…Voglio vedere, nell’immediato futuro, se le tecniche di costruzione del personaggio funzioneranno anche con casi di disabilità più gravi (spastici, maniaci, etc..) rispetto a quelli affrontati in questa esperienza. Esperienza che personalmente giudico molto positiva, dal punto di vista artistico-estetico, nonché simbolico legato alla “diversità”. E’ necessario affrontare il concetto di uguaglianza in maniera differente rispetto ai canoni soliti.

Pensare positivo

L’A.B.C.(Associazione Bambini Cerebrolesi) è una giovane associazione impegnata a sottolineare l’importanza della famiglia nel processo di riabilitazione. Proviamo a risillabare l’alfabeto dei servizi con l’aiuto del presidente dell’A.B.C.Quando nel novembre 1996 abbiamo organizzato a Cagliari il convegno “Come la famiglia, così la società” ciò nasceva da due motivazioni principali. Molti di noi erano stufi di sentire in ambienti medici, non tutti chiaramente, per fortuna, la parola cerebrolesione immancabilmente associata al concetto di non intelligenza. Certo, noi avevamo imparato ad immedesimarci nei nostri gioielli, ed a capire che se una lesione cerebrale ti può impedire l’uso del braccio, alla stessa maniera ti può impedire di parlare, oppure di controllare lo sguardo o la convergenza oculare o sorridere o tutte queste cose insieme. Per noi era ovvio che i nostri bambini certamente volevano, ma non potevano; ultimamente, comunque possiamo dire che anche le neuroscienze stanno ottenendo dei risultati che sembrano confermare questa nostra intuizione di genitori. Mettere in chiaro questo fatto per tanti di noi era molto importante: ma il motivo vero, quello che ci sembrava il più importante per cui valeva la pena fare quel convegno, è che avevamo pensato fosse venuto il momento di portare a vita pubblica l’esperienza della vita dura e meravigliosa che conduciamo con i nostri bambini. Più guardavamo alla società che ci circonda, più era chiaro che non eravamo oggetti di passiva assistenza, ma che avevamo maturato nella nostra vita quotidiana una coscienza sociale propositiva. A qualcuno sembrerà paradossale. Cosa poteva dare alla società, come poteva una famiglia duramente colpita, pensare positivo.

Famiglia: luogo della fiducia…

Noi crediamo che la famiglia non sia un luogo idilliaco, questo lo lasciamo dire a qualche creativo pubblicitario che pensa così di poter vendere più detersivi o merendine. A volte però ci ha un po’ sconcertato ed amareggiato il fatto che alcuni professionisti del settore sociale, e anche di altri settori, sempre in buona fede, dipingevano davanti ai nostri occhi scenari apocalittici per una famiglia alle prese con una difficoltà. Quante volte ci è stato detto: “..non pensate ai vostri bambini cerebrolesi, pensate al lavoro, alla carriera, state attenti, non lasciatevi coinvolgere troppo perché poi la famiglia si sfascia, affidateli a noi, ci pensiamo noi!”. Sentivamo l’esigenza di agire anzi di reagire, ma come? Non certo con attacchi personali a quello o a quell’altro professionista, che con parole ben scelte provava a smorzare la nostra fiducia nei nostri bambini, o a quell’istituzione che continuava a ripetere che il loro destino era solo nell’internamento, dovevamo combattere e provocare. Così come i nostri bambini ci avevano insegnato, con la forza di chi non ha niente da difendere, combattere contro l’indifferentismo reciproco ed il cinismo. Provocare mostrando l’esperienza della nostra vita. Se è vero che nella famiglia si manifestano le più dure piaghe sociali e personali, è anche vero che, a differenza di altre istituzioni, la famiglia se sostenuta ha risorse proprie per affrontare queste difficoltà, creare soluzioni che non di rado possono costituire un esempio anche per altre forme di aggregazione sociale, su ogni scala dalla più semplice a quella più complessa. L’amore gratuito si esprime in molti modi all’interno di una famiglia, in particolare colpisce la capacità del nucleo familiare di adattarsi alle necessità anche di uno solo dei suoi membri. Come genitori, fratelli, amici, volontari, abbiamo gli argomenti per mostrare che la presenza di un bambino cerebroleso, non solo non rende infelice l’esistenza, ma può fornire numerosissimi stimoli per un arricchimento umano, morale e sociale. L’aver capito infatti, grazie alla realtà che viviamo ogni giorno, qual è il nostro ruolo naturale, ci permette di rafforzare il nostro legame d’amore fondamentale, sia all’interno della famiglia, sia nella comunità che ci circonda, creando una vera e propria cultura del dare.

…e di servizio

Uno dei principali problemi con i quali ci scontriamo spesso, deriva dalla mancata integrazione tra questo modello, questa esperienza e le politiche e gli interventi sociosanitari. Il sistema sanitario nazionale tende infatti ad escludere la famiglia dal progetto e dallo sviluppo del programma di riabilitazione del proprio bambino. Per questo pensiamo che la pubblica amministrazione debba sostenere la famiglia come nucleo centrale del processo di cura, indirizzando le proprie competenze, mediche terapeutiche, organizzative e sociali, a sostegno di questo progetto. Non si dovrebbe mai colpevolizzare la famiglia, anche quella più in difficoltà, ma piuttosto, sostenerla. Riconoscere la famiglia quale ambiente naturale per la vita di qualunque bambino, e riconoscere il ruolo fondamentale del volontariato. In questo senso va perseguita una distribuzione sul territorio di strutture e di servizi il più capillare possibile, per rendere, soprattutto al disabile grave, un servizio a misura del singolo, un servizio umanizzato, che comprenda anche la scuola. Contemporaneamente occorre disincentivare la creazione di strutture e di servizi “mangia soldi”, quelli che non chiamiamo con espressione un po’ forte, “Istituti Lager”. Così come il ricovero contemporaneo di centinaia di persone con costi inutili e sprechi e favorire invece la creazione di case famiglia con pochi componenti, unica alternativa valida alla famiglia nel caso in cui questa manchi, o quando le persone raggiungono la propria autonomia e possono liberamente scegliere. Ma soprattutto vorremmo che presso l’opinione pubblica si creasse la consapevolezza che anche il disabile grave è un patrimonio attivo della collettività, e che non si misura la dignità e la felicita dell’uomo con parametri produttivi o aziendali. Abbiamo a cuore il futuro dei nostri bambini, la loro dignità, così come quella di tutti i disabili soprattutto di quelli gravissimi, sia come individui che come soggetti sociali, non possiamo non assumerci in prima persona, la responsabilità di creare loro un futuro migliore, ed un ambiente favorevole al loro sviluppo ed alla loro integrazione, anche attraverso la proposta di nuove politiche sociali e sanitarie. Vorrei ringraziare chi in questi anni ha fatto un pezzo di strada con noi, ma più di tutti la nostra riconoscenza va ai bambini dei quali siamo orgogliosi di essere genitori, per aver cambiato la nostra vita. In meglio.

Appalti d’oro sulla formazione

Di recente anche le cronache dei giornali si sono occupati di insegnanti di sostegno, cosa che peraltro non fanno mai, in occasione della riapertura dei corsi di formazione gestiti da associazioni private; di seguito un articolo tratto dal quotidiano L’Unità del 4.9.99Ricordiamo che i corsi di specializzazione universitari previsti dalla legge 341/90 avrebbero dovuto partire quest’anno per terminare nell’anno accademico 2001/2002 e seguenti; per ora non sono stati attivati da nessun Ateneo.

“L’handicap vale miliardi. Molte università hanno stipulato convenzioni con alcune associazioni private per corsi ai docenti dai costi faraonici. La denuncia della Cgil scuola E rano bloccati dal 1991 ma ora che si sono riaperti, per i corsi di specializzazione sull’handicap è caccia grossa. E il bottino rischia di essere cospicuo dal momento che, a conti fatti, si tratta di un affare di decine e decine di miliardi. I conti – e la denuncia – li ha fatti Enrico Panini, segretario nazionale della Cgil scuola che in una nota tira le somme: “Per ogni 100 persone iscritte a una prova, un ente incassa dai 13 ai 20 milioni. In alcuni casi si parla di 1.000 iscritti per cui le cifre lievitano a 130/200milioni solo per la prova di selezione”. Ma ben oltre la selezione, per ciascuno dei 40 docenti che seguirà interamente il corso la cifra a suo carico è stabilita, nel biennio, tra gli 8 e i 9 milioni. Il che porta gli incassi dell’ente ad una cifra compresa tra i 320 e i 400 milioni. “Ovviamente – chiarisce Panini – gli importi vanno moltiplicati per il numero di corsi attivati con ogni convenzione”. E, dulcis in fundo, “in alcuni casi sarebbero stati ‘vivamente’ consigliati – conclude il segretario Cgil – corsi propedeutici a pagamento. Per un corsista la speranza di un posto di lavoro costa circa 10 milioni”.” Falsi puritani”, tuona il presidente dell’Aias di Napoli, l’Associazione italiana di assistenza spastici, contro la denuncia della Cgil.” Si sono scatenati perché sono stati esclusi dalle convenzioni. Comunque, noi abbiamo le carte in regola, non come quelli dell’ Ansi che non si capisce come siano riusciti a farsi assegnare 400 corsi in tutta Italia”. Dall’elenco fornito dal sindacato, infatti, risulta che la parte del leone negli appalti è sbilanciata verso il sud e in favore di associazioni molto vicine con la più antica e incistita tradizione democristiana. Un bel boccone, infatti, lo ha divorato l’Ansi, l’Associazione della scuola italiana, nata nel1946 e per anni oscuro ma solidissimo baluardo Dc. Il business della formazione queste e altre consimili associazioni lo hanno gestito per anni ma dal ’91 – anche a causa dello scandalo che ha travolto tutto il mondo della formazione professionale – il rubinetto si era chiuso. Ora, e sembra per l’ultima volta, è stato riaperto (decreto ministeriale 460 del 27/11/98) e può far scorrere quattrini come l’acqua. Ma perché è così ambito un pezzo di carta che fornisce un titolo di specializzazione per insegnare a bambini e ragazzi portatori di handicap? Soprattutto dal momento che questi docenti sono stati, negli anni, ridotti a qualche sparuto drappello? La ragione è senza dubbio il bisogno di lavorare ed acquisire titoli in più, ancorché effimeri. Ma aleggia anche l’idea che, dopo questa ultima tornata, i corsi non si faranno più, sostituiti da un apposito corso di laurea. E, in terzo luogo, c’è il miraggio dell’ultimo contratto che concede qualche centinaia di migliaia di lire in più ai docenti che seguono gli studenti che nessuno vuole. Un combinato destinato ad alimentare le peggiori “vocazioni”.”

Cinema e handicap acquisito

C’è un intero filone cinematografico – presente in modo consistente soprattutto nel cinema americano – che racconta le vicende di personaggi con handicap acquisiti: è l’insieme dei film sui reduci di guerra. Questo filone s’ingrossa, ovviamente, ad ogni dopoguerra: dopo la prima guerra mondiale, dopo la seconda, dopo la guerra del Vietnam … Pensiamo a classici come Uomini (o Il mio corpo ti appartiene) e a film abbastanza recenti come Tornando a casa e a Nato il 4 luglio. I protagonisti sono sempre personaggi di sesso maschile.

Film di guerra e di disabili

Questi film sono, in genere, imperniati su un duplice conflitto: un conflitto interiore, psicologico, e un conflitto esterno, sociale. Il conflitto interiore, vissuto dai protagonisti di questi film, è tra la loro identità (costruita sull’essere sani, forti e – spesso – spavaldi) e la loro nuova condizione, “indebolita” da una disabilità fisica.
Questi film finiscono – più o meno consapevolmente, più o meno esplicitamente – con lo sviluppare una critica al modello di maschio imperante nella società occidentale. Quel modello, infatti, entra in crisi non appena chi lo persegue deve fare i conti con un’avversità imprevista quale è l’acquisire un handicap.
Fino agli anni cinquanta, tuttavia, questa conflittualità doveva essere riassorbita e superata tutta e solo dal protagonista. Costui doveva riuscire ad accettare la propria disabilità, mettere da parte un po’ della propria orgogliosa indipendenza e accettare di dover farsi aiutare. Gli altri – i parenti, la fidanzata, gli amici, tutta la società circostante – facevano poco più che consolare e attendere pazientemente il superamento dello shock e la “riabilitazione” del reduce disabile. Da questi film emerge una concezione dell’handicap che possiamo considerare puramente riabilitativa.
Soltanto a partire dai film post-Vietnam l’approccio cambia. Pensiamo ai già citati Tornando a casa e Nato il 4 luglio e ad uno dei personaggi secondari di Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis.
Il conflitto interiore resta, rimane lo sforzo per ridefinire la propria identità. Ma non è più solo il reduce a doversi riadattare. Il sessantotto non è passato invano. Questi film sono permeati da uno spirito contestatario. Il reduce disabile rappresenta una spina nel fianco della società, che costringe tutti a interrogarsi sui propri valori di fondo.

Accettare poco a poco

Passiamo ora a considerare film in cui si raccontano personaggi con handicap che non sono stati acquisiti sul campo di battaglia. Anticipiamo che alcuni temi restano più o meno gli stessi.
Un primo passaggio classico delle storie è il processo di accettazione della propria nuova condizione. Questo processo si distende lungo una parte del film. Infatti, non è immediato capire cosa si può ancora fare (magari in modi diversi da prima) e cosa resta precluso. La cognizione delle proprie nuove capacità si matura durante la riabilitazione. E’ una messa a fuoco progressiva, che si attua non solo a livello mentale, ma anche a livello pratico, provando e riprovando.
Un esempio ce lo offre Vita di cristallo (1992) di Neil Jimenez e Michael Steinberg. E’ un film intenso ed è distribuito da una major, ma nelle sale italiane in pratica non ha girato. Qualche chance in più l’ha avuta nella circolazione in videocassetta.
E’ un film ambientato nello stesso istituto di riabilitazione dove era stato girato Tornando a casa. I personaggi principali – tutti e tre in sedia a rotelle in seguito ad un incidente stradale – sono interpretati da ottimi attori: Eric Stoltz, Wesley Snipes e William Forsythe. Uno è scrittore, l’altro è un playboy di colore, il terzo è un motociclista rozzo e violento. Il film racconta i primi mesi di questi tre personaggi dopo l’incidente, cioè il periodo di riabilitazione in ospedale. La loro preoccupazione più acuta riguarda la sfera sessuale: l’incidente avrà compromesso la loro virilità ? In particolare, il film analizza la relazione tra lo scrittore Joel e una donna sposata, Anna (la radiosa Helen Hunt, resa poi nota da Qualcosa è cambiato ), col quale Joel aveva una relazione fin da prima dell’incidente e con la quale ora gli è difficile riprendere un rapporto normale, dovendo superare i nuovi ostacoli che l’handicap pone.
La progressiva accettazione dell’handicap e il processo di riabilitazione sono descritti in modo molto accurato e credibile, esatto fin nei dettagli. Non a caso, si tratta di un’opera semi-autobiografica: lo sceneggiatore e co-regista Neal Jimenez (un solido professionista di Hollywood) è da alcuni anni in sedia a rotelle e ha vissuto in prima persona un’esperienza come questa.
Un altro film che parte da un’esperienza autobiografica è lo svedese Oltre il dolore, oltre la pena (1983) di e con Agneta Elers-Jarleman, che rievoca la propria convivenza con un uomo gravemente handicappato dopo un incidente.
Ovviamente, fa molta differenza se la disabilità è stabile o invece – come, ad esempio, in Go now (1996) di Michael Winterbottom– è progressiva. Il protagonista di Go now – Nick, operaio e calciatore dilettante (interpretato dal sempre bravissimo Robert Carlyle, interprete di tanti film di Ken Loach e di Trainspotting e Full Monthy ) – scopre di essere affetto da sclerosi multipla in età adulta e deve accettare una condizione che s’aggrava mese dopo mese. L’epica della forza di volontà è molto difficile da applicare a situazioni come questa. Infatti il film parte su toni scanzonati e vitalistici, ma finisce poi con l’assumere una piega nettamente tragica, pur conservando notazioni umoristiche e realistiche. Particolarmente toccante è il rapporto tra Nick e la fidanzata Karen; in questo rapporto, amore e sesso seguono – a causa della malattia – percorsi non sempre coincidenti.

Il rapporto con gli altri e con sé stesso

Un secondo passaggio è capire quale sarà il percorso di riabilitazione e quanto durerà. Qui il protagonista deve sfoderare tutta la propria pazienza e tutta la propria forza di volontà.
Un terzo passaggio consiste nel fare i conti con il se stesso di prima, ragionare su come si era. E magari individuare nuove mete e nuovi valori prima trascurati.
E’ il caso di Billy Golfus in Quando Billy si è rotto la testa … e altre storie meravigliose (1995) di David Simson e Billy Golfus. E’ un bellissimo reportage d’autore. Un giornalista radiofonico – appunto Billy Golfus – subisce una lesione cerebrale e resta semiparalizzato per un incidente stradale. Decide allora di attraversare gli Stati Uniti per incontrare alcuni singolari personaggi handicappati. Il Billy di prima dell’incidente mai avrebbe pensato d’imbarcarsi in una simile impresa. Eppure questo viaggio attraverso gli USA risulta ricco di incontri straordinari, che aprono nuove prospettive allo stesso Billy.
Un ultimo passaggio, che s’interseca con i precedenti, sta nel ridefinire i propri rapporti con gli altri: far loro capire la propria nuova condizione, fare i conti con “lo sguardo degli altri”. Questo sguardo – l’opinione degli altri – contribuisce a favorire o ostacolare la riabilitazione del protagonista, condizionando le sue prospettive di vita affettiva e lavorativa.
Un esempio ci è fornito dal film canadese Sei bella Jeanne (1987) di Robert Menard. Una giovane donna, Jeanne, perde l’uso delle gambe in seguito ad un incidente. Si ritrova in carrozzina ed è costretta a cambiare radicalmente le sue abitudini di vita. Finirà con il legarsi ad un diverso compagno, paraplegico come lei. Solo con lui riesce a condividere una prospettiva di vita comune.
Un altro esempio è quello di Piero Motta (tetraplegico in seguito ad un tuffo in mare) che parla di sé in Piero e gli altri (1990) di Piero Motta e Davide Del Boca. In questo coinvolgente documentario di soli 23 minuti, Piero sostiene una tesi importante: le persone disabili devono “uscire” per le vie, mirare ad una vita normale e chiedere d’essere aiutati quando serve, senza timidezze. Gli “altri” si dimostreranno più disponibili se i disabili per primi affronteranno l’handicap con naturalezza. Il loro “sguardo” cambierà.
Un terzo esempio è nel film cecoslovacco Eclissi parziale (1982) di Jaromil Jires, che narra il dramma di una quattordicenne, Marta, che sta diventando cieca. L’eclissi che dà il titolo al film è “l’eclissi d’identità” subita dalla protagonista in seguito all’handicap. I parenti più vicini (la madre e la sorella) non capiscono il suo dramma. Gli insegnanti nell’istituto che frequenta hanno modi scortesi e autoritari. La salvezza di Marta arriverà grazie al dottor Mos, un giovane psicologo libertario ed eccentrico che può richiamare il personaggio interpretato da Robin Williams in L’attimo fuggente. Mos ridona fiducia e forza a Marta, insegnandole a distinguere le luci e le ombre anche in un mondo diversamente illuminato.

Per avere ulteriori informazioni (anche indicazioni per la reperibilità) su questi e altri film ci si può rivolgere alla Mediateca LEDHA (tel. 02-65.70.425 )

(*) curatore della Mediateca LEDHA

Fumetti con handicap: quando la figura è in sequenza

La Gestalt non ha fatto altro che sistematizzare alcune doti percettive che l’uomo ha avuto da sempre, o per lo meno da quando si trovava nelle caverne e ha dovuto fare i conti con altri simili, e con

animali, che vedeva sparire e poi riapparire. Ogni volta che gli appariva un medesimo “altro” animato è come se avesse pensato tra sé: – Ohibò, è lo stesso di prima in un atteggiamento differente! _ Si costruiva, così, con il pensiero, una sorta di strip in sequenza che dava un certo “ordine” al suo mondo. Quell’uomo (o donna), pur così arcaico, già pensava “a fumetti”, perché, mentalmente riempiva con “fotogrammi” di pensiero la sequenza mancante dell’intervallo tra l’ultima immagine trattenuta un attimo prima che (poniamo) il partner uscisse a prendere l’acqua e la nuova immagine del rientro.
Prima che il “fumetto” moderno prendesse piede nella nostra cultura visiva, ritroviamo, tra il tardo Medioevo e il primo Rinascimento, svariati esempi di sequenze. Gli affreschi e le formelle ad altorilievo, una accanto all’altra, sui portali delle chiese per raccontare le vite di santi, sono fruibili con la stessa tecnica visiva (che riesce a passare da un elemento all’altro “cucendo” l’intervallo vuoto) con cui i nostri antenati graffiavano sulle pareti delle caverne scene di caccia come a tre finestre: nella prima il cinghiale che corre, nella seconda il cinghiale trafitto, nella terza il cinghiale ucciso trasportato dai cacciatori.
Su questa eredità visiva e percettiva, il “fumetto” modernamente inteso può meglio “giocare le proprie carte”; e talvolta – sapendo quanto siamo allenati alle “cuciture” o, per dirla con Merleau-Ponty, quanto siamo condannati al senso – può permettersi il capriccio di “costringerci” a riconoscimenti con arditi accostamenti.

Il mezzo condiziona il messaggio

Se il “mezzo” in ogni modo condiziona, o meglio si “identifica” con il “messaggio” (McLuhan, Popper), nel caso del fumetto l’operazione può essere addirittura amplificata, dal momento che, nella breve sequenza di una striscia, il carattere di un personaggio non viene solo ideologicamente deformato dal tipo di rappresentazione (la smorfia di Crudelia nella “Carica dei 101” diventa il suo marchio dall’inizio alla fine) ma, dovendo ridurre all’osso i numero delle varianti nelle poche caselle, il deforme o l’uomo inchiodato alla carrozzella o l’alieno bloccato in un marchio. Marchio che diventa necessario al riconoscimento immediato, dal momento che la nostra cultura visiva difficilmente ci permette di uscire da schemi manichei: “diverso” – buono / normale – cattivo; normale – buono / “diverso” – cattivo.
E da questa impronta indelebile non si esce se no con varianti minime per la espressione del viso, e no per la postura, come è il caso del cinico Professor Xavier nella serie degli X-MEN.
Già tra gli anni ’60 e ’70 ,certo anche per influenza di altri strumenti di “racconto visivo”, accanto a strisce di “fumetti” tradizionali in cui le sequenze di parecchi gesti in successione andavano a costruire una azione, si trovano strisce a volte spregiudicate, ora per il “taglio”, ora per gli “anacoluti”. Riguardo al “taglio” (Crepax, Maltese) spesso vengono amplificati pezzi di particolari – un seno, una mano rapace, mezza ruota di carrozzella – sapendo quanto il Lettore (o lettore-modello) abbia competenza per entrare in questo tipo di codice visivo, completando mentalmente e cucendo i frammenti. Riguardo ai “salti” (o non-sèguiti, gli anacoluti appunto) si rivedano appunto le strisce di Andrea Pazienza, che riesce meglio a lavorare sugli stati d’animo perché appunto può tralasciare la grammatica della coerenza delle sequenze. Così, in “Pasqua” (della raccolta “Tormenta”, 1985), diventa più eloquente scandire in sei primi piani i melodramma di una noia borghese, dal momento che “qui il disabile è un ricco a cui il deficit non ha insegnato ad essere più umano come vorrebbe la retorica dell’handicappato” (N.Rabbi).
Ecco quindi: la maniglia di una porta, una figura rannicchiata sulla poltrona, una tazza di caffè fumante sorretta con il vassoio sul fondo nero, l’inserviente a mezzo busto che porta il caffè con il “buongiorno” (uno sbadiglio di fianco), l’inserviente che si piega sul vassoio verso il letto, i profilo spettinato di qualcuno che beve il caffè .
Di questa essenzialità, fruibile, è lo stesso Pazienza a sottolineare l’efficacia: “Ogni gesto è ridotto al minimo, nessuno sfondo…”. Un po’ come il teatro giapponese.

La psiche in carrozzella

Se dunque Vincenzo Mollica, nella prefazione a “Tormenta”, definisce il fumetto di Pazienza: “un arcobaleno indelebile che si poggia da un lato sulla tavolozza dei sentimenti e dall’altro su quel curioso mosaico di attimi che è l’avventura umana”, è perché si stava organizzando un nuovo modello per rappresentare l’handicap. Oltre gli estremi manichei, di handicappato buono e handicappato cattivo, si cerca di “mettere in striscia” anche l’handicappato cinico, il nevrotico, il depresso e l’handicappato “senza qualità”, caratteri che la letteratura e il teatro europei avevano approfondito fin dagli anni Venti.
Ma, si sa, “mettere in scena” è ben altra cosa che “mettere in striscia”.
Si cercava di rappresentare qualcosa di nuovo orientandosi sui caratteri psicologici. Così acquistano sempre più importanza le frasi, dette o pensate, racchiuse nella nuvoletta, mentre la Psiche non trova posto migliore che inchiodarsi in una carrozzella.
Ci si allontana sempre di più da fumetto per divertire i bambini, le nuove strisce sono più seriose, più rivolte all’adulto, a volte sarcastiche ma soprattutto moraleggianti: “Forse l’intelligenza è accettare quello che sei, dovunque e chiunque tu sia”, si legge verso la fine de il “Rubinetto al termine dell’universo”.

Basterebbe un puntino

In fondo, Mafalda di Quino o i paradossi di Volinsky non avevano bisogno di una faccia depressa o delle raggiere di una carrozzella per dire che i mondo rotola verso l’indifferenza. Bastava un dito su naso i segno di dubbio o riflessione (es. Mafalda rivolta al padre che sta leggendo: “Papà, che vuol dire handicappato?”. Il Padre: “Va’, va’ a giocare, Mafalda, non son cose per la tua età.”. Mafalda, rassegnata se ne va brontolando: “Ho capito, si tratta di sesso!”.).
Ora occorrono segnali forti, troppo forti, a volte urlati: a scapito dell’efficacia. Fatto è che sembra esserci qualcosa di continuità, nell’arco di quarant’anni, sul rinnovamento manicheismo che non lascia spazio nemmeno ad una nuvoletta di sorriso ironico. Se in X-MEN (USA, anni ’60) nell’episodio “The Mimic!”, l’uomo-angelo protegge e sovrasta (anche figurativamente) il cinico Professore emiplegico in carrozzella, nella battaglia contro angeli malefici, in una recente storia a fumetti, “Cronaca del grande male” di David B., ecco per l’ennesima volta il dramma della protezione. La classica famiglia piccolo-borghese si trova a gestire il figlio epilettico: certo accostabile (dal punto di vista preso in considerazione) alle “amarezze metropolitane” di Munoz e di Altan, piuttosto che ad una strip di Walt Disney dove ancora può commuoversi e riflettere sulle ingiustizie senza bisogno di carrozzelle. A ragione Goffredo Fofi (“SOLE 24 ORE” del 18 ott.99) la definisce “una sorta di romanzo antropologico”, e come tale, non ha bisogno di particolari stratagemmi grafici per denotare questo handicappato: gli è sufficiente un corpicino smunto, un paio di occhialoni professorali appoggiati su un testone un po’ inebetito…Basta questo, perché è il contesto, è ciò che gli sta attorno che “dice” del suo male: neri assoluti, occhi animaleschi nel buio, tronchi antropomorfi, profili di teschi con dentiere spettrali esageratamente ostentate!
E l’ironia dove è andata a finire?
A volte, per riflettere sulla diversità, fisica o psichica che sia, mi chiedo se, al posto di storie deprimenti marchiate da ghigni e da carrozzelle, non sia più efficace quella semplicissima striscia de “Il puntino verde” di Gianni Rodari, dove due puntini (uno giallo e l’altro blu) mentre giocano all’aperto si abbracciano e diventano un unico puntino verde. Fattasi sera, bussano alla famiglia “gialla”, ma i genitori non riconoscono il figlio giallo e sbattono la porta; bussano quindi alla famiglia “blu”, ma i genitori non riconoscono il figlio blu e pure loro sbattono la porta. Solo piangendo scioglieranno il colore verde: così l’uno ritornerà giallo e l’altro ritornerà blu.
Chissà perché occorre ancora piangere per qualche nuvoletta di identità?

Lo scafandro e la farfalla

Eccoci quasi arrivati alla fine del cammino, e mi resta da evocare quel venerdì 8 dicembre 1995 di funesta memoria. Sin dall’inizio ho voglia di raccontare i miei ultimi momenti di terrestre perfettamente funzionante, ma ho tanto rimandato che ora mi assalgono le vertigini al momento di effettuare questo salto nel passato. Non so da dove prenderle, quelle ore pesanti e vane, impercettibili come le gocce di mercurio di un termometro spezzato. Le parole sfuggono. Come raccontare il corpo morbido e tiepido della donna bruna contro il quale ci si sveglia per l’ultima volta senza prestarvi attenzione, quasi brontolando. Tutto era grigio, pastoso e rassegnato: il cielo, le persone, la città sfinita da diversi giorni di sciopero dei trasporti pubblici. Al pari di milioni di parigini, Florence e io incominciavamo questa nuova giornata di discesa in un caos inestrícabfle come due zombie, l’occhio vuoto e la carnagione stanca. Compievo macchinalmente tutti queí gesti semplici che mi sembrano ora miracolosi: rasarsi, vestirsi, bere una tazza di cioccolata. Da settimane avevo fissato questo giorno per provare il nuovo modello di un’auto tedesca, il cui importatore mi metteva a disposizíone una macchina con autista per la giornata. All’ora stabilita, un giovanotto impeccabile mi aspetta davanti al portone dello stabile, appoggiato a una BMW grigio metaflízato. Dalla finestra osservo la grande berlina massiccia, lussuosa. Con la mia vecchia giacca di jeans mi chiedo che effetto farò dentro questa carrozza per super manager. Appoggio la fronte contro il vetro per sentire il freddo. Florence mi accarezza dolcemente la nuca. Gli addii sono furtivi, le nostre labbra si sfiorano appena. Già scendo le scale i cui gradini sanno di cera. Sarà l’ultímo odore dei tempi antichi.
I read the news today, o boy…
Tra due bollettini sul traffico apocalittico, la radio trasmette una canzone dei Beatles, A day l’n the life. Stavo per scrivere una « vecchia » canzone dei Beatles, per pleonasmo, dato che la loro ultima registrazione risale al 1970. Attraverso il Bois de Boulogne, la BMW scivola come un tappeto volante, bozzolo di dolcezza e di voluttà. L’autista è simpatíco. Gli espongo i piani per il pomeriggio: andare a prendere mio figlio da stia madre a quaranta chilometrí da Parigí e riportarlo in città all’inízio della serata.
He did not notìce that the lights bad changed..
E’ dal mese di luglio, da quando ho disertato il domicilio familiare, che Théophile e io non abbiamo avuto un vero faccia a faccia, una conversazione tra uomini. Penso di portarlo a teatro al nuovo spettacolo di Arias e poi a mangiare qualche ostrica in una brasserie di place Clichy. E’ deciso, passiamo al fine settimana insieme. Spero solo che lo sciopero non ostacoli i nostri progetti.
I’d like to turn jou on…
Mi piace l’arrangiamento di questo pezzo quando l’orchestra sale in crescendo fino all’esplosione della nota finale. Sembra un pianoforte che cade dal sessantesimo piano. La BMW si ferma davanti al giornale. Do appuntamento all’autista per le tre.
Sulla mia scrivania c’è un solo messaggio, ma quale messaggio! Devo richiamare urgentemente Simone V., ex ministro della Sanità, ex donna più popolare di Francia e titolare a vita dell’ultimo gradino del pantheon immaginario del giornale. Poiché questo genere di telefonate non erano fatte per caso, mi chiedevo che cosa avessimo potuto avere detto o fatto per provocare la reazione di questo personaggio quasi divino. « Credo che non sia molto contenta della sua foto sull’ultimo numero » eufernizza la mia assistente. Consulto il suddetto numero e mi imbatto nella foto incriminata, un montaggio che ridicolizza il nostro idolo più che metterla in risalto. E’ uno dei misteri della nostra professione. Si lavora per settimane su un soggetto, passa e ripassa tra le mani di più persone e nessuno vede la svista che un giornalista principiante sarebbe in grado di cogliere dopo quindici giorni di tirocinio. Subisco una vera e propria tempesta telefonica. Poiché la signora è persuasa che da anni il giornale trami un compotto contro di lei, faccio una gran fatica a convincerla che, al contrario, vi gode di un vero culto. Di solito questi rattoppi toccano ad Anne?Marie, la direttrice della redazione, che mostra con tutte le celebrità una pazienza da ricamatrice, mentre, per la parte diplomatica, io assomiglio più al capitano Haddock che a Henry Kissínger. Quando riappendiamo dopo tre quarti d’ora, mi sento come un rotolo di moquette.
Benché faccia fine trovarli « un po’ noiosi », i caporedattori del gruppo non mancherebbero per niente al mondo a uno dei pranzi che Geronímo, chiamato anche Luigi XI e ayatollah dai suoi sostenitori, organizza per « fare il punto ». E’ là, all’ultimo piano, nella sala da pranzo più grande riservata alla direzione, che il grande capo dístilla a piccole dosi i segnali che permettono di calcolare il suo grado di affezione verso i propri sudditi. Tra gli ossequi pronunciati con voce vellutata e la replica secca come un colpo di artiglio, possiede un repertorio di mimica, smorfie e grattate di barba che abbíamo imparato a decifrare nel corso degli anni. Di quest’ultimo pranzo non ricordo nulla, se non che ho bevuto acqua a mo’ di ultimo bicchiere del condannato. Nel menu credo che ci fosse del manzo. Abbiamo forse contratto la malattia della vacca pazza, di cui allora non si parlava. Poiché ha un’incubazione di quindici anni, ci lascia il tempo di vederla arrivare. La sola morte annunciata era quella di Mítterrand la cui cronaca teneva Parigi in sospeso. Passerà il fine settimana? In realtà, gli restava un mese di vita. Il vero fastidio di queste colazioni è che sono interminabili. Quando ritrovo il mio autista, la sera cade già sulle facciate di vetro. Per guadagnare tempo sono ripassato dall’ufficio come un ladro, senza salutare nessuno. Ma son già le quattro passate.
«Rimarremo incastrati nel traffico».
• Mi spiace ».
• E per lei… »
Per un momento mi viene voglia di mandare tutto a quel paese: annullare il teatro, rimandare la visita a Théophile, sotterrarmi sotto il piumone con un pezzo di formaggio e le parole crociate. Decido di resistere a questa tentazione di abbattimento che mi prende la gola.
• Sarà meglio non prendere l’autostrada ».
• Come desidera… »
Con tutta la sua potenza, la BMW si incolla nella coda del ponte di Suresnes. Costeggiamo la piazza del mercato di Saint?Cloud, poi l’ospedale Raymond?Poincar, a Garches. Non posso passare di lì senza che mi torni in mente un triste ricordo d’infanzia. Liceale a Condorcet, un professore di girinastíca ci portava allo stadio di Vaucresson per una di quelle sessioni all’aria aperta che detestavo più di ogni altra cosa. Un giorno il pullman che ci trasportava ha investito violentemente un uomo che era uscito di gran fretta dall’ospedale senza guardare. Ci fu uno strano rumore, una gran frenata, e il tipo è morto sul colpo lasciando una scia sanguinante sul vetro del pullman. Era un pomeriggío d’inverno come questo. Il tempo di fare tutte le constatazioni, e la sera era giunta. Un altro autista ci riportò a Parigí. In fondo al pullman cantavamo Penny Lane con voci tremanti. Sempre i Beatles. Quali canzoni ricorderà Théophíle quando avrà quarantaquattro anni?
Dopo un’ora e mezza arriviamo davanti alla casa dove ho vissuto per dieci anni. La nebbia cade sul grande giardino che ha risuonato di tante grida e risate ai tempi della felicità. Théophile ci aspetta nell’atrío, seduto sullo zaino, pronto per il fine settimana. Mi piacerebbe telefonare per sentire la voce di Florence, la mia nuova compagna, ma dev’essere andata dai suoi genitori per la preghiera del venerdì sera. Cercherò di raggiungerla dopo il teatro. Una sola volta ho assistito a questo rito in una famiglia ebrea. Era qui a Montainville, nella casa del vecchio medico tunísino che ha fatto nascere i miei bambini, A partire da questo momento, tutto diventa incoerente. La vista mi si appanna e le idee mi si imbrogliano. Mi metto al volante della BMW concentrandomi sui bagliori arancioni del cruscotto. Guido al rallentatore, e nella scia dei fari riconosco appena le curve che ho percorso mille volte. Sento il sudore imperlarmi il viso e quando íncrociamo una macchina, la vedo doppia. Al primo incrocio, accosto. Esco titubante dalla BMW. Mi reggo appena in piedi. Mi sdraio sul sedile posteriore. Ho un pensiero fisso: tornare al paese, dove abita anche mia cognata Díane che è infermiera. Semi?incosciente, chiedo a Théophile di andarla a chiamare non appena arriviamo davanti a casa sua. Qualche istante dopo Diane è lì. Mi visita in meno di un minuto. Il suo verdetto: « Bisogna andare in clinica. Al più presto. E’ a quindici chilometri. Questa volta l’autista sgomma come in un rally. Mi sento strano, come se avessi inghiottito una pastiglia di LSD, e mi dico che queste fantasie non sono più per la mia età. Neanche un momento mi sfiora l’idea che forse sto per morire. Sulla strada per Mantes, la BMW mormora nei toni acuti e sorpassiamo una fila di auto facendoci strada a colpi di clacson. Vorrei dire qualcosa del tipo « Aspettate. Ora andrà meglio. Non è il caso di rischiare un incidente », ma nessun suono esce dalla bocca, e la testa dondola, incontrollabile. 1 Beatles mi tornano in mente con la canzone di questa mattina. And as the news were rather sad, I saw the photograph. Sono già alla clinica. Ci sono persone che corrono in ogni direzione. Mi trasbordano con le braccia a penzoloni su una sedia a rotelle. Le porte della BMW sbattono piano. Qualcuno, un giorno, mi ha detto che le buone auto si riconoscono dalla qualità di questo rumore. Sono abbagliato dai neon dei corridoi. Nell’ascensore degli sconosciuti si prodigano di incoraggiamenti e i Beatles attaccano il finale di A day ín the life. Il piano che cade dal sessantesimo piano. Prima che si schianti ho il tempo per un ultimo pensiero. Bisogna disdire il teatro. A ogni modo, saremmo arrivati in ritardo. Ci andremo domani sera. A proposito, dov’è finito Théophile? E sprofondo nel coma.

tratto da Lo scafandro e la farfalla, Ponte delle Grazie, Milano

Una lunga camminata sotto la pioggia

Sapete come è iniziato in Italia l’anno dell’handicappato? Con l’applicazione dell’IVA sulle carrozzine, a decorrere dal primo gennaio. La tolsero dagli arazzi, mi pare, e la misero sulle carrozzine. Spostamenti di pura tecnica fiscale, mi dirai, ma intanto… Ti chiedi se al Governo ci sono dei buontemponi! Noi siamo stati contrari all’anno dell’handicappato. Sono buffonate. Cose che lasciano il tempo che trovano. Buone solo per lavare la coscienza degli ipocriti. Come sono buffonate l’anno della donna, del bambino, del negro, del povero, del disgraziato… e chi più ne ha più ne metta. Tanta retorica e non uno dei problemi viene risolto.
L’emarginazione è un fatto politico. E’ il frutto di una certa organizzazione sociale, dove il valore delle persone è stabilito in base al rapporto che esse hanno col profitto. Gli individui più deboli sono meno importanti, e la società tende a dimenticarli. Ma c’è anche una grossa componente culturale. Paesi non meno «capitalistici» del nostro hanno molto più rispetto, più attenzioni. E’ sufficiente andare in Francia o in Germania per rendersene conto. 0 almeno questa è l’impressione che mi son fatta, ascoltando e leggendo.
Da noi alcune famiglie baratterebbero volentieri i pochi e inadeguati interventi dell’ente pubblico con un po’ di soldi in più da avere in tasca e da spendere come meglio si crede. Altro che battaglie di civiltà! E in effetti un assegno mensile di 300.000 lire per un handicappato grave a cosa ti serve? Non ti basta per pagare una persona che ti aiuti nelle faccende essenziali. E allora o la miseria, e una vita di sacrifici inenarrabili, o l’istituto.
L’istituto, di per sé, potrebbe essere anche meglio di una famiglia che non ce la fa. Ma bisogna vedere quale istituto. Noi siamo per la diffusione su larga scala di piccole comunità, inserite nei condomini, nei quartieri. Siamo contrari ai Cottolengo, per capirci. A quelle vere e proprie megalopoli, gigantesche corti dei miracoli. Tanto di cappello a Cottolengo in persona, quando ai suoi tempi iniziò un discorso importante sull’assístenza, e lo mise in pratica come poté. Ma nel Duemila bisogna trovare altri sistemi. I mostri, si favoleggia; ci sono mostri orribili che nessuno vorrebbe vedere, e addirittura nascono leggende su impossibili incroci fra donne e cavalli, uomini e cagne. Quanti sono veramente í « mostri » là dentro? Cosa vuol dire esattamente « mostro »?
Ricordo una trasmissione radiofoníca molto vivace: intervenne un tizio che telefonò e disse: « Bisognerebbe ucciderli, gli handicappati, prima ancora che nascano, o subito dopo ». Si scatenò un’ira generale. Tutti scandalizzati, rovesciarono sul malcapitato una marea di insulti. Che cosa proponevano in cambio? Istituti, reclusorí. Insomma, hai capito? Era una nobile tenzone fra pena di morte ed ergastolo. E delle due, la proposta più radicale era meno condita di moralismo e falsità.
Uccidere i mostri: sfrondando il mio ragionare da ogni forma di pietà religiosa o moralistica sollevo una obiezione di fondo. Anche se fosse meglio ucciderli che costringerli a vivere come li facciamo vivere, chi stabilisce il confine tra mostro e non mostro? Dov’è il limite oltre il quale è meglio morire? E’ un’ipotesi impraticabile. Secondo Hitler i mostri erano i negri, gli ebrei, i non ariani…
Cominciamo col tirar fuori dagli istituti tutto il possibile. Creiamo comunità, centri di lavoro, day hospitals. Incrementiamo l’assistenza domiciliare, l’inserimento nel lavoro. Poi riparleremo dei « mostri », se ce ne saranno ancora.
Oggi, se ti vengono a mancare i genitori, rischi di andare alla deriva come una bottiglia vuota. Rischi di finire in un cronicario, insieme ad altri uomini soli e vecchi che muoiono l’uno dopo l’altro. E anche tu, lì, ad aspettare la fine…
Penso ad un handicappato veramente grave, ad uno psicotico, penso alla difficoltà di tenerlo in casa: sì, è vero, è una cosa tremenda, sconvolgente. Allora, visto che ammazzarlo non sta bene, che fai? Lo prendi, lo chiudi, gli dai solo da mangiare, da bere e gli neghi tutto il resto. Non è quasi la stessa cosa?
E stato giusto aprire i cancelli del manicomio. Conosco gente che ti chiedi perché mai ha trascorso dieci, quindici anni là dentro. Dicono: sono pericolosi, violenti, uccidono. Quando un malato di mente commette un delitto si dice: hai visto? Non ci sono più i manicomi… Non si vede che sono soprattutto i sani a uccidere, a violentare le ragazze, a commettere ogni genere di nefandezze? Certo, ogni tanto i malati di mente uccidono qualcuno: esattamente come i sani.
Infatti il problema non è questo. E che bisogna smetterla di fare le riforme a questo modo, senza creare strutture intermedie ed alternative adeguate, lasciando tutto allo sbando, come se una mente politica perversa, mentre da una parte introduce una novità, dall’altra facesse di tutto per affossarla ed esporla al pubblico ludibrio. Non è colpa di Basaglia, non è davvero colpa di Basaglia.
Abbiamo progetti bellissimi, concezioni assistenziali che sfiorano la perfezione. All’estero invidiano le nostre teorie, la nostra fantasia. Però non invidiano i nostri ospedali, le nostre strutture di base. Cosa volete che vi dica: sono vent’anni e più che vivo in ospedale. Le tecniche sono migliorate, i progressi scientifici ci sono stati. Eppure oggi i malati si lamentano più di ieri, i rapporti con i medici mi sembrano più freddi, più distaccati. Chi ingesserebbe più il mio Koala di peluche? (Sì, una sera finsi per gioco col dottor Enrico che il mio Koalino si fosse rotto una gamba. E la mattina dopo lo trovai ingessato. Guarì dopo quindici giorni.)
Ospedali, istituti: ci vorrebbe più buon senso. Gli sprechi, la disorganizzazione andrebbero combattuti come le epidemie, con la stessa sollecitudine, lo stesso sforzo. Chi lavora bene e tanto deve essere ben remunerato, deve essere premiato in qualche modo. Va ripristinata una scala di valori, in base ai meriti reali. Altrimenti, anche quando l’assistenza c’è, non è all’altezza.
La beneficenza, il buon cuore: discorsi vecchi, superati. Lo dico senza disprezzo. Il buon cuore può essere una bella disposizione d’animo individuale. Ma alle volte ti fa sentire anche peggio, ti fa sentire compatito. Noi quindi non ci occupiamo di serate benefiche. Abbiamo scelto un rapporto robusto con l’ente locale, ne siamo diventati interlocutori importanti. E chiediamo fatti, rivendichiamo diritti. Sappiamo che questa è la civiltà delle parole… vi sono state culture, in passato, che incoraggiavano alla soppressione dei minorati, come a Sparta. Altre, che inneggíavano a un presunto legame fra gli handicappati e il Dio che per sbaglio, o perché ubriaco, o per un disegno superiore e incomprensibile agli uomini, li faceva venire al mondo. La nostra invece è la civiltà delle parole, la cultura delle parole. Si parla di handicappati, si scrive, ma siamo sempre lì…
Anche le conquiste che paiono acquisite sono sempre rimesse in discussione. Credi già che gli handicappati, quelli fisici almeno, non incontrino più grossi problemi in fabbrica: ebbene ecco che invece cominciano addirittura a licenziare le donne perché hanno le mestruazioni e restano, di tanto in tanto, incinte. Dicono: la produzione deve essere competitiva, il costo del lavoro va contenuto, un conto è l’assistenza, un conto il profitto d’impresa. Discutiamone.

Troviamo forme adeguate. Ma al centro, per favore, mettiamo l’uomo, non il profitto d’impresa.
In Svizzera vi sono catene di montaggio alle quali operano prevalentemente persone handicappate, con difficoltà di movimento, che debbono ripetere solo due o tre gesti. Non è un modello (non vorrei mai fabbriche create su misura solo per paraplegici, altre per ciechi, altre per sordi, e così via!), comunque vale la pena di pensare a soluzíone intelligenti.
Inserire un handicappato in un posto di lavoro vuol dire ridiscutere il rapporto uomo?lavoro?fabbrica. Per questo si incontrano molte resistenze. Occorre un sistema di incentivi. Perché non si studiano agevolazioni fiscali per alleggerire gli imprenditori più disponibili?
A Genova sono stati inseriti nelle fabbriche circa cento psichici. Sono seguiti da personale qualificato. Non creano problemi, mi risulta. Costa? Certo che costa: non più dei manicomi però, anzi.
Noi ci daremo da fare. La rivista è nata per questo.
Vorrei realizzare degli audiovisivi, portarli nei quartieri, diffondere di più e meglio i dati di cui disponiamo. Vorrei far discutere di più, essere ancora più combattiva.
Alle volte mi chiedono quale eredità politica e morale vorrei lasciare. Spero che il lavoro che ho iniziato vada avanti. Ecco l’eredità. E che aiuti chi ne ha bisogno a pensare: «Se lei l’ha fatto, vuol dire che si può fare ».
L’idea della morte una volta mi faceva più paura. Forse non si dovrebbe evitare sempre l’argomento, bisognerebbe tentare di parlarne, di accettare l’idea. Io credo nell’aldílà, ma mi sgomenta non sapere esattamente di che cosa si tràtta. Come ho raccontato sono stata vicino alla morte due volte. Mi dava angoscia pensare che avrei perduto le cose più semplici: l’acqua fresca, il sole che sorge, gli amici, i giornali al mattino… Mio padre dice: « Se è vero che esiste un paradiso, tu ci andrai subito. E se non esiste ulla non ti devi preoccupare. In un modo o nell’altro non hai niente da perdere. »
E se mi beatificassero, o mi facessero santa? No, tutt’al più potrei rientrare fra i martiri… ma mi farebbe rabbia una fila di handicappati davanti al Signore, non vorrei dover continuare anche lassù le mie battaglie! A parte gli scherzi, del Signore mi fido. I suoi rappresentanti sulla terra mi piacciono un po’ meno. Sul serio: meriterebbe di meglio.
Comunque vorrei lasciare di me il ricordo di una persona con pregi e difetti, un po’ matta, con molta ironia di sé, che amava le cose semplici, e che ha cercato di non fare troppe brutte figure. Ai miei funerali voglio tanti fiori. lo sarò vestita con l’abito lungo (non mi importa il colore) e i guanti lunghi, e avrò un grande cappello. Suoneranno il Silenzio fuori ordinanza, o l’Internazionale, devo ancora decidere. Voglio immaginare tutti che piangono. Papà ha deciso che poi tornerò a Morbello. Sono d’accordo.
Ma c’è tempo, signori, c’è tempo!
Quanti anni potrò vivere ancora? Per fortuna è difficile rispondere.
I casi di sopravvivenza in un polmone non sono così numerosi da costruirvi una statistica attendibile. C’è una signora che ha vissuto circa trent’anni in queste condizioni. Io mi preparo alle nozze d’argento, i 25 anni. Abbiamo già pensato alla festa, ai confetti e alle bomboníere: tanti piccoli polmoncini colorati. Ma dipende anche dalla vita che fai. Per esempio, pare che mi faccia bene uscire ogni tanto con la corazza, ed avere il cervello impegnato, in modo da fuggire l’inedia, la deriva psicofisica.
Però non riesco a condurre una vita molto regolata. I professori, scherzandoci sopra, dicono che loro al mio posto sarebbero già morti. E pensare che adesso, soffrendo un poco di diabete, sono costretta a stare più attenta!
Altrimenti: pizza o farinata a mezzanotte, sono ghiotta di tutti i cibi che fanno male, come il salame, i sottaceti, a maionese. Ho fatto un patto con i medici. Che non mi rompano troppo le scatole, se mi sento male peggio per me’ non darò la colpa a loro. Forse non é un patto con i medici. E’ un patto con Dio, che essendo «tutto» ed ogni cosa, è sicuramente anche ghiotto, e quindi mi proteggerà.
La mattina non ho un orario fisso per svegliarmi. Dormicchio fino alle nove e mezza?dieci. Faccio le pulizie, mi cambio, poi arriva il fisioterapista che mi massaggia per favorire la circolazione e far vivere i muscoli… ce n’è bisogno, perché non mi muovo mai e le articolazioni ne soffrono. Se mi piegano, sapete, sto in una scatolina.
Dopo la ginnastica, dipende, vedo qualcuno, chiacchiero, leggo i giornali, o sento musica. A mezzogiorno mangio: poco. Nel pomeriggio e la sera ci si vede per la rivista. Le ultime giornate, prima di «darla alle stampe», si lavora come ossessi fino alle due di notte. Se invece c’è un po’ di calma, un buco libero, giochiamo a poker. Se sono brava? Vinco. Ma dicono che ho fortuna e, siccome ho degli amici sporcaccioni, non usano la parola fortuna.
Credo di aver raccontato tutto. 0 almeno le cose più importanti. Ho voluto esprimere anche delle opinioni, perché fanno parte integrante della mia vita. E non per sputare sentenze, sia chiaro. Non ho la verità in tasca solo perché vivo nel polmone. Non l’ho mai preteso.
Sono contenta, lasciatemelo dire, orgogliosa, di non essermi fatta sconfiggere. Non ho rimpianti. Ripeto che sono felice di aver vissuto questi vent’anni, e sono pronta, con serenità, a vivere gli altri. Serenità e allegria. L’allegria è fondamentale, quindi spero che questo non sia un libro triste. La gente non vuole leggere libri tristi, e ha ragione.
Certo non succederà, ma se un giorno tornassi a camminare con le mie gambe, prima di tutto correrei a ríngraziare i medici che mi hanno curata, gli amici, le persone che mi sono state vicine. Poi vorrei viaggiare: vedere Venezia, Firenze, Parigi, Cuba. Forse un giorno in treno, con la corazza, visiterò davvero Parigi.
E poi vorrei andare da sola sulla spiaggia, in un pomeriggio d’autunno, sul tardi, e fare una lunga camminata sotto la pioggia.

Tratto da Rosanna Benzi, Il vizio di vivere. Venta’anni nel polmone di acciaio, a cura di Saverio Paffumi, 1989 Rusconi

L’unicità del deficit, la pluralità delle vite

Perché proponiamo un percorso intorno a scritti di persone che ad un punto della vita hanno incontrato il deficit?

Per tentare una risposta prendiamo in prestito dallo scrittore Javier Marias una riflessione: “Esiste un’enorme zona d’ombra in cui solo la letteratura e le arti in genere possono penetrare; di certo non per illuminarla o rischiararla, ma per percepirne l’immensità e la complessità: è come accendere una debole fiammella che perlomeno ci consenta di vedere che quella zona è lì, e di non dimenticarlo”(1).
La zona d’ombra data dalla malattia, dal deficit, dalla vicinanza con la morte, presenza ingombrante rispetto alla quale mettiamo in atto, per quanto più ci è possibile, meccanismi di rimozione, allontanamento, estraniamento. Sperimentiamo l’impossibile impresa di espungere dalla nostra quotidianità ogni rimando, nonostante, o forse in forza degli inevitabili richiami di cui la nostra stessa esperienza di vita e delle persone a noi vicine, è costellata.
Le testimonianze, in forma di racconti autobiografici, si offrono come ponte tra chi ha vissuto direttamente un’esperienza e si è sentito nel corso del tempo in grado di comunicarlo, raccontando, e chi è lontano da questo. La testimonianza è una strada forte, fondata sulle parole che non si propongono come modello; non vogliono parlare al posto di altri ma essere profondamente se stesse. Lontane da velleità rappresentative sono ancorate ad un quadro che è del particolare, di “quella donna e di quell’uomo” e che partendo dall’angolatura del punto di vista espresso costituiscono una rete di possibilità comunicative che si aprono verso l’esterno.
Il racconto autobiografico è uno fra gli spazi privilegiati del cammino intorno al proprio io, al dipanarsi dei fili di un’identità che non si sviluppa mai linearmente, piuttosto simile ad un grappolo di situazioni ed esprienze, emozioni ed accadimenti possibili e probabili, voluti o subiti.

Raccontare a partire dal deficit

I testi autobiografici di cui parliamo (vedi box a lato) sono estremamente diversi: scritti da uomini e donne, di età differenti, provenienti da contesti geografici, sociali e culturali eterogenei. Sono accomunati dalla tensione a ricostruire la trama della propria vita ponendo al centro del racconto la condizione di chi, per motivi anche qui assai diversificati, ha visto ledere in modo permanente o transitorio la capacità di vita autonoma ed è per questo passato attraverso la dipendenza dagli altri.
La presenza di un deficit tende a recidere i collegamenti tra le varie parti del se, ad invadere tutte le sfere che compongono l’identità. Occorre molto lavoro su di sé per riemergere come persona nella propria interezza che vive una determinata situazione, in cui il deficit esiste e persiste ma non riduce tutto a sé.
Nell’esperienza poi delle persone con un deficit acquisito questa riflessione amplifica un ulteriore significato legato al convivere con un deficit, significato che rivela la fatica di sentirsi ed essere recipiti come intelocutori validi, in grado di dire cose su di sè. Gli interventi sanitari mobilitano, soprattutto nella fase dell’emergenza, tutte le risorse. Il processo di medicalizzazione spesso supera gli ambiti di competenza e scandisce il ritmo della vita ordinaria. La persona diviene individuo incasellato o incasellabile in categorie che, prese in termini assoluti, non producono una reale conoscenza. “Possiamo dividere gli individui in categorie, e cercare di fare entrare, e corrispondere, le individualità in una definizione. Una volta introdotto un individuo in una definizione, il rischio è di perdere le sue caratteristiche individuali. Viene persa la possibilità di vivere secondo il proprio ritmo, i propri gusti, le proprie necessità”(2)
Raccontare la propria storia è uno dei modi con cui diventa possibile affermare che si è ancora persona portatrice di una identità al plurale che vuole continuare ad essere considerata.

“Ascoltare” la fonte diretta di un’esperienza difficile passa attraverso la fiducia reciproca: di poter essere accolti, di poter sopportare lo stare accanto. E’ dentro la trama di una storia raccontata che questo incontro viene facilitato; storia biografica che è insieme mezzo di comunicazione, ponte tra vite diverse , difesa.

La centralità dell’elemento tempo

Su come il tempo sia una fra le variabili centrali in questi testi facciamo esplicito riferimento al lavoro di Mariangela Giusti che ha approfondito il tema del rapporto fra narrazione e disabilità in un testo bello e ragionato dal titolo “Il desiderio di esistere.”(3) E’ a questa lettura che rimandiamo per gli approfondimenti del caso mentre utilizziamo ora una nostra rilettura sintetica delle differenti valenze attraverso cui il tempo si propone in questi testi, con quali sfumature diventa chiave interpretativa di ciò che è accaduto.
Nei brani presi in esame si evidenziano significati e valori con cui attraverso la forma tempo noi entriamo in contatto con le modalità di rielaborare il trauma avvenuto e le sue conseguenze:

c’è l’alternanza di tempo lento e tempo veloce, rispecchiamento del procedere ciclico di avvicinamento epresa di consapevolezza di quel che è accaduto (Huges De Montalembert Buio);
c’è un tempo delimitato che si dilata ad avvolgere tutto, corrispettivo del rivivere quel preciso momento che si fa viaggio nella propria vita ( Oliver Sacks Su una gamba sola);
il tempo tutto al presente, l’esperienza senza filtri che rivela il desiderio di condividere tratti di ciò che è proprio e che fa sentire diversi da tutti gli altri (Jean-Pierre Goetghebuer A nome di tutti i miei);
i salti temporali: è il tempo del presente (io qui in un letto di ospedale) che si raccorda al tempo passato (io là, bambina a correre nei prati ); è il tempo della memoria in cui la trama dei ricordi si divide il peso dell’affiorare di nuove , diverse possibilità ( Rosanna Benzi Il vizio di vivere);
il tempo rimandato: è il tempo necessario per dire, per trovare il modo e le parole con cui ricostruire l’esatto momento di quell’evento drammatico per buttarlo fuori e forse anche un po più lontano. ( Jean-DominiqueBauby Lo scafandro e la farfalla )

Elementi organizzativi della memoria

L’eterogeneità dei testi rende conto delle pluralità delle vite che vengono raccontate, non c’è omogeneità ma percorsi diversi di rielaborazione. In queste differenti piste di raccolta e ricostruzione dei fili biografici emergono però alcuni nodi tematici, elementi organizzatori delle memorie che scandiscono ed articolano il fluire del testo. E’ su alcune di questi che vogliamo proporre di ascoltare le voci dei protagonisti.

Il taglio , la frattura irreparabile fra prima e dopo

E’ il momento centrale della riflessione che si pone come terreno della consapevolezza, della presa di contatto con il limite e la finitudine. Accanto a questo trovano posto spiragli di invenzione del nuovo che seppur, in termini così drammatici, da qualche parte si intravede.

“Mi ritrovo coricato in una stanza e per tutta la notte un’infermiera dolcissima mi bagnerà gli occhi ogni mezz’ora. Non vedo più niente, Non soffro e il mio cervello continua ad anestizzarsi. Non penso. Giunge il mattino.
So già che sto andando verso qualcosa d’irrimediabile”- (Buio)

“Al Pronto Soccorso dell’ospedale fu una pena tirarmi giù dall’automobile. Il corpo di rifiutava di ubbidire ed io stessa lasciavo che fossero gli altri a muovermi. Assistetti come una spettatrice incredula all’affanno degli infermieri, allo spavento di mio padre mentre mi posavano sulla barella, mentre mi toglievano la coperta una volta entrati, mentre ragionavano sull’opportunità di lasciarmi il montgomery perché non prendessi troppo freddo.
Mi venne incontro un medico giovane. Capì al volo il problema. “Ti piaccio?” chiese. “se ti piaccio abbracciami”.
Accettai lo scherzo e alzai le braccia. Arrivai fino alle spalle, ma non riuscii a cingergli il collo. Il mio corpo mi abbandonava, questo lo capivo, ma più che altro ero confusa, intontita. Ad ogni minuto che passava scoprivo un nuovo gesto divenuto proibitivo, un nuovo muscolo insensibile ai miei sforzi di volontà” (Il vizio di vivere)

Il ricordo, il rimpianto, la speranza

Tutto quello che viene narrato diventa comunicabile sul filo della memoria. Nei testi aubiografici l’intreccio avviene tenendo insieme le strade del ricordo che è insieme rimpianto e della speranza , progetto e sogno per il futuro incerto davanti.

“Il fatto è che non sono attento al gioco. Un’ondata di malinconia mi ha invaso. Théophile, mio figlio, è seduto là, il viso a cinquanta centimetri dal mio, e io, suo padre, non ho il semplice diritto di passargli la mano tra i folti capelli, di pizzicargli la peluria della nuca, di stringere fino a soffocare il suo corpo morbido e tiepido. Come dirlo? E’ mostruoso, ingiusto, disgustoso o orribile? Improvvisamente ne sono spossato.” ( Lo scafandro e la farfalla)

“Sono contenta , lasciatemelo dire, orgogliosa, di non essermi fatta sconfiggere. Non ho rimpianti. Ripeto che sono felice di aver vissuto questi anni, e sono pronta, con serenità, a vivere gli altri. Serenità e allegria. L’allegria è fondamentale, quindi spero che questo non sia un libro triste. La gente non vuole leggere libri tristi, e ha ragione…
Forse un giorno in treno, con la corazza, visiterò Parigi. E poi vorrei andare da sola sulla spiaggia, in un pomeriggio d’autunno, sul tardi, e fare una lunga camminata sotto la pioggia” (Il vizio di vivere)

L’eccezionalità che entra nella quotidianità

C’è un momento in cui la presa di coscienza rispetto a ciò che così radicalmente muta la vita diventa parte della quotidianità, l’ ”evento eccezionale” perde i suoi primi contorni per assumere di volta in volta l’aspetto iperattivo e onnipresente o, invece, il sentire malinconico, l’assuefazione arrendevole in un alternarsi ciclico che rende conto del passare del tempo.

“Da quel giorno la mia vita è diventata una espressione continua di me stessa telefonando agli altri. Faccio e ricevo telefonate. Una telefonite acuta delirante che arriva a un tale grado di assurdità che non vedo più gli amici che vengono a trovarmi…La mia camera è diventata un vero ufficio di donna d’affari. Redigo documenti confidenziali, scrivo lettere di risposta a una corrispondenza voluminosa. Affronto le mie assicurazioni che, come sempre, non vogliono pagare. Un’occupazione sana, ma eccessiva. La sera, estenuata, sogno calma e tranquillità.
Questa attività febbrile è veramente positiva. Io mi apro agli altri, ai loro problemi. Ben lontana dal ripiegarmi su me stessa, l’esperienza della paralisi mi pone all’ascolto di tutti.

Tutta l’agitazione febbrile delle ultime settimane si è calmata per cedere il posto alla monotonia. Mi annoio. Non mi abituo alla mia nuova situazione, non mi sento al mio posto, come medico, in un letto d’ospedale.

Con il tempo, il dolore si diluisce in una specie di “malessere”continuo ma sopportabile. Giorno dopo giorno la mia salute migliora. Il mio corpo riprende forse il suo aspetto normale?” (Vita maledetta, ti amo)

Essere aiutati a raccontare la propria esperienza

Molti di questi testi nascono con un aiuto che è materiale e mentale ad un tempo. E’ un sostegno che si traduce nel rendere operativo il desiderio, poggiandosi su una relazione che rende possibile la vicinanza e la ricerca delle parole adeguate a raccontarsi. Il farsi del testo è frutto di una costruzione a più voci che prima di diventare prodotto pubblico è condivisione di spazio, tempo, fatica e piacere.

“Appoggiata sui gomiti alla piccola tavola semovente in formica, Claude rilegge questi testi che da due mesi pazientemente estraiamo dal vuoto ogni pomeriggio. Ho piacere nel ritrovare certe pagine. Altre ci deludono. Tutto questo fa un libro?
Ascoltandola, osservo i suoi capelli castani, le guance molto pallide che il sole e il vento hanno appena arrossato, le mani attraversate da lunghe vene bluastre e il copione che diventerà il ricordo di un’estate studiosa” ( Lo scafandro e la farfalla)

“Il polmone di acciaio è posto al centro di una cameretta con due pareti colme di quadri, una con due grandi finestre, ed una ricoperta dalle mensole della libreria cariche di volumi e soprammobili di ogni tipo e qualità. Ad un angolo il telvisore e, sotto, il giradischi.
In questa stanza abbiamo registrato il racconto di Rosanna, in un festoso e continuo andirivieni di amici e medici incuriositi, alcuni dei quali compaiono nel libro” ( Il vizio di vivere)

(1) Javier Marias, Un cuore così bianco,Einaudi Tascabili, 1999, Torino
(2) Gilberto Mussoni In prima persona. L’handicap: storie di vita, esperienze, testimonianze, prefazione di Andrea Canevaro, THEUT, 1995, Rimini
(3) Mariangela Giusti Il desiderio di esistere.Pedagogia della narrazione e disabilità, La Nuova Italia Editrice, 1999, Firenze

Un diploma all’isola che non c’era

La storia di R.P., una ragazza disabile che dopo varie difficoltà riesce ad ottenere il diploma di terza media presentandosi come privatista. Il tutto raccontato da una educatrice all’inizio come una fiaba e poi come una cronaca1) Questa è la storia di R.P.
La storia di una ragazzina disabile affetta da una malattia organica che le ha provocato un deficit intellettivo. E’ la produzione del suo linguaggio che, solitamente, colpisce gli interlocutori. Di fatto, il suo lessico è caratterizzato da frasi incompiute, inappropriate, che spesso risentono di un’influenza dialettale e non rispettano la sequenza spazio-temporale.
Certo che il suo ambiente sociale non l’ha mai aiutata!
Io, l’ho conosciuta nel 1996, quando è stata inserita nel nostro gruppo, la cooperativa sociale l’Orto. Allora aveva già fatto tutti i vari percorsi formativi: scuole dell’obbligo, da dove n’è uscita senza conseguire il diploma di 3^ Media, e Centro di Formazione Professionale, dove ha imparato ad applicarsi in alcuni lavori manuali.
E’ emersa immediatamente, da parte di R.P., la sua delusione e disistima che la portava a non sentirsi come tutti gli altri: le mancava la “patente” per realizzare i suoi sogni e le sue attese concrete. Difatti, aveva ipotizzato, assieme alla sua famiglia, di inserirsi nel mondo “reale” del lavoro
Questa è la storia… e conosco del suo passato quello che vi ho raccontato.
Perciò ho creduto fosse giusto narrare il suo vissuto in due fasi diversificate.
La prima parte è una favola che espone la vita di R.P. prima che io la conoscessi. Per scriverla mi sono valsa d’informazioni reali, mentre in alcuni punti mi sono sentita autorizzata ad intervenire attraverso la mia fantasia. Ho ritenuto che, solo così, avrei potuto raccontare una storia di vita vissuta a me quasi sconosciuta. Inoltre penso che sia una cosa straordinaria che, mediante la favola, si possa trovare un posto per tutto il bene e per tutto il male. Per cui, la battaglia contro il tempo e gli ostacoli, che impediscono o ritardano il coronamento di un desiderio, può portare al ristabilimento del tempo perduto.
La seconda parte è una relazione che compie il ristabilimento del tempo perduto.
Ho raccontato al presente di come R., attraverso l’aiuto degli Insegnanti, del servizio sociale e nostro, abbia raggiunto la meta che aveva tanto anelato: conseguire il diploma di 3° media.

E’ troppo tardi?

Quando (il tempo non ricordo!)
Cani, gatti, topi a schiera
Ben si misero d’accordo,
C’era, allora, c’era … c’era …(1)
…Una giovane fanciulla chiamata RIFITAFA.
Ella viveva in un piccolo paesino, nella lontana periferia di una grande città.
RIFITAFA passava le sue giornate in solitudine e possedeva in fondo al cuore tanta tristezza. Era così desolata, poiché ogni volta che tentava di instaurare un dialogo con qualcuno, riusciva solo ad emettere frasi sconnesse, che non le erano dettate né dal cuore né dalla ragione. Così i suoi rari incontri finivano sempre alla stessa maniera, i compagni la guardavano perplessa e si allontanavano dicendo: ”NONSO’?’”.
Solo quando, durante la notte il cielo era sereno e pieno di stelle, si appoggiava sul davanzale della finestra e si lasciava trasportare dall’immaginazione contemplando il lontano orizzonte. Accarezzava i suoi sogni con la speranza di poterli esaudire: desiderava solo trovare compagni con cui condividere giochi ed allegria.
Quando fu un po’ “cresciutella” iniziò a frequentare la scuola dove erano impartite la cultura e le regole essenziali per entrare a far parte del mondo dei grandi. Anche qui RIFITAFA non riusciva a fare comunella con nessuno e, per quanto si sforzasse nel volere raccontare le sue fantasie ed i suoi bisogni, nessuno riusciva a capire il significato del suo “dire”.
Gli insegnanti decisero, allora, di prendere contatto con un guaritore. Costui, dopo averla sottoposta a diverse visite, emise il suo responso: “La bambina è afflitta da una malattia denominata “SINDROME DI PETER PAN”. Secondo il suo parere, RIFITAFA non avrebbe mai detto addio all’infanzia, perché era felice del suo stato e voleva, all’infinito, crogiolarsi nel suo dolce far nulla senza stare tanto a riflettere, visto che, era il suo forte.
Purtroppo il guaritore non possedeva il senno del poi che ti offre la possibilità di vedere le cose in maniera obiettiva. Non conosceva i desideri e la tristezza che affliggevano l’anima della fanciulla e probabilmente riteneva la sua scienza una materia infallibile.
Così fu subito riunito il consiglio scolastico e fu presa la decisione di cercare una persona competente ed esperta che affiancasse RIFITAFA, così da riuscire a comprendere le sue parole e i suoi pensieri più reconditi.
L’incarico fu affidato ad una Fatina che aveva il compito di mediare fra RIFITAFA e gli altri: alunni e insegnanti. Purtroppo il tempo passava e la Fata, per quanto si sforzasse, non riusciva ad entrare in quel mondo incantato; forse era troppo impegnata ad ascoltare i suoi pensieri personali, oppure non aveva mai fatto suo il segreto che la volpe aveva svelato al Piccolo Principe: “Non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”(2).
Accadde allora, che col passare del tempo, la Fatina buona si trasformò in una strega cattiva ed annunciò, in tono perentorio a tutto l’ordine scolastico che la bambina non sarebbe riuscita mai e poi mai a superare l’esame. La risposta emessa fu per RIFITAFA spietata: lei desiderava crescere, e si proiettava nel futuro con la speranza di entrare a far parte del mondo degli adulti e di praticare l’arte della cucina.
Supponeva che solo così sarebbe riuscita a trovare la felicità mai posseduta.
Intanto il tempo passava.
RIFITAFA continuava sempre a mantenere chiare le sue attese per il futuro, ma aveva perso tutte le speranze ed era sempre più sola.
Accadde per caso, o forse come spesso succede nella favola della vita, il fato le diede una mano?! …Iniziò a frequentare un luogo dove vi erano tanti altri bambini che parlavano la sua stessa lingua, sapevano leggere il cuore delle persone e, come lei, erano inventori di sogni. C’erano anche persone adulte, forse maghi e fatine (NONSO’), che avevano il compito di insegnare loro, con parole semplici e cose pratiche a crescere piano, piano…senza fretta. Il tempo è la migliore delle medicine e ti aiuta a crescere, prescindendo anche dall’età biologica.
Non c’erano esami da superare e le giornate erano caratterizzate da lavori che assomigliavano a giochi e giochi che assomigliavano a lavori: insomma una sorta di confusione molto ordinata. I grandi che affiancavano i piccoli avevano studiato in una scuola “speciale”, che insegna a non scordarsi mai che in ognuno di noi, anche se si è adulti, in fondo al cuore è sempre presente il fanciullino PETER PAN. Per questo, tutto il gruppo unito, s’impegnava quotidianamente a lottare per non essere considerato “LA CIURMA DELL’ISOLA CHE NON C’E’”.
Ora RIFITAFA si sentiva appagata, conosceva persone nuove ed era impegnata in tante attività, creative e lavorative compresa l’attività in cucina: in alcune giornate stabilite aiutava la cuoca a preparare prelibati manicaretti da offrire ai compagni della collettività.
Ma in fondo al cuore, RIFITAFA, non si sentiva completamente soddisfatta.
Cosa le mancava?
Forse non riusciva a dare il giusto valore alle sue capacità?
E, se non riusciva ad apprezzare totalmente le sue capacità ed il suo intrinseco valore, forse non apprezzava nemmeno se stessa?
Le mancava forse il fantomatico “attestato” per entrare nel mondo degli adulti?
1999: e’ troppo tardi?…
(A coloro tuttavia che sono fuori, tutto succede per metafore,
Perché vedano con occhi vedenti eppure non sappiano,
E odano con orecchie udenti eppure non capiscano) (3).

… E come, solitamente, accade nelle favole …

No, non è stato troppo tardi.
R.P., che frequenta la cooperativa sociale L’Orto (Azienda Agrobiologica con finalità socio-riabilitative con sede a Minerbio, nella quale sono inseriti ragazzi con difficoltà), ha conseguito nel giugno di quest’anno, il diploma di LICENZA MEDIA all’età di 18 anni.
Finalmente il suo sogno si è avverato.
Capita molto raramente che un portatore di handicap consegua il suddetto diploma come privatista, come d’altra parte è molto raro che un disabile non lo consegua, dopo la frequenza della scuola dell’obbligo.
R.P. è stata aiutata da una serie di circostanze favorevoli.
Innanzi tutto gli Educatori della cooperativa hanno creduto in lei e nelle sue capacità, e hanno cercato il modo di aiutarla per soddisfare le sue esigenze. Sono stati supportati dai Servizi Sociali dell’A.S.L. Bologna Nord (nello specifico si è prestato l’educatore professionale, già suo referente, del distretto di Budrio), che si sono fatti carico delle competenze burocratiche. Pertanto, hanno preso contatto con la scuola media del territorio (Granarolo, con sede staccata a Minerbio), la cui preside, dopo aver consultato la normativa vigente, ha dato il proprio assenso all’iniziativa.
(Contrariamente a quanto si possa pensare, non esiste, né una legge che ostacoli, né una legge che consenta il conseguimento del titolo in questione da parte di un privatista svantaggiato).
Di fatto, il grosso del lavoro è stato portato avanti dagli educatori della cooperativa sociale. Una di loro, supportata da un tutor esterno, si è incontrata con i docenti della classe con cui R.P. avrebbe dovuto sostenere la prova. In particolare, un’insegnante, incaricata dalla preside, è stata di riferimento. Lei ha collaborato alla stesura del progetto individualizzato, lei ha dato suggerimenti preziosi per i libri di testo da utilizzare, lei ha seguito l’operato dell’educatrice a contatto con la ragazza. All’interno dei locali, della cooperativa, uno spazio apposito è stato adibito ad aula scolastica. L’alunna, come tutti gli alunni del resto, qualche volta ha sbuffato per i compiti, ma nel complesso si è dimostrata seria e volenterosa. Periodicamente, si può dire che abbia seguito un corso speciale per lavoratori, perché nella sua giornata, le ore di lavoro erano alternate a quelle di studio. Anzi il suo lavoro era collegato allo studio, poiché ogni attività da lei svolta era messa in relazione all’attività didattica (contare le cassette d’ortaggi, apparecchiare la tavola a seconda del numero dei commensali e altro, aiutandola, in qualsiasi circostanza, a sollecitare e a valorizzare la sua produzione verbale.)
Un dato importante: inizialmente ci si è prima accertati quanto, la ragazza avesse appreso negli anni di frequenza scolastica e quanto avesse conservato. Da qui siamo partiti per consolidare ed ampliare le sue conoscenze.
Dopo mesi di lavoro, ecco giugno con l’esame.
La classe in cui R.P. è stata inserita, la 3 A della scuola di Minerbio, era pronta ad accoglierla, grazie alla presentazione, fatta in precedenza dagli insegnanti.
Lo svolgimento pratico delle prove è stato brillantemente coordinato dalla presidente della commissione d’esame: la preside della scuola media di Castel Maggiore. E’ lei che ha saputo dissolvere i timori dell’educatrice di riferimento, inserendola a pieno titolo nella commissione esaminatrice.
L’operatrice, della cooperativa, temeva soprattutto una reazione “negativa” da parte della ragazza, che avrebbe “rischiato” di mandare a monte il lavoro di mesi. (R.P., infatti, è caratterizzata da un comportamento ansiogeno che la porta, in alcuni frangenti, ad avere un mutismo improvviso; questo atteggiamento è in gran parte imputabile alla non completa conoscenza dei nuovi ambienti e delle persone in esso operanti.). Aldilà d’ogni timore, R.P. ha sostenuto tutte e quattro le prove, i tre scritti e l’orale, come tutti gli altri alunni. La ragazza è apparsa tranquilla, sicura di sé e non ha manifestato nessuna variazione d’umore, né per la prova che stava sostenendo, né per l’ambiente e le persone a lei semi-sconosciute, finché…non è scoppiata in un pianto di felicità, nel momento in cui le è stata comunicata la promozione!
Ecco finalmente, a discapito di quello che le avevano pronosticato anni prima, R. è entrata a far parte del mondo degli “ADULTI”.
Allora: e’ troppo tardi?
Adesso, Novembre ‘99, possiamo proprio rispondere NO!

“Tutti gli esseri hanno bisogno di essere alimentati dall’alto.
Ma l’elargizione di nutrimento ha il suo tempo, e bisogna attenderlo.
Le nuvole nel cielo sono dispensatrici della pioggia che allieta tutto il mondo vegetale e fornisce all’umanità cibo e bevanda.
Questa pioggia verrà a suo tempo. Non si può costringerla a scendere, bisogna attenderla (…). Forza davanti a pericolo non agisce precipitosamente, ma sa attendere,
mentre debolezza davanti a pericolo si agita e non ha pazienza di attendere.
L’attesa.
Se sei verace hai luce e riuscita.
Perseveranza reca salute”.(4)

Guido Gozzano: Fiabe e novelline (Sellerio editore, Palermo)
Antoine de Saint-Exupery: Il piccolo principe (tascabili Bompiani)
Friedrich Dürrenmatt: Racconti (edizione economica Feltrinelli)
I ching: il libro dei mutamenti – oracolo della saggezza (Adelphi)

Vangelo, deficit e handicap

“Poiché “Vangelo” significa “Buona Notizia”, con questa parola intendo ogni buona notizia che si trova prima di tutto nelle Scritture, ma anche nella vita di ognuno di noi. Vangelo, deficit e handicap: sono parole che possono stare insieme?”

Apparentemente il deficit e l’handicap non hanno nulla che possa far pensare a una buona notizia. La nascita di un bambino o di una bambina con deficit è normalmente accompagnata da crisi tremende ed è considerata una pessima notizia. Sappiamo che si tratta sempre – salvo casi rarissimi – di un evento traumatico e non dobbiamo scandalizzarci dinanzi alla fatica dell’accettazione. Anzi, bisogna constatare che oggi la fatica dell’accettazione rappresenta già un caso positivo, perché la tendenza generale è quella di considerare assolutamente inaccettabile la nascita di un bambino o di una bambina con deficit. Un’opinione molto comune vuole che per una persona disabile, come per l’uomo della tragedia greca, la cosa migliore sia non nascere affatto oppure morire il più presto possibile. Questa opinione molto comune è anche molto antica. Continuando il riferimento alle culture dell’antica Grecia, ricordiamo la famosa pratica dei cittadini di Sparta di buttare i neonati malformati o handicappati giù dal monte Taigeto. Certamente non è mai stato facile accettare l’esistenza del deficit.
Non lo era neppure ai tempi di Gesù. Il Vangelo racconta molte guarigioni miracolose di persone con deficit, tanto che a volte, da una lettura superficiale di questi passi evangelici, può sembrare che la Buona Notizia consista proprio in queste guarigioni, in questi miracoli. Ma leggendo con più attenzione, ci si può rendere conto che non è affatto così.
Ad esempio, risulta presto chiaro che Gesù, se ha guarito molti fra ciechi, storpi, lebbrosi eccetera, non li ha guariti tutti. E un passo di Marco ce ne dà il motivo:

Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demòni (…). Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce e, trovatolo, gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (Mc 1,32-38).

Miracoli, non guarigioni

I miracoli sono segni della presenza di Dio, segni del suo amore concreto per noi. Mostrano che Dio si preoccupa anche del nostro corpo, che non è la prigione dell’anima, ma una dimensione della nostra integrità. Tuttavia non ci si può fermare al livello dei segni, perché sono ambigui. I miracoli possono essere interpretati in molti modi. Nell’episodio della guarigione dei dieci lebbrosi (Lc 17,11-19) solo uno torna indietro a ringraziare Gesù; gli altri nove hanno interpretato diversamente l’accaduto. Il cieco nato (Gv 9) ottiene la vista, ma viene abbandonato dalla sua famiglia e cacciato dalla comunità. È difficile pensare che in seguito possa aver vissuto una vita normale. Lazzaro viene fatto risorgere (Gv 11), ma poi morirà nuovamente di vecchiaia. Probabilmente, perché l’evangelista Giovanni afferma che il sinedrio aveva deliberato di uccidere anche Lazzaro, la cui sensazionale vicenda aveva attirato molti seguaci a Gesù. Poi Giovanni non ne dice più nulla, ma il fedele cristiano che crede nella resurrezione di Lazzaro deve rendersi conto che costui è risorto per vivere una vita spericolata…
L’efficacia del miracolo non sta nella guarigione. Questa certamente non è un male. Ma Gesù vuole far capire che le cose della vita non finiscono con la guarigione, con il recupero della funzionalità e dell’efficienza.
“Che cosa è più facile: dire al paralitico: Ti sono rimessi i peccati, o dire: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina?” (Mc 2,9 ).
Questa domanda che Gesù rivolge ad alcuni scribi è rivolta anche a noi. Più facile per noi – più comodo – è risolvere un problema sul piano fisico, o meglio tecnico. Nessuno contesta le ricerche mediche e l’abbattimento delle barriere architettoniche, ma non bastano. Questo impegno può far dimenticare una dimensione più profonda del problema.
Perché Gesù mette le guarigioni in secondo piano? Qual è la Buona Notizia in tutto ciò?

Dio, dato inutile

San Paolo, che soffriva di una “spina nella carne” – secondo alcuni interpreti, di una forma di epilessia; secondo altri, di una malattia agli occhi – non otterrà la guarigione per cui aveva pregato tre volte. Dio gli risponde: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. E Paolo accoglie la grazia di Dio: “Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte” (cfr. 2 Cor 12,9-10).
“La mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”: è da notare che il testo greco usa un termine più semplice e più forte: teleitai, la potenza si compie nella debolezza. Senza la debolezza questa potenza non arriva al suo telos, al suo fine. Teleitai si può interpretare come “finisce, sfocia”… In fondo, la vita di Gesù è una potenza che fin dall’incarnazione è sfociata in una debolezza.
Sembra inutile sfociare nella debolezza. A proposito di inutilità, vi racconterò un episodio banale che mi ha dato da pensare. L’altro giorno guardavo la mia nipotina di nove anni mentre faceva i compiti. Doveva fare un esercizio di matematica che consisteva nel cercare, tra i dati di un problema, il “dato inutile”. Il problema era più o meno così: “Tua madre ha comperato cinque chili di pesche per fare cinque barattoli di marmellata. Sapendo che un chilo di pesche costa duemila lire, quanto costano cinque chili di pesche?”. Il dato inutile sono i cinque barattoli di marmellata che la madre vuol fare. Quel dato, infatti, non serve a risolvere il problema. Però quel dato è la causa finale. La ragione per cui la madre ha comperato le pesche è per fare la marmellata per i suoi figli. Se non avesse avuto questo scopo, non glie ne sarebbe importato nulla di sapere quanto costano cinque chili di pesche!
Dio è un po’ come il dato inutile: non serve a risolvere i vari problemi, però dà il senso alle cose. Potremmo dire che di tutti gli orizzonti di senso, è il più ampio. Oggi distinguiamo vari ordini di problemi: tecnici, economici, politici, sociali, psicologici, ecc. e tendiamo a risolvere ogni problema senza ricorrere a Dio; però la fede in Dio riguarda la causa finale, cioè il senso di tutto.
“Ti basta la mia grazia” non vuol dire “accontentati di ciò che hai”. Vuol dire il contrario: “Ciò che hai è molto di più di ciò che mi chiedi”. Senza la debolezza, questa grazia non si compie. Senza la pietra scartata dai costruttori, Dio non compie la sua opera.

Se Dio non funziona

Il rischio di una lettura superficiale del rapporto tra gli esseri umani e Dio è molto presente anche oggi, specialmente qui da noi, nei paesi ricchi, perché la mentalità di oggi è sempre più legata al sensibile, al fisico, all’efficacia delle soluzioni tecniche. Ciò che non funziona lo si butta via, anche se si tratta di un uomo, anche se si tratta di Dio. Se c’è Dio, perché esiste il male? Se io soffro, vuol dire che Dio non funziona.
“E mentre i Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e salvezza di Dio” (1 Cor 1,22-24). Questa ricerca di segni e di sapienza che Paolo attribuisce ai giudei e ai greci in realtà è di ogni uomo e di ogni donna, in ogni tempo. Oggi si parla da una parte dei miracoli di Medjugorje e dall’altra, anche più diffusamente, dei miracoli della scienza e della tecnologia (ad esempio del metodo Doman). Entrambi i fenomeni ci mostrano quanto grande sia ancora la sete di miracoli, che spinge ai cosiddetti “viaggi della speranza” presso i santuari della fede e della medicina. Ma di quale speranza si tratta?
Torniamo alla domanda di Cristo: “Che cosa è più facile, dire a un paralitico: Ti sono rimessi i tuoi peccati, o dirgli: Alzati e cammina?”. È più facile rigenerare o riabilitare, donare a una vita l’orizzonte più ampio o normalizzarla? Tuttavia questa domanda di Gesù, e le altre che si trovano nelle Sacre Scritture, ci fanno riflettere. Esse non sono domande retoriche che si rispondono da sé, ma ci interpellano continuamente e dobbiamo cercare noi le risposte.

La sfida di Giobbe

Tra Dio e l’uomo c’è sempre un dialogo, uno scambio di domande e risposte. Nella Bibbia, la prima parola che Dio rivolge all’uomo dopo il peccato è una domanda: “Dove sei?”. In seguito anche l’uomo impara a fare domande a Dio, e Dio vuole proprio questo, come si vede nel libro di Giobbe, in cui alla fine Dio loda Giobbe che gli ha fatto tante domande, e ha anche protestato.
Da sempre l’uomo religioso ha un’immagine di un Dio utile; pensiamo alle divinità pagane della fertilità o della guerra, che servivano alla sopravvivenza del popolo e del villaggio, dello stato o dell’impero. Nella Bibbia questa teologia utilitarista viene smascherata e combattuta, soprattutto dai Profeti e nel libro di Giobbe.
Giobbe è il giusto per eccellenza, che crede che la sua rettitudine morale sia una garanzia di incolumità, un’assicurazione sulla vita che Dio non può rinnegare. Per questo, quando viene privato della sua sicurezza (perde le sue ricchezze, i figli, l’affetto della moglie, la salute) egli inizia a mettere in discussione la bontà di Dio, arrivando a parole di contestazione che da un punto di vista bigotto sfiorano la bestemmia.
Ma in fondo, anche gli amici di Giobbe che vengono per consolarlo, ma poi finiscono dicendogliene di tutti i colori, sono prigionieri della stessa logica, proprio perché, sostenendo che Giobbe ha peccato – se soffre, qualcosa di male avrà pur fatto – continuano a vedere il rapporto con Dio come un patto legale utile all’uomo se quest’ultimo è fedele.
Occorre uscire dall’ideologia religiosa per entrare nel rapporto di fede. Che sia l’ideologia di un Dio giudice, oppure quella di un Dio “buonista”, di un Dio “New Age”… Bisogna arrivare a comprendere che Dio è Dio.
Il Signore, nella teofania finale del libro di Giobbe, rompe questo schema, rivelandosi per Quello che è. È un Dio che accetta la sfida di Giobbe, che non se la prende dinanzi alle proteste, anzi le ascolta, mentre ignora l’ossequio e l’adulazione. Mostra la sua onnipotenza attraverso l’immensità della sua opera, la creazione. Afferma la sua libertà, dicendo che non deve rendere conto a nessuno. Ma proprio questo atteggiamento a prima vista sprezzante rivela la caratteristica fondamentale del Signore: il suo amore per la vita, che Egli ha creato gratuitamente, senza nessun tornaconto.

Che cosa impedisce?

Di fronte a questi segni di libertà e di amore l’uomo, che a sua volta è libero, ha due alternative: una è quella di Giobbe, che riconosce la grandezza di Dio e accetta umilmente di instaurare un nuovo rapporto con il suo Signore: “Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te… Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” (Gb 42,2.5); l’altra è quella descritta nel vangelo secondo Matteo 11,21ss., in cui le città della Galilea, pur avendo visto i segni dell’azione di Cristo, non si convertono, cioè non cambiano la loro mentalità: metenòesan in greco significa cambiare mentalità, letteralmente “andare oltre il proprio intelletto”.
È proprio questo “non voler cambiare” che impedisce all’uomo di incontrare e di accogliere la Buona Notizia di un Dio che non vuole essere adorato come una potenza minacciosa, ma, pur essendo il Signore, anzi proprio perché lo è, vuole essere un amico libero (Gv 15,14ss.: “Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi”).
Vangelo, deficit, handicap, sono quindi strettamente collegate proprio perché la buona notizia fondamentale, consiste nel fatto che ogni debolezza umana è amata da Dio, il quale non la considera una realtà inutile e negativa ma ne fa una occasione per avvicinarsi all’uomo con il suo amore gratuito. Per entrare in questa logica bisogna cambiare la mentalità, andare aldilà della nostra visione della vita, che è ciò che ci impedisce di credere nel vangelo. La consapevolezza di questa difficoltà è già in se una buona notizia, perché ci rivela che l’ostacolo non è esterno ma è in noi e noi possiamo cercare di superarlo con l’aiuto del Signore.

(1) Relazione in occasione del convegno “Che cosa impedisce?” tenuto il 2 ottobre 1999 nel bolognese.

Presidente ti scrivo

Caro Presidente
innanzitutto mi presento. Mi chiamo Claudio Imprudente, ho 39 anni e sono disabile (non-abile, per alcuni) o diversabile (abile in modo diverso, per altri): diciamo che, oggettivamente, ho una grave forma di tetraparesi spastica dalla nascita. Sono anch’io un presidente, della associazione Centro Documentazione Handicap di Bologna e inoltre dirigo la rivista HP-Accaparlante. Forse sono quello che si definirebbe, anche se sembra una contraddizione, un handicappato di successo: mi sento abbastanza integrato nella società e addirittura sono spesso ospite di trasmissioni televisive nelle quali porto i risultati del lavoro mio e della mia équipe.

Se dovessi riassumere a che cosa debbo tutto questo, c’è una parolina che è fondamentale e che ancora troppo spesso resta fuori dal “mondo dell’handicap”: la fiducia. Se guardo alla mia vita moltissime persone mi hanno dato fiducia, a cominciare dai miei genitori e dai miei amici che via via sono diventati colleghi nel lavoro culturale che abbiamo intrapreso fondando circa vent’anni fa il suddetto Centro. Sono persone che non hanno guardato solo alla gravità del mio deficit ma hanno invece guardato alle mie potenzialità, hanno imparato a leggerne i segni e a intuirle anche quando ciò pareva una operazione disperata. Le faccio un esempio. Io comunico soprattutto utilizzando una lavagnetta di plexiglas trasparente sulla quale stanno le lettere dell’alfabeto: seguendo il mio sguardo che le indica una per una, la persona di fronte a me può “leggere” il mio pensiero a voce alta. Come vede questo ausilio, frutto di immaginazione e di creatività, mi ha ridotto molto l’handicap, la difficoltà, derivante dal non poter comunicare, come fanno tutti, con la propria voce: è l’esempio più tangibile della fiducia di cui parlo.

Signor Presidente, Lei ha fiducia in me? Ha fiducia nelle migliaia di Italiani che hanno un deficit (psichico o motorio o sensoriale) ma che purtroppo si trovano ad affrontare ogni giorno moltissime difficoltà, moltissimi handicap? Io sono convinto di sì ed è per questo che Le scrivo partendo da una affermazione provocatoria e paradossale, tanto più se Lei considera che io ho bisogno costantemente di un aiuto per il vivere quotidiano: i disabili non hanno bisogno di assistenza. In molti pensano di non potersi aspettare nulla da noi, e si preoccupano solo di “aiutarci”, ma in primo luogo noi disabili abbiamo bisogno di agire come soggetti attivi, abbiamo bisogno di essere coinvolti e di dare a nostra volta: e come noi anche tutti gli altri italiani che vogliano diventare veri cittadini.

E’ vero: dei passi in avanti sono stati fatti. Abbiamo alcune leggi, come quella sull’integrazione scolastica, che sicuramente hanno generato delle esperienze all’avanguardia e dalle quali anche gli altri Paesi dell’Unione Europea traggono fondamentali suggerimenti. Non dobbiamo tornare indietro in questo cammino di riconoscimento dei diritti fondamentali dell’individuo, ma anzi dobbiamo fare in modo che queste leggi siano pienamente effettive ed efficaci attraverso l’adeguamento dei mezzi a disposizione per la loro attuazione, che peraltro si presenta ancora difficoltosa (si veda ad esempio la questione dell’abbattimento delle barriere architettoniche).
Dobbiamo però ribadire con forza che alcuni diritti non sono esigibili e il loro rispetto non può essere affidato alla “buona volontà” degli enti preposti. Non so se noi abbiamo pazienza o abbiamo solo imparato ad aspettare: siamo però fermamente convinti che le cose cambieranno.
E’ certo che in ambito culturale, ed è quello che mi rallegra di più, i passi in avanti sono tangibili: quando con il Progetto Calamaio andiamo nelle scuole di tutta Italia per far conoscere la realtà dell’handicap ai bambini, utilizzando giochi e fiabe e creando un momento di incontro e di conoscenza reciproca che fa sfumare mille paure e pregiudizi, vediamo come la cultura dell’integrazione sia diventata realtà. Incontriamo tantissime persone che con convinzione ed entusiasmo portano avanti questo cambiamento, e in particolare vorrei ringraziare quegli insegnanti che, nonostante molti problemi, lavorano instancabilmente per costruire una scuola di tutti.

Quello che vorrei sottolineare è che la questione dell’handicap non è un problema, come generalmente si crede, di una categoria di persone (i disabili, con i loro genitori e gli addetti ai lavori: medici, terapisti, insegnanti di sostegno, educatori, eccetera). Questo tipo di cultura genera quell’assistenzialismo che, partendo dalla corretta consapevolezza che il disabile ha necessità di una attenzione speciale e operando magari con le migliori intenzioni, si traduce poi nella creazione di un insieme di iniziative che di fatto ghettizzano i disabili. Il “mondo dei disabili” non può essere la somma di spazi speciali, di spazi protetti, che però anche chiudono le porte al confronto con la cosiddetta normalità: io sogno un “mondo dei disabili” disabitato, proprio perché ciò che pesto sotto i miei piedi, anzi solco con le ruote della mia carrozzina, non voglio che sia una terra “speciale”, una riserva, ma la terra comune, la terra di tutti. L’unica cosa invece veramente speciale è la nostra voglia di partecipare, è la voglia di dimostrare che siamo una ricchezza, perché noi siamo una ricchezza. E quando dico “noi” mi permetto di parlare anche a nome di chi ha una disabilità psichica: soprattutto queste persone hanno una voglia enorme di dare, di partecipare, di comunicare, certo ognuna secondo le proprie modalità, nelle potenzialità come nei limiti. Togliamoci però dalla testa che esistano i cosiddetti “vegetali”: opportunamente stimolate e seguite molte di queste persone riescono a raggiungere dei risultati insperati. Proprio perché più di tutte soffrono situazioni di emarginazione dovuta alla mancanza di comunicazione con gli altri, è a loro in particolare che deve rivolgersi la nostra attenzione. Dobbiamo essere consapevoli che proprio la loro qualità di vita e quella dei loro familiari è la cartina tornasole dello stato dell’integrazione in Italia.

Non chiediamo, dunque, solo assistenza, ma fiducia. Questo è il senso della mia precedente dichiarazione provocatoria. L’assistenza è un mezzo sicuramente indispensabile che però viene molto spesso interpretato come un fine e si pensa erroneamente di aver risolto “il problema” sulla base di un computo, come ad esempio di quante ore di assistenza domiciliare un disabile usufruisce. Così si riduce l’approccio all’handicap a qualcosa di risolvibile con una operazione di quantità. Non è così: qui è in gioco la qualità della vita ed è facile intuire che un mondo a misura di disabile è più comodo per tutti. Tutti beneficeranno di questo processo: l’handicap è una questione che tocca tutti, perché gli handicap che ostacolano l’integrazione dei disabili sono gli stessi che impediscono l’integrazione di tutti.
Quello che manca è la fiducia e ciò necessita di un cambiamento a livello culturale. Nel mio lavoro mi confronto sempre con moltissime persone e situazioni e scopro che una quantità enorme di risorse si perde proprio per la mancanza di fiducia: i genitori, prima risorsa, spesso non vengono coinvolti quanto dovrebbero nei processi di riabilitazione (il sostegno alla famiglia è ancora molto carente), le istituzioni continuano a non confrontarsi bensì a prendere iniziative separate e infine le stesse persone con deficit raramente intervengono nel processo che dovrebbe integrarle, subendo passivamente decisioni prese da altri.
Sì all’assistenza , dunque, ma no all’assistenzialismo che tra l’altro genera il meccanismo della delega: se c’è, quando c’è, un insegnante di sostegno, gli altri insegnanti spesso delegano a lui “il problema dell’handicappato”. E’ evidente che in questa logica, anche ammesso che detto insegnante operasse per un numero di ore superiore all’attuale, non viene raggiunto lo scopo di una reale e completa integrazione del disabile.

Caro Presidente, so che Lei parteciperà alla 1° Conferenza Nazionale sulle politiche dell’handicap che si terrà dal 16 al 18 di questo mese a Roma. La prego di ricordare questo appello, queste mie parole che non sono animate da una disperazione fredda e lucida, come mi sembra (con tutto il rispetto) quella di chi chiede il diritto all’eutanasia, ma dalla speranza e determinazione di chi è convinto che la vita sia il bene più sacro. Non sta a me giudicare, anche perché nessuno può dire di avere la verità in tasca: dico solo che se c’è una battaglia che vale la pena di essere combattuta è quella per la “buona vita”. La vera e sostanziale differenza è tra vivere e sopravvivere: tutti moriamo ma non tutti possono dire di aver vissuto.
Nel corso della Conferenza, guardandosi intorno, forse vedrà che il numero dei disabili presenti in sala, come purtroppo temo, sarà minimo (ne vedo ben pochi anch’io ai convegni cui partecipo): ciò non è dovuto solo a problemi organizzativi ma anche al fatto che molti non hanno consapevolezza di sé in quanto soggetti attivi nella società. Il cammino verso la partecipazione è ancora lungo, è una conquista quotidiana, come lo è la democrazia che si nutre di libertà e di, appunto, partecipazione. Le assicuro che molti di noi ce la stanno mettendo tutta, ma la cultura dell’integrazione è una di quelle conquiste che si può fare tutti insieme.

Caro Presidente, noi siamo una ricchezza per l’Italia, una ricchezza che non va tenuta in cassaforte (come fanno pensare alcune strutture residenziali sia pur dotate di tutto ma che sono situate fuori dai centri abitati, magari sulle colline), ma che può diventare una risorsa fondamentale nella nostra società che sempre più dovrà affrontare il tema della complessità e della diversità. Noi constatiamo che questo processo culturale sta già facendo dei passi avanti e vogliamo aiutarlo affinché, nonostante la lettera H sia la lettera muta del nostro alfabeto, diventi sempre più una Acca-parlante.

Siamo sicuri di poter contare sulla Sua fiducia.

Claudio Imprudente
Presidente dell’associazione Centro documentazione Handicap di Bologna

Se l’informazione passa sul web

Su internet, strumento per apprendere e conoscere sempre più usato anche in Italia (nonostante la bassa cultura tecnologica media), oramai si sono affacciate parecchie associazioni che si occupano di handicap acquisito, in particolare le organizzazioni di para e tetraplegici. In questo articolo cercheremo di capire che tipo di informazione viene fatta su questo tema, lo stile usato e la padronanza nell’uso del mezzo telematico (e quindi, indirettamente, il grado di assimilazione delle nuove tecnologie).
Internet si sta configurando sempre più come un mass media, anzi come il più grande fra tutti, (dato che potrebbe inglobare in sé televisione, radio e carta stampata) quindi diventa importante conoscere che tipo di immagine e luoghi comuni veicola quando tratta di handicap acquisito; come per la televisione, che, lo vogliamo o no, ci condiziona, in piccola o in grande parte, nella formazione delle nostre idee, così internet si appresta a diventare il “nuovo persuasore occulto”.
Anche lo spazio che riserviamo al modo in cui viene usata la telematica da parte delle associazioni di paralegici rientra nel nostro discorso proprio perché dal grado di consapevolezza di cosa offrano le nuove tecnologie dell’informazione possiamo renderci conto se internet diventerà il nuovo persuasore oppure no; la cosa non è di poca importanza e riguarda tutti i cittadini, disabili e non.

Fai girare il tuo motore di ricerca

E’ ormai risaputo che non esiste un indice completo di internet, un posto dove vedere che cosa contengono le milioni di pagine web pubblicate nel mondo; in mancanza di questo ci si affida a diversi mezzi di ricerca. I più famosi sono senz’altro i motori di ricerca (search engines). Veramente ve ne sono di diversi tipi e con funzioni differenti, ma prendendone uno a caso e facendo una serie di ricerche incrociate usando delle parole chiave come , “handicap acquisito”, “paraplegia”, “mielolesi”…, le risposte al nostro bisogno di informazione non sono poi così vaste. Le segnalazioni sono di alcune decine di siti, ma, visitandoli, il loro numero decresce notevolmente.
Intendiamoci, di siti sull’handicap in lingua italiana, ne esistono anche duecento, ma di siti specifici sull’handicap acquisito non ve ne sono poi molti. Cominciamo ad analizzare i più significativi.

Il tema preferito? L’informazione medico-scientifica

IL sito dell’APL (Associazione Paraplegici della Lombardia e delle altre regioni italiane) si presenta con una grafica sobria, vi sono qua e là dei banner (striscioni pubblicitari) e i collegamenti (link) riportano ad una serie di informazioni, quali la storia dell’APL , l’attività della decennale rivista “Ruota libera” di cui vengono però riportati solo 5-6 articoli, il progetto Omnihotel, un ipertesto sull’accessibilità degli hotel italiani, dove però ne troviamo segnalati pochissimi.
Informazioni più sostanziose le troviamo ad altri link. Nella pagina riguardante gli aspetti medici del problema e in quelle che si riferiscono al tema dell’autonomia personale. Infine vi sono pagine dedicate al tema della mobilità e ai corsi organizzati dall’APL (vela, shiatzu, dinamica mentale).
Le sezioni più consistenti del sito non sono suddivise in varie pagine web collegate tra loro, ma sono semplicemente una serie di lunghi articoli che si snodano come un papiro e che il lettore rintraccia facendo scorrere all’ingiù la freccetta del suo mouse per parecchio tempo.
In rete esiste anche un webring sul tema paraplegia; che cos’è un webring? Non è nient’altro che un serie di siti collegati tra loro per il fatto che si occupano del medesimo argomento (esistono centinaia di webring diversi). Il collegamento avviene tramite una barra di comandi posti di lato alla pagina principale di ogni sito (di solito in basso). Il comandi portano a passare in rassegna tutti i siti aderenti all’anello web (in modo casuale o consecutivo, oppure a balzi).
Nel nostro caso la maggior parte dei siti collegati tra loro sono in lingua inglese (per lo più statunitensi). Di “nazionalità italiana” incontriamo qui il sito dell’AIM (Associazione Italiana Mielolesi), dove non troviamo molta informazione, tranne qualche accenno ad argomenti di carattere medico e di prima informazione.
Collegato a questi sito troviamo quello della Rete Italiana del Midollo Spinale (i siti sono ambedue curati dalla medesima persona, F. Meriani). Qui abbiamo parecchie informazioni di carattere medico e scientifico e una raccolta di risorse relative alla paraplegia presenti sulla rete (molte in lingua inglese). Il tutto è impaginato in una sola pagina molto lunga e le varie informazioni non sono organizzate graficamente in modo da rendere più semplice la lettura (ad esempio tutti i titoli in neretto, i sottotitoli in corsivo e così via). Piuttosto particolare è la presenza di tutta una serie di strumenti che la tecnologia telematica offre; chi vuole può iscriversi o partecipare a mailing list, webchat e a forum (newsgroup). Non starò a spiegare dettagliatamente la differenza fra questi strumenti di comunicazione, dirò semplicemente che servono alla partecipazione diretta del lettore che in questi luoghi può dire la sua semplicemente scrivendo negli appositi spazi (o tramite posta elettronica) e senza dover conoscere programmi di comunicazione più complessi. Visitando la chat e il forum non abbiamo rintracciato nessun messaggio (erano vuote).
Simile nel livello grafico e nel tipo di informazioni (medico-scientifiche) ma più incentrato sulle proprie attività, è il sito dell’Istituto Santa Lucia, ospedale specializzato nella riabilitazione psicomotoria.
Per finire il genere ricordiamo anche il sito della FAIP (Federazione Associazioni Italiane Para-tetraplegici). Qui accanto ad un uso più sofisticato dell’impaginazione (vengono usati i frame, sorta di bordi che rimangono fissi anche se la pagina web scorre e cambia) abbiamo un’informazione legata all’associazione e un dettagliato indirizzario di tutte le unità spinali e i centri riabilitativi italiani.

… e poi le associazioni sportive

Esistono poi i siti curati dalle associazioni di persone paraplegiche che riguardano lo sport; ve ne sono diverse. Cominciamo da H81 (Associazione sportiva e culturale per persone disabili), graficamente molto curata, con frame e immagini in movimento; da un‘informazione soprattutto riguardante le discipline sportive che segue (basket, tennis da tavolo, pallamano). Sul sito si può leggere anche un manuale di tutela giuridica contro le barriere architettoniche.
Un esempio di pura presentazione dell’associazione viene offerto dal sito della POLHA (Associazione Polisportiva per Disabili) di Varese; al di là di questa informazione e di poche altre segnalazioni un lettore web non può leggere altro.
Più consistente, dal punto di vista informativo, si presenta il sito di SportABILI, che secondo le stesse parole degli autori “avrà due funzioni principali: come mezzo di comunicazione e di informazione sulle attività dell’associazione, e come luogo di contatto per tutte quelle persone che vorranno scambiare le loro esperienze di viaggio e di turismo in Italia e all’estero”. In che modo? Sfruttando l’immediatezza del mezzo telematico, verranno raccolte le esperienze e i suggerimenti di persone disabili che hanno intrapreso dei viaggi. Oltre a questo progetto (SportABILI Network) è possibile leggere i testi integrali del recente convegno su handicap e sport che si è svolto a Trento.

Che interattività con il lettore?

Uno dei modi per capire la qualità di informazione che viene offerta sul web è quello di verificare in che modo il lettore può partecipare al dibattito o dire la sua su un dato argomento, ovvero del grado di interattività. Il mezzo telematico è un medium che permette un tipo di informazione non più da uno a molti (come è il caso del giornale o della televisione), ma da molti a molti, ovvero l’informazione non viene calata una volta per tutte dall’alto, ma viene fatta da più parti, tramite la collaborazione, la cooperazione e il confronto delle opinioni.
Nel nostro piccolo campione preso in esame il problema, per la maggior parte dei siti, non si pone neppure, dato che internet non viene compresa come momento di “scambio”. Per alcuni invece questa consapevolezza c’è, ma il grado di partecipazione dei lettori sembrerebbe scarso (e allora si riduce solo alla sua possibilità tecnologica).

Lo stile del web

Scrivere sul web non è come scrivere un libro, valgono regole diverse. Il materiale deve essere organizzato non su un unico lungo foglio ma suddiviso in tante parti collegate tra di loro nel modo più opportuno (per associazione di temi, per opposti o anche come semplice continuazione del discorso). Dato che il mezzo telematico permette anche una (ridotta) multimedialità si può creare un testo web non di solo testo, ma anche corredato da foto, disegni, audio, animazioni per non parlare di tutti gli accorgimento grafici che si possono realizzare. Bisogna dotare anche il proprio sito di una sorta di attrezzatura per muoversi al suo interno senza perdersi e sapere sempre dove ci si trova e a che livello ( stiamo parlando dei comandi che riportano alla pagina principale e a quelle di riferimento, della mappa generale del sito – sotto forma di disegno, ad esempio, della sua struttura).
Questo tipo di consapevolezza non è presente nei siti esaminati, manca in generale una padronanza del linguaggio specifico (del web).
Questo tipo di mancanze, unito al discorso sull’interattività, non sono tipiche dei siti che abbiamo esaminato, ma sono mancanze che si riscontrano in generale nei siti web dedicati al sociale. Sottolineando questi difetti non si pretende che il sito di un’associazione che si occupa di paraplegia sia organizzata come il sito del quotidiano “La Repubblica” e dia una quantità di informazione corrispondente, ma che molto concretamente e semplicemente non si limiti ad essere una vetrina di presentazione di un’associazione ma faccia partecipare il suo lettore e lo che introduca ad internet fornendogli anche degli strumenti di orientamento (come ad esempio i collegamenti che alcuni siti suggeriscono).

Il confronto con la stampa di settore

Ma in conclusione che differenze vi sono con la stampa specializzata di settore?
Da un punto di vista quantitativo non abbiamo trovato molte informazioni, dal punto di vista tematico dobbiamo invece sottolineare una certa somiglianza. Se noi sfogliamo le riviste di settore notiamo come la gran parte degli argomenti trattati riguardino proprio l’informazione medico-scientifica, lo sport, le barriere e i trasporti e le storie personali (anche queste ultime presenti in rete ma non nei siti esaminati).
In questo caso ma anche in generale, la rete non fa altro che rispecchiare ciò che esiste nel mondo reale; non è vero, tanto per fare un esempio che su internet c’è maggior pornografia o pedofilia che nel mondo reale, la rete si limita, come ogni bravo specchio, a riflettere ciò che c’è già.
Così se ci allontaniamo ancora dal nostro oggetto – i siti delle associazioni – e ci rivolgiamo all’informazione prodotta on line dai mass media, il discorso non cambia; gli stessi difetti e vizi della stampa e della TV nei confronti dei disabili vengono riproposti.
Ma allora il nuovo dove sta, dove si nasconde? Il nuovo lo si può forse trovare non tanto sul web ma in tutti quei luoghi dove “il popolo della rete” si incontra; i messaggi di posta elettronica privati o collettivi (mailing list), nei gruppi di discussione Usenet (che a dire il vero oramai vengono “vissuti” anche sul web), nelle chat cioé nelle “chiacchiere” che avvengono in tempo reale tra le persone on line(tramite dei programmi specifici, o, ancora una volta, su web).
Leggendo i messaggi pubblici si possono trovare storie, confessioni, richieste di informazione, di aiuto, insulti, liti che avvengono tra persone paraplegiche, o tra queste e persone normali. E’ in questi luoghi che ci si confronta, parlando di cose che, prima dell’avvento della telematica alla portata di tutti, non era possibile comunicare. E’ in questo luoghi che nascono nuovi modi rapportarsi e di vivere, che si producono potenzialità inedite per i disabili, per i loro famigliari e amici. Queste potenzialità però sono segnate da una certa ambiguità; non è detto infatti che saranno solo uno strumento di liberazione del disabile, potrebbero anzi portarlo ad una ulteriore emarginazione

Figli deformi se usi l’ecstasy

“Figli deformi se usi l’ecstasy”; “Paralizzato alle gambe? Allora non le serve il computer”; “Alpinista scala il Bianco con arto-protesi in titanio”… Titoli di quotidiani, un po’ sempre i soliti potremmo dire ma non è superfluo riflettere ancora una volta su un tema importante e, forse non a caso, troppo spesso ristretto ai “teorici della comunicazione”.
Le notizie pubblicate sui quotidiani e trasmesse dai telegiornali lasciano una traccia abbastanza labile nella nostra memoria, anche quando si tratta di fatti abbondantemente trattati e che colpiscono la nostra emotività. Quanti terremoti ci sono stati nel 1999 e dove? In che mese sono iniziati i bombardamenti sulla Serbia? A quanto ammonta l’ultima Finanziaria? Insomma è stato dimostrato che conserviamo una memoria dei fatti importanti, di quello che sta accadendo e quindi che è necessario sapere solo per pochi giorni. Poi, sotto l’incalzare di nuove notizie dimentichiamo buona parte delle informazioni che, fino a pochi giorni prima, stavano al centro dell’attenzione nostra e dei grossi mezzi di informazione.

Chi ci suggerisce la nostra percezione del mondo?

Questa constatazione, supportata da numerosi studi, non deve però portare a concludere che l’effetto dei mezzi di informazione e, in senso più ampio dei mezzi di comunicazione di massa, sia ininfluente su di noi. Se spostiamo la nostra attenzione dal breve al lungo periodo e dal contenuto delle informazioni ai modelli della realtà che i contenuti veicolano la questione si pone in modi completamente differenti. Perché non si parla più di ricordi ma di rappresentazioni, della percezione che le persone hanno della realtà. Ed ecco che i mezzi di comunicazione assumono un ruolo molto rilevante perché essi sono una delle fonti principali che contribuiscono a costruire la nostra percezione del mondo in cui viviamo, i modelli a cui ci ispiriamo e che fanno da sfondo a tutta la nostra vita.
Questa influenza infine è più forte negli ambiti, rispetto alle situazioni e alle categorie, di cui non possediamo una conoscenza diretta; ciò che sappiamo, o meglio ancora quella “vaga idea” che ci costruiamo, è ancora di più sul lungo periodo un prodotto dei modelli che i mezzi di comunicazione ci propongono.
Si arriva così al tema che più ci sta a cuore: l’handicap, in particolare l’handicap acquisito, e l’idea che nel tempo il comune cittadino può costruirsi di questo mondo, che nella maggioranza dei casi, non rientra nella sua esperienza diretta.

Temi preferiti? La scuola e poi la cronaca nera

Abbiamo fatto un esperimento: abbiamo cioè raccolto tutti gli articoli relativi all’handicap pubblicati da metà settembre alla fine di ottobre (1999 naturalmente) sulle pagine di cinque quotidiani: Avvenire, Il Sole 24 Ore, La Repubblica, Resto del Carlino e l’Unità. Un monitoraggio su un frammento di stampa quotidiana, in un frammento temporale di un mese e mezzo, senza nessuna pretesa di scientificità, da cui comunque sono emersi dati che ci è parso significativo commentare.
Gli articoli raccolti sono in tutto ventitré, dal trafiletto di poche righe all’approfondimento di mezza pagina; ma a parte il dato quantitativo, che in questa sede interessa relativamente, ci pare più importante sottolineare gli argomenti trattati.
Il tema maggiormente trattato è quello che gravita attorno alla scuola: in tre articoli viene affrontato il problema della carenza di insegnanti di sostegno (“Bufera sui corsi per insegnanti di sostegno”), due di questi raccontano casi di alunni e studenti “lasciati” a casa per questo problema (“La scuola ha pochi insegnanti e lui tiene a casa la figlia Down””, “Un insegnante per il figlio disabile”). A fare notizia è inoltre, seppure in pochissime righe, una manifestazione avvenuta a New York da parte di studenti disabili che hanno vivacemente protestato per “…il debutto in cattedra di Peter Singer”, professore di bioetica “… che teorizza l’eutanasia per i neonati handicappati”.
Tre pezzi sono dedicati ad un “classico” del rapporto handicap/informazione: i casi di violenza e rifiuto. Altre indagini sulla stampa quotidiana condotte dalla redazione di Hp hanno evidenziato come i casi di violenza sessuale che hanno come vittime o come “protagonisti” le persone handicappate abbiano una elevatissima probabilità di diventare notizie. I toni degli articoli che ne conseguono sono spesso scandalistici e l’immagine che se ne ricava è sempre e comunque quella di una sessualità negata, distorta, pericolosa.

La normalità impossibile

L’handicappata o l’handicappato, con una normale vita di relazione e magari con figli, vengono percepiti spesso come protagonisti di eventi straordinari, sicuramente fuori dalla norma. Nell’immaginario delle persone prevale lo stereotipo dell’impossibilità sia rispetto all’affettività sia, e forse ancora di più, rispetto alla procreazione.
Il percorso psicologico che attraversa, legandoli, concetti come handicap – diversità – mostruosità – devianza si ripropone senza mezzi termini in un altro articolo censito nel corso di quest’ultima ricerca. Il titolo è chiaro ed emblematico nel suo condensare tutti questi stereotipi: “Figli deformi se usi l’ecstasy – Con la droga delle discoteche parti a rischio”. Senza entrare nel merito della scientificità della notizia ci pare evidente come l’articolo sia impostato sul meccanismo della colpa a cui corrisponde la punizione della nascita del figlio deforme.
Tornando agli articoli sulla violenza segnaliamo in particolare il caso, verificatosi e Genova, di un uomo, parzialmente immobilizzato a causa di un ictus, che, nel tentativo di difendere un disabile, è stato malmenato da un gruppo di giovani.
Sul lavoro sono invece stati censiti due articoli entrambi sul processo di riforma del collocamento obbligatorio; in tutti e due i casi si tratta di pezzi con un approccio tecnico-informativo come sottolinea anche il fatto che siano stati pubblicati l’uno su Il Sole 24 Ore, l’altro sulle pagine economiche de l’Unità. Segnaliamo come, al di là del periodo limitato preso in esame, difficilmente appaiano sulle pagine dei giornali articoli che parlano di esperienze di inserimento lavorativo; che sia il riflesso della crisi che attanaglia tutto il mercato del lavoro? Oppure i fatti positivi, normali, non fanno notizia?
Sul fronte tecnico segnaliamo infine un articolo sulla razionalizzazione della spesa assistenziale e uno sulla ripartizione del fondo della Regione Lazio per l’istituzione del Servizio di aiuto personale agli handicappati gravi. In entrambi i casi si tratta, ancora una volta, di pubblicazioni apparse sulle pagine de Il Sole 24 Ore.

Le inchieste di Avvenire

Avvenire pubblica nella rubrica “Società” due approfondimenti a distanza di dieci giorni. Il 5 ottobre esce una articolo su mezza pagina in cui viene raccontata la visita in un istituto della Moldavia che ospita bambine e ragazze disabili. Il resoconto è agghiacciante: 203 “pazienti”, Down, psicotiche, oppure con deficit fisici; 11 infermiere e un medico in tutto. Sporcizia, miseria, fame e abbandono. Praticamente una anticamera della morte per queste bambine e ragazze le cui famiglie “… non avevano soldi per mantenere queste figlie malate in un paese in cui è difficile sfamare i figli sani”. L’articolo dell’Avvenire è una forte e pesante denuncia di una situazione ben conosciuta in Europa rispetto alla quale, complici i problemi in cui versa la piccola ex repubblica dell’Urss, nessuno riesce o vuole fare nulla.
Il secondo approfondimento, del 25 settembre, è un articolo su un tema completamente diverso. Racconta un’esperienza condotta nel trentino dove un gruppo di operatori e guide alpine realizzano escursioni in montagna con persone psicotiche. All’interno dell’articolo si legge: “… è un’esperienza di vita ‘normale’, in un clima di fiducia. La montagna ricrea le relazioni, favorisce i ricordi (…) provoca angosce e aiuta a superarle”.
E sempre in montagna sono ambientate le gesta di un uomo che, con un arto in titanio, ha scalato il Monte Bianco. A lui e alla sua impresa, che lui stesso definisce il raggiungimento di nuove “normalità”, sono dedicati due brevi articoli.

Orizzonti tecnologici

Restando sempre nell’ambito dei deficit acquisiti dalle pagine del Resto del Carlino arriva la storia di un ventiduenne, Paolo, che a causa di un incidente stradale è paralizzato da un anno e mezzo. Il giornalista gli fa una intervista tramite una chat line visto che Paolo, immobilizzato dalle spalle in giù, ha trovato in Internet un modo per continuare a studiare, per scrivere agli amici. Grazie ad un programma di riconoscimento vocale utilizza il computer, muove il mouse, spedisce fax, messaggi di posta elettronica e viaggia in Internet. L’articolo, oltre alla vicenda umana di questo ragazzo che è simile a quelle di molti altri disabili che grazie alla tecnologia riescono a comunicare, a studiare, a mantenere relazioni con altre persone, mette in luce un problema per nulla irrilevante: il costo delle bollette e l’assenza di qualunque agevolazione da parte delle compagnie telefoniche, o delle Istituzioni.
Per restare in tema, sempre dal Resto del Carlino nella rubrica intitolata “Il caso della settimana”, veniamo a conoscenza di quanto accaduto ad un disabile con invalidità certificata del 100%: anche se il Ministero delle Finanze, nelle istruzioni per la compilazione del modello 730/99, indica di riportare le spese per i sussidi informatici rivolti a facilitare l’autosufficienza e l’integrazione, questa persona non si è vista riconosciuto il rimborso Irpef sull’acquisto del computer. Questo, naturalmente, per una persona che nel pc, nel modem, in Internet e nella posta elettronica potrebbe trovare strumenti indubbiamente validi per colmare qualche svantaggio. La risposta dell’esperto riportata a fianco non chiarisce come stiano effettivamente le cose.
Segnaliamo un altro articolo legato alla paraplegia e relativo ad un intervento chirurgico realizzato in Francia, all’Institut Propara di Montpellier. A un uomo di ventotto anni, paralizzato alle gambe da nove in seguito ad un incidente d’auto, è stato recentemente collocato nell’addome un impianto elettronico che funziona da centralina di elettrostimolazione nervosa e muscolare e che riceve gli impulsi dagli elettrodi collocati sulle gambe. Una nuova speranza per i para e tetraplegici? L’equipe smorza un po’ i toni dell’entusiasmo spiegando che “… perché l’operazione abbia successo (…) è necessario prima di tutto valutare lo stato dei muscoli, che deve essere ancora buono, e poi considerare la gravità della lesione a livello del midollo spinale. E bisogna ricordare che – prosegue l’intervistato – il paziente avrà sempre bisogno di sostenersi con le stampelle”. Aggiungiamo solo che il risultato conseguito con questo intervento è la prima tappa di un progetto, intitolato con dubbio gusto “Stand up and walk”, cioè “Alzati e cammina”, iniziato nel 1996 e in cui sono già stati investiti molti miliardi. E’ stato stimato che solo in Francia il 10% dei paraplegici potrebbe ricorrere all’intervento.
Gli ultimi due pezzi censiti dalla nostra mini ricerca sono stati dedicati al tema della mobilità: uno di questi, uscito sull’inserto Metropolis dell’Unità, affronta il tema dell’accessibilità dei centri urbani e sottolinea come una città attenta a questi problemi si trasformi immediatamente in una città più vivibile per tutti. Le difficoltà nella fruizione dell’ambiente, sei servizi e delle opportunità, non sono infatti appannaggio esclusivo di chi utilizza una carrozzina per spostarsi ma anche delle persone anziane, dei bambini, di chi è temporaneamente limitato nella mobilità, del genitore che spinge il passeggino.

La realtà vera e quella dei mass media

Non vogliamo concludere questo articolo con i soliti commenti sulla stampa cattiva e i giornalisti frettolosi e incompetenti. Al di là di tutte le considerazioni che si possono fare e che sono già state fatte sul rapporto tormentato tra informazione e categorie “deboli”, riteniamo importante non dimenticare mai quanto descritto nelle prime righe: tutti noi rispecchiamo le idee, i modelli, le mode e i luoghi comuni del mondo in cui viviamo e oggi più che mai i mass media sono potenti strumenti di costruzione delle nostre rappresentazioni della realtà. In altri termini i mass media costruiscono nel tempo, in quindi in modo non percepibile, gli schemi con cui decodifichiamo i fatti, con cui ci poniamo di fronte a situazioni e persone rispetto alle quali non abbiamo grosse conoscenze dirette. Occorre insomma stare molto attenti a non confondere “la realtà” con l’immagine della realtà che i mezzi di comunicazione di massa ci propongono: non è affatto scontato che le due cose coincidano.

Enter: un progetto europeo per l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate

Le analisi, le riflessioni e le metodologie che accompagnano i percorsi formativi rimangono spesso in un circuito di “addetti ai lavori” mentre ciò che emerge è solo il risultato finale (il corso di formazione professionale, le persone inserite nel mondo del lavoro, eccetera).
Ci sembra utile invece fare conoscere le risorse e le prassi significative che hanno accompagnato la realizzazione di un progetto europeo fondato sulla ricerca di nuovi percorsi per la formazione e finalizzato all’integrazione di persone in grave stato di disagio.
Enter, questo il titolo del progetto, è stato finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del programma di iniziativa comunitaria denominato “Integra”. Ha visto la stretta collaborazione di un gruppo di enti bolognesi e si è basato sull’elaborazione e sperimentazione di percorsi innovativi per la formazione e l’inserimento lavorativo di dodici persone in grave condizione di disagio sociofamiliare e di esclusione sociale.

Lo scenario del progetto

La situazione vissuta da parte delle persone svantaggiate è la inoccupazione o disoccupazione di lungo periodo; si tratta di lavoratrici e lavoratori non più in cerca di impiego per mancanza di prospettive, motivazioni e strumenti di riorientamento ed adeguamento delle risorse personali.
A questo si sommano le prerogative del mondo produttivo bolognese (in prevalenza piccola e media industria) caratterizzato da una forte specializzazione e qualità: a settori tradizionalmente forti come la meccanica di precisione e l’automazione si è affiancata una realtà di terziario avanzato che ha sospinto verso l’alto i requisiti di professionalità e la selettività dell’accesso occupazionale.
La difficoltà di reinserimento occupazionale nasce quindi sia dalla forte diffidenza presso le imprese sulla reale tenuta ai ritmi produttivi di un lavoratore da tempo collegato ad abitudini di vita deresponsabilizzanti, dall’altro dall’effettiva difficoltà di tali persone ad assumere la necessaria flessibilità ed impegno nella costruzione di professionalità specifiche da reinvestire.
Su questo sfondo si colloca il progetto Enter che ha avuto come obiettivo l’elaborazione e la sperimentazione di percorsi innovativi di intervento formativo e di inserimento lavorativo in grado di coniugare tutte le risorse presenti sul territorio per promuovere un rinnovamento culturale che concepisca l’integrazione delle persone svantaggiate come un fattore di sviluppo ed opportunità di crescita per tutta la collettività.
Si è trattato quindi di una azione complessa che, secondo le priorità dell’Iniziativa Comunitaria Occupazione, agisse in una logica di intervento a più dimensioni e livelli e coinvolgesse in ambito territoriale e comunitario una pluralità di attori e competenze coordinate; l’obiettivo strategico era ovviamente quello di un’integrazione degli esclusi a partire dal tessuto socioeconomico delle comunità locali.

Lo studio e ricerca

Significativa in questo contesto è stata la fase di studio e ricerca che si è proposta in generale l’acquisizione di strumenti per la conoscenza e l’analisi della realtà dell’esclusione sociale con particolare riferimento alle problematiche occupazionali e formative. La motivazione principale di tale fase è stata quella di giungere alla individuazione di modelli che saranno la base per la progettazione operativa della sperimentazione da realizzare nell’azione di formazione degli operatori e dei formatori e nelle attività di orientamento, osservazione, formazione ed inserimento lavorativo delle persone in grave situazione di disagio sociale.

L’accompagnamento nell’inserimento lavorativo

Questa fase, apparentemente di secondaria importanza, si è rivelata invece assai significativa e, per certi aspetti, ricca di sorprese. A livello progettuale doveva consistere soprattutto nell’attività di abbinamento delle borse lavoro e nell’accompagnamento alla ricerca di una occupazione. L’esperienza condotta dall’Associazione Piazza Grande nell’affiancamento a sei donne, ha evidenziato la necessità di un sostegno anche rispetto a tutta un’altra serie di problematiche che non erano state inizialmente previste.

Di seguito alcune interviste attraverso le quali la redazione di HP ha cercato di evidenziare alcune prassi ed esperienze significative del progetto Enter (*).

(*) Il sito del progetto Enter è visibile partendo dall’home page dell’Associazione CDH, e cliccando sul logo dell’iniziativa, all’indirizzo http://asp4free.ravenna2000.it/cdh-bo/

Per una definizione del lavoro di cura

Dall’archivio: per rileggere e dare il senso del percorso fatto, per costruire memoria di un passato ancora prossimo (*)Cosa si intende dunque per «lavoro di cura»?
E’ un lavoro che produce cura, che è imperniato nei gesti e nelle necessità della quotidiana riproduzione e che si svolge prevalentemente nei servizi, ma anche in altri contesti produttivi destinati “alla persona”.
E’ un lavoro che richiede un alto contenuto di relazione, destinato ad una persona e finalizzato al suo benessere complessivo; è un lavoro che necessita dell’interdipendenza dei soggetti in relazione e contemporaneamente, da parte di chi lo svolge, di conoscerne e valutarne i confini, evitando l’aiuto inutile.
E’ un lavoro che conosciamo in quanto incorporato in tutta quella serie di attività domestiche che le donne hanno storicamente compiuto per i loro familiari.
E’ un lavoro presente e incorporato in tutta una serie di attività professionali più ampie e più precisamente definite, ad esempio, come lavoro sociale, educativo, intervento sanitario e di riabilitazione.
E’ un lavoro incorporato in diverse professioni, ma costituito da alcune dimensioni che contribuiscono a definirlo in sé:
– una dimensione fisica e materiale: è un lavoro pratico e concreto che si svolge faccia a faccia con la persona di cui ci si occupa, con il suo corpo, con le parti e con le funzioni più intime del suo corpo;
– una dimensione organizzativa: è un lavoro che richiede lo svolgimento di determinate sequenze che riguardano la persona e l’ambiente in cui vive o che la ospita, all’interno di un progetto che coinvolge altre persone con ruoli e funzioni differenti, teso a determinate finalità e poggiante su determinati valori; progetto che richiede una valutazione sottile dei risultati in termini di gradimento, di benessere e di eventuale miglioramento delle condizioni della persona con cui si lavora;
– una dimensione emotiva, riferita non unicamente al fatto che questo tipo di lavoro veicola emozioni, bensì a quella che potremmo definire come dimensione gestionale delle emozioni. Chi svolge questo tipo di lavoro non solo affronta la necessità di dover tenere sotto controllo l’eccessiva esposizione alle emozioni e, contemporaneamente, continuare «a sentire», ma è impegnato in una sorta di produzione sociale emozionale, cioè nella produzione di una modalità di relazione di cura legittimata socialmente e che sia non distante/non intima, non asettica/non coinvolgente, non estranea/non personale.
«Lavoro di cura» e «curare» sono dunque termini evocativi di molteplici significati e di molteplici azioni. Il tentativo che vorrei fare consiste nel mettere in luce gli elementi che stanno all’origine di ciò che si intende comunemente come cura e lavoro di cura, per poi comprenderne i vari significati e le problematiche del costituirsi della cura, in una dimensione professionale specificamente definita e retribuita.
E’ utile decostruire questi termini ? proprio nel senso di smontarli per vedere meglio cosa c’è dentro ? per portare alla luce diversi elementi che, benché noti nella loro parzialità, costituiscono nel loro insieme un particolare meccanismo produttivo non sempre sufficientemente noto, apprezzato, considerato, valorizzato. Il lavoro di cura sembra infatti un lavoro trasparente: sembra di non poterne valutare la consistenza, la qualità, la fatica, la resa. Sembra visibile solo constatando i danni della sua assenza, piuttosto che i vantaggi del suo usufruirne. Tutto ciò sembra che diventi noto solo «dopo» quando i danni della carenza di cure sono già presenti, oppure quando le persone che continuamente svolgono questo lavoro si stufano o non ne possono più di farlo e se ne vanno o si sottraggono.
La definizione del lavoro di cura è problematica poiché non solo il concetto di cura è evocativo di complessi significati, densi di valori e simboli, ma anche perché è riferito ad una molteplicità di azioni e di conoscenze destinate a favorire il sostegno, l’aiuto, l’accompagnamento di persone in una fase di crescita, o divenute fragili nel corpo e nelle relazioni con gli altri, o temporaneamente limitate nella loro autonoma e indipendente vita quotidiana (Saillant, 1993; Taccani, 1994).

Un lavoro di genere femminile

Curare è, nell’immaginario collettivo, caratteristica del femminile, pur essendo il lavoro di cura svolto anche da uomini.
Le donne sono gli attori privilegiati nello scenario della cura: garantiscono cura gratuita nel loro tempo privato familiare; svolgono lavoro di cura nei servizi nel loro tempo pubblico retribuito; chiedono servizi di cura per i loro familiari.

Donna e cura nella nostra cultura. Come si intrecciano questi elementi nella realtà quotidiana dei servizi che producono lavoro di cura? In questo senso mi sembra significativo seguire da vicino il «caso donna» come emblematico ? pur dando per scontate le criticità insite in ogni generalizzazione – poiché consente di capire alcuni passaggi e nessi fondamentali del posto che occupa la cura nella nostra cultura e nella nostra organizzazione sociale e di prefigurarne gli sviluppi.
Le donne intraprendono lavori di cura e cicli di studio che preparano a professioni ad alto contenuto di cura, con l’aspettativa di «fare» qualcosa di vicino al loro sapere, aggirando così la difficoltà di misurarsi con altre attività immaginate fuori dalla loro portata. Si lasciano condurre dalla presunta facilità di ciò che è sentito come vicino e concreto: ciò che «piace», ciò per cui «sono portate», ossia occuparsi degli altri, curarsi di qualcuno. Le capacità che vengono alle donne riconosciute dagli altri, quelle stesse che esse si autoriconoscono e che talvolta hanno già sperimentato nel loro ambito familiare, possono allora costituirsi in una dimensione professionale, in un lavoro. Curare diventa lavoro retribuito.
Si ritrovano in tante, spesso solo donne, operatrici in servizi alla persona. ambiti di lavoro in cui i livelli salariali sono i più bassi fra quelli dei diversi settori lavorativi e in cui la prevalente «convenienza» ? per chi lavora nel settore pubblico ? è di vedersi riconoscere diritti, peraltro esigibili per legge, riguardanti il proprio tempo?maternità .
Ambiti di lavoro in cui la scarsità di opportunità di carriera e il blocco dei passaggi di livello nel corso degli anni allungano enormemente il tempo dedicato ad un solo tipo di lavoro, per lo più ripetitivo; in cui è negata l’opportunità di utilizzare il tempo di vita lavorativo per riciclare sapienza e competenza e per diventare maestre nei lavori di cura.
Ambiti di lavoro i cui vantaggi sono insiti nel fatto che si tratta di lavori e di ambienti meno ostili alla cultura lavorativa delle donne e alle loro esigenze/desideri di tenere insieme il tempo familiare e quello lavorativo.
Ambiti di lavoro in cui le donne, temendo il rischio di portare nella dimensione professionale il non?valore e la non?visibilità socialmente destinata a tutto ciò che riguarda la cura nell’ambito familiare, si rifugiano spesso nel tecnicismo o nella distanza dalla persona di cui si prendono cura, come se la distanza fosse di per sé misura della professionalità (Colombo, 1989).
Ambiti di lavoro in cui sono compresenti culture professionali e modalità organizzative differenti e spesso in conflitto fra loro, verso le quali il movimento meno costoso può essere quello dell’omologazione al modello prevalente. Le istituzioni che gestiscono servizi alla persona non sembrano ancora interessate a indagare e decifrare la complessità insita in questi tipi di lavoro, dei quali raramente vengono esplicitati i risultati che ci si attende, come se si trattasse di processi produttivi naturali. Si assiste a situazioni in cui da un lato vengono premiati modelli organizzativi che privilegiano la «tecnologia» come ambito di presunta maggiore efficacia, mentre dall’altro la latitanza di proposte organizzative è tale da produrre comportamenti lavorativi di una modalità routinaria e spersonalizzante più prossimi all’incuria che alla cura.

La collusione delle donne. Facevo prima riferimento a resoconti di segmenti di attività produttiva, L’analisi di questi materiali ? personalmente condotta in vari servizi come consultori, reparti ospedalieri, nidi d’infanzia, servizi per disabili ? rivela che vengono descritte, rendicontate e quindi percepite come attività lavorative solo determinate azioni, procedure, «cose che si fanno», e non altre. Vengono generalmente censurate alcune parti ? evidentemente sentite come non?lavoro ? corrispondenti ai gesti e alle situazioni in cui vi è una particolare sintonia relazionale con la persona di cui ci si sta occupando; i gesti e le situazioni in cui “ci si sente bene” o “ci si diverte”; i momenti in cui la dimensione di ascolto è più elevata e i gesti che riportano alle abitudini della vita quotidiana.
Usando una certa approssimazione, potrei dire che vengono censurate tutte quelle parti valorizzabili come positive in un lavoro d cura e maggiormente riportabili a competenze di tipo femminile come: la capacità di inventare soluzioni di fronte a una contingenza inattesa; l’orientamento alla relazione; l’attenzione alle difficoltà delle persone; la capacità di cogliere i segnali informali delle situazioni per farle evolvere positivamente per chi vi partecipa; la capacità di occuparsi con competenza dei bisogni primari delle persone.
L’analisi di questi comportamenti è di grande interesse per poter affrontare determinati interrogativi. Uno di questi consiste nell’intravedere una sorta di collusione da parte delle donne proprio perché esse sembrerebbero attivamente partecipi della negazione di tali attitudini e competenze, riconosciute come femminili ma bollate dall’organizzazione come sottoprodotto.
Da quali elementi può essere prodotta una tale attitudine? Vi è sicuramente un’attesa sociale che siano le donne in particolare a svolgere bene lavori di cura (quante volte fra gli utenti o i familiari di utenti insoddisfatti si sente dire: «E sì che è una donna!»). E’ però difficile che esse possano assumersi interamente e consapevolmente la rivalutazione delle modalità del lavoro di cura avendo introiettato la svalutazione sociale delle competenze femminili relazionali e di cura; l’incertezza su quanto si conta; l’affidarsi ad altri per il giudizio su di sé.
Tale rivalutazione è un’operazione che richiede di riconoscersi autorevolezza nell’accoglimento e nella relazione con l’altra/l’altro non nei termini del potere discrezionale fornito dall’istituzione che si rappresenta, bensì nei termini di autoriconoscersi la dimensione di «soggetto» ? abbandonando lo stato di «oggetto» ? per attribuire la stessa dimensione di «soggetto» alla persona di cui ci si prende cura (Piazza, 1992). Curare qualcuno e curarsi di qualcuno non indicano solo il transitivo e l’intransitivo del verbo, ma anche, nella seconda versione, un’autorizzazione a curare se stesse. E questo è un passaggio rilevante del costituirsi del lavoro di cura in dimensione professionale. E’ un passaggio che richiede alle donne di potersi riconoscere simbolicamente e realmente maestria nel lavoro di cura e di potersi immaginare non solo come curanti, ma anche come destinatarie di cure. e che richiede alla cultura sociale di dotarsi di nuovi criteri di valutazione di un lavoro tanto necessario in quanto vicino alle esigenze vitali delle persone.

Esplorazione del mondo della cura

Questo schema di analisi ci fornisce alcuni elementi di chiarezza, ma apre nel contempo molteplici interrogativi su cui si sente la necessità di confronto anche a partire da riflessioni su esperienze operative. Ad esempio: se è un lavoro al femminile, gli uomini ne sono in qualche modo esclusi? Lo intraprendono con modalità diverse? La cura è una presa di responsabilità fra persone o/e vi è una dimensione di responsabilità sociale?
La produzione di ricerca su questo tema si è svolta finora prevalentemente attraverso l’interesse di donne studiose, sociologhe, storiche, antropologhe, e nel filone di studi femministi . Carol Thomas (1993) sostiene che «cura» è una categoria empirica e non teorica e che le forme di cura e le relazioni fra le stesse siano da teorizzare nei termini e all’interno di altre categorie teoriche. Suggerisce inoltre sette dimensioni comuni a tutti i concetti di cura:
– l’identità sociale di chi cura;
– l’identità sociale di chi riceve cure;
– la relazione interpersonale fra chi cura e chi riceve cure;
– i contenuti della cura;
– l’ambito sociale in cui è collocata la relazione di cura;
– il carattere economico della relazione di cura;
– il luogo della cura.
Considero utile questo schema per addentrarmi nella scomposizione del concetto di cura, avendo come prospettiva quella di comprendere meglio i passaggi fra la presunta naturalità del lavoro di cura svolto tradizionalmente dalle donne e la sua costituzione in dimensione professionale, cioè in lavoro di cura svolto da donne e da uomini all’interno di professioni, in ruoli e in contesti produttivi diversi.

L’identità sociale di chi cura. La persona che cura è usualmente definita in riferimento al ruolo: familiare (ad esempio, moglie, madre, figlia) o professionale (ad esempio, domestica, infermiera) o specifico (ad esempio, volontaria). L’evocazione è genericamente e usualmente al femminile, tanto che si può affermare che il genere è costitutivo dell’identità sociale di chi cura. La cura è femminile. E ciò non solo perché sono donne le persone che garantiscono cura nell’ambito della famiglia e perché sono prevalentemente donne coloro che svolgono lavori di cura nei servizi. Si tratta bensì del fatto che il dare cura è parte della costruzione sociale dell’identità femminile. L’identità di ciascuno riassume le esperienze passate, il nucleo profondo delle esperienze infantili e la progettualità futura in quanto dimensione soggettiva all’interno di una cornice sociale e culturale che offre determinati modelli di comportamento, a donne e a uomini. Sia il maschio che la femmina hanno come primo oggetto d’amore una donna, ma il bambino si deve staccare da lei per identificarsi con il sesso d’appartenenza e la sua identità costruisce attraverso l’esperienza di separazione dalla madre, la valorizzazione della presa di distanza e dell’autonomia. La bambina prolunga l’identificazione con la madre, non c’è opposizione fra sé e l’altra e l’identità si costruisce sulla valorizzazione della vicinanza piuttosto che della separazione, dell’ oblatività e del bisogno dell’altro. Le donne si immaginano prima o poi nella posizione di chi cura, piuttosto che come persone potenzialmente bisognose di cure fisiche (Griffits, 1988).
Il lavoro di cura appare, nella nostra cultura e nella nostra società, come un’espressione del femminile. Ciò ovviamente no esclude che il lavoro di cura sia svolto da uomini, in ruoli familiari nell’ambito domestico e da operatori nei servizi. Nominare il genere di chi cura ? uomo o donna nella famiglia, operatore o operatrice nei servizi contribuirebbe sia all’esplicitazione delle differenze nel modo di curare senza che ciò possa essere sentito (come spesso accade alle donne nella dimensione professionale) come una minaccia all’uguaglianza di diritto fra i sessi e contribuirebbe anche al chiarimento di ciò che si può o si deve intendere per «diritti di chi cura» , nozione oggi compressa fra gli estremi di una dimensione o tutta amorevole e di obbligo, nella relazione familiare, o di rivendicazione di condizioni materiali di lavoro, nelle relazioni produttive.

L’identità sociale di chi riceve cure. Chi riceve cure è generalmente definito come membro di una determinata categoria sociale, che può essere riferita, ad esempio, all’età, come i bambini e gli anziani, o ai familiari. Chi riceve cura è spesso definito nei termini di appartenente ad una categoria di persone in una posizione di dipendenza, come anziani non autosufficienti, persone con difficoltà di apprendimento o con malattie croniche. Così la chiave di identificazione sociale di chi riceve cure è nei termini di status di dipendenza. Tuttavia chi riceve cure nella famiglia è in genere un adulto autosufficiente o un bambino con la non autosufficienza fisiologica rispetto al livello di crescita .
Chi riceve cura esibisce la dimensione del bisogno e anche quella del diritto di cittadinanza: dimensioni entrambe caratterizzate da forti mutamenti di tipo valoriale nel corso degli ultimi decenni. Si tratta di un mix che da un lato ridisegna la collocazione del posto della donna nelle dinamiche familiari, dall’altro ridefinisce la relazione fra chi dà e chi riceve cura nei luoghi istituzionali, in quanto chi porta un bisogno di cure non è più un questuante proprio in forza del suo diritto di cittadinanza. Ma anche chi dà cure pone limiti precisi alla propria disponibilità, in forza dei diritti del lavoro. Esibire il diritto a ricevere cure scioglie il debito di gratitudine nei confronti della madre simbolica, cioè il/la curante, distanziandosene (gli operatori descrivono questo movimento dei loro utenti/clienti come fonte di tensione perché denso di pretesa e di aggressività).

La relazione fra chi cura e chi riceve cure. E’ una relazione definita, e in un certo senso accettabile, prevalentemente all’interno di un vincolo: quello familiare oppure quello lavorativo, per quanto riguarda i servizi, anche se si prospettano ulteriori dimensioni. Se il fondamento della relazione interpersonale nell’ambito della famiglia è quello dell’amore, non sfugge tuttavia quello dell’obbligo, pur in termini diversi dall’obbligo al rispetto di norme insito nel rapporto istituzionale di lavoro di cura. In quest’ultimo ambito il tipo di relazione è determinato anche dal grado di investimento e dalle prefigurazioni del singolo operatore rispetto alla propria attività, nonché dalla cultura organizzativa del luogo istituzionale in cui la relazione di cura avviene.
Tenendo conto delle osservazioni che portavo nel punto precedente, credo si possa affermare che forse mancano ancora dei criteri, condivisibili dai soggetti in interazione, per contrattare una modalità di rapporto sufficientemente chiara e rispettosa delle attese di ciascuno. In altri termini, è come se si dovesse ancora mettere a punto una modalità relazionale entro cui si possa esprimere fiducia e affidamento, da parte di chi riceve cure, e contemporaneamente personalizzazione e misura del coinvolgimento, da parte di chi dà cure, in un tempo che spesso ha un inizio improvviso e una durata comunque breve (ho in mente il senso di delusione espresso da diverse educatrici di nido quando affermano che «i nostri bambini poi non si ricordano più neanche di noi, con tutto quello che abbiamo fatto»).
Ulteriori relazioni interpersonali possono essere fondate sull’amicizia o sul «vicinato» oppure riguardare persone fra loro sconosciute in contatto per una determinata finalità attraverso una prestazione volontaria. E’ ancora poco diffuso un tipo di relazione fondata sullo scambio di cure in una posizione paritaria fra persone adulte che possono considerarsi contemporaneamente in grado di dare cura e di riceverne, all’interno di un legame sociale che non sia parentale o a pagamento (Colombo, 1991). Anche la stessa categoria della cura come dono, come valore etico di gratuità, sembrerebbe presupporre una relazione fondata sulla disponibilità a donare, ma anche sull’attesa di essere destinatari di doni (Bimbi, 1995).
Tutto ciò comporta che tipi di relazioni di cura differenti possano essere compresenti in un reticolo destinato ad un unico soggetto: ad esempio, un bambino può ricevere cure, che presuppongono relazioni differenti, dalla madre, dall’educatrice al nido, dalla baby?sitter in casa o da una vicina nella sua propria casa.

1 contenuti della cura. La difficoltà di questa definizione risiede nel duplice significato insito sia nel sostantivo cura sia nel verbo curare. Significato riferibile alla relazione che si instaura fra i soggetti, nel senso di «prendersi cura» di qualcuno, o riferibile all’attività di curare, ai processi operativi, nel senso di «badare», «sorvegliare», «assistere», «curare terapeuticamente» qualcuno.
Questi significati evocano a loro volta due dimensioni del lavoro di cura, inscindibili nell’esperienza della cura:
– la dimensione materiale: curare è un lavoro, un lavoro costituito da azioni e compiti precisi, che occorre saper fare;
– la dimensione emotiva: curare è un evento emotivo che ha a che fare con i sentimenti, con l’amore e il affetto, e con il garantire supporto emotivo.
Conosciamo i rischi insiti nel tenere insieme le due dimensioni nell’ambito dell’attività professionale (eccessiva identificazione con la persona di cui ci si prende cura, forte attesa di riconoscimento affettivo dalla stessa, difficoltà a smettere di «sentirsi sul lavoro»). Rischi che mettono a dura prova l’equilibrio psicofisico dei soggetti che svolgono un lavoro di cura e che si palesano spesso con un consumo eccessivo delle proprie risorse.
Nell’ambito dello stesso lavoro di cura all’interno della famiglia si possono identificare dimensioni differenti: lavoro domestico, cioè le mansioni ripetitive del tenere in ordine la casa; lavoro di consumo, cioè vera che fare con negozi e con servizi vari; e lavoro di rapporto, in un certo senso garantire i legami familiari . I contenuti della cura non sono dunque riferiti solo alla dimensione emotiva o a quella materiale, poiché vi è compresenza di questi elementi e ciò che appare, secondo i diversi conti è semmai una prevalenza di uno dei due menti. E’ infatti chiaro che da un lato il lavoro di cura in ambito familiare non è una veicolazione d’amore, ma un vero e materiale lavoro, così come il lavoro di cura servizi non è solo materiale attività in senso di prestazioni, ma è anche vicinanza emotiva.
Non sembra una sintesi forzata affermare che i contenuti della cura sono dati da contemporanee dimensioni che riguardano il sentire, il sapere, il fare e che tuttavia il lavoro di cura professionale non implica necessariamente una presa in carico globale

L’ambito sociale in cui è collocata la l’azione di cura. Questa dimensione riguarda la separazione più netta e vistosa nella divisione del lavoro nella società complessa: fra la sfera pubblica e quella privata domestica, da cui derivano le concezioni lavoro di produzione nell’ambito del pubblico o del mercato e di lavoro di riproduzione nell’ambito domestico (quel lavoro quotidiano svolto nell’ambito della famiglia per rispondere a quei bisogni fisici ed affettivi degli adulti per vivere giorno?dopo?giorno e a quelli dei bambini per crescere).
L’economia politica tradizionale ha dato e tuttora tende a dare, al lavoro svolto da donne nella sfera domestica la definizione di «improduttivo» (rispetto a quello «produttivo» per il mercato). Le ricerche e le analisi svolte negli anni ’70 e ’80 sulle caratteristiche e la natura del lavoro domestico delle donne ne hanno messo in luce le diverse dimensioni e hanno ampliato il concetto di produzione, chiarendo la funzione decisiva della produzione di rapporti sociali e di prodotti immateriali. Vi è anche l’analisi e la valorizzazione di un modo di produzione che costituisce un patrimonio di esperienze accumulate ed elaborate dalle donne attraverso i loro compiti di gestione della sopravvivenza (riguardo alla salute, il cibo, l’abitazione, i rapporti). «Si tratta di capacità e abilità di diverso tipo, via via modificate e adattate a seconda delle risorse esistenti e delle esigenze dello sviluppo sociale ? e non certamente trasmesse in modo meccanico, sempre identiche, di generazione in generazione» (Prokop, 1978).
La collocazione della relazione di cura in uno dei due ambiti caratterizza in modo differente i concetti di cura. Nell’ambito domestico («informale» nella terminologia anglosassone, «ambiente naturale», riprendendo Ardigò) i soggetti che svolgono un lavoro di cura, anche se pagati, utilizzano la prevalenza affettiva nella relazione mentre i soggetti che svolgono un lavoro di cura nell’ambito dei servizi («istituzionale» o «ambiente artificiale»), pur svolgendo compiti analoghi, utilizzano nella relazione la prevalenza dell’attività.

Il carattere economico della relazione di cura. Questa dimensione è relativa all’essere il lavoro di cura non retribuito o retribuito; al prestare cure in una dimensione governata da un obbligo proveniente da un legame, familiare o d’altro tipo, oppure proveniente da un pagamento in denaro. Tuttavia non si tratta solo di gratuità o di pagamento, visto che, come già detto a proposito della dimensione relativa alla relazione, il lavoro di cura che si svolge nella sfera domestica non è esclusivamente gratuito (come nel caso della collaboratrice domestica della baby?sitter) e quello che si svolge nella sfera pubblica non è esclusivamente pagato (come nel caso di persone volontarie per particolari prestazioni e situazioni).
Se ci si attiene rigidamente e unicamente alla categoria del gratuito o del pagato si rischia di non vedere l’articolazione intrinseca nel lavoro di cura rispetto all’ambito in cui viene prestato e ai suoi contenuti, nonché di perdere elementi utili a comprendere come l’attitudine alla cura si costituisca in attività professionale. Vi è un dibattito aperto relativamente all’attribuire un valore economico, e quindi un suo riconoscimento tangibile e materiale a livello sociale, al lavoro di cura svolto dalle donne nell’ambito domestico. Così come una buona parte della contrattazione dei rapporti di lavoro nell’ambito dei servizi ruota intorno ad un interrogativo che, pur non così esplicito, riguarda «che cosa vendono gli operatori che fanno un lavoro di cura e che cosa acquista l’organizzazione dei servizi contrattando un prezzo e delle condizioni di lavoro degli operatori?».
E’ un dibattito, lungo già qualche decennio, iniziato nel momento in cui si è affermata la dimensione di vero e proprio lavoro di tutte le attività con un contenuto di cura, dibattito teso a chiarire le ambiguità proprie del tenere insieme le dimensioni materiali e quelle affettive in un lavoro per il mercato, da svolgersi per determinate ore settimanali, in certi orari, con determinati periodi di riposo, con determinate retribuzioni.

Il luogo della cura. Riguarda il luogo fisico in cui si svolgono le attività di cura e l’immagine che se ne ha a livello sociale. Il lavoro di cura è presente, come già abbiamo visto, sia nella casa sia in diversi luoghi identificati come più o meno istituzionali: l’ospedale, le case di cura diurne, i centri residenziali e di lungodegenza, quelli territoriali di salute, e così via. Si tratta dei luoghi prevalentemente evocati quando si parli di cura; tuttavia è limitativo riferirsi solo a questi spazi circoscritti da mura e definiti in sé. Lavoro di cura, professionale o non, si compie anche all’esterno, nella città in senso urbanistico e sociale più ampio: all’aperto nei parcheggi e nelle strade, che offrono tutti gli ostacoli propri di luoghi non pensati in riferimento a possibili funzioni di cura delle persone; o in altri luoghi come bar, alberghi, un ufficio postale o un tram in cui gli operatori accompagnano persone disabili ad affrontare tappe della loro vita quotidiana. Essendo la cura pensata come un’attività rinchiusa entro determinati ambiti fisici riservati, questi altri luoghi mal si adattano, architettonicamente e relazionalmente, a standard di funzionamento differenti da quelli p revisti dalla loro destinazione prevalente.

(*) Pubblicato in: ANIMAZIONE SOCIALE, dicembre 1995