Skip to main content

Autore: admin

Lettere al direttore

Ciao Claudio,
mi chiamo Luca e ci siamo conosciuti ieri sera, martedì 24 a Guastalla (RE)  in occasione della serata organizzata per il tuo intervento. Sono quello che hai invitato a provare la tabella all’inizio della serata per provare a tutti che poi la cosa tanto difficile non è: l’importante è
farla.
Non voglio comunque star qui a disquisire sulle cose di cui tra l’altro hai ampiamente parlato ieri sera e passo direttamente al motivo della mail che è di carattere tecnico/pratico. Probabilmente è una grossa cavolata o forse addirittura ci hai o ci hanno già pensato e non funziona, ma a me è venuto un pensiero.
Quando ho parlato direttamente con te tramite la tabella, mi è subito venuto in mente il T9 del telefonino. Se ci pensi, per comporre le parole tu guardi le 20 e passa lettere della tabella che corrispondono ad altrettante posizioni e la maggior parte delle volte non c’è bisogno che tu finisca di vedere l’intera parola perchè il tuo interlocutore, in base all’inizio della parola o al contesto della frase, la finisce in anticipo.
Quindi ho pensato:
1) facendo una tabella tipo la tastiera numerica del telefono avrebbe la metà dei tasti che comunque contengono tutte le lettere, quindi sarebbe più piccola e forse più facilmente raggiungibile anche da persone che hanno problemi di mobilità con gli arti;
2) utilizzando un sistema come il T9 del telefonino le parole e le frasi vengono automaticamente composte.
Il tutto andrebbe secondo me elettronicizzato (e penso che tu stia già pensando che così si perde il gusto di guardarsi negli occhi), ma comunque lascio a te e al tuo staff il compito di vagliare l’idea o semplicemente di cestinarla.
Un saluto speciale da un fiero juventino e felice papà di una meravigliosa bimba RETT.

Io un cellulare? E che modello potrei essere? Con la fotocamera o senza? Videofonino o uno di quei bei vecchi citofononi tascabili (si fa per dire) che quasi avevi bisogno dei gettoni per utilizzarli? Di sicuro voglio avere una soneria decente (magari “Voglio una vita spericolata” di Vasco Rossi) e mi piacerebbe essere predisposto di cover intercambiabile con colori sempre vari.
Veniamo ora alle proposte di Luca, tentiamo di analizzarle seriamente. Ha ragione lui, io ritengo che guardarsi negli occhi sia ancora importante, perché permette di rapportarsi a livello di comunicazione fisica e passionale con il mondo della disabilità. La forma più importante di comunicazione. Il contatto diretto (anche dello sguardo) è una via che secondo me può dare ancora molto. Ma questo non significa che io sia contro l’uso degli ausili tecnologici, tutt’altro. La mia campagna in questo direzione è costante, la tecnologia creata ad hoc per persone disabili permette alle scienze applicate di potenziare le loro ricerche per migliorare la qualità della vita di tutti.
Ma nel caso della tavoletta trasparente con su incise le lettere che uso per comunicare, penso che la  tecnologia vada incontro a poche esigenze reali. Un di più non richiesto. Certo se incontrassi una persona con difficoltà agli arti superiori, per lei sarebbe difficile reggere e leggere la mia tavoletta e parlare con me, ma a una persona come me non capita mai di essere sprovvisto di accompagnatore normodotato (non avrei bisogno di tavoletta, altrimenti). Inoltre, quando si parla di comunicazione verbale, credo che un’ottima conoscenza della lingua italiana sia necessaria, e, si sa, sistemi come il T9 spesso fomentano l’ignoranza. Affidarsi troppo alla tecnologia può essere rischioso quindi, anche perché non c’è bisogno di un database elettronico per sapere come finisce la parola. Quindi, senza cestinare l’idea di Luca, dico che fornisce i suoi spunti ma per avallare la mia posizione.
PS: Ho naturalmente volutamente ignorato la sua juventinità per riuscire a trovare la forza per rispondere.
Caro Claudio, ho letto con attenzione il tuo commento al pezzo su Pistorius che ho scritto per il Corriere della Sera. Sinceramente, condivido poco o nulla di quello che hai scritto. Non ho usato nessun tono trionfalistico. Ho solo scritto ciò che accade, ciò che mi ha detto Oscar (che conosco dalla Paralimpiade di Atene), ciò che conosco. Se Oscar va così forte allenandosi solo da un anno non è colpa mia. Perché ti fa male sentir parlare di un disabile che può ottenere risultati straordinari? Se fossero risultati normali, non avrebbe avuto uno spazio di tre quarti di pagina sul maggior quotidiano politico italiano. Fra l’altro, ti è sfuggita una parte non pubblicata sul sito, ma solo sul giornale, dove è spiegato che Gennaro Verni, uno dei maggiori esperti italiani di protesi, ritiene che nel giro al massimo di una decina d’anni, le gare di velocità degli amputati alla Paralimpiade saranno più veloci di quelle dell’Olimpiade. C’è trionfalismo nello  scrivere tutto ciò? Non credo. Solo constatazione di ciò che è e, forse, sarà. Faccio il giornalista, non il sociologo. E, da giornalista, ho seguito sul posto 5 edizioni della Paralimpiade oltre a svariati Mondiali ed Europei. Da Direttore di Tele+ ho dato vita al primo programma settimanale di sport per disabili. Attualmente collaboro, oltre che con Il corriere, con la Gazzetta dello Sport, con SportItalia e con Eurosport proprio riguardo a questo settore. Chiaro: non lo scrivo per vanto, ma solo per tua conoscenza. Ho sempre cercato di fare attenzione al linguaggio e, anche grazie a critiche come le tue, ci farò sempre più attenzione. Ma continuerò a fare il giornalista. E a raccontare storie che credo interessanti. Come quella di Oscar.
Con stima
Claudio Arrigoni

Questa e-mail ha aperto un brevissimo carteggio tra me e il giornalista del Corriere della Sera sul problema (solito) della comunicazione e la disabilità. Nello specifico, la comunicazione riguardo allo sport.
Al di là dell’articolo preso in esame da Arrigoni, la mia attenzione ora vuole concentrarsi proprio direttamente sul problema della comunicazione a riguardo della disabilità, non solo quella riferita al mondo dello sport, anche se questo micro-contenitore si presta sicuramente meglio ad analizzare la problematica.
La mia posizione a riguardo è nota, forse anche troppo. Sono da sempre convinto che il mondo dei media gioca un ruolo fondamentale per la diffusione di un messaggio “corretto” e normalizzante sul mondo della disabilità. È necessario che la stampa (cartacea e non) inizi a prendere coscienza piena del fatto che parlare di disabili in termini straordinari, pietistici o drammatici (nel senso teatrale del termine) nuoce gravemente alla salute della nostra cultura. E non esistono istruzioni o avvertenze che tengano.
Quante volte abbiamo assistito a servizi giornalistici con punte drammatiche degne del miglior cinema hollywoodiano anni ‘50? Quanti amori, tragedie o imprese miracolose ci hanno mostrato? Assistendo a questi nuovi spettacoli mi rendo conto di come cambiano le cose in trent’anni. Sentire parlare di disabilità negli anni ‘70 era pressoché impossibile, ora accede con una certa frequenza, ed esistono anche testate appositamente dedicate all’argomento. Ma i toni ancora non sono quelli più funzionali. È noto, il linguaggio che preferisco è quello ironico, sarcastico, tagliente. Può dare un’immagine più viva e gioiosa delle persone disabili. Ma se non si percorre questa strada, credo che a questo punto sia più conveniente quella della comunicazione asciutta, informativa, senza giudizi o accenti particolari.
Prendendo in esame il mondo dello sport, ad esempio, spesso è solo la forza, l’impresa eroica a uscire fuori (come nel caso dell’articolo di Arrigono, a mio avviso). Ma lo sport non è solo un canale di agonismo esasperato, ma uno dei più utili strumenti di integrazione che abbiamo a disposizione. Molti atleti disabili non risultano in imprese particolari perché semplicemente non hanno interesse ad apparire. La loro vuole essere semplicemente una vita normale, come quelli di qualsiasi normodotato. Nello sport come nella vita.
Vedere i media parlare di disabilità è sempre una conquista, ma se i toni rimarranno sempre quelli del dramma (tragico o eroico) allora ho paura che dovrò ritenermi soddisfatto quando la disabilità non farà più notizia.
Scherzo, naturalmente…

La gara e la candela

Come può finire questo dossier? Forse con una suggestione che ci viene dalla Rete. Da tempo gira in Rete un testo che si può definire commovente. Dovere del cronista “pignolo” sarebbe risalire alla fonte, controllarne l’autenticità, datarlo e magari corredarlo di note esplicative… Come giornalista un po’ fuori dalle etichette – e talvolta fuori dai gangheri – mi prendo l’arbitrio di riproporvelo pari-pari, senza verifiche, correzioni, aggiunte. Mi pare che in ogni caso (sia cioè vero, falso o magari verosimile) abbia molto da dirci. Eccolo.

“Qualche anno fa, alle Paralimpiadi, nove atleti, tutti mentalmente o fisicamente disabili, erano pronti sulla linea di partenza dei 100 metri piani.
Allo sparo della pistola, iniziarono la gara, non tutti correndo, ma con la voglia di arrivare e vincere.
Durante la gara, uno di loro, un ragazzino, cadde sull’asfalto, fece un paio di capriole e cominciò a piangere. Gli altri otto sentirono il ragazzino che piangeva: rallentarono e guardarono indietro. Si fermarono e tornarono indietro… raggiunsero il ragazzino e una di loro, una ragazza con la sindrome di Down, si sedette accanto a lui, cominciò a baciarlo e a dire: ‘Adesso stai meglio?’. Allora tutti e nove si abbracciarono e camminarono verso la linea del traguardo.
Tutti nello stadio si alzarono, e gli applausi andarono avanti per parecchi minuti.
Persone che erano presenti raccontano ancora la storia.
Perché?
Perché dentro di noi sappiamo che la cosa importante nella vita va oltre il vincere. La cosa importante in questa vita è aiutare gli altri a vincere, anche se comporta rallentare e cambiare la nostra corsa.
Una candela non perde niente nell’accendere”.

Mi farebbe piacere ricevere i commenti (o le critiche) di chi legge questo dossier: mi trovate su pkdick@fstmail.it oppure scrivendomi in via Appia 38, 40026 Imola.
Daniele Barbieri

Melissa Milani:”L’insegnante di educazione fisica”

L’ insegnante di educazione fisica non deve lasciare i ragazzi disabili esonerati in partenza

“Sono 27 anni che incrocio sport e disabilità” è l’esordio di Melissa Milani che, fra l’altro (ma questo dimenticherà di dirlo durante l’intervista, forse per un eccesso di modestia) alle Paralimpiadi di Barcellona del 1992 come allenatrice portò all’oro la nazionale italiana maschile di torball, una sorta di pallamano per non vedenti.
“Già a 15 anni, ancora studentessa, ero arbitro volontario di torball”. Una scelta nata dall’amicizia con due ragazzi non vedenti e che poi porta Melissa Milani a un percorso coerente di studi: l’Isef con l’obiettivo di coniugare sport e impegno. “Sentivo il disagio di ragazze e ragazzi non vedenti che all’epoca gli insegnanti di educazione fisica quasi sempre lasciavano soli, spesso esonerati in partenza e comunque ignorati. Mi veniva una rabbia… che mi è rimasta: allora il mio era un arrabbiarmi istintivo, oggi è più razionale. Però è diventato davvero il mio obiettivo di vita professionale: secondo me l’esonero da educazione fisica, la negazione dello sport, non deve esistere per nessuno. Si tratta di trovare il modo giusto: chi ha le gambe bloccate può usare le braccia, altre persone possono fare gli arbitri, e così via; basta cercare davvero la soluzione e quasi sempre la si trova”.
Melissa Milani entra nella scuola come docente di educazione fisica. “Per la verità come insegnante non ho incontrato tante persone disabili ma quelle poche ho cercato di non lasciarle in disparte. Ricordo una ragazza Down che faceva tutto pur nei suoi tempi e modi, un’altra con seri problemi cognitivi e relazionali, un ragazzo con la spina bifida. Solo tre dunque ma nel  mio tempo libero continuavo, all’Istituto per ciechi Cavazza di Bologna, corsi professionali dove non mancavano le attività in palestra”.
Così verso il 1985 si inizia a praticare il nuoto sub per non vedenti, ma anche calcio, pattinaggio a rotelle con indirizzo artistico. “Si cercava di realizzare tutto… Un ragazzo mi disse che voleva toccare il fondo del mare, gli ho detto sì e lo abbiamo fatto insieme, vincendo anche le mie paure… Lo ricordo ancora, era febbraio, con un freddo polare. Però la sua emozione è diventata anche la mia”.

L’osservatorio di Melissa Milani è fondamentale per ragionare sui cambiamenti sociali degli ultimi anni. Perché 27 anni fa in Italia ancora in molte famiglie la disabilità era un tabù se non una vergogna, ed era palese che intorno i sentimenti dominanti fossero disinteresse e ignoranza, talvolta ostilità o rifiuto.
“Sono davvero tantissimi i mutamenti positivi degli ultimi 20 anni anche se alcune famiglie tuttora oscillano fra vergogna e iper-protezione. Intendiamoci, oggi nella scuola vedo che talvolta bambini e ragazzi normo-dotati sono paradossalmente ancora più protetti dei disabili perché i genitori sono in preda a un’ansia esagerata, con il rischio di rendere i loro figli incapaci d’affrontare ogni piccolo ostacolo. Se guardo indietro, sì i cambiamenti positivi sono molti: 20-25 anni fa quando uscivo con ragazzi disabili ero guardata come un ufo. Quante volte mi sono sentita rivolgere frasi assurde del tipo ‘Chi te lo fa fare di uscire con loro?’. Ma voglio anche parlare da insegnante, di soddisfazioni professionali. Ho avuto una classe con 19 normo-dotati e un ragazzo con deficit: facevo una grande fatica a far lavorare i 19 ma era gratificante vedere come il 20° faceva ogni sforzo per superare gli ostacoli e ci riusciva”.

Nel sostegno scolastico Melissa Milani ha una storia da raccontare: “Ho portato una ragazza che mai prima aveva fatto sci ai giochi nazionali. È stata una soddisfazione immensa, anche perché la famiglia aveva smesso di aver fiducia in lei ma si è ricreduta: a volte basta un input per sbloccare le situazioni e magari un po’ di fortuna. Poi bisogna sempre chiedere, tentare: cioè si sa che ci sono ostacoli e barriere culturali però a me capita di proporre iniziative insolite o fuori dal previsto e di incontrare chi dice ‘Perché no?’. Altri non ci provano affatto”.

Perché altri non chiedono, non tentano? Ignoranza, paura, l’ossessione di essere conformisti… o cosa?
Si ferma un po’ a riflettere Melissa Milani e poi: “Direi soprattutto per la paura del non conosciuto. Nell’ambiente, nel nostro movimento il passaggio di informazioni, soprattutto di quelle positive, è troppo scarso: forse è questo il problema maggiore, ci servirebbe uno storico che raccontasse tutto”.

Se pure si sono fatti passi avanti, questa società non resta intimorita – forse anche ossessionata, se dobbiamo credere alla ideologia degli spot – dalla paura dei corpi imperfetti? La mania della bellezza e della salute non rischia di tradursi in atteggiamenti razzisti verso chiunque non sia del tutto conforme ai canoni dominanti?
Stavolta la risposta di Melissa Milani è fulminea: “Sì, non ho dubbi. Molto di recente, il 28 maggio, mi ha colpito qualcosa che voglio raccontare. C’era una dimostrazione di palla a volo seduta, uno sport che in Italia non si pratica. Era invitata la nazionale bosniaca che si incontrava con ragazze normo-dotate per l’occasione fatte sedere. Questa squadra, campionessa olimpica ad Atene 2004, era gemellata in pratica con tutta Europa, salvo tre nazioni, Italia, Francia, Spagna e allora ho pensato: forse non è un caso che queste siano le tre nazioni con il culto più forte dell’estetica. Secondo me il sit-in volley è una disciplina bellissima ma in tanti mi rispondono di no che è meglio giocare con le protesi, così la bellezza del corpo non viene alterata…. So di una università dove progettano una carrozzina volley per paraplegici. Per molti l’amputazione non si deve mostrare: siamo colpiti più da ciò che manca, e non vediamo quel che c’è”.

Un’esperienza lunga 27 anni ovviamente è difficile da riassumere in due o tre indicazioni-chiave o in proposte per il futuro. Ma tentare si può, insomma la domanda è d’obbligo.
“Il grande disagio è nel sentirsi trattare diversamente. Io credo che bisogna cercare la strada per avere lo stesso criterio con tutte-tutti: sì i percorsi possono essere differenti ma nessuno deve avere un trattamento privilegiato o al contrario di sfiducia. Grazie alle mie esperienze, ma ancor più alle mie amicizie, ho imparato ad ascoltare il non detto, cercando di non fermarmi alle apparenze, di leggere anche i toni di voce, di capire perché alcune frasi vengono dette in fretta e altre troppo prolungate… Per me è stata una fortuna avere avuto questo incontro da giovane, quando si è una specie di spugna, cioè capace di assorbire molto più che nell’età adulta. Cerco di portare questo a scuola e poi nelle tante altre cose che faccio…”.

Attività che – chiedo a Melissa Milani – di ricordare.
“Sono stata nominata a gennaio vice presidente regionale del Comitato paralimpico. Sono anche in una équipe del provveditorato che promuove le attività dei disabili e stiamo cercando di allargarci a livello regionale. Alla facoltà di Scienze motorie da tempo insegno Attività sportive adattate; quella che una volta si chiamava ‘ginnastica per minorati’ e che oggi si articola in ‘preventiva adattata’ e in ‘sportiva’. Quando io feci l’Isef era ancora materia facoltativa mentre oggi è giustamente obbligatoria. In generale mi occupo di riabilitazione, ma anche di informare sulle tante attività sportive possibili. Ne abbiamo anche inventate, il baseball per non vedenti ad esempio. Ora esiste un campionato italiano, mentre a livello internazionale (ma con  regole un po’ diverse) si gioca anche in America latina. Il lavoro decisivo resta formare un personale sportivo con competenze vere. Molto c’è già: anche se non emergono le tantissime realtà, le piccole società sconosciute, e questo significa che soprattutto le famiglie vengono private di informazioni precise. Molto però manca: le persone disabili chiedono di avere strutture sportive ma spesso le società sportive non sono pronte ad accogliere queste richieste. Ci sono buone notizie anche recentissime: qui a Casalecchio fra poco partirà il primo gruppo sportivo scolastico per disabili, in collaborazione con il C.I.P. e con la facoltà di Scienze motorie. Ma abbiamo bisogno di professionalità, il volontariato non basta. Lo continuiamo a ripetere, ma il problema in gran parte è sempre quello: più che le barriere architettoniche (meno di un tempo ma resistono) pesano quelle culturali”.

Riccardo Rutigliano: “Lo sport porta benefici psicologici, comportamentali e sociali”

Lo stereotipo del milanese (ma è di lontane origini pugliesi) viene confermato: Riccardo Rutigliano è sempre indaffarato, anche durante l’intervista lo chiamano di continuo. Non per caso l’unico modo di fare due chiacchiere con lui era raggiungerlo alla sede della Uildm (Unione italiana lotta alla distrofia muscolare).

“Per me il percorso nella disabilità inizia verso i 24 anni, ora ne ho 43. Avendo come patologia la distrofia muscolare, è stato lento il processo che mi ha portato a ricorrere all’ausilio di una carrozzina. Prima del 1986 avevo sì problemi fisici anche pesanti ma sino a quel momento non mi vedevo come un disabile. Disabili per me erano sempre gli altri: anche se io non potevo correre né fare le scale, se avevo difficoltà nel camminare però mi sentivo come un normo-dotato con qualche problemino. Nel 1986 con la prima carrozzina manuale ho capito che ero entrato nella grande famiglia della disabilità e ho iniziato, in realtà, a risolvere i miei problemi con gli ausili che si chiamano così proprio perché aiutano”.

Di fronte alle difficoltà alcune famiglie si compattano, altre entrano in crisi. La tua?
“Mi è stata molto vicina. Mio padre, scomparso nel 1999, aveva una piccola officina, insomma non siamo mai stati né abbienti né poveri”.

Se il mondo di Rutigliano comincia a cambiare nel 1986, la svolta vera arriva 4 anni dopo.
“Sono entrato nella Uildm, dopo aver molto cercato enti, associazioni e strutture per avere un po’ di riferimenti. La Uildm, che allora neanche aveva una sede, mi è piaciuta; da lì è iniziata un’avventura che continua. L’importante per me fu trovare persone che avevano voglia di muoversi, come l’attuale presidente nazionale Alberto Fontana. Ovviamente all’inizio il mio percorso fu da utente, ma quasi subito di impegno, poi nel consiglio direttivo e ora sono vice-presidente della sezione milanese. Ho un ruolo dirigenziale nella federazione di hockey in carrozzina, facendo parte del Consiglio della FIWH (Federazione Italiana Wheelchair Hockey). A proposito, in questa occasione sono l’intervistato, ma in un altro contesto potrei giocare a ruoli rovesciati, giacché ho il pallino del giornalismo, collaboro con riviste, scrivo racconti”.

In questo cammino quando incroci lo sport?
“Una prima volta nel ’91, all’assemblea annuale dei soci Uildm: eravamo a Vibo Valentia e fra gli ospiti c’era una squadra di hockey olandese che incontrò quella di Reggio Emilia, all’epoca l’unica in Italia. Ero nel ‘gruppo giovani’ impegnato per introdurre da noi questo sport: ho cominciato a incuriosirmi, a propagandarlo, a innamorarmene. Per due anni il mio interesse è stato da suggeritore, poi nel ’93 insieme ad altri 4 pionieri ho fondato la squadra milanese: nel decennale abbiamo fatto un cd per ricordare questa esperienza. Pensa, per 5 anni a Milano ci furono ben due squadre e nel ’98 si incontrarono nella finale del campionato che oggi è a 13 squadre; nella prima edizione della Coppa Italia – o meglio della coppa Uildm-FIWH – si è arrivati a quota 14. La maggior parte sono nel nord”.

Il profano pensa che l’hockey sia comunque un luogo di grande agone, se non addirittura di “mazzate” e, nel vostro caso, di carrozzine che si scontrano… È davvero così?
“C’è agonismo nell’hockey classico e anche nel nostro modo di farlo. Infatti il nostro impegno è grande, di tipo professionistico quasi; ovviamente nel senso del tempo pieno non dei soldi. Bisogna tener presente che è l’unico sport di squadra per chi ha la distrofia. In un certo senso era ‘l’uovo di Colombo’ per consentire a chi ha poca forza fisica di fare sport. Si gioca con una mazza di plastica ultra-leggera, per chi ha una residua forza fisica nelle braccia; mentre per chi non riesce a sollevare neppure le braccia (sono le conseguenze della distrofia di Duchenne e delle altre forme più gravi) c’è uno stick, un attrezzo di plexiglas, con una forma a croce, che si applica ai pedali per colpire e indirizzare la pallina. Il gioco è un ibrido che si basa sulle regole dell’hockey su pista ma anche del basket (le misure del campo ad esempio). Rispetto ad altri tipi di hockey abbiamo cercato regole più adatte: ad esempio la pallina non può alzarsi sopra i 20 centimetri, perché sarebbe difficile intercettarla; se accade, l’arbitro fischia e si ricomincia. Che le carrozzine cozzino, forse un po’ più del lecito, ci ha portato a ragionare sui metodi di arbitraggio e sul limite di velocità che da noi è fissato in 10 km all’ora (all’estero invece non esiste). Abbiamo comunque protezioni: parastinchi ovviamente, ma anche barriere laterali sulle carrozzine che abbiamo introdotto quando ci siamo resi conto che entrando con lo stick sulle ruote si poteva, senza volere, provocare la caduta dell’avversario. Forse qualche piccolo pericolo resta”.

A proposito di pericoli o danni. È forte l’idea che lo sport dei disabili debba essere solo terapeutico o riabilitativo; ma questo esclude o mette in secondo piano il piacere. So che entriamo in una discussione complessa e che forse non si concluderà, ma il tuo parere qual è?
“Abbiamo patologie con il 100% di invalidità, complicazioni polmonari e circolatorie: dunque per noi non esiste uno sport in chiave riabilitativa. Ciò chiarito, lo sport ci porta benefici: psicologici, comportamentali, sociali che sono, a mio avviso, importanti come quelli fisici. Fosse solo l’uscire di casa per allenarsi, spostarsi, conoscere altre persone con gli stessi problemi e in questo caso con la stessa passione. A me lo sport piace tutto. Forse perché è lo spettacolo più accattivante per chi, come me, da ragazzo ha passato molto tempo in casa; forse perché è un po’ metafora della vita ed è facile identificarsi anche per chi ha difficoltà. Si sa che nelle vittorie della propria squadra e del proprio campione si cerca anche una rivincita personale”.

Nella tua vita e magari nella tua testa cosa è cambiato da quando giochi a hockey?
“Ho potuto fare qualcosa che ritenevo impossibile. Da ragazzino giocavo un po’ a pallone ma già correvo male. Ancora non era accertata la mia patologia, con il calvario di una diagnosi definitiva, perché negli anni ’70-inizio ’80 la diagnostica era approssimativa: non c’era Telethon, la ricerca era indietro, poco si sapeva… Avendo l’impossibilità di usare le gambe e scarsissima forza nelle braccia non avrei immaginato di poter fare sport. E invece scopro l’hockey. Ancor prima che ci fosse un campionato, mi bastava fare una partita e già la voglia di vincere, il gioco di squadra, reagire alle sconfitte, insomma tutte le dinamiche tipiche, eccole: arrivano anche per me, per noi. Sino ad allora erano sensazioni viste, cioè mediate, dalla tv; così scoprivo che potevo viverle. Un grande e positivo sconvolgimento”.

Chi lo pratica ma anche chi vede una partita parla di un gioco altamente coinvolgente; ma fuori dall’ambiente Uildm quanti conoscono il vostro sport? Come funziona da un punto di vista tecnico? E per voi che fatica comporta?
“Le persone estranee cominciano solo ora ad accorgersene. In effetti se dici sport per disabili pensi subito al basket in carrozzina. Però noi abbiamo inventato un gioco molto valido: la tecnica in ogni sport conta, diventa spettacolo. Nella nostra squadra, il Dream Team (per inciso tre scudetti, l’ultimo nel 2004, quest’anno solo terzi) ci alleniamo una volta alla settimana per due ore nella palestra di una scuola; le partite in casa sono il sabato nel palazzetto di via Iseo, a canone gratuito. In campo vanno 5 giocatori, compreso il portiere: altri 5 in panchina, con cambi liberi. Una regola importante che abbiamo introdotto di recente anche in campo internazionale è che possono giocare al massimo in tre con la classica mazza e gli altri due devono avere lo stick: il senso è evidente, favorire la presenza di chi ha patologie più gravi. Due frazioni di 20 minuti ma come nel basket si calcola il tempo reale”.

Come trovate i giocatori  e le giocatrici? E come vi siete organizzati?
“La prima base di reclutamento è stata la Uildm, poi si è un po’ allargata. È nata una struttura per organizzare il campionato, nel 2002 si è costituita la federazione. In effetti non è un gioco solo maschile: fra le giocatrici molte sono in porta, è curioso… forse la calma è dote più femminile. La Skorpions Varese, neo-campione d’Italia, ha una portiera che è stata convocata in nazionale. Il primo campionato è del ‘96, ero io il presidente della Lega, già nel ‘97 nasce la nazionale con buoni risultati: quinta al primo mondiale (ufficioso) su 10 squadre. Solo nel 2002 le nazionali che hanno i campionati più antichi si accordano per regolarizzare le competizioni internazionali. Vogliamo arrivare allo status paralimpico: sembrava facile, pensavamo di essere pronti per il 2012 ma forse non ce la faremo a raggiungere i parametri indispensabili”.

In un quadro molto positivo si incontrano anche ombre, aspetti negativi?
“Abbiamo dovuto batterci contro il modo distorto nel quale a volte alcuni familiari vivono questo sport per i loro cari: invece di essere semplici tifosi diventano ultras, con atteggiamenti negativi anche perché fanno diventare vittime i ragazzi. Negli ultimi anni il fenomeno si è marginalizzato, ma certo quando in passato alcuni genitori sono venuti quasi alle mani è stato ben triste. Direi che invece fra i giocatori domina il clima di amicizia e sportività. Un aspetto problematico resta l’accesso alla pratica sportiva: il gioco era stato inventato per persone con la distrofia ma nel corso degli anni fu permesso ad altre con patologie diverse di praticarlo; ma è sempre difficile trovare un equilibrio con chi ha molta forza fisica in più. Un paraplegico resta con diciamo forza 10 tutta la vita, una persona distrofica oggi ha forza 9 e domani 5. Se lo scopo è far giocare tutti, bisogna tenerne conto e per questo, tre anni fa, abbiamo introdotto punteggi: ogni giocatore ha tot punti rispetto a forza e mobilità, la squadra può arrivare solo fino a una certa somma. Resta la necessità di verificare le condizioni, che cambiano nel corso del tempo, di ogni giocatore. Altra ombra è che abbiamo pochi tifosi… ma, come dicevo prima, si può coinvolgere altra gente perché rispetto alle prime esibizioni e mutando anche le regole il nostro hockey è molto cresciuto in spettacolarità. Infine resta la necessità di accordi a livello internazionale per evitare che in Olanda ad esempio si usino altri parametri: effettivamente non è facile calcolare un punteggio che tenga conto anche della variabilità della forza fisica”.

Per il movimento sportivo in generale, la vice-presidenza del Coni a Luca Pancalli non è una rivoluzione da poco… Secondo te cosa accadrà?
“Sì, è un cambiamento importante: ancora 5 anni fa era impensabile. La Fisd da semplice federazione che aderiva si è trasformata in struttura olimpica, diventando C.I.P. (Comitato Italiano Paralimpico); non siamo più figliastri ma abbiamo stessa dignità. Passando dal generale al particolare, Pancalli ha mostrato grande attenzione verso la nostra federazione e ci ha sempre sostenuti. Penso che il vento del cambiamento prenderà  a soffiare molto forte”.

Volti di donne

Con alcune di queste donne ho parlato solo per telefono; altre le ho incontrate di persona; una di loro l’ho “trovata” frequentando per qualche tempo un forum di discussione sul sito www.superabile.it, uno dei più importanti siti Internet dedicati alla disabilità. Con loro si è parlato un po’ di tutto, anche se non sempre è stato facile, in particolare per telefono. Inoltre, tra intervistatore e intervistato, si crea spesso una sorta di asimmetria, per cui l’intervistato risponde a volte in base alle immagini sociali che pensa l’intervistatore abbia in mente. Dato che in questo caso ogni mamma mi ha raccontato di sé e dei propri figli, spero che il fatto di avere parlato di argomenti così intimi, importanti e personali abbia permesso di eliminare il più possibile il pericolo di asimmetria. Riporto solo alcune frasi dei loro racconti, quelle che vanno a toccare tutti gli aspetti cui si è accennato in precedenza, ma ne riporto comunque tante perché tanti sono i volti di donna che ho conosciuto.

Sandra, 33 anni, incinta di 4 mesi e mezzo. Soffre di atassia cerebrale, diagnosticata a 24 anni
Io e il mio compagno abbiamo voluto avere un bambino. La nostra scelta è stata presa molto male dalla famiglia di lui e dalle persone che ci conoscevano. Tutti pensavano soprattutto alle questioni di ordine pratico: innanzitutto all’ereditarietà genetica, e poi al come prendersi cura di un neonato.
Al terzo mese di gravidanza mi sono sottoposta a un test genetico: avevamo già stabilito che avremmo interrotto la gravidanza se il test avesse dato esito positivo; non potevamo immaginare di allevare un bambino con la mia stessa malattia. Il test era positivo e ho interrotto la gravidanza. Psicologicamente è stato molto doloroso, ma ancora oggi siamo persuasi di avere fatto la scelta giusta. Poi una nuova gravidanza si è annunciata. Abbiamo ripetuto il test e fortunatamente era negativo. Ora sono seguita da un ginecologo e da un neurogenetista, e questa presa in carico è molto importante perché noi sappiamo poche cose sull’incidenza della gravidanza sulla mia malattia. All’inizio ho avuto forti dolori alle gambe, ora mi sento bene, ma ho paura di cadere, perciò credo che utilizzerò una sedia a rotelle durante i prossimi mesi. Col mio compagno riflettiamo molto su tutti i metodi che dovremo utilizzare per il ménage quotidiano, e abbiamo anche chiesto consigli a un ergoterapeuta. Prospettiamo che per prendermi cura del bambino non potrò essere sola. Inoltre so che la mia malattia è evolutiva e quindi sarà sempre più difficile per me occuparmi da sola di mio figlio. Questo è l’unico bambino che noi avremo, e faremo di tutto perché sia felice e non senta il peso della disabilità.

Anna, 38 anni, tetraplegica
Verso i 30 anni, l’unica volta che sono stata con un uomo, sono rimasta incinta, ma lui non si è preso le sue responsabilità e ora sono sola. Per fortuna ho sempre saputo di poter contare sulla mia famiglia, sia come appoggio psicologico che economico.
All’ospedale sono riuscita a ottenere di farmi affiancare da una persona specializzata, perché le infermiere non avevano nessuna formazione sulla disabilità e non sapevano come aiutarmi. Una volta a casa, ho assunto una vera e propria balia che dormiva da me. Davo sempre il biberon, anche la notte. La balia mi portava il bambino, me lo appoggiava su un cuscino e io lo nutrivo. Ero presente in tutte le azioni, anche se alcune di esse non potevo materialmente farle.

Mirella, 42 anni, con la sclerosi a placche
Quando la sclerosi si è “dichiarata” avevo 26 anni ed ero sposata da 2. Sono rimasta incinta a 28 anni, e nello stesso tempo ho avuto un’evoluzione in peggio della mia sclerosi. Il medico mi aveva detto che la gravidanza protegge le donne, ma non era il mio caso. Avevo un po’ il panico, peggioravo e non mi sentivo stabile. Ho chiesto consiglio al neurologo e mi ha detto di provare. È stato difficile, soprattutto quando negli ultimi due mesi ho dovuto utilizzare sempre più spesso la carrozzina per spostarmi. È una cosa che ho avuto difficoltà ad accettare. Una volta a casa, mia madre e mio marito sono stati molto presenti. Riuscivo a dare da mangiare alla bambina, ma non per esempio a cambiarla. I primi mesi, nella mia testa, non sono stati facili. Il contatto con mia figlia non era quello che avevo immaginato, e dovevo anche far fronte al mio nuovo stato in carrozzina. Ma non mi sono mai pentita. Mia figlia è la cosa più bella che mi sia mai capitata, ed è anche un grande fattore di equilibrio.

Antonella, 37 anni, spastica
Dopo la nascita di Guido, mio marito aveva sette settimane di ferie e il suo aiuto è stato preziosissimo. Durante la prima settima non potevo tenere in braccio Guido. Durante la notte ci eravamo organizzati con delle sedie vicino alla culla e la culla sistemata accanto al nostro letto, per facilitare tutte le operazioni per dargli da mangiare o cambiarlo. La seconda settimana potevo tenere in braccio Guido con una fascia porte-enfant e intanto io utilizzavo un girello per camminare. Se andavo fuori avevo bisogno di una carrozzella o di una motoretta. La terza settimana ero più forte e potevo trasportare Guido dalla culla al fasciatoio senza problemi. È stato allora che ho sentito che potevo gestire la cosa direttamente nella cameretta del bambino e non nella nostra stanza. Così io e mio marito abbiamo potuto dormire meglio e, poiché lui faceva i turni, era importante che nessuno dei due fosse disturbato.
Ho dovuto ingegnarmi per gestire Guido. Perdevo l’equilibrio se dovevo abbassarmi, perciò lo cambiavo su un fasciatoio attaccato al lettino da viaggio che stava al piano di sotto, oppure su un tappetino steso sul comò al piano di sopra. Quando gli davo da mangiare gli mettevo un cuscino dietro la schiena, piuttosto che tenerlo su io. Lo lavavo nel lavandino o, quando è cresciuto, in un seggiolone attaccato alla base della vasca. Gli facevo la doccia quando la facevo anch’io. Quando è diventato troppo grande per il seggiolone non potevo più lavarlo da sola e sono stati i parenti ad aiutarmi.  
Ho usato la fascia porte-enfant per portarlo su e giù dalle scale e dalla casa fino al seggiolino nell’auto (che era fisso perché non potevo trasportare quelli rimovibili). Mettevo la sua carrozzina il più vicino possibile alla macchina e lo prendevo su dal seggiolino per metterlo nella carrozzina. In alternativa, qualcuno lo portava in braccio al posto mio. Ho una carrozzina che è piuttosto ingombrante, ma può essere convertita in un seggiolone. L’ho scelta perché è resistente, alta e stabile quando la spingo, anche se è difficile da mettere in macchina e tirarla fuori. Una ditta ha fatto un lettino su misura per me. Una gran fortuna. Mi arrivava ai fianchi e aveva una porta, così ci potevo vestire e cambiare Guido. Quando è diventato troppo grande per il fasciatoio, lo cambiavo su una poltrona mentre stavo di fronte a lui seduta su una sedia. Per fare le scale ho insegnato a Guido, incoraggiandolo fin dall’inizio, a farle assieme a me, tenendolo su da dietro, oppure facendolo sedere in grembo mentre le scendevo da seduta.

(Dal forum di discussione di www.superabile.it)
Quando io e mio marito pensammo che fosse il momento giusto per avere un figlio, ne parlai al mio ginecologo. Lui si disse favorevole, anche se forse mi sarei dovuta riposare un pochino di più di altre donne, forse avrei dovuto fare analisi più frequenti, e c’era qualche possibilità in più di avere un figlio con la mia stessa malattia che, pur non essendo genetica, ha una sorta di familiarità. Quando mi accorsi di essere incinta, andai subito a dare la lieta novella ai miei genitori, ma mai mi sarei aspettata una reazione del genere. Mia madre mi urlò che ero una folle, che avrei dovuto rinunciare a quella gravidanza e che se avessi proseguito nella mia “follia” non mi avrebbe mai aiutata con la bimba. I pianti che mi sono fatta! Trascorsi i miei primi tre mesi di gravidanza senza di lei: non mi parlava. In quel periodo parlavo spesso con una mia collega, anche lei disabile, che aveva una bimba di 4 anni. Cercavo spiegazioni, forse conforto, perché anche se fuori dimostravo un coraggio e una sicurezza invidiabili, dentro di me avevo molta paura. Non per me o per la gravidanza, bensì per come avrei potuto gestire la mia piccola dal suo primo giorno di vita fuori dal mio grembo. Iniziai prima di tutto a cercare di capire come avrei potuto fare dal giorno della sua nascita, senza l’aiuto di mia madre. Andai per la prima volta in vita mia al servizio sociale di zona e spiegai la mia situazione. Al sesto mese di gravidanza mi diedero l’assistenza domiciliare, mattina e pomeriggio. Nel frattempo comunque mia madre era tornata sui suoi passi e mi parlava… almeno un pochino di più!
Dopo il parto, la mia salute per alcuni giorni non fu delle migliori. Dopo dieci giorni dalla nascita, portai a casa mia figlia. Ripresi a stare seduta sulla carrozzina, a fare fisioterapia e tentai di riprendere una vita regolare. Ma non ci riuscii. Piangevo spesso, mi sentivo persa. Sola, con lei che si affidava a me, sarei mai stata capace di essere una buona mamma? Fu lei stessa, con il tempo, a farmi capire che la carrozzina non era un limite tra noi due. La nostra prima passeggiata fu un’esperienza unica, eravamo io, lei e una mia amica. Formavamo un trenino: la mia amica spingeva me e io la carrozzina. Ci fermò una signora, che rivolgendosi alla mia amica disse: “Che bella la sua bambina”. Io risposi: “È mia!”. Sbigottita, la signora, d’istinto, sempre rivolgendosi alla mia amica disse: “Ma come ha fatto?”. E la mia amica, ironica: “Signora! Ma come vuole che l’abbia fatta! Dal basso come tutte le donne…”.
A sette mesi la mia piccola si mise in piedi per la prima volta, ma non volle sapere di camminare prima dei quindici! Ero preoccupatissima. Ogni tanto chiedevo alla pediatra se per caso la colpa non fosse mia, perché credevo che la piccola, cercando di imitare me che non camminavo, si rifiutasse di farlo anche lei, ma la pediatra mi rassicurava. Quando aveva quasi un anno, tornai al lavoro part-time e la iscrissi al nido comunale. Non volli affidarla ai miei genitori, forse anche un po’ per rancore, lo ammetto. Ma soprattutto perché volevo che la piccola si abituasse presto a stare con altri bambini, che vedesse e vivesse anche altre situazioni diverse da quelle familiari. Dentro di me avevo paura che la mia condizione la portasse a soffrire, e spesso, senza darlo a vedere, ci sono stata male.
La nostra prima uscita da sole risale a quando aveva tre o quattro anni, la portai in giro per la città. Prima di uscire di casa le dissi: “Mi raccomando! Stammi sempre vicina, non ti allontanare mai!”. Pur piccolissima, non fece un solo passo senza di me, cosa che invece era puntualmente pronta a fare se usciva con il papà o altre persone che comunque le sarebbero potute correre dietro. È stato fantastico vedere come una bimba così piccola fosse tanto recettiva rispetto alle situazioni, senza una sola parola.

Limiti fisici, psicologici, sociali: aspetti generalizzabili

Prima di partire materialmente con le interviste, ho avuto uno scambio “epistolare” via e-mail con Delphine Siegrist, una giornalista francese, autrice del libro Osez être mère (in italiano: “Osate essere madri”), edito da AP-HP (Assistance Publique Hôpitaux de Paris) nel 2003, nel quale sono raccolte tantissime testimonianze di donne disabili francesi. Sinteticamente, abbiamo preparato una serie di punti chiave emersi dalla sua esperienza e generalizzabili:

  • Bisogna sentirsi bene nella propria testa e col proprio corpo (un po’ come mi ha detto la prima mamma contattata). Aspetti psicologici a parte, la cosa non è tanto semplice. Ci si accorge, anzitutto, che l’incontro amoroso che costituisce il preambolo necessario al progetto di avere un figlio non sempre è così scontato.
  • Vivere una situazione di disabilità ferisce spesso l’ego, lo punge nel vivo. Le persone disabili devono comporre o ricomporre un’immagine positiva di se stesse.
  • Alcune donne, del tutto in grado di essere madri, non lo diventano semplicemente perché non si credono “degne di essere amate”.
  • Altre donne, che vivono in coppia, non hanno fiducia in se stesse e ritardano un progetto di maternità poiché non si sentono in grado di assumere il ruolo di madri. Si appellano alla loro “incapacità” fisica o alla paura di “infliggere” al figlio il proprio deficit.
  • Molto spesso i dubbi sono più che altro ancorati alla tradizione culturale, che vuole la donna in grado di prendersi pienamente cura del proprio piccolo.
  • A questi dubbi si aggiungono a volte quelli dei genitori, dei fratelli o degli amici, che non credono nella reale “capacità” di essere madre della loro figlia, sorella, amica.
  • Può però succedere che le motivazioni delle donne escano rafforzate proprio da questi dubbi. Ciò è particolarmente vero quando la coppia si è presa tutto il tempo necessario per maturare il proprio progetto di avere un figlio, quando ha già riflettuto sugli aspetti pratico-materiali e/o umani della maternità. Per molti tipi di disabilità, infatti, (è inutile nasconderlo) farsi carico di un neonato, che è totalmente dipendente da chi lo accudisce, è cosa da organizzarsi per tempo.
  • Le donne disabili che desiderano avere un figlio sentono spesso la mancanza di modelli di riferimento, di donne simili a loro, divenute anch’esse madri, con cui confrontarsi e scambiarsi esperienze, nonché consigli e soluzioni concrete.
  • La mancanza di modelli fa sì che manchino anche immagini sociali di riferimento.
  • Per stare meglio con il proprio corpo, prima di intraprendere una gravidanza sarebbe bene fare il punto sulla propria salute e conoscere le conseguenze che la maternità potrebbe avere sulla propria patologia, e tutti i rischi correlati.
  • Per certe patologie occorrerebbe una presa in carico multidisciplinare (ginecologo, urologo, cardiologo, neurologo, genetista, ecc.).
  • Laddove la maternità è possibile – e questo accade nella maggioranza dei casi – bisogna prepararla e riunire tutte le condizioni necessarie alla sua riuscita.

 

Limiti fisici
Anche se, sulla base dei punti precedentemente elencati, risulta forse già chiaro quali possano essere i limiti fisici, psicologici e sociali rispetto al desiderio di maternità (il prima), alla realizzazione del progetto di maternità (il durante) e alla cura del figlio (il dopo), vorrei comunque soffermarmi ulteriormente su alcune questioni.
Tra i limiti fisici, potrebbero ovviamente esservi seri deficit legati alla patologia della madre, tali da impedire o rendere rischiosa una gravidanza. Così come vi possono essere evidenti limiti fisici nel periodo post partum, quando si potrebbe non essere in grado di occuparsi del figlio.
Tra i limiti fisici, però, ovvero tra quelli materiali e concreti, sono sicuramente da annoverare anche le barriere architettoniche, l’accessibilità degli ambienti ospedalieri prima, e domestici poi.
Su questo particolare aspetto vorrei riproporre alcune considerazioni di Enrica Nardi, architetto, che lavora al progetto di ricerca dal titolo Linee guida per la progettazione di case di maternità destinate a un’utenza allargata (responsabile scientifico Prof. Paolo Felli, Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Architettura), in corso di svolgimento per conto del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (COFIN 2003). Nell’articolo “Essere madre disabile: paure, difficoltà, soluzioni”, pubblicato su HP-Accaparlante, n. 1, 2005, Enrica Nardi scrive: “Per le donne con problemi motori diventa fondamentale – allo scopo di prevenire situazioni problematiche – prestare una particolare attenzione ai cambiamenti fisici dovuti alla gravidanza. Ad esempio, un eccessivo aumento di peso può diminuire l’autonomia, mentre la stitichezza e i problemi di circolazione possono essere accentuati dalla posizione sempre seduta. Ancora, dover urinare di frequente può essere un problema in assenza di servizi igienici idonei. Secondo il report del seminario La sessualità tra desideri e incontro, tenutosi a Roma nell’ambito della manifestazione Handylab 2002, la dottoressa Renée Mask dell’Unità spinale di Perugia sottolinea la necessità che la gravidanza di una donna con disabilità motoria sia seguita da più specialisti – ginecologo, urologo, paraplegista, ostetrica – nonché l’importanza del precoce coinvolgimento e della preparazione del personale che l’assisterà.
Una donna con problemi motori che si accinge a diventare madre deve scontrarsi con la difficoltà di fruizione dei luoghi. Ad esempio, recarsi in un ambulatorio per una visita ginecologica può essere un problema per gli spazi e gli arredi non adeguati: basti pensare alla difficoltà di salire da sola su una poltrona ginecologica e di tenere i piedi nelle staffe, o semplicemente di doversi muovere in modo autonomo nelle salette per i colloqui, dalla superficie generalmente così ridotta da rendere non agevoli le manovre di una sedia a ruote azionata elettricamente. Da testimonianze riportate in alcune pubblicazioni a cura della ‘Mission Handicaps’ dell’Assistance Publique Hôpitaux de Paris si apprende che, pur avendo ricevuto un’adeguata assistenza durante la gravidanza, alcune donne disabili motorie hanno sperimentato, al momento del parto, l’inaccessibilità dei reparti di maternità in cui stanze, servizi igienici, spazi per la cura dei bambini generalmente non sono pensati considerando l’ingombro e gli spazi di manovra di una sedia a ruote.
L’accudimento del bambino può invece essere agevolato se si dispone di ausili tecnici. A questo proposito il centro di rieducazione funzionale ‘Lucie Bruneau’, uno dei più grandi del Québec, ha dato l’avvio a un progetto che prevede: un servizio di consulenza in ergoterapia fin dalla gravidanza; l’assistenza di operatori per individuare soluzioni a bisogni specifici; il prestito di attrezzature e mobili adattati (lettini soprelevati con porta laterale, vaschette su piccole ruote regolabili in altezza, sedie alte adattate, ecc.); la consulenza di un esperto in ergoterapia durante i primi anni di crescita del bambino”.

Limiti psicologici
Tra i limiti psicologici, come in parte già detto, vi è sicuramente l’immagine di sé e del proprio corpo come non assunta. Ciò può dipendere da molti fattori, compresa una certa regressione infantile nella dipendenza, un eccesso di protezione “castrante” da parte dell’entourage di familiari e conoscenti, o ancora la paura (da leggere anche come pregiudizi e tabù) di essere “handicappati” perfino nell’intimità sessuale. A tutto questo può aggiungersi l’ansia di non riuscire a far carico di un’altra persona (il figlio).
Gli aspetti psicologici permangono ovviamente anche nel post parto, quando può risultare difficile accettare i propri deficit, convivervi, o scoprirne addirittura di nuovi (in questo caso i deficit diventano nuovi handicap). Supponiamo che una donna disabile sia abituata ad aver acquisito una certa autonomia per se stessa: può trovare difficile accettare di scoprirsi meno autonoma nei confronti di un’altra persona, il figlio appunto. Pur avendo consapevolezza della propria ridotta autonomia, può comunque risultarle difficile convivere con essa, quando vorrebbe essere libera di fare di più per il proprio figlio: in pratica la madre accetta il deficit su di sé, ma non “in relazione a”. Nella relazione con il neonato, che è una persona “nuova”, dipendente in tutto dai genitori o da altri, possono poi emergere nuovi limiti o nuove paure che non si pensava di avere, e questo porta evidentemente a una rielaborazione dell’idea di sé, che non sarebbe stata magari necessaria in assenza di figli.

Limiti sociali
Familiari, vicini di casa, amici, insegnanti, medici… Tutte queste persone sono davvero preparate alla maternità di una donna disabile? O rischiano di creare una “cappa” psicologica ancora più pesante dei dubbi che si vivono già individualmente?
Non sono rari, ancora oggi (ancora – lo ripeto – nel 2005), casi di medici che sconsigliano l’idea di una gravidanza, anche senza reali ostacoli di tipo genetico (la trasmissione della propria patologia al nascituro) o fisico (impedimenti concreti o rischio nel portare a termine una gravidanza). Così come non sono rari i ginecologi che si stupiscono quando entra in studio una paziente disabile, o che si stupiscono ancora di più quando la paziente disabile vuole prendere, ad esempio, la pillola. Ovviamente tutto ciò dipende dalla mancanza di quel famoso salto in avanti di cui parlavo nell’introduzione: l’accettazione della sessualità delle persone disabili.
In generale vivere a contatto con la disabilità appare ancora a molti una situazione difficile, per cui perché imporla a chi non ha scelto di nascere? I genitori di donne disabili che annunciano di volere un figlio, o che annunciano di essere già incinte, non sempre reagiscono bene. Forse perché si trovano davanti al fatto di dover accettare che la propria figlia è diventata davvero adulta (la maturità è sempre un concetto complicato per i genitori di persone disabili che sentono “in eterno” il bisogno di proteggere i propri figli). Forse perché hanno paura di dover sviluppare sensi e strumenti di protezione doppia: per la propria figlia disabile e per i suoi figli. Forse perché pensano di conoscere meglio della propria figlia i suoi stessi limiti fisici, e già si immaginano mille situazioni difficili, senza però riuscire a immaginarsi l’esistenza delle corrispondenti soluzioni.
Capita, a volte, che gli insegnanti giudichino ogni comportamento dei figli di soggetti disabili “in relazione” al deficit del genitore. Un atteggiamento di questo tipo, da parte di persone esterne alla famiglia, in particolare da parte di chi dovrebbe educare i bambini a stare nella società, porta questi ultimi, e chi sta loro intorno, a notare differenze che non solo passerebbero probabilmente inosservate, ma che soprattutto verrebbero percepite in modo esclusivamente oggettivo anziché essere caricate di giudizi morali.
Dopo aver intervistato alcune mamme disabili, mi è capitato di parlare dei risultati delle interviste con varie persone che, per un motivo o per l’altro, sono a contatto con la disabilità: per lavoro, ad esempio, o perché hanno amici disabili, o perché hanno un vicino di casa disabile, ecc. E tutte le  volte in cui io parlavo entusiasta del rapporto madre-figlio che si crea comunque, anche se la madre ha difficoltà oggettive a prendersi cura del bambino, loro rispondevano: “Si vedrà quando il figlio sarà adolescente!”. Tutti, insomma, davano per scontato che durante l’adolescenza i figli di genitori disabili dovessero avere maggiori problemi degli altri. Sinceramente non lo so. Come già detto nell’introduzione, bisognerebbe dedicare una monografia anche ai figli delle persone disabili. So, però, che è pesante il meccanismo del “dare per scontato”. Quando tutta la società dà per scontate determinate situazioni, è una bella lotta dimostrare il contrario. Ma soprattutto: certe idee acquisite finiscono per strutturare la crescita e l’educazione. L’adolescenza è sempre un momento difficile (questo sì che è un dato di fatto, statisticamente provato: non un’opinione) e tanti miei amici, già adulti, figli di genitori perfettamente “normodotati”, si portano ancora dietro strascichi di disagio per tanti problemi, conflitti, diversità e oppressioni messi in atto da genitori che non avevano alcuna disabilità.
Lasciamo, dunque, alla fisica la logica di causa-effetto e diamo, invece, la parola alle mamme.

Vita vera, non ragionamenti astratti

“Per avere un bambino, sarebbe meglio avere regolato i conti con il proprio handicap”, ha esordito al telefono la prima mamma disabile che ho contattato.
Non avendo, infatti, trovato materiale scritto su questo argomento, se non in lingua francese o inglese, avevo pensato di partire “all’attacco”, selezionando cioè una serie di donne disabili con figli e andando a intervistarle.
Per scegliere le persone mi ero basata semplicemente sulla rete informale delle mie conoscenze: quindi amiche di amici, mogli di colleghi, mogli di colleghi di amici, ecc. Sapevo che non sarebbe stato un campione di persone significativo ai sensi del rigore metodologico di una ricerca sociale, la quale solitamente richiede numeri molto ampi e somministrazione in massa di questionari. Ma sapevo anche che il poter parlare per ore con alcune mamme disabili, seguendo giusto una traccia di intervista e lasciando, per il resto, scorrere liberamente i pensieri, avrebbe portato una grande ricchezza di contenuti.
All’inizio, però, non è andata come avevo immaginato.
Alcune mamme disabili si sono subito rifiutate di farsi intervistare; altre hanno chiesto qualche giorno di tempo per pensarci, e poi mi hanno ricontattata per dirmi di no.
Non conosco i motivi reali di questi rifiuti, però, occupandomi di comunicazione da parecchi anni, so per certo che hanno un significato. Se è vero che anche il silenzio “parla”, è eloquente, anche queste donne in qualche modo hanno parlato. Forse non volevano raccontare a me, perfetta sconosciuta, aspetti comunque intimi della loro vita. Forse non volevano riaprire cassetti ormai chiusi e questioni archiviate: alcune di loro hanno figli ormai adulti, perciò il percorso di accettazione del fatto che la propria disabilità potesse avere “ostacolato” la cura dei figli si era probabilmente concluso e non vi si voleva più rimuginare sopra. Forse persistevano sensi di colpa (molto spesso derivati non da cause reali, ma da cause percepite comunque come reali dalla persona… si sa che il senso di colpa non sempre si basa sulla razionalità…). Forse non volevano raccontarsi semplicemente perché non vedevano l’esclusività della loro situazione rispetto a quella delle mamme “tradizionali”: perché dovere per forza porre l’accento sulla disabilità?
Altre mamme, invece, si sono subito mostrate entusiaste all’idea di questa monografia, e sono state felici di potervi partecipare con i loro contributi. Non per concentrarsi solo sulla disabilità; non per affermare “Ecco, noi ce l’abbiamo fatta nonostante il deficit”; non per essere “macabre” e raccontare nel dettaglio tutte le azioni che, proprio per via del deficit, non hanno potuto fare; non per essere “vittime” o “eroine”, come di solito vengono descritte le persone disabili dai mass media. Ma per essere se stesse, per raccontare la vita reale di tutti i giorni, con la particolarità che la loro vita reale prevede anche un deficit fisico. Un deficit può diventare un handicap più o meno serio, più o meno leggero, a seconda del contesto di vita individuale, sociale, emotivo, relazionale in cui ci si trova; ma resta comunque un deficit, che fa parte della persona e che viene “imposto” anche ad altri: alla famiglia e agli eventuali figli. Raccontarsi, allora, senza veli, e scoprire che sono molti di più gli aspetti positivi di quelli negativi (senza per questo nascondere i negativi). E scoprire che si è mamme. E basta. Niente aggettivi dopo il punto, come si legge nel titolo di questa monografia.

 

Mamme. Nessun aggettivo dopo il punto

Madri disabili: percorsi di adeguamento di sé tra difficoltà e soluzioni

Ho pensato molto a come scrivere questa monografia dedicata alle madri disabili.
Sono sociologa di formazione e giornalista di professione, e immaginavo che avrei condotto un lavoro esclusivamente giornalistico, di interviste e raccolta di dati, con qualche spunto per generalizzare le riflessioni in un quadro sociale. Ma questa monografia mi ha coinvolta emotivamente fin dall’inizio, e il lavoro che ne è seguito ha interessato tante altre persone, stimolando tanti dialoghi, tante chiacchiere informali… Alcune considerazioni, che non sarebbero mai emerse dalle interviste tradizionali, sono scaturite invece dal parlare quotidianamente con persone che mi chiedevano come procedeva il lavoro. Perciò ho deciso di raccontare, esattamente, in che modo questa monografia si è sviluppata nel tempo, dicendo da dove sono partita, il perché, che cosa pensava la gente, e così via.
In un certo senso questo è il racconto di una storia.

Perché le madri disabili
Come mai la scelta di questo tema? Per due ordini di fattori, gli uni oggettivi, gli altri soggettivi.
I dati oggettivi. La genitorialità, nel mondo della disabilità, è sempre trattata dal punto di vista di genitori normodotati che hanno figli disabili. Esiste un’ampia letteratura, sia italiana sia straniera, sui genitori con figli disabili, e gli argomenti trattati sono molti: come essere genitori “speciali”, come essere genitori “normali”, come affrontare la delusione sulle aspettative che si nutrono verso i figli, come educare i figli disabili a un percorso di autonomia, come riacquistare e poi saper dare fiducia, come comunicare a un genitore la nascita di un figlio disabile (la prima informazione), e così via.
Quasi niente esiste invece sul tema opposto, su quando cioè a essere disabile è il genitore e non il figlio. Del materiale di approfondimento si trova nella letteratura straniera, ma in Italia – lo ripeto – la produzione è scarsissima. Eppure non si tratta di un tema così insolito, a meno che non lo si creda tale. Le persone disabili che diventano genitori sono davvero tante, più di quante si possa immaginare. Eppure non ci si pensa? Già. Forse l’idea che un genitore disabile possa prendersi cura di un figlio è ancora “strana”, è ancora una “follia”. Per non parlare del fatto che a tutt’oggi, nel 2005!, bisogna continuare a lottare affinché i “normodotati” considerino anche le persone disabili come soggetti di diritto di una propria sessualità. E senza aver compreso questo ragionamento sulla sessualità delle persone disabili (che c’è, esiste e deve esistere, pur nella sua complessità emotiva, psicologica, relazionale, fisica, sociale… ed è inutile che si faccia finta di niente…), è difficile fare quel salto in avanti che permette di pensare anche alla maternità e alla genitorialità di persone con deficit.
Nello stesso tempo, però, non si vogliono negare eventuali difficoltà. Affrontare la condizione di madre per una donna disabile è comunque più complesso che per una donna senza deficit, ed è soprattutto quello che accade dopo il parto a necessitare di un maggior numero di attenzioni. Tornare a casa e trovarsi un neonato fra le braccia, doversi prendere cura di lui, ovvero di qualcuno che è totalmente dipendente da altre persone almeno nei primi anni di vita, non è così semplice. Non è semplice per le donne senza deficit, che comunque vedono sconvolti i loro ritmi di vita (e di sonno!) e si affaticano a seguire costantemente un bambino piccolo. Per le donne disabili è ancora meno semplice.
Si può essere autonome, nella cura del proprio figlio, nonostante i deficit? E in caso contrario, ci si può sentire comunque madri perfettamente adeguate? Quali sono le difficoltà oggettive o le paure che accompagnano l’accudimento del figlio? Come vive la coppia questa situazione? Queste erano le domande principali che mi affollavano la mente quando ho deciso di portare avanti questo lavoro. E a queste cerco di dare una risposta, per avere un po’ di documentazione su un tema così scarsamente trattato.
I dati soggettivi. Sono una donna, e so che anche quando l’idea di un figlio è molto lontana, quando non si hanno le condizioni per mettere in atto il desiderio di un figlio (un compagno, una certa stabilità economica, un posto in cui abitare), quando si è magari deciso che non si vogliono avere bambini o che si vuole aspettare, comunque sia per una donna è difficile eludere il pensiero della maternità. Se per natura o per condizionamenti sociali, non so. Ma è un pensiero che c’è. C’è anche per gli eventuali papà, ovviamente. Ma per una donna è “più” inevitabile. Inoltre, avendo io una disabilità motoria, conosco le ansie che possono accompagnare un percorso di maternità. Volevo, pertanto, parlare con donne disabili che hanno avuto figli, per scoprire quante di queste ansie abbiano un fondamento e quante invece possano essere superate in modo creativo. Tutto questo per fornire modelli ed esempi ad altre donne disabili, e per far capire a chiunque che essere madri disabili non è di per sé una “follia”….

Quello che non troverete (o che troverete in parte)
Non si parlerà dei papà disabili. Non per discriminazione ovviamente, ma solo perché, nei primi anni di vita del bambino, la consuetudine vuole che sia compito della madre occuparsi più strettamente di lui: allattarlo, cambiarlo, vestirlo, dargli da mangiare, lavarlo, portarlo a spasso, ecc. Si tratta di operazioni complicate per le mamme che hanno un deficit. Perciò ci concentreremo su questo, e chissà che in futuro non si possa approfondire il tema dei genitori disabili comprendendo anche i papà.
Non si parlerà di figli divenuti adulti che abbiano avuto uno o entrambi i genitori disabili. Si parlerà, invece, dei figli solo in quanto raccontati dalle madri intervistate. Le interviste fatte a figli ormai grandi, per sapere come abbiano vissuto la situazione di disabilità di un genitore, costituiranno forse un giorno l’argomento di un altro numero monografico di HP-Accaparlante. In bibliografia viene, comunque, indicato materiale di documentazione proprio su questo tema.
Non verranno approfondite le disabilità sensoriali (uditive e visive), se non in bibliografia, e di questo mi dispiace. D’altra parte il presente lavoro vuole essere molto circoscritto. Sono, pertanto, prese in considerazione solo le disabilità motorie (probabilmente perché qui, al Centro Documentazione Handicap di Bologna, ci siamo specializzati sempre di più in questo senso).
Altro tema che resterà escluso è quello della disabilità intellettiva, sebbene vi siano molti casi di maternità tra persone con deficit psichici (derivati purtroppo spessissimo da casi di abusi).
Non si parlerà di sessualità in senso stretto, se non attraverso rimandi bibliografici di documentazione. È evidente che il discorso sulla sessualità dovrebbe precedere quello sulla maternità. Ma con questa monografia si intende indagare il rapporto madre disabile-figlio nel momento in cui il bambino esiste già, lo si è concretamente portato a casa dall’ospedale e lo si deve allevare. Tutto quello che precede è un altro tipo di lavoro, già trattato più volte su “HP-Accaparlante”.
Non si farà una valutazione etica delle scelte. A volte, infatti, la patologia della madre può essere geneticamente trasmessa, con il conseguente aumento delle probabilità di nascita di un figlio disabile. Si tratta di una scelta troppo intima e personale che con intimità va vissuta, senza che sulla coppia incomba la “spada” di giudizi morali.

Bene. Cominciamo.

Per documentarsi un po’

Eccoci davvero alla fine di questo lavoro. Come accennato nell’introduzione, con questa breve bibliografia si vuole fornire uno spunto per documentarsi un po’ non solo sui temi trattati nella monografia, ma anche sui temi solamente accennati e non approfonditi. Per portare avanti queste tematiche anche dopo la parola “fine”…

Materiale utilizzato per questa monografia

Siegrist D., Izard V., Denys P., François N., Vie de femme et handicap moteur. Sexualité et maternité, atti del Primo convegno sul tema organizzato il 7 marzo 2003 da AP-HP (Assistance Publique Hôpitaux de Paris)

Siegrist Delphine, Osez être mère, AP-HP (Assistance Publique Hôpitaux de Paris), 2003
Un libro che raccoglie i racconti e le testimonianze di tante madri disabili francesi.

Nardi Enrica, “Essere madre disabile: paure, difficoltà, soluzioni”, in HP-Accaparlante, n. 1, 2005
L’essere madre per donne con disabilità uditive, visive, motorie. Problemi specifici legati al deficit, accessibilità degli ambienti ospedalieri e domestici, possibili soluzioni.

Del Popolo Giulio (a cura di), Donne…Vademecum alla sessualità femminile per persone con lesione midollare o sclerosi multipla, Astra Tech, 2005

“Mission Handicaps” di AP-HP (Assistance Publique Hôpitaux de Paris), Francia
È il progetto che cerca di coordinare gli ospedali francesi per una globale presa in carico delle persone disabili, con un sistema di cure adattate ai vari tipi di deficit (fisici, sensoriali, intellettivi), l’accompagnamento alle strutture, l’accessibilità alle strutture.
www.aphp.fr/site/offre_soins/handicaps.htm

Réponses Initiatives Femmes Handicappées (RIFH), Francia
“Vivere, amare e procreare in sicurezza e dignità” : è questo lo slogan con cui si presenta l’associazione francese di promozione di iniziative per migliorare le condizioni delle donne disabili.
www.rifh.org

Disability, Pregnancy and Parenthood International (DPPI), Gran Bretagna
È un’associazione per il sostegno e l’informazione ai genitori disabili, per la formazione di professionisti e personale di cura, per la creazione di una rete internazionale di scambi di esperienze.
www.dppi.org.uk

Disabled Parents Network (DPN), Gran Bretagna
Organizzazione nazionale composta da persone disabili e rivolta alle persone disabili che sono genitori o sperano di diventarlo, ai loro familiari, agli amici e agli operatori.
www.disabledparentsnetwork.org.uk/

Through the Looking Glass (TLG), Stati Uniti
Centro nazionale di informazione, ricerca e formazione sulla genitorialità di persone disabili. Il centro pubblica anche guide sull’accudimento dei bambini e sui materiali di puericultura.
www.lookingglass.org

Projet “Bébé-boom”, Canada
Centro di rieducazione funzionale “Lucie Bruneau”, uno dei più grandi del Québec.
www.luciebruneau.qc.ca

Il rapporto dei figli verso i genitori disabili

Rutigliano Riccardo, “Quando disabile è il genitore”, in L’Agenda, n. 115, agosto 2003, pp. 12-13
L’articolo descrive i contenuti della tesi di laurea di Anna Santoro, presidente dell’AISA (Associazione Italiana per la lotta alle Sindromi Atassiche). La tesi ha indagato le relazioni familiari nei casi in cui uno o entrambi i genitori abbiano una disabilità motoria, con particolare attenzione al rapporto dei figli nei confronti dei genitori stessi.

Montanari Sandro, “Genitori sordi e nascita del primo figlio. Aspetti psicologici e relazionali”, in Età evolutiva, n. 59, febbraio 1998, pp. 50-59
A differenza delle madri udenti che possono stabilire un contatto con il proprio bambino anche attraverso la voce, le mamme con problemi di udito hanno difficoltà a cogliere le eventuali reazioni del figlio alle stimolazioni sonore.

Mayer R., Cerutti R., Lucarelli L., “Disarmonie affettive nei figli di un genitore affetto da sclerosi multipla: studio di un caso clinico”, in Giornale di neuropsichiatria dell’età evolutiva, n. 1, 1993, pp. 53-59
Gli autori presentano un caso clinico sull’evoluzione psico-affettiva di un figlio avente uno dei genitori affetto da sclerosi multipla. Nel libro si presta attenzione alle dinamiche sociali oltre che familiari.

Approfondimenti su sessualità e disabilità

Lenzi Daniela, Pesci M. Cristina, “Le passeggiate sono inutili. Suggerimenti possibili e impossibili tra sessualità e handicap”, numero monografico di HP-Accaparlante, n. 4, 2001
La monografia desidera tenere idealmente in collegamento tre aspetti: ciò che possono vivere gli operatori quando si trovano ad affrontare il tema della sessualità nel contatto quotidiano con persone disabili; l’esperienza di chi è disabile; e, infine, alcuni importanti coinvolgimenti e difficoltà che le famiglie si trovano a vivere durante il ciclo di vita che attraversano.
Gli approfondimenti sono il frutto di molti anni di riflessione, studio e attività di formazione per operatori, che l’équipe del Centro Documentazione Handicap di Bologna ha svolto. L’incontro con tanti gruppi di lavoro, con persone a vario titolo coinvolte dal tema della sessualità e disabilità (educatori, fisioterapisti, insegnanti, genitori, assistenti sociali, psicologi, persone disabili) ha portato un enorme arricchimento, permettendo di osservare e studiare le mille sfaccettature che questo tema nasconde, da quelle più problematiche e controverse a quelle più ricche di risorse, dove la creatività, l’empatia, il desiderio di dare parola a pensieri e sentimenti difficilmente verbalizzabili hanno aperto la strada a una nuova visione e a una nuova operatività.
I temi affrontati sono:
– Ruolo ed emozioni degli operatori sociali: le professioni di cura e la sessualità.
– Le sessualità e il piacere.
– Il vissuto delle persone disabili: sviluppo psicosessuale e disabilità.
– Corpo e diversità nella letteratura: una antologia letteraria.

Pesci M. Cristina, “Davanti allo specchio”, in HP-Accaparlante, n. 48, 1995
Il corpo della persona disabile come luogo di sentimenti ambivalenti.

Lenzi Daniela, Pesci M. Cristina, “Prima di tutto una donna”, in HP-Accaparlante, n. 38, 1995
Quale scenario sociale fa da sfondo alla dimensione femminile della disabilità? Come trovare mediazioni tra una riflessione soggettiva inevitabilmente ricca di contraddizioni e la realtà sociale, che dovrebbe garantire il massimo impegno per la salute di tutti, ma che poco sa conciliare bisogni legati al deficit o alla malattia con una qualità di vita ancora progettabile, nonostante la disabilità e la necessità di cure?

 

BOX
Per critiche, complimenti, suggerimenti, integrazioni, domande… mi trovate all’indirizzo e-mail: valeria@accaparlante.it, o presso il Centro Documentazione Handicap di Bologna, tel. 051/641.50.05.

Grazie a tutte le mamme che mi hanno reso disponibile il loro tempo e pezzi della loro vita.
Grazie a Stefano Fait per l’aiuto nella traduzione di certe parti dei siti web in inglese.
Grazie ai miei amici e colleghi (o ex colleghi) Massimo Falcone, Lorenzo Nencini, Edo Grandinetti, Renata Piccolo, Nicola Rabbi, Roberto Ghezzo, per il fatto di avere creduto in questa monografia ancora prima che venisse scritta…

Cosa succede fuori dall’Italia?

All’estero esiste un vero e proprio accompagnamento che segue la persona disabile, desiderosa di diventare genitore, in tutte le fasi del ciclo di vita familiare nonché nei percorsi che essa vuole intraprendere. Laddove questo accompagnamento non è ancora possibile in toto, esistono comunque progetti che lavorano da diversi anni in tal senso.
In Canada, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, vi sono gruppi istituzionali e associazioni di volontariato che cercano di rispondere alle varie esigenze dei genitori disabili.
Innanzitutto per quel che riguarda l’informazione: un buon accesso all’informazione sui propri diritti, sulla propria salute e sulle prospettive che si hanno. Poi, sicuramente, per la formazione: dei medici, degli specialisti, degli operatori, del personale di cura, ma anche delle famiglie e delle stesse persone disabili. E anche per l’assistenza: sia durante la gravidanza, sia durante il parto, sia nella fase del ritorno a casa con un figlio da allevare. Inoltre, per l’accessibilità: delle strutture ospedaliere e della propria abitazione.
Ma c’è di più: nei siti Internet di questi gruppi (per ogni riferimento si rimanda alla bibliografia) si trovano tantissime risorse, come ad esempio indicazioni di libri, di altri link utili, di numeri di telefono e indirizzi per ogni esigenza; vi compaiono, inoltre, tante testimonianze di chi è già genitore, con uno scambio di esperienze a livello non solo emotivo, ma soprattutto pratico. Nei forum di discussione frequentati da un numero davvero alto di persone, i genitori disabili, o i loro conoscenti, si ritrovano spesso a chiacchierare di consigli pratici su come hanno risolto il problema di sollevare il bambino, sul tipo di seggiolone che hanno acquistato, su quale sia il modo migliore per cambiare il pannolino, e così via. In questo modo i genitori disabili, o le persone disabili che vogliono essere genitori, si sentono davvero “accolti” e mai soli. E, soprattutto, possono vivere la genitorialità in maniera più “normale”, come a voler dire che non è così strano, insolito, eccezionale o “folle”, che una coppia con disabilità costituisca una famiglia con figli.
Certo, Paesi come quelli citati hanno anche grandi numeri: sui siti web delle associazioni menzionate sopra si parla ad esempio di 9 milioni di genitori disabili negli Stati Uniti (il 15% sul totale dei genitori) e di 2 milioni in Gran Bretagna. Non ho trovato i numeri riguardanti la situazione francese o canadese, ma dai dati forniti è comunque evidente che si tratta di “fenomeni” tutt’altro che rari. I genitori disabili esistono, eccome.
In Italia abbiamo ancora solo qualche stima, e non dati precisi, su quante siano le persone disabili che vivono nel nostro Paese: è quindi impossibile sapere quanti siano i genitori con disabilità. Sappiamo però che esistono. Peccato che siano meno visibili e che nei forum di discussione italiani, presenti ad esempio sui grandi portali per la disabilità come Superabile.it o Disabili.com, non si discuta mai di questi temi…

“Bambino del nostro tempo”
Parlando di maggiore visibilità per i genitori disabili, e analizzando appunto la situazione estera, è difficile non fare riferimento a Alison Lapper, una donna inglese nata senza braccia e con le gambe più corte, che oggi è una famosa artista (si veda il sito www.alisonlapper.com), nonché madre (per la precisione ragazza-madre) di un bambino di cinque anni di nome Parys. Alison ha sempre puntato la sua vita sulla visibilità, e si era già imposta all’attenzione dei mass media internazionali per il fatto che una statua, che la ritraeva incinta di 8 mesi, era stata collocata su uno dei plinti di Trafalgar Square, nel cuore di Londra, accanto ad alcuni personaggi importanti della storia inglese.
Mi ero già occupata di Alison in passato, sia su HP-Accaparlante (cfr. “La diversità è glamour… o no?”, in HP-Accaparlante, n. 3, 2003), sia su Bandiera Gialla (cfr. “Una ‘Venere di Milo’ disabile nel cuore di Londra”, su www.bandieragialla.it/articolo.php?id=1389).
Ora Alison è anche in tv, in un programma della BBC intitolato Child of our Time (in italiano: “Bambino del nostro tempo”), in cui vengono filmate nel corso degli anni una serie di famiglie con figli.
Nel sito web di Ouch!, dedicato a esperienze di vita nel mondo della disabilità, all’interno dell’immenso portale della BBC, si trova un articolo, firmato da Emma Bowler, che racconta appunto questo programma, con un’intervista a Alison Lapper in persona. Ve lo propongo, in versione italiana, perché credo che aggiunga ancora qualcosa a questo percorso tra le madri disabili.

Child of our Time: Alison Lapper

di Emma Bowler (traduzione italiana di Stefano Fait)

Per quelli tra di voi che non conoscono la serie Child of our Time, tutto iniziò quando la BBC seguì la nascita di 25 bambini partoriti nel nuovo millennio.
L’idea di base della serie è quella di seguire le famiglie man mano che i loro figli crescono. La serie impiega una stimolante combinazione di riprese, interviste ed esperimenti per aiutarci a capire meglio lo sviluppo infantile.
Parys Lapper è uno dei bambini che prendono parte a questo progetto, che si svilupperà su un arco di vent’anni. Sua madre, Alison Lapper, un’artista nata senza braccia e con le gambe più corte, sarà protagonista della serie tanto quanto le altre famiglie.
L’impegno per chi partecipa a questa serie sarà grande, perché tutte le famiglie verranno filmate almeno ogni tre settimane. Ma cosa ha spinto Alison a dare la sua disponibilità? “L’ho fatto perché ho sentito che dovevo provare qualcosa, perché c’erano così tante persone che mi dicevano che non avrei dovuto avere un bambino, che sono una ragazza madre, che ho una disabilità. Le solite cose. Se il programma verrà trasmesso per intero nel corso degli anni non potrò nascondere alcunché, tutto il mondo potrà vedere.”
Ma Alison non ha forse paura che quando Parys verrà filmato mentre si comporta male, la gente imputerà il suo comportamento al fatto che sua madre è disabile, piuttosto che al fatto che è un bambino e che questo è quel che i bambini fanno normalmente? “Sì, certo! Se tuo figlio si comporta male quando lo porti all’asilo nido, è una cosa imbarazzante. Lo fa ogni bambino, ma siccome sei una madre disabile, allora pensi che la gente penserà che da sola non ce la puoi fare.” 
Tuttavia, nel corso del programma Alison dimostra di sapersela cavare egregiamente, come quando ad esempio la vediamo affrontare la questione della disciplina. “Ci sono voluti mesi e mesi di duro lavoro! Ho dovuto rivedere e aggiustare il mio tono di voce, e invece di dirgli sempre no, lo distraggo in qualche modo.”
Ma la storia di come Parys è diventato un bambino perbene non è stata sempre lineare e serena, ed è stato proprio nei momenti di difficoltà che Alison ha trovato di grande aiuto la partecipazione al programma televisivo. “A un certo punto ho dovuto affrontare una serie di problemi con il comportamento di Parys e mi sono sentita in colpa perché non c’era molto che potessi fare per lui. La BBC ci ha mandato al centro ‘Anna Freud’ di Londra e loro sono stati fantastici, mi hanno aiutata a superare il senso di colpa, a insegnargli la disciplina e mi hanno mostrato modi diversi di fare le cose.”
Ingegnarsi a inventare nuovi modi di fare le cose è fondamentale per un genitore disabile, e Alison è convinta che il suo modo stia funzionando. “Il mio stile è forse più gentile, perché non gli urlo mai contro e non lo picchio mai; faccio tutto con il tono della voce e lui sa già cosa penso.” Di fatto, Alison ha scoperto che provare a fare le stesse cose che fanno i genitori non disabili certe volte sembra proprio non funzionare con Parys. “Non posso corrergli dietro, e quando altre persone gli correvano dietro lui pensava che si trattasse di un gioco. Allora gli dovevo dire che non giocavano a inseguirlo e lui si fermava subito.”
Ma fare le cose diversamente significa essere determinati. “Quando gioca all’asilo nido, la gente se la prende un po’ e mi manda certe occhiatacce… Ma io penso: che cosa volete che faccia? Non posso andar lì e riprenderlo. Deve imparare che se dico no, è no. Fa tutto parte del mio esercizio di controllo della voce. È stato veramente difficile, ma ho tenuto duro ed è stato uno scontro di personalità. È un bambino davvero testardo, proprio come sua madre!”.
La determinazione di Alison ha pagato, e ora li vediamo in un esperimento in cui lei gli deve impedire di toccare certi giocattoli nella stanza. Alison gestisce la situazione distraendolo. Parte dell’esperimento comprende un telefono che squilla, e la cosa interessante è che Parys risponde, a differenza degli altri bambini coinvolti nell’esperimento. Non teme, Alison, che la gente possa interpretarlo come un suo modo per farsi aiutare dal bambino? “Non me ne curo, perché non glielo ho mica fatto fare io, lui lo fa istintivamente. Si è messo in testa che la mamma ha bisogno di aiuto. Finché non è un peso per lui – e certamente non lo può essere nelle cose che faccio visto che sono così consapevole che lui deve avere la sua vita e che non è certo qui per fare il mio badante.”
Alla fine del programma ci dicono che Alison proverà a fare qualcosa che non ha mai fatto prima –
e subito vengono alla mente immagini di lei che si lancia con il paracadute o pilota un aereo. In realtà, il suo compito è quello di far uscire Parys dalla macchina senza l’aiuto di nessuno. È stato un momento cruciale per lei. “Mi sono sentita come una vera madre perché io, da sola, stavo facendo qualcosa per lui. Avevo sempre dovuto ricorrere ad altre persone in precedenza. Ora lo posso portare fuori da sola, possiamo fare un sacco di cose, andare nei negozi, andare fuori a pranzo, ecc.”
Questi successi hanno dato un grande ottimismo ad Alison. “Man mano che diventerà grande sarò molto più indipendente e potrò fare molto di più per lui, e questo mi fa sentire davvero bene. In quanto madre disabile, sei sempre in debito con tutti, ma quando crescerà lo si noterà sempre meno.” Alison parla spesso delle tappe più importanti negli anni a venire – come quando Parys inizierà ad andare a scuola con una mamma che è alta 1 metro e 20 centimetri, o quando attraverserà la sua tumultuosa adolescenza – ma lei si dice convinta che supereranno tutti gli scogli assieme.
Nei prossimi anni il programma seguirà i vari sviluppi del loro rapporto e i momenti importanti nella vita di Parys, come i progressi nel parlare, l’andare alla scuola materna e la crescente autonomia. Alison prevede che la serie potrebbe anche dedicare maggiore attenzione ai problemi che toccano più da vicino i genitori disabili, come i rapporti con i servizi sociali. “Mi hanno minacciata già tre volte, quando non mi sono presa abbastanza cura di Parys – in un’occasione è stato quando ho licenziato una ragazza alla pari che lo aveva picchiato. Se fossi una madre come le altre non lo avrebbero fatto.”
Non si può fare a meno di pensare che la tenacia di Alison la proteggerà in tutti questi momenti negativi e, quando la si confronta con gli altri genitori della serie, ci si accorge che non se la sta cavando affatto male! “È ovvio che tutti i genitori hanno i loro problemi, a prescindere da dove provengono e da chi sono. Guardo il programma e penso che sto facendo bene, e questo mi galvanizza! Avere avuto Parys mi ha realizzata; lo guardo e penso ‘wow!’”.
(www.bbc.co.uk/ouch/closeup/lapper.shtml)

Facilitare i gesti quotidiani

Dopo tanta “vita vissuta”, vorrei tornare su una questione: è quando viene dimessa dall’ospedale e torna a casa col proprio bambino, che la madre disabile diventa una mamma “handicappata”, cioè si ritrova a vivere una situazione di handicap nell’occuparsi del figlio. Ricordiamo che non esiste una persona handicappata in sé: l’handicap è sempre situazionale, dato dall’esterno.
Dopo il parto la madre deve anche prendersi cura di se stessa, il suo corpo è affaticato e si è indebolito. Deve organizzare il proprio tempo per occuparsi sia di sé sia del bambino.
Identificare i gesti di vita quotidiana che potrebbero risultare più difficili, e trovare le soluzioni più adatte, diventa uno stato di necessità per migliorare le condizioni sia della madre sia del figlio.
Molto spesso si tratta di “trucchi” semplici, o di “adattamenti” realizzati con mobili comunemente in commercio (e non di specifici adattamenti “dedicati alla disabilità”). Altre volte occorre invece il parere di un esperto e una soluzione tecnica studiata ad hoc per quella persona, per quel tipo di deficit, per quel tipo di abitazione, ecc.
È importante mettere a punto un percorso di autonomia, perché l’essere (o anche il sentirsi) più autonomi infonde fiducia e aiuta a superare i limiti fisici, psicologici e sociali di cui si è detto (ovvero l’immagine della persona disabile come “non abile” a prendersi cura di un figlio).
Dato che in Italia si parla ancora pochissimo di genitori disabili, mi sono rivolta a due professioniste straniere che da anni seguono le soluzioni personalizzate per genitori disabili: Marie Ladret, ergoterapeuta dell’“Espace conseil pour l’autonomie en milieu ordinaire de vie” (ESCAVIE), e Susan Vincelli, ergoterapeuta del Centro di rieducazione funzionale “Lucie Bruneau”, del Québec (Canada). Dopo qualche scambio di e-mail, ecco un piccolo vademecum contenente alcuni suggerimenti molto semplici ma utilissimi.

La cameretta del bambino
Innanzitutto bisogna che la camera del bambino sia perfettamente accessibile, senza alcun ostacolo che potrebbe mettere in pericolo la madre e il figlio: è bene quindi diminuire i rischi di cadute, eliminando ad esempio i tappeti, e rispettare gli spazi di circolazione.
Il letto del bambino deve essere facile da manipolare e di altezza adeguata alle proprie esigenze. È importante adattare a se stesse la scelta del lettino, perché mettere il bambino nel letto è un gesto che si ripete più volte nell’arco di una giornata. La rete del lettino dovrebbe potersi fissare a differenti altezze. Meglio scegliere un letto che abbia sponde di facile apertura (ad esempio sponde in tela con chiusura lampo) o comunque preferire sistemi di apertura delle sponde che non prevedano la necessità di utilizzare le due mani nello stesso momento.
Se una madre è in carrozzina, si deve posizionare parallela al lettino e, se l’altezza adattabile della rete non è sufficiente per afferrare il bambino, occorre anche una torsione del busto. Il fatto è che, dopo il parto, la schiena della madre è fragile e, per evitare queste torsioni, l’ideale sarebbe che la parte sotto il lettino fosse completamente libera in modo da permettere il passaggio della carrozzina: per questo è preferibile un lettino con l’apertura delle sponde laterale.
Esistono anche lettini che hanno l’altezza della rete regolabile elettronicamente attraverso un telecomando, ma si tratta purtroppo di sistemi molto costosi.

Per sollevare il bambino dal letto e trasportarlo, ci sono alcuni trucchi che possono aiutare i genitori disabili. “Acchiappare” il bambino per la tutina può rivelarsi molto pratico; esistono comunque certe amache porta-bambini che permettono di prendere il bambino in tutta sicurezza.
Spesso la mamma in carrozzina afferra il bambino con una sola mano, perché ha bisogno dell’altra mano libera per tenersi in equilibrio sulla carrozzina (soprattutto nel periodo post partum quando gli addominali sono deboli). Anche la mamma con difficoltà di deambulazione può ugualmente avere bisogno di una mano libera per trovare un punto d’appoggio su cui reggersi per sollevare il bambino con l’altra mano.

Il fasciatoio
Il fasciatoio, elemento importante per la cura del bambino, deve avere un’altezza giusta in rapporto alla statura della persona disabile e al suo deficit. Se la persona è in carrozzina, il fasciatoio deve essere sgombro nella parte inferiore in modo da consentire il passaggio delle ginocchia. Anche in questo caso esistono fasciatoi elettronicamente regolabili in altezza, ma si tratta sempre di un problema di costi economici.
Un materassino da usare come fasciatoio posizionato su una scrivania o una tavola qualsiasi, dotata di cassetti su un lato (in modo da avere vicino tutto l’occorrente), è spesso l’opzione preferita dai genitori in carrozzina, ed è in effetti la più semplice. I fasciatoi tradizionali non permettono il passaggio della carrozzina nella parte inferiore.

Il bagnetto
Il bagno è un momento privilegiato del rapporto tra la madre e il bambino, ma costituisce anche una delle situazioni più temute dalle mamme disabili. Esse infatti sono spesso in apprensione, un’apprensione che solitamente è più legata alla paura che al deficit.
Utilizzabili senza pericolo sono le vasche da bagno per bebè che si adattano alla vasca da bagno grande. Delle piccole sedie a sdraio da collocare sul fondo della vasca o della doccia sono un ulteriore elemento di sicurezza. Esistono anche piccole vasche da bagno posizionabili sulla tavola, o su cavalletti che facilitano l’accesso in carrozzina.
Quando il bambino diventa grande, alcune mamme con difficoltà di deambulazione preferiscono utilizzare la doccia perché il bordo è meno alto e non c’è bisogno di sollevare il bambino per farlo uscire.
Per verificare la temperatura dell’acqua è raccomandato il termometro soprattutto se la madre ha disfunzioni che riguardano la sensibilità superficiale della pelle.

Nutrire il bambino
L’allattamento
Le madri che hanno una debolezza muscolare a livello delle membra superiori possono utilizzare cuscini di mantenimento o cuscini d’allattamento, che permettono di tenere il bambino in una posizione confortevole e sicura, evitando allo stesso tempo contratture o torsioni.

Dare il biberon
Le persone che hanno una mancanza di forza possono utilizzare biberon in plastica, più leggeri e infrangibili. Per le mamme che hanno difficoltà ad afferrare gli oggetti, sono sempre possibili degli adattamenti sul biberon, ad esempio impugnature speciali, magari con sistemi a strappo.
La sterilizzazione del biberon è più facile a freddo o nel forno a microonde. Anche gli scalda biberon elettrici sono pratici e più sicuri (soprattutto per chi ha disfunzioni che riguardano la sensibilità superficiale della pelle), perché evitano alla persona di manipolare oggetti bollenti.

Lo svezzamento e il passaggio al cucchiaino
Le mamme che hanno difficoltà ad afferrare gli oggetti possono utilizzare posate adattate (ad esempio con manici grossi o con sistemi a strappo), oppure degli anti-scivolo, dei piatti con punti d’appoggio, tutti gli ausili insomma di cui la madre magari già si serve abitualmente.

Il seggiolone
La scelta del seggiolone può essere importante soprattutto per le madri in carrozzina. Alcuni modelli di seggiolone hanno i piedi sufficientemente divaricati senza barre trasversali per permettere il passaggio della carrozzina.
Esistono seggioloni regolabili: la parte in cui far sedere il bambino può essere installata più o meno in alto a seconda dell’altezza della madre e in base al suo deficit.

Trasportare il bambino
Portare un figlio tra le proprie braccia può sembrare del tutto naturale, ma quando la mamma ha già difficoltà a spostarsi, la cosa diventa più complicata e soprattutto più angosciante, perché vi è la paura di cadere insieme al bambino.
I porte-enfant, quelli che si attaccano al ventre, possono essere una soluzione per sostenere il bambino, che la madre sia in carrozzina oppure no. Un sistema di aggancio collocato sul davanti e facile da manipolare è sicuramente più pratico, meglio ancora se è a strappo. Per sollevare il bambino, molti genitori lo afferrano per i vestiti; certe amache porta bambini disponibili sul mercato possono facilitare, come già detto, il trasporto del bambino, soprattutto per sollevarlo dal letto o dal fasciatoio. Il porte-enfant laterale è più pratico quando il bimbo cresce: evita la torsione della colonna vertebrale quando si porta il bambino su un lato.

I primi passi
Il momento in cui il bambino comincia a camminare è un momento molto delicato, perché egli tocca tutto e bisogna seguirlo ovunque, il che non sempre risulta facile a una mamma in carrozzina o con difficoltà a deambulare. Per rimediare a questo inconveniente, alcune mamme utilizzano veri e propri “trottatori”, in modo che il bimbo non cada (i genitori disabili non possono rialzarlo o frenarlo facilmente) e non abbia accesso a tutti gli angoli della casa.
Per insegnare al bimbo a camminare, esistono vere e proprie “bardature” primi passi (acquistabili in qualsiasi ipermercato) grazie alle quali è possibile mantenere il bambino in equilibrio senza doversi abbassare.

Le uscite
Per il trasporto all’esterno
Le mamme in carrozzina usano spesso il porte-enfant ventrale, in modo da poter tenere il bambino contro di sé, spingendosi nello stesso tempo con la carrozzina. Alcune mamme con difficoltà a deambulare preferiscono utilizzare la carrozzina per bambini o il passeggino (mezzi che procurano anche un punto d’appoggio per loro stesse). Esistono, inoltre, sistemi di motorizzazione per carrozzine e passeggini che facilitano la spinta nelle salite o il frenaggio nelle discese, ma si tratta purtroppo di aiuti molto costosi e non commercializzati in tutti i Paesi.
Una specie di “guinzaglio” è utilizzato quando il bambino cammina: questo gli permette di andare e venire e spostarsi all’interno di un perimetro di sicurezza che la madre può controllare. Questa soluzione è la più prudente quando si è sulla strada, ma può essere sfruttata ad esempio anche in prossimità dell’acqua.

La macchina
Per un genitore disabile, sistemare il proprio figlio nel seggiolino dell’auto non è affatto semplice. D’altra parte il seggiolino va utilizzato per questioni di sicurezza. Probabilmente sarà, dunque, necessario l’aiuto di qualcuno, in attesa che il bambino, divenuto più grande, possa salire da solo. Esistono seggiolini girevoli che faciliterebbero questa operazione, ma si tratta di materiale che ha un costo elevato e che resta, quindi, un lusso per la maggioranza delle madri.

 

BOX
Il concetto di autonomia, soprattutto all’interno della propria abitazione, sta diventando un tema sempre più emergente nell’offerta dei servizi. Recentemente, in Emilia Romagna, sono stati costituiti Centri di Primo livello per l’Adattamento dell’Ambiente Domestico (CAAD) [per saperne di più: Metropoli, n. 3, settembre 2005, www.handybo.it/Metropoli/presentazione.htm], dove équipe multidisciplinari aiutano persone disabili e anziane ad avere una casa “amica”, funzionale ai propri deficit, al proprio percorso di autonomia e all’ambiente familiare. Ma già da diversi anni opera a Bologna il Centro Regionale Ausili (partner del CAAD di Bologna), che offre consulenza sui possibili adattamenti utili a facilitare i gesti quotidiani. Al Centro Regionale Ausili è capitato, inoltre, di occuparsi di adattamenti per la cura dei figli di persone disabili. Per informazioni: tel. 051/31.38.99, e-mail: centroregionaleausili@ausilioteca.org, sito: www.ausilioteca.org/centroregionaleausili/.

“La madre resti tu. E tuo figlio lo sa benissimo”

Quando ho realizzato le interviste, mi sono resa conto che neppure per me era facile fare tutte le domande che avevo in mente. Alcune di esse potevano risultare fastidiose e spinose per le mie interlocutrici, soprattutto al telefono, dove sia il tempo materiale sia il mezzo comunicativo giocavano a mio sfavore. Mara Monti, invece, mi ha accolta in casa sua e, in una lunga chiacchierata di quasi due ore, ha risposto a tutte le domande, anche a quelle più “scomode”. Mara Monti è educatrice presso il centro di accoglienza per persone con problemi di tossicodipendenza “La Rupe”, alle porte di Bologna; ha una paralisi spastica; è mamma di Dario.

Per una coppia la decisione di avere un bambino dipende da tanti fattori. Immagino che per una donna disabile ci sia da considerare un maggior numero di fattori, per esempio la propria patologia e la valutazione di quanto poi si sarà autonomi nella cura del figlio. Tu avevi pensato a queste cose?
Io ho 42 anni, il bambino l’ho avuto tre anni fa, quindi già di per sé era un’età tardiva, in ospedale ero la più vecchia tra le donne, quanto meno ad avere il primo figlio. Non è stata una scelta, non era programmato, anzi forse pensavamo quasi di non farlo, non c’è stata la decisione di fare un figlio. Noi viviamo insieme da quindici anni, non c’era la ricerca di un figlio. Quando abbiamo saputo che ero incinta, non ci abbiamo pensato tanto, non ci sembrava ci fossero difficoltà. È stata una sorpresa, ma andava bene.

Durante la gravidanza, pensavi alle difficoltà che ci sarebbero potute essere in futuro?
Dal mio punto di vista non ho avuto né il tempo né la voglia di mettermi lì a pensare a quali sarebbero state le conseguenze dopo il parto. Io ho sempre vissuto in una rete abbastanza protetta, con una famiglia con cui ho sempre condotto una vita normale per quanto riguarda la scuola o il lavoro. Quindi il fatto di avere un figlio non era visto come un problema, forse proprio per la normalità di vita che ho sempre fatto. È una cosa che è successa. Certo, la mattina dopo aver saputo che ero incinta avevo parecchia nausea, forse non solo per la gravidanza, forse perché in qualche modo il mio inconscio stava lavorando e riflettendo… Se fossi stata da sola, senza una rete familiare intorno su cui poter contare, forse non avrei portato avanti la gravidanza, anche se è difficile scegliere, così come è difficile pensare alle difficoltà, perché non ti rendi conto di cosa significa avere un bambino finché non ce l’hai in braccio…
Le difficoltà sono venute dopo, ma non subito dopo, dopo un bel po’ di tempo, perché secondo me il punto chiave è proprio il fatto che avere un figlio significa prendersi carico di un’altra persona.

Qualcuno ti ha sconsigliato di portare avanti la gravidanza? Un medico, o un familiare?
No, nessuno in famiglia ci ha ostacolati. E neppure i medici.
La mia preoccupazione era fisica. Per via della mia malattia ho una scoliosi molto grave, operata tanti anni fa, per cui ho dei ferri alla schiena e nessuno sapeva se avrebbero retto col peso di una gravidanza. Invece poi non è successo nulla. L’unica cosa è che mi hanno fatto il cesareo programmato all’ottavo mese, perché non ce la facevo più, non respiravo, il bambino era molto grosso e ho fatto l’ultima settimana che quasi non riuscivo ad alzarmi dal peso.

Secondo te come si comportano in generale i medici davanti a una donna disabile che vuole avere un figlio?
Ecco, questo è un bel punto interrogativo. Da quando sono rimasta incinta ho cercato un ginecologo, solo che questo medico non mi ha mai visitata. Per fortuna non ci sono stati problemi, ma se ce ne fossero stati, lui come se ne sarebbe accorto?

E invece le attenzioni da parte del personale ospedaliero, sia durante il parto sia dopo, sono state soddisfacenti?
Io ho partorito in un reparto maternità già dedicato ai parti difficili, quindi lì c’era un ambiente molto rassicurante con gente preparata. Ho fatto invece molta fatica dopo il parto, quando mi hanno trattata come una persona qualunque, però in senso negativo, perché in quel momento avrei avuto bisogno di qualcuno che mi aiutasse. Anzi, dove si mangiava e si dormiva i parenti non potevano proprio entrare. Ho chiesto più di una volta se qualcuno poteva venire con me, ma non volevano. Quindi è stato molto difficile e sgradevole, soprattutto perché quello è un momento in cui sei molto vulnerabile. Poi mio figlio ha dovuto trascorrere dieci giorni all’ospedale pediatrico, perché aveva una leggera immaturità. Lo shock è stato che io avevo trascorso gli ultimi mesi di gravidanza senza praticamente quasi mai muovermi e il riprendere a camminare dopo il cesareo è stato complicato. Lì in ospedale mi facevano seguire il bimbo da sola. Ti danno un posto letto e puoi stare lì giorno e notte, però sei tu che devi andare dal bimbo da sola. E lì è stata una cosa molto dolorosa, perché ho avuto dei fortissimi mal di schiena e facevo molta fatica a muovermi, mentre una volta a casa ovviamente l’ambiente è stato più confortevole e positivo. Io ho la mamma che è abbastanza anziana e abita lontana e quindi non ha potuto essermi molto d’aiuto; i genitori di mio marito invece sono giovani e abitano vicino, per cui ci sono stati di grande aiuto e continuano tutt’oggi a esserlo.

Parliamo allora del ritorno a casa dopo il parto… Come ti sei organizzata? Quali difficoltà sono emerse?

Un po’ alla volta sono venute fuori le difficoltà. Per me ad esempio è stato sempre un problema cambiare mio figlio: il cambio del pannolino l’avrò fatto dieci volte in tutto. Quello è sempre stato un compito o di mio marito o di mia suocera o di chi veniva. Questo è stato all’inizio un po’ un problema, perché un bambino si sporca parecchie volte al giorno e ciò vuol dire essere capaci di programmarsi in modo da non trovarsi mai da sola in casa per troppo tempo. E questa è sia una difficoltà oggettiva, nel senso che devi avere qualcuno che possa venire, sia psicologica, perché ti rendi conto che non riesci a fare quello che di solito una madre fa.
Io sono una persona che ha basato la sua vita sull’essere indipendente, quindi mi sono ritrovata a fare i conti col fatto che non ero più indipendente, ed è stata dura.
Alcune organizzazioni le ho invece imposte io: ad esempio ho sempre voluto che Dario dormisse in braccio, però fermo, non come quei bimbi che devono sempre essere cullati e portati avanti e indietro in giro per la casa. Non ho voluto che lo cullasse nessuno, perché io non potevo farlo, quindi il bimbo si è abituato così e non abbiamo mai avuto problemi per farlo addormentare anche tenendolo fermo.

È stato faticoso sviluppare un legame con tuo figlio?

Nei primi mesi e forse anche per tutto il primo anno io l’ho sentito di meno, il legame con lui. Nel senso che gli davo le cose fondamentali, il latte e la presenza. L’accudimento, invece, lo svolgeva qualcun altro. Il legame più stretto l’ho sentito dopo.
Il bambino è cresciuto molto in fretta e molto bene, ed è stata una scoperta dietro l’altra molto bella. Io però la serenità nel rapporto con lui ce l’ho da poco, nel senso che crescendo lui diventa più autonomo e il problema dell’accudimento fisico è meno difficoltoso. Ora che ha tre anni va ad esempio in bagno da solo, quindi il mio ruolo è più di accompagnamento, e questo è molto diverso da prima, quando sapevo che avrei dovuto fare delle cose per lui nelle quali, però, non ero autonoma.

Secondo te è un bambino più responsabilizzato?

Non so se sia un caso, o se sia dovuto alla mia situazione, ma il bimbo è cresciuto molto prudente. Sente molto quanto può fare o non fare, e fino a che punto può essere turbolento. Certo, io sono una persona tutto sommato pigra, e forse mio figlio ha preso da me, ma in generale è davvero molto prudente. Se deve salire sul divano adopera la sedia, si prende il tempo necessario, non è di quei bambini che saltano di qua e di là. E con me non fa giochi tipo corrersi dietro, non me li chiede proprio, quindi è una persona che capisce benissimo con chi si sta rapportando. Se sono in piedi non mi chiede mai di prenderlo in braccio, va da un altro se vuole essere preso. Sono piccole cose da cui però si capisce che alla fine i problemi si risolvono, e spesso non si presentano neppure.

E quando siete fuori casa, non hai paura di non essere in grado di sorvegliarlo?

Se siamo fuori io e lui da soli, stiamo in situazioni tranquille, in cui non c’è bisogno di dovergli correre dietro. Se siamo fuori con più persone, è chiaro che ci va qualcun altro, a rincorrere il bambino. Ognuno ricopre il ruolo che può avere. Solo che accettare che qualcun altro sorvegli tuo figlio non è un problema con le persone che hai più vicine, ad esempio il partner, a cui diventa spontaneo chiedere aiuto; può invece diventare un problema in altre situazioni: già ad esempio con mia suocera, con cui comunque ho un buon rapporto, è stato difficile da accettare. Io ho anche due sorelle, che a loro volta hanno dei figli, e quando siamo tutti insieme io mio figlio non lo vedo proprio: sta con gli altri bimbi e so che posso delegare ad altri il compito di tenerlo sotto controllo.

Senti il peso del giudizio esterno? Lo dico perché so di mamme disabili che hanno, ad esempio, delle maestre a scuola che giudicano ogni comportamento dei loro figli come imputabile al fatto di vivere con un genitore disabile…

Mah, direi di non sentire questo peso. Il bimbo è andato all’asilo per la prima volta quest’anno, e per fortuna è un bimbo molto socievole, che parla tanto e con tutti. Il primo giorno quando io e mio marito lo abbiamo accompagnato all’asilo, lui appena ha visto tutti i giochi e l’ambiente ha detto: “Andate pure”. Perciò l’inserimento è stato facilissimo!
Ho iniziato a utilizzare la carrozzina per certi spostamenti da due anni, ed essa è diventata uno dei giochi preferiti di Dario. Secondo me fa bene ai bambini avere vicino queste situazioni, e poi comunque lui è molto tranquillo davanti alla diversità. Non so se, quando il bimbo sarà più grande, ci saranno delle difficoltà perché sarà in grado di notare di più che esiste una situazione di diversità… O gliela faranno notare…

Non hai mai avuto l’ansia di pesare sulle persone a te vicine? Su tuo marito?

No [ride]. Ma magari è una questione di confronti, di rapportarsi. Fra di noi non c’è stato questo problema, nel senso che lui è stato bravo a ritagliarsi degli spazi suoi. Ad esempio, i primi tempi, lo cambiava solo lui. Adesso, che il bimbo porta ancora il pannolino di notte, io alla sera lo lavo ma poi il pannolino e il pigiama glieli mette mio marito. Non l’ho mai considerato un pesare, per fortuna fra di noi la cura del bimbo è ben suddivisa.

Hai avuto bisogno di qualche adattamento particolare per la cura del bimbo?

No, ma in parte dipende anche dal fatto che non ho mai voluto fare le cose diversamente dagli altri.
È chiaro che abbiamo comprato un lettino che avesse due posizioni di altezza diverse, in modo che fosse più facile sollevare il bambino. Ma sono lettini che vendono dappertutto.
Adesso che il bimbo è cresciuto tanto e pesa tantissimo, io lo prendo in braccio solo da seduta: a prenderlo su ci pensa suo padre.

Il fatto di imporre agli altri di tenere in braccio il bambino fermo, senza cullarlo, quando era piccolissimo mi ha colpito molto. È qualcosa che hai preteso anche per altre azioni?
Lo ho preteso dove l’ho voluto. La sera il bimbo lo addormento io, è sempre stato così, quindi volevo che si abituasse al modo in cui posso addormentarlo io, cioè abbracciandolo tenendolo fermo. Non volevo che lo si cullasse, se no poi poteva avere problemi ad addormentarsi con me che non potevo cullarlo. Per altre azioni… Boh, fammi qualche esempio…

Per esempio sollevare in alto il bimbo e farlo ruotare per farlo giocare e ridere. Tu non puoi farlo… Non avevi paura che lasciandolo fare ad altri il bimbo si potesse divertire più con loro che con te?
No, anzi, mi faceva piacere se qualcuno lo sollevava. E poi sai, con la madre il rapporto è talmente esclusivo! Io l’ho capito col tempo che qualunque cosa possa fare un’altra persona, la madre resti tu. Il tuo ruolo non può essere sostituito. Io ho scoperto di non essere gelosa degli altri per queste cose, e proprio col tempo ho visto che non ci sarebbe stato motivo di essere gelosa. La madre sei tu e lui lo sa benissimo. Qualunque altra cosa gli altri possano fare in più di te non conta, è un rapporto esclusivo e lo capisci solo quando hai il bambino. Mio marito è escluso da tante cose. Il bimbo lo estromette dai giochi che facciamo la sera io e lui sul divano o a letto. Nonostante mio marito abbia un suo ruolo ben preciso col bimbo. Ad esempio il ruolo autorevole l’ha preso lui, per sgridarlo. Il bimbo è più geloso di me che del padre, la sera non mi molla un attimo, e mentre il padre può ritagliarsi lo spazio per fare anche le sue cose, io devo stare lì a giocare col bimbo.
Questi sono meccanismi che si creano da soli, e tutto ciò infonde anche la sicurezza per gestire le varie situazioni. Vedendo questo puoi permettere agli altri di intervenire di più.

Ci sono stati, soprattutto all’inizio, momenti di panico in cui ti sei ritrovata sola con tuo figlio?

Mio marito è stato sempre molto bravo, e poi lavora vicinissimo a casa, quindi per lui era più comodo essere presente.
Però mi ricordo un pomeriggio di panico: eravamo io e il bimbo da soli nella sua cameretta ed era un’estate caldissima. Non potevo allontanarmi, ero bloccata lì con lui perché poteva avere bisogno e nello stesso tempo sapevo che se avesse avuto bisogno io non sarei riuscita a sollevarlo e spostarlo. Il panico nasceva dal sapere di non riuscire a fare quello che avrei voluto fare. Da quel momento ho cercato di evitare di ritrovarmi in situazioni simili. Comunque così male non l’ho più vissuta, nel senso che quando può essere ricapitato sono rimasta più tranquilla. Però effettivamente ti rendi conto di non essere autonoma, di non avere la possibilità di fare qualcosa.
Più che altro non pensavo di poter avere queste paure.
Sicuramente ancora oggi, quando mio marito, magari per motivi di lavoro, deve stare via qualche giorno, io mi appoggio ancora molto ai miei suoceri. Il bimbo sta là da loro anche a dormire, e io vado là di giorno.

All’estero esistono organizzazioni sia di genitori disabili sia di personale specializzato, che seguono il percorso della maternità fin dall’inizio e aiutano i genitori disabili durante la gravidanza e dopo il parto, con una rete molto ampia sia di informazioni sia di assistenza. Avresti voluto un’organizzazione del genere?
Sinceramente non lo sapevo e non ci avevo mai pensato. Non so se l’avrei voluta, nel senso che non essendoci in Italia non riesco a immaginarmela. Diciamo che se la mia maternità fosse stata programmata, e se ci avessimo pensato prima, avremmo potuto anche pensare a organizzare una rete più ampia di persone, come fanno quei genitori che non sanno su chi contare. Noi non l’abbiamo fatto perché avevamo i suoceri disponibili e forse si sarebbero offesi se ci fossimo rivolti ad altri. Ma credo che l’avere intorno delle reti più grandi, con più persone, varrebbe la pena organizzarlo per tempo.

Vuoi aggiungere ancora qualcosa?

Avere un figlio è un’esperienza che sicuramente incide molto nella vita di una persona, nel senso che la modifica molto, e ti pone davanti a cose con cui non puoi non confrontarti. Sicuramente gli aspetti positivi e gratificanti sono maggiori delle difficoltà. I bambini sono meno fragili di quello che si può temere, e anche loro ti aiutano perché alla fine capita che ti chiedono le cose che tu gli puoi dare. Spesso vivono anche le situazioni con molta naturalezza e non si pongono problemi. A volte mi trema la mano, e se devo per esempio dargli una medicina su un cucchiaino non ci riesco. Io lo vivevo come un problema, e invece ho visto che per lui non lo è affatto.
Ripeto, però, che io ne sto parlando serenamente adesso, perché l’anno scorso ho avuto un anno un po’ difficile, nel quale ho dovuto fare i conti con tante mie situazioni.

Grazie Mara, davvero. E grazie anche a Dario.

Un fantasma in pizzeria: è la sindrome di Down

Il lavoro nobilita l’uomo e la donna, lavorare con lentezza, l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, il posto di lavoro è aggregazione, lavorare meno lavorare tutti, ma lavorare stanca e stancarsi è un diritto.

Da alcuni anni in rete gira una e-mail che racconta di una pizzeria di Roma che usa un ingrediente in più: una prospettiva lavorativa per persone con la sindrome di Down.
Incuriositi e attratti da un’esperienza di questo genere, alla prima occasione siamo approdati alla Locanda dei Girasoli.
È un Ristorante-Pizzeria nascosto tra le stradine del Quadraro a Roma, situato tra la Tuscolana e gli importanti e meravigliosi resti degli acquedotti romani, dove abbiamo incontrato Antonio Anzidei, nuovo responsabile della Locanda, socio e membro del CDA della Cooperativa Sociale I Girasoli che gestisce il locale.
La storia del locale è strettamente legata all’iniziativa di un gruppo di persone che all’interno del proprio nucleo familiare ha dei figli con la sindrome di Down.

Una possibile risposta alla struggente riflessione dei genitori, di tutti i genitori, “Cosa faranno i nostri figli dopo di noi?” viene dall’incontro con il mondo del lavoro, che diventa “integrazione lavorativa” per le persone che hanno anche dei deficit, una risorsa che significa comunque aggregazione ma anche autonomia, economica e manuale.
Avere un lavoro non è mai solo svolgere determinate mansioni o rivestire un ruolo; per le persone che hanno anche un deficit vivere un’esperienza professionale significa ricevere un’apertura di credito e fiducia, riavere indietro un’idea di sé adulta e capace di “reggere” e andare oltre l’immagine sociale più accreditata di persona da accudire o sistemare.

Cinque anni fa, sulla forte spinta della mamma di una persona con la sindrome di Down, nasce La Locanda dei Girasoli e un’idea di investire nel futuro, in tutti i sensi; viene costituita una cooperativa sociale che acquista un Ristorante chiuso da un paio di anni, per farne una Pizzeria con personale costituito anche da soci con la sindrome di Down.
Ovviamente non è una cosa facile.

Impresa sociale, integrazione lavorativa, lucro e non profit, rapporti umani ed efficienza, momenti di crisi economica e periodi di stabilità, insomma felicità e preoccupazioni sono i difficili equilibri tra diverse contraddizioni che si sono alternati sino alla primavera di quest’anno quando il rischio di chiusura per debito è stato molto forte.
Fortunatamente le istituzioni cittadine in questo caso non sono state a guardare e con l’impegno del sindaco Walter Veltroni, del presidente del X° municipio Sandro Medici, dell’Assessore ai Servizi Sociali Fabio Galati e della solidarietà di un quartiere con un forte tessuto sociale si è scongiurato il rischio di chiusura e di perdita di una forte esperienza anche di integrazione lavorativa.
Sono stati anche ristrutturati i locali: l’entrata principale è accessibile anche a chi si sposta in carrozzina e la prima sala, molto accogliente, è totalmente accessibile; da qui si raggiunge facilmente il bagno a norma.
Mangiare non è più un bisogno, andare a mangiare fuori poi significa stare con le persone con cui esci ma anche incontrare dei luoghi, dei cibi e anche le persone che ti servono quello che mangi: alla Locanda si trova la pizza sia romana che napoletana e quella speciale Girasole, una pizza bianca con intorno i fiori di zucca e al centro funghi porcini per riprodurre il girasole; primi piatti e zuppe; verdure tutte certificate di provenienza biologica e pane cotto al forno a legna. Una particolare attenzione è dedicata anche alla preparazione delle portate che tiene conto delle segnalazioni (telefonare prima) su possibili intolleranze alimentari o di ordine etico, religioso e sanitario.
Ad esempio ci si può anche portare da casa la pizza senza glutine che verrà cotta nel forno a legna al momento, in teglie in cui non è stata usata farina in precedenza.

La Locanda dei Girasoli è un’attività commerciale che ha un valore aggiunto, un’integrazione lavorativa particolare. “Si tratta di cogliere una realtà che c’è e che provoca, che smonta, per il fatto stesso di esistere, tutti i modelli individuali e sociali basati sull’apparire, sull’efficienza, sul successo e sul potere. Una realtà che per questo diventa risorsa per tutti, perché è oggi forse l’unica in grado di mettere in crisi questo sistema e di aprire la strada a una alternativa: è proprio attorno alle persone diversamente abili che si sono sviluppate le più significative esperienze di vita comunitaria basate su principi di solidarietà e di giustizia.” (dall’introduzione al Convegno F.A.I.P. Bellaria 18/20 settembre 2003)

Insomma, una pizzeria, come tutte le altre, ma con dietro/dentro un’occasione diversa dai luoghi riservati alla crescita per le persone con una disabilità, per provare a costruirsi un pezzo del proprio destino. Per questo fortemente sconsigliata a chi pensa ai freak come fenomeni da baraccone: “Ahò annamo a véde i Down che fanno la pizza”.

La Locanda dei Girasoli
via dei Sulpici 117H – Roma
Telefono 06/76.10.194 (chiuso il lunedì)

La sindrome di Down non è una malattia ma una condizione genetica. È inesatto parlare dunque di malattia, che è un concetto completamente diverso, che implica in sé, tra l’altro, una possibile evoluzione verso la guarigione. La SD è una condizione genetica che caratterizza la persona per tutta la sua vita. (www.aipd.it)

La sottile linea rossa

Esistono due campionati: quello che tutte le settimane entra nelle nostre vite attraverso la televisione, i giornali, le radio, le discussioni da bar, i dialoghi in piazza, e quello meno rumoroso che ci vede sudare con la squadra degli amici, che riempie di roba sporca i nostri cesti per la biancheria e accende un sorriso o un pianto nello sguardo dei nostri figli. Sono due campionati che spesso hanno punti di contatto, ma sono allo stesso tempo molto diversi, in uno strano sistema che a volte sembra quasi porli l’uno contro l’altro o l’uno dipendere dall’altro. È difficile capire dove stia questo confine, a me piace pensare che sia tracciato dalle righe di un campo da gioco: le stesse righe per tutti, sia che disputino partite di serie A con stipendi fantasmagorici, sia per quelli che rimediano figuracce davanti agli sguardi di pochi intimi o addirittura solo davanti a se stessi, in qualche sperduto campetto o palestra di periferia.
Nel film di Terence Malick “La sottile linea rossa”, la linea demarca il confine tra la natura incontaminata dell’Isola di Guadalcanal e l’orrore più deturpante dell’uomo, la guerra; tra il mondo idilliaco dell’immaginario dei soldati e la cruda realtà della battaglia. Anche nel mondo dello sport una sottile linea rossa divide lo sport dell’amicizia tra i popoli, della forza e del coraggio, della lealtà e della gioia da quello del razzismo, del doping, della violenza e delle scorrettezze. Occasioni di gioia e di felicità, come seguire la propria squadra del cuore, si trasformano in tragedie, sogni di ragazzi alla ricerca dei propri miti si trasformano nell’incubo della vittoria a tutti i costi.
Ora voglio raccontarvi un episodio. Dopo trent’anni (o forse più) hanno rifatto il fondo del campo di gioco della polisportiva dove ormai da dieci anni gioca la mia squadra di electric wheelchair hockey (hockey per disabili con carrozzina elettrica): al posto di un ormai sbrindellato linoleum è stato messo un bellissimo parquet. Mi chiedono di andare a parlare con il geometra della ditta che sta realizzando i lavori, per parlargli delle righe del campo. Quando arrivo in palestra lo trovo alle prese con il disegno del campo da gioco di hockey, che alcuni giorni prima avevo consegnato al segretario della polisportiva, mi mostra il disegno, poi mi dice: “Ma tutte queste linee sono necessarie? Sa, qui ce n’è proprio una che va a incrociarsi con la linea dei tre punti della pallacanestro, la dobbiamo proprio fare?”. In quel momento mi sono passate per la testa una serie di innominabili risposte, ma incredibilmente con una naturale serenità gli ho risposto: “ Sì, sono tutte necessarie!”. La discussione è finita lì e il giorno dopo sul luccicante parquet risplendevano le linee rosse del campo di hockey, tutte le linee rosse necessarie! Non credo che in questi giorni stiano confondendo i cestisti o i pallavolisti che le vedono sotto le suole delle proprie scarpe da tennis; loro sono ben concentrati sul confine delle linee sulle quali devono gareggiare.
Quelle linee rosse sono un confine da superare, magari per avere il coraggio di essere come gli altri; non sono un recinto dove essere rinchiusi, o peggio un rifugio per fuggire dal mondo, sono parte di questo “grande sasso”(citazione dal film).
Solo oggi le strutture sportive in Italia cominciano ad adeguarsi alle esigenze di tutti gli sportivi, seppur le resistenze, soprattutto culturali, sono ancora forti e per spettatori e atleti disabili il traguardo della normalità è ancora lontano.
È importante nella scuola, nelle parrocchie, nelle polisportive creare per tutti la possibilità di confrontarsi con gli altri e con se stessi, a volte basta solo qualche riga in più, questo vale nello sport come nella vita.
Io sono uno di quelli che sogna una Olimpiade per tutti e di tutti, sono certo che ci arriveremo.