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autore: Autore: Annalisa Brunelli e Roberto Parmeggiani

10. 49 libri da (NON) leggere

I libri, come abbiamo potuto capire seguendo il percorso di riflessione offerto da questa monografia, non servono a qualcosa. I libri raccolgono parole che, una insieme all’altra, permettono di raccontare storie. E le storie, basate su fatti realmente accaduti o frutto dell’immaginazione dell’autore, descrivono semplicemente un pezzo di vita, sia esso reale o metaforico.
I libri, quindi, come scorci di reale.
Quando, nel giugno del 2015, Luigi Brugnaro, sindaco neo eletto di Venezia, ha deciso di ritirare dalle scuole della Laguna 49 libri che affrontavano in chiave critica il tema della discriminazione, tacciati di voler imporre una visione personalistica della società, solo perché raccontavano uno scorcio di reale ritenuto poco adeguato, il sindaco ha affermato che ci sono libri buoni e adatti e libri cattivi, portatori di un punto di vista inadeguato in quanto parziale (come se esistessero punti di vista imparziali).
In quei libri, infatti, sono presenti elementi quali la disabilità, la diversità culturale, l’omosessualità, l’omogenitorialità, la discriminazione, l’accettazione, la paura dell’altro.
Aspetti della realtà che al sindaco non sono sembrati convenienti, definiti come un modo scorretto di instillare nei bambini idee non condivisibili.
Secondo la nostra esperienza, però, è proprio qui che sta il fattore discriminante.
Quella lista di libri, messa a disposizione dalla precedente amministrazione ai nidi e alle scuole dell’infanzia della città, non era nata con l’intenzione di instillare nella testa dei bambini una qualche idea ma semplicemente per raccontare delle storie e, attraverso queste, aspetti differenti della realtà, di quella che già esiste e che tutti, ogni giorno, ci troviamo di fronte.
È per questo che, in contrapposizione a questa lista di 49 libri esclusi e additati come pericolosi, anche noi abbiamo pensato di realizzarne una: la lista dei 49 libri da (NON) leggere ai bambini!
Libri pericolosi perché, aumentando la conoscenza diminuiscono la paura; perché favorendo un approccio libero e positivo alla diversità diminuiscono i pregiudizi; perché mostrando la realtà così com’è permettono di scardinare stereotipi.
La lista nasce all’interno del Centro di Documentazione Handicap, una biblioteca da (NON) frequentare proprio perché specializzata in libri pericolosi ed è una lista aperta, perché ognuno possa aggiungere il proprio libro da (NON) leggere.
-Alla ricerca del pezzo perduto, Shel Silverstein
-Bambini di farina, Anne Fine
-Basta guardare il cielo, Rodman Philbrick
-Batti il muro, Antonio Ferrara
-Bisognerà, Thierry Lenain, Oliver Tallec
-Cartoline dalla terra di nessuno, Aidan Chambers
-Cion Cion Blu, Pinin Carpi
-Crystal della strada, Siobhan Dowd
-Danza sulla mia tomba, Aidan Chambers
-È non è, Marco Berrettoni Carrara, Chiara Carrer
-Ero cattivo, Antonio Ferrara
-Ero un topo, Philip Pullman
-Federico, Leo Lionni
-Graffi sul tavolo, Guus Kuijer
-Heike riprende a respirare, Helga Schneider
-I cinque Malfatti, Beatrice Alemagna
-I piccini di Gashlycrumb, Edward Gorey
-Il GGG, Roal Dahl
-Il nemico, Davide Calì, Serhe Bloch
-Il ragazzo che non mangiava le ciliegie, Sarah Weeks
-Il regalo nero, Dolf Verroen
-Io no!… O forse sì, David Larochelle
-L’albero di Goethe, Helga Schneider
-La bambina, il cuore e la casa, Maria Teresa Andruetto
-La contessa segreta, Eva Ibbotson
-La gigantessa, Melvin Burgess
-La quaglia e il sasso, Arianna Papini
-La ragazza Chissachì, Sarah Weeks
-La schiappa, Jerry Spinelli
-L’anatra, la morte e il tulipano, Wolf Erlbruch
-Le streghe, Roald Dahl
-Lettere dal mare, Chris Donner
-Liberi tutti!, Arianna Papini
-Lo stralisco, Roberto Piumini
-Luna, Julie Ann Peters
-Occhi di tempesta, Joyce Carol Oates
-Oltre l’albero…, Mandana Sadat
-Pane arabo a merenda, Antonio Ferrara
-Pareva un gioco, Arianna Papini
-Per sempre insieme, amen, Guus Kuijer
-Principessa Laurentina, Bianca Pitzorno
-Qualcosa in comune, Anne Fine
-Quando il lupo assaggiò la bambina, Arianna Papini
-Rime di rabbia, Bruno Tognolini
-Se è una bambina, Beatrice Masini
-Sette minuti dopo mezzanotte, Patrick Ness
-Streghetta mia, Bianca Pitzorno
-Un’estate di quelle che non finiscono mai, Jutta Richter
-Wonder, R. J. Palacio

9. La metafora dell’arte

Come Centro di Documentazione di Bologna abbiamo condiviso diversi percorsi di riflessione con altre realtà culturali della città che, come noi, condividono la necessità di un confronto sul ruolo delle arti nel percorso educativo di bambini e ragazzi.
Con l’Istituzione Bologna Musei ci siamo trovati a riflettere attorno al concetto dell’accessibilità del linguaggio artistico e al valore dell’accesso all’arte, anche quella apparentemente meno comprensibile.
Anche con La Baracca – Testoni ragazzi abbiamo aperto un confronto sul tema dell’accessibilità, ovviamente legato al linguaggio teatrale soprattutto nel proporsi a un pubblico di piccolissimi.

9.1. A nessun bambino si nega una poetica
di Veronica Ceruti, responsabile Mediazione culturale e Servizi educativi, Istituzione Bologna Musei

È questo uno dei principi fondamentali che guida l’attività di mediazione culturale del Dipartimento educativo del MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna.
Da quasi vent’anni accompagno bambini e ragazzi nelle sale dei musei e registro il loro stupore davanti alle opere di artisti contemporanei, visioni e ambienti altri rispetto agli oggetti e alle immagini stereotipate che appartengono al loro quotidiano, che sono loro familiari. Quadri, sculture, installazioni capaci di innescare meccanismi seduttivi, di generare meraviglia, di sollecitare tutti i sensi, favorendo il risveglio dall’anestesia, da una condizione di apprendimento passivo e a breve termine.
Un aneddoto: sono con una terza classe della scuola primaria e mostro agli alunni il ferro da stiro con chiodi, realizzato da Man Ray nel 1921, non un’opera d’arte da museo, ma un intervento deliberatamente imprevedibile, assurdo, provocatorio. Gli occhi si spalancano, i bambini sono perplessi, non hanno mai visto niente di simile, certo non lo vorrebbero come Cadeau, Regalo, (è questo il titolo originale dell’opera), ma sono curiosi, le loro menti si accendono, e al mio invito “Proviamo a trovare un nome a questo lavoro” le mani si alzano e fremono. Ecco alcune risposte: “La vendetta della moglie gelosa”, “Ora sì che il bucato è davvero bucato” (!). Non sono solo titoli, ma vere letture dell’opera, in grado di cogliere e restituire l’ironia e la libertà immaginativa che caratterizzano il Dada, movimento d’avanguardia sperimentale verso cui il pubblico adulto mostra diffidenza, perché ancorato ai modelli della cultura tradizionale e troppo spesso pronto ad affermare “Questo lo potevo fare anch’io”.
Non voglio dire di non avere mai vissuto situazioni di difficoltà o che non vi siano temi difficili da trattare con i più piccoli, per ragioni diverse, ma si tratta sempre di trovare un modo, una strategia per neutralizzare l’imbarazzo, elaborare la paura, andare oltre il tabù. Un esempio: la mostra temporanea “Il nudo tra ideale e realtà” tenutasi alla GAM nel 2004: quadri, fotografie, sculture di corpi nudi, rappresentati e presentati nella loro verità, sensualità, fisicità senza veli. Come fare?  Sicuramente non censurare, non alimentare malizia e pruderie, ma trasmettere ai giovani visitatori l’importanza di un tema che ci riguarda tutti: ognuno di noi ha un corpo, ognuno di noi è corpo, fisico e emozionale. Si decide quindi di valorizzare in prima istanza la scoperta, non tanto di quello rappresentato, ma del Leib, il corpo vissuto: l’esperienza di laboratorio, che precede la visita in mostra, inizia con una serie di esercizi di psicomotricità, volti a sciogliersi e ad acquisire consapevolezza del proprio sé fisico. A seguire, un’attività da noi chiamata “L’artista e il suo modello”, volta alla scoperta del corpo dell’altro attraverso il tatto e le emozioni che ne derivano. In coppia, in piedi uno davanti all’altro, rivolti verso la stessa direzione: davanti chi interpreta il modello, dietro chi interpreta l’artista, bendato. L’indicazione iniziale è quella di appoggiare le mani sulle spalle del modello, il primo contatto deve avvenire molto lentamente, come se le mani dovessero procedere in una sorta di atterraggio sul corpo, proprio per favorire la consapevolezza rispetto alla sensazione fisica e psichica provata. Il palmo delle mani diviene così il punto di contatto, sismografo capace di registrare ogni oscillazione emotiva. Si rileva la temperatura della pelle, la consistenza, per poi scivolare lungo tutto il corpo del compagno, fermandosi là dove si incontrano situazioni anatomiche che si prestano a scoprire plasticità e potenzialità motorie. Nel momento in cui si arriva alle giunture (spalle, gomiti, ginocchia, caviglie, anche), l’artista ha la possibilità di manipolare il corpo, per sondare le possibili torsioni e le posture che il modello riesce ad assumere.
Solitamente infatti, quando si guarda un corpo dipinto su una tela o scolpito nel marmo, non si prendono in considerazione le scelte compiute dall’artista: rappresentare il soggetto in piedi in posa, in piedi naturale, sdraiato, seduto, sospeso, vestito, nudo…
In seguito, la coppia si inverte e scambia ruolo, l’ascolto emotivo è così completo, il vissuto condiviso.
Questa esperienza, insieme alle altre previste nel percorso, rende la fruizione delle opere in mostra radicalmente diversa, più attenta agli aspetti iconografici, compositivi, plastici, molto meno distratta dalla semplice nudità. Si stabilisce infatti una sorta di empatia sia con il corpo esposto, sia con il suo artefice; l’esperienza acquisisce un senso proprio, a partire da un sentire soggettivo del sé e dell’altro da sé.
Non esiste artista, opera, pratica che non possa divenire pretesto per avviare percorsi di conoscenza e di rielaborazione validi per tutte le età, nella profonda convinzione che fare esperienza a contatto con l’arte generi beneficio e faciliti lo sviluppo della nostra identità, del nostro pensiero critico e della nostra capacità di comprendere il contesto storico, sociale e culturale al quale apparteniamo.

9.2. “Facciamo finta che…”. Incontro, gioco e ascolto per parlare a teatro di quello che ci pare e piace
a cura di Lucia Cominoli, educatrice e coordinatrice di http://laquintaparete.accaparlante.it Conversazione con Roberto Frabetti, regista e fondatore de La Baracca – Teatro Testoni Ragazzi di Bologna, Teatro Stabile d’Innovazione per l’Infanzia e la Gioventù.

Il teatro con il suo potere catartico è forse la forma d’arte per eccellenza che fin dalle origini ha messo al centro della propria esperienza i temi tabù, lo ha fatto soprattutto nei confronti della società, mettendone costantemente in discussione i costrutti. La società però, a volte ce ne dimentichiamo, si compone di adulti e di bambini che se usano modi diversi per comunicare spesso si trovano tuttavia insieme ad affrontare parole come “morte”, “paura”, “diversità”. Ma che cosa succede quando a teatro ci rivolgiamo ai più piccoli? Come è lecito muoversi all’interno di queste parole?
Bisogna capire quando è il momento giusto per affrontarle, se quello è effettivamente il momento, se ne vale davvero la pena o se non sia un modo, al contrario, per soddisfare la propria vanità di espressione adulta. Bisogna riuscire a portare le parole nel modo giusto quando effettivamente si ritiene sia importante affrontare in quel momento quel particolare argomento così intenso e delicato. È una risposta molto ambigua la mia, ma tante volte mi sono trovato di fronte ad adulti che hanno un bisogno estremo di adultizzare i bambini e credo che una cosa importante sia invece rispettare prima di tutto le loro curiosità. Non c’è nessuna parola e nessun tema che non si possa usare o affrontare, il problema è trovare la ragione. Credo che parlando di bambini sia necessario distinguere tra i piccolissimi, quelli cioè sotto i 36 mesi e quelli che già hanno cominciato a frequentare la scuola dell’infanzia fino ai 6 anni. Piano piano, salendo e salendo crescono in loro domande… Ecco, quando si sente che le loro domande si stanno facendo strada credo che sia importante rispondere e trattare con loro anche i temi più alti. A questo proposito ho visto anni fa uno spettacolo di teatro ragazzi dedicato ai bambini della scuola dell’infanzia di una compagnia danese che trattava senza paura il tema della morte e lo faceva con estrema delicatezza. Lo spettacolo però funzionava non solo perché era ben fatto ma anche perché sapevamo che per i piccoli spettatori era quello il momento giusto per parlarne al di là del contesto. Ci sono tanti modi per parlare ai bambini della diversità e del dolore. Io ti parlo per esperienza e la mia è un’esperienza ormai quarantennale che si è sempre costruita nel rapporto diretto e nell’incontro con i bambini. Non si può prescindere da questo, almeno per quanto mi riguarda. Credo sia sempre importante costruire prima un setting di rispetto, dove gli adulti parlano perché ritengono che sia realmente importante per i bambini e va fatto con gradualità. Per fare un semplice esempio, se ora ci trovassimo a dover parlare di morte ai bambini, e questo vale benissimo anche per i più piccoli, io li porterei a esplorare per prima cosa il buio, che per molti può rappresentare un luogo sconosciuto, vicino all’infinito e per l’appunto alla morte. Alla complessità si arriva piano piano con molta delicatezza e molta attenzione.

Rispetto alla vostra esperienza diretta di tecnici del teatro, in che modo operate delle scelte artistiche sul che cosa dire o non dire ai bambini all’interno di uno spettacolo che tratta un tema tabù o più semplicemente un tema considerato complesso?
Il teatro secondo me funziona quando tra chi racconta e chi ascolta si crea un accordo di sensibilità. Capire come nasce e perché non penso abbia molto a che fare tuttavia con la tecnica se non in termini di finzione scenica.
Le scelte per me sono condizionate da richieste, magari non esplicite, che arrivano continuamente dai bambini quando li incontri durante gli spettacoli o li frequenti a scuola o nei laboratori o in altri contesti… Ci sono domande che senti nascere e che lasci filtrare dentro di te e cominci a sentire l’esigenza di dare delle risposte, senza mai dimenticare una cosa fondamentale: il teatro è soprattutto un incontro. Quando parlo di ambiente di rispetto intendo quindi che il bambino si accorge se l’adulto che ha davanti a sé e che sta lavorando per lui, sia esso un attore o un danzatore, è onesto e sincero, se sta parlando cioè di qualcosa di vero e che in quanto tale lo tocca. Si tratta di equilibri che spesso hanno poco a che fare con scelte logiche esplicite dal punto di vista tecnico ma che partono piuttosto da sensazioni che nello scambio umano adulto-artista e bambino possono diventare molto forti.

E a tutto questo come rispondono i bambini? C’è uno spettacolo in particolare nei tuoi ricordi che ha scatenato reazioni inaspettate?
È difficile rievocare un episodio specifico, se uno spettacolo funziona, qualsiasi sia il tema, le reazioni che si scatenano sono più o meno sempre le stesse. Una reazione apparentemente molto semplice ma che in realtà è una grande reazione è innanzitutto il silenzio totale. Quando senti che dei ragazzini, dai nidi agli adolescenti, restano completamente in silenzio vuol dire che qualcosa arriva, qualcosa tocca. Ci tengo però a ribadire che per me la qualità della comunicazione a teatro non è data dal tema ma dal tipo di comunicazione che si instaura in quel momento. Penso che sia molto più ricco e formativo, sia per l’adulto che per il bambino, uno spettacolo che funziona bene semplicemente perché l’attore è onesto e il pubblico ha una gran voglia di ascoltare quella storia, che magari non contiene un tema poi così alto. Bisognerebbe pensare prima di tutto al buon teatro e non al teatro come veicolo per.

Chi lavora con i bambini sa bene quanto i più piccoli sappiano perfettamente distinguere il momento del divertimento da quello della serietà, succede anche giocando, e il teatro, in fondo, è proprio questo, un bellissimo gioco. Come accompagnare i bambini in questo sali-scendi?
Credo che i bambini abbiano un grande piacere a partecipare a tutti i meccanismi della finzione, che sappiano distinguere se quella che vedono è una finzione condivisa o un tentativo di non considerare completamente tutta la loro totalità. Io non posso dare informazioni finte. Se gioco in un equilibrio di finzione devo garantire sempre che ci sia una concretezza. L’equilibrio rimane sempre nel pensare che il gioco è un momento molto serio per loro. Nel momento in cui i bambini esplorano, cercano di capire quello che sta accadendo nel rapporto tra le diverse situazioni e lo fanno in una dimensione che, in quel momento, è funzionale sia filtrata dagli elementi della finzione. Quindi possiamo fare finta che l’oggetto che ho in mano sia una nave mentre invece è una foglia galleggiante… Nel frattempo stiamo studiando come galleggia una foglia in una pozza d’acqua o come una nave così grande possa stare in mare… Ci sono sempre dei doppi piani e l’equilibrio lo si trova nel fingere insieme in un momento di comunicazione concreta. Di sicuro e, questo è il patto, non ti racconterò mai storielle.

La mediazione dell’adulto, sia essa a teatro, a casa o a scuola è sempre fondamentale?
Sì, credo che la mediazione resti fondamentale su tutti i livelli, i bambini guardano gli adulti in continuazione, hanno quindi bisogno di adulti che si muovano in temi complessi con attenzione e rispetto. Io non credo che ci sia il bisogno di forzare i tempi ma bisogna essere prontissimi a rispondere a tutte le loro richieste, anche a quelle che ci mettono più in difficoltà. Loro sono dei grandi scienziati, dei grandi esploratori, sono loro a fare le domande, noi dobbiamo solo creargli intorno un ambiente in cui sappiano che possono esserci delle risposte.

Quali sono oggi i temi tabù per i più piccoli? Sono cambiati? Coincidono sempre con quelli degli adulti? In quali direzioni sta lavorando il teatro ragazzi?
Io credo che i tabù dei bambini siano pochissimi, credo che i maggiori siano quelli degli adulti che vivono insieme a loro, che eventualmente possono avere più o meno difficoltà a parlare di determinati argomenti o li ritengono più o meno giusti. I bambini guardano le cose molto direttamente, sono sempre molto laici. Una cosa gli piace, una cosa non gli piace, difficilmente giudicano in maniera pregiudiziale, non credo ci siano argomenti particolarmente tabù dentro i bambini, ci sono argomenti che gli adulti non ritengono sia il caso di affrontare, dalla sessualità al tema del dolore, o in cui trovano delle difficoltà rispetto al modo in cui affrontare il tema della diversità o come affrontare la relazione con altre culture… Io credo che i bambini abbiano molta voglia di conoscere e di scoprire e abbiano bisogno di raccontatori onesti che non dicano “questa è la verità” ma “una delle tante verità”, che non esauriscano cioè le risposte nella prima ma che ogni prima risposta diventi apertura e stimolo verso altre domande, idee, quesiti. Credo che questo sia un atteggiamento comune che oggi tutti dobbiamo tenere nei confronti dei bambini e degli adolescenti: rispettare il loro essere esploratori e il loro essere scienziati.

8. Alcune esperienze di lavoro

I libri hanno una grande qualità, quella di trasformarsi nel momento in cui si trovano tra le mani delle persone. Laboratori, percorsi formativi, incontri, biblioteche alla fine del mondo, rappresentazioni della realtà, incontri con la diversità, contenitori della memoria.
Insomma, il libro è uno degli strumenti più malleabili e maggiormente utilizzati, soprattutto quando si vogliono affrontare argomenti di difficile approccio.
Abbiamo raccolto alcune esperienze che, in modo diverso, descrivono come è possibile costruire
percorsi di mediazione per relazionarsi con argomenti o situazioni che possono metterci in difficoltà.

8.1. Gianporcospino è in gran buona compagnia. Come parlano di disabilità i libri per bambini e adolescenti
di Annalisa Brunelli e Giovanna Di Pasquale, pedagogiste

Dalle sue origini, dalle favole e dai racconti mitici, tutta la letteratura è piena di immagini di diversità: eroi ed eroine di volta in volta troppo piccoli, nascosti sotto fattezze animali, bizzarramente deformi, afflitti da misteriose infermità.
“La schiera dei Pollicini, dei Principi Porcelli, dei Gianporcospini, delle principesse che dormono in eterno, che non possono parlare o che non sanno ridere è sterminata; viene dalla lontananza del mito, attraversa la fiaba popolare, si insedia nei romanzi per bambini e ragazzi e arriva fino a noi”. (1)
Queste presenze parlano a tutti i lettori perché permettono un riconoscimento forte tra ciò che accade dentro al libro e ciò che accade nella nostra vita. Nel percorso di crescita, a molti, per non dire a tutti, succede di entrare nei territori anche oscuri del corpo che cambia e muta e di sentirsi per questo un po’ come il Brutto Anatroccolo.
Ma questi racconti sono anche uno specchio particolare per chi, partendo da una situazione di concreto svantaggio, deve misurarsi con il mondo dei sani, della normalità.
Trovarsi raccontati cioè presenti nelle storie e nei libri, diventa un aiuto per i bambini e ragazzi con disabilità a uscire dalla invisibilità permettendogli un confronto e un rispecchiamento per nulla scontato.
Accanto alla ricaduta personale che le storie possono produrre, c’è anche la consapevolezza che il mito, la fiaba popolare, il libro per bambini e ragazzi sono forme del racconto attraverso cui vengono rappresentate le idee sociali di una determinata situazione o categoria di persone; questo vale anche per l’immagine sociale della disabilità e per la sua evoluzione nel tempo.
I libri per bambini e ragazzi sono un’invenzione recente e nascono sul finire del XVII secolo. Rivolta prevalentemente a lettori della classe borghese, la letteratura infantile per lunghissimo tempo ha rappresentato la disabilità come malattia e i bambini con disabilità come bambini malati.
Solo agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso cominciano a comparire in modo corposo e sistematico testi in cui la presenza del protagonista bambino o ragazzo, disabile o svantaggiato, costruisce un intreccio in cui la disabilità o lo svantaggio vengono in qualche modo assunti come valore.
Innanzitutto diventano i protagonisti, quasi eroi, della storia piuttosto che essere simboli o incarnazioni della malattia. Ciò che però assume un reale e consistente rilievo è il fatto che la loro condizione viene restituita ai lettori senza nessuna commozione, senza le sfumature patetiche, senza gli intenti didattici, moralistici o ammonitori tipici di quasi tutta la letteratura per l’infanzia del passato.
I punti centrali diventano quindi: l’affermazione dell’identità e delle caratteristiche di ciascuno, preziose nella loro diversità; la ricerca della relazione; l’accettazione della diversità che è differenza, limite ma anche potenzialità, abilità diverse per ciascuno.

Le produzioni presenti oggi nel panorama editoriale
Il mercato editoriale oggi si presenta sotto un segno bifronte: da una parte si assiste alla iperproliferazione di titoli in uscita, dall’altra alla contrazione di vendite e di lettori. Eccezione positiva è costituita dall’editoria per bambini e ragazzi che, dal rapporto sullo stato dell’arte per l’anno 2014, cresce sia per i titoli prodotti che per la quota di mercato, che conquista.
Tanti titoli dunque e tante proposte. In questo quadro possiamo distinguere in modo sintetico quattro famiglie rispetto al modo di approcciarsi al tema della differenza e disabilità.
La prima è composta da quei libri che trattano la differenza in modo ampio, facendo riferimento a tutti quegli elementi che nel mondo riportano alla presenza delle differenze, dalla natura, ai colori, agli aspetti fisici. Questo è un approccio che allarga la visuale permettendo di riferirsi alle tante specificità che attraversano la società come, ad esempio, ai bambini stranieri, portatori di una diversità da non cancellare ma da accogliere e scoprire.
La seconda è rappresentata da quelle storie che in modo mediato introducono alle differenze presenti nelle comunità, da quella familiare, quella amicale fino a quella più generale relativa alla società in cui si vive. Esempio tipico sono le storie che hanno per protagonisti animali che per le loro caratteristiche fisiche e caratteriali ben si prestano a evidenziare come la diversità sia costitutiva di ogni situazione del vivere insieme. Avremo quindi un draghetto che non sputa fuoco, un lupo gentile, un coniglio con un orecchio pendente, un camaleonte alla ricerca di un colore fisso oppure un orco piccolissimo e un folletto gigante. Attraverso un percorso di ricerca della propria identità, che solitamente prevede l’allontanamento dal gruppo o il tentativo di modificare le proprie caratteristiche fisiche, l’escluso arriva ad accettare la propria diversità e a farsi riconoscere dagli altri nella propria unicità, portando, di conseguenza, un cambiamento anche nel contesto di appartenenza.
Della terza famiglia fanno parte quei libri che scelgono, invece, di parlare di disabilità in modo esplicito e che spesso, presentano come protagonisti bambini/e, ragazzi/e con una disabilità precisa in un contesto di vita reale.
La quarta famiglia, infine, è composta da libri che, in modo artistico e metaforico, permettono di riflettere più che sulla diversità esterna su quella interna, provando a farci mettere in contatto con le paure e i desideri, facce della nostra identità che vengono messe in gioco nell’incontro con l’altro, con il diverso, con il fuori dal consueto.

Punti di attenzione nella scelta di libri che raccontano la diversità e la disabilità
In questi anni in cui abbiamo pensato e proposto il libro come ponte fra le esperienze, abbiamo incontrato tanti insegnanti, educatrici ed educatori ma anche genitori e nonni.
Insieme abbiamo letto e guardato i libri, ragionando su cosa scegliere e come proporre ai più giovani, attraverso le storie, un’occasione di incontro con aspetti della vita con cui non è facile convivere, che spesso mettono in difficoltà gli adulti prima ancora che i bambini.
Da questi incontri sono emersi alcuni punti di attenzione, indicazioni che possono orientare la scelta e che qualificano il libro come un’opportunità di incontro non solo fra le persone e le storie diverse ma anche tra parti differenti di noi stessi.
Questi punti di attenzione ci indirizzano verso:
– un libro che non abbia un intento dichiaratamente educativo, che non voglia programmaticamente insegnare qualcosa;
– un libro bello e ben curato, espressione di una progettazione attenta dietro al prodotto;
– un libro avvincente e attrattivo, perché è dentro il legame del piacere e della curiosità che possono passare tanti altri significati;
– un libro in cui la disabilità e la differenza non siano presentate come unica chiave d’accesso per incontrare i protagonisti e addentrarsi nella storia. La disabilità, come altri aspetti esistenziali, è un dato forte e non eliminabile, che va accostato a tutte le altre caratteristiche che raccontano le persone e le situazioni;
– un libro che non cada nel meccanismo della compensazione della difficoltà o del limite per cui un protagonista con disabilità o in difficoltà viene raccontato anche con capacità superiori o caratteristiche etiche super positive.

Un libro, insomma, simile a un ponte che avvicina le dimensioni emotive più difficili come la paura, il disagio, l’imbarazzo sempre presenti quando si affronta la diversità e la disabilità.
Può capitare che gli adulti precludano l’accesso ai bambini, specialmente a quelli più piccoli, a determinati libri proprio per questi contenuti emotivi profondi che hanno a che fare con la tristezza, la rabbia, il senso di abbandono e di solitudine.
Sono emozioni importanti, difficili da maneggiare ma vitali, componenti essenziali dell’esistere. A noi è parso più volte che la censura posta all’accesso a questi libri derivi dall’ambivalenza di sensazioni che dalla pagina nascono e che toccano prima di tutto gli adulti, messi a contatto con parole e immagini che forano la cortina difensiva e che, per questo, provocano inquietudine e spaesamento, sentimenti che raramente abbiniamo alla lettura di una storia per bambini. Piuttosto che rinunciare preventivamente a proporre ai bambini questi libri, scelta che nasce in relazione a ciò che essi provocano in noi adulti, ci convince l’idea di percorrere insieme, adulti e bambini, lo spazio della lettura, spazio in cui possono trovare accoglienza e condivisione emozioni e pensieri anche e soprattutto quelli più duri e ingombranti.

L’articolo rielabora i contenuti delle relazioni presentate nel percorso formativo “Libri come ponti. Storie, libri, narrazioni per raccontare la diversità e la disabilità” rivolto ad educatrici e insegnanti, servizi educativi Cooperativa Labirinto e Comune di Fano, aprile-giugno 2014
Libri proposti nel percorso alle educatrici e insegnanti:
Eric Battut, Oh che uovo!, Bohem Press, Trieste, 2005
Mandana Sadat, Oltre l’albero, Artebambini, Bazzano (BO), 2004
Jçzef Wilkon, C’è cavallo e cavallo, Arka, Milano, 1997
Isabella Christina Felline, Animali di versi, uovonero, Crema (CR), 2011
Polly Dunbar, Perché non parli?, Mondadori, Milano, 2008
Suzy Lee, Mirror, Corraini, Mantova, 2003
Antonella Abbatiello, La cosa più importante, Fatatrac, Casalecchio di Reno (BO), 1998
Jeanne Willis, Tony Ross, Questa è Susanna, Mondadori, Milano, 2000
Virginia Fleming, Floyd Cooper, Sii amorevole con Eddie Lee, Giannino Stoppani, Bologna, 2001
Beatrice Alemagna, I cinque Malfatti, Topipittori, Milano, 2014
Isabelle Carrier, Il pentolino di Antonino, Kite, Piazzola sul Brenta (PD), 2011
Nicola Cinquetti, Il dono della farfalla, Lapis, Roma, 2001
Marco Berrettoni Carrara, Chiara Carrer, È non è, Kalandraka, Firenze, 2010§
Beatrice Alemagna, Nel paese delle pulcette, Phaidon, Milano, 2009

8.2. Leggere comodi libri scomodi
di Silvana Sola, Giannino Stoppani Cooperativa Culturale, presidente Ibby Italia

Dodici anni fa, in collaborazione con la Consulta delle Associazioni per il superamento dell’Handicap e il Comune di Bologna, come Cooperativa Culturale Giannino Stoppani, realizzammo una piccola pubblicazione, Dromedari e Cammelli, che indagava come l’editoria italiana per ragazzi si rapportasse al tema della disabilità, proponendo un percorso ragionato tra i libri e scegliendo 100 titoli che meglio raccontassero le differenze.
Avevamo da poco dato alle stampe la traduzione italiana dell’albo illustrato americano Sii amorevole con Eddie Lee di Virginia Fleming e Floyd Cooper, un picture book che raccontava la vita di un ragazzino Down.
“Sua madre le aveva raccomandato di essere amorevole con Eddie Lee, perché era sempre solo, perché nessuno voleva giocare con lui. Perché era diverso. Le aveva detto che era stato Dio a farlo così. Ma Christy pensava che, forse, in questo caso sua madre si sbagliava. Perché Dio non faceva errori…”.
Negli anni abbiamo continuato a cercare figure e storie che affrontassero temi scomodi attraverso parole calibrate, immagini ponderate, e nel rapporto stretto con Ibby Italia, la sezione italiana dell’associazione internazionale che si occupa della diffusione della lettura e del libro per bambini e ragazzi, abbiamo messo a disposizione i contenuti dei libri incontrati.
Nel 2009, a firma Ibby Italia, è uscito un volume di riflessioni, brani e pensieri intitolato La differenza non è una sottrazione, una pubblicazione che chiamò a raccolta studiosi, specialisti, illustratori, scrittori, librai, editori, insieme in una rete virtuosa che ha fatto dialogare il libro con forme diverse di disabilità.
Negli anni l’associazione Ibby Italia, e con lei le realtà che la sostengono e la fanno vivere attraverso il lavoro volontario, ha permesso, con i propri suggerimenti, una presenza italiana nella collezione Outstanding Books for Young People with Disabilities, selezione internazionale di libri sulla disabilità raccolti attraverso diverse sezioni Ibby sparse nel mondo. Collezione che biennalmente si arricchisce di nuove proposte. Tra i libri scelti quest’anno un titolo a me particolarmente caro, La maglia del nonno, pubblicato da Biancoenero, un libro che vede accanto un bambino e un nonno che perde, giorno dopo giorno, pezzi di memoria. Un libro che affronta, con una lingua delicata e presente, e con illustrazioni che tengono il filo della storia, il tema dell’Alzheimer. Mentre la collezione Outstanding Books for Young People with Disabilities da Toronto si sposterà nei vari paesi che ne faranno richiesta, il 2016 saluterà una sezione speciale del Bologna Ragazzi Award, promosso da Bologna Children’s Book Fair, dedicata ai libri che affrontano, con modalità diverse, il tema della disabilità. Una biblioteca ideale che vedrà gli editori, presenti in Fiera, inviare le loro migliori proposte che affrontano tematiche scomode.
I libri sono un ponte, sono straordinari strumenti di relazione capaci di portare ai bambini e ai ragazzi temi complessi, argomenti difficili, facendoli diventare occasioni di scambio. I libri, fuori dalla retorica, invitano bambini, ragazzi, adulti, a non chiudersi all’interno del perimetro del già visto, ma aprono alle molte forme di incontro che la vita può riservare, invitano a immaginare nuove soluzioni ai problemi dell’esistenza, a trovare altre occasioni di visione, perché, come ci suggerisce il grande artista Jimmy Liao, che il tema della disabilità e della fragilità dell’esistenza lo ha più volte messo in pagina, “se cercate bene, c’è sempre una via d’uscita”.
Penso per esempio a Un fratello da nascondere di Elizabeth Laird, centrato tutto sul rapporto fra fratello e sorella:“Grave ritardo mentale e fisico, diceva la lettera che la madre ricevette dall’ospedale. Non occorre essere un genio della medicina per capire che non significa nulla di buono. Ma questo non diminuì il mio affetto per Ben, anzi me lo fece amare ancora di più, mi fece desiderare di proteggerlo da quelli che non avrebbero capito, che magari avrebbero riso, o provato imbarazzo, o che l’avrebbero guardato con fastidio”.
Il romanzo della grande scrittrice neozelandese, purtroppo ora disponibile solo in biblioteca, esprime al meglio il perché se ne debba parlare: perché per affrontare ciò che apparentemente appare scomodo al cuore e alla ragione, i ragazzi, le famiglie, gli insegnanti non possono essere lasciati soli, perché la condivisione non ha effetti miracolosi, ma aiuta ad affrontare meglio il presente e a immaginare un futuro.
Un altro libro, da poco sugli scaffali nell’edizione italiana in catalogo per Gallucci, racconta con garbo e voluta leggerezza, la diversità come risorsa. Il titolo: I fantastici cinque, albo illustrato nato per le pubblicazioni della Tate. Un libro, firmato dal grande Quentin Blake, che dichiara che ognuno di noi ha doti speciali che può mettere a disposizione degli altri.
I libri aiutano ad accendere la mente, convivono con le tecnologie e, a volte, le superano per potenzialità intrinseche: Ibby Italia lo ha verificato nella risposta entusiasta raccolta negli Ibby Camp nati per sostenere l’apertura di una Biblioteca Ragazzi a Lampedusa e per creare occasioni quotidiane di incontro con il libro e la lettura sull’isola; ne ha avuto prova nelle esperienze con ragazzi, con adulti educatori, con bibliotecari, con magistrati, nella circolazione della Biblioteca della Legalità; lo ha visto nell’iniziativa corale Liberi di Leggere nata come risposta ai libri censurati da amministratori digiuni dei contenuti che la letteratura per ragazzi promuove, e disattenti ai principi della Costituzione.
Libri trovati, da leggere seduti comodi, altri da cercare: buoni libri per tutti, perché bellezza e qualità di contenuto sono ottime chiavi per affrontare la vita, nell’agio e nel disagio.

8.3. Formare una coscienza storica: le gocce di memori
Abbiamo chiesto a Morena Melchioni, del Laboratorio delle Meraviglie, Scuola Media di Marzabotto (BO), un’insegnante e un’amica con cui collaboriamo da tempo, di raccontarci il lavoro che svolgono rispetto al racconto e all’elaborazione della memoria, anche e soprattutto quando la memoria ha a che fare con la guerra o le stragi e agli strumenti che hanno deciso di utilizzare per fare ciò.

Ci racconti cos’è il Laboratorio delle meraviglie?
Da anni portiamo avanti un progetto che, partendo dal ricordo dell’Eccidio di Marzabotto, crea ponti di memoria e sprona alla cittadinanza attiva. Tutto è nato nel Laboratorio delle Meraviglie della Scuola Media di Marzabotto. Inizialmente pensato dagli educatori e dagli insegnanti di sostegno della scuola, per offrire ai ragazzi certificati, con disagio sociale o appena arrivati da paesi stranieri, uno spazio che rendesse possibile l’apprendimento indiretto, attraverso attività esplorative e creative, si è poi aperto a tutti valicando le pareti scolastiche. I nostri laboratori, infatti, nel tempo si sono ampliati proponendo attività di approfondimento su tematiche di educazione alla cittadinanza che coinvolgono la scuola intera: insegnanti, alunni, fino alle famiglie e alla amministrazione comunale, proseguendo quindi anche fuori dalla scuola. Anzi i progetti che stiamo portando avanti sulla Memoria e la Legalità si estendono perfino a livello nazionale e internazionale.

Puoi farci un esempio?
Il primo lavoro che abbiamo realizzato è Gocce di Memoria. Si tratta di una installazione che rappresenta le 770 vittime della strage nazifascista di Monte Sole.
I numeri sono parole e non sono visibili, così abbiamo pensato di creare tante gocce bianche, una goccia per ogni vittima. Ogni anno creiamo queste gocce in maniera differente (con la carta, l’argilla, la tela) accompagnando questo lavoro artistico a momenti di riflessione, studio, teatro e musica che conducono alla realizzazione di spettacoli. Le tematiche che affrontiamo riguardano il legame del presente con il passato, ci occupiamo di temi che vanno dall’antimafia alla Costituzione, dai diritti umani al femminicidio, dalle guerre al terrorismo.
I ragazzi formano la loro coscienza storica confrontandosi tra loro e creano con le loro mani la Memoria. Tutti gli anni partecipiamo alla Commemorazione della Strage alla Stazione di Bologna del 2 agosto 1980 portando il nostro contributo. Lì abbiamo portato le gocce in tutte le loro forme, realizzato uno spettacolo teatrale e donato al Comune di Bologna un’opera composta da 85 gocce di argilla.

È per questo che avete realizzato un libro in simboli sulla strage del 2 agosto?
Nel luglio del 2014 stavamo preparando il quaderno didattico in Widgit Symbols dedicato a Monte Sole. In quell’occasione abbiamo incontrato la storica Cinzia Venturoli, che lavora per il Centro di Documentazione sullo Stragismo, per pensare con lei alla maniera di partecipare quell’anno alla Commemorazione in stazione. Guardando il nostro libro in simboli è stato spontaneo pensare all’idea di realizzarne uno anche per il 2 agosto. Così, insieme a lei, abbiamo narrato la strage dell’Italicus e la strategia della tensione attraverso schede corredate da fotografie e da una traduzione del testo con simboli associati alle parole.
Questo lavoro è divenuto parte dei progetti sorti dalla collaborazione tra l’Assemblea legislativa della Regione Emilia Romagna e l’Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, progetti che si prefiggono di conservare e trasmettere, in particolare ai giovani, la memoria e la conoscenza della strage del 1980 e delle vicende legate a quella drammatica stagione della storia italiana. Uno degli obiettivi di questi progetti è anche quello di individuare, anche sul piano metodologico, nuovi percorsi di elaborazione della memoria storica, a partire dall’acquisizione della conoscenza degli avvenimenti, che, raccontati attraverso un codice più accessibile quale è il linguaggio in simboli, diventano fruibili anche per i ragazzi con bisogni educativi speciali e per coloro che, per motivi diversi, sono lettori deboli.
Da questa prima esperienza è nata una collaborazione costante tra la scuola e l’Assemblea Legislativa della Regione Emilia Romagna, che ha continuato a supportare il nostro progetto provvedendo alla stampa degli altri libri che abbiamo realizzato in simboli: La strage di Monte Sole, Nella Notte e nella Nebbia (dedicato all’olocausto), La Costituzione italiana – Principi fondamentali

8.4. Non guardare, non sta bene
di Sandra Negri, coordinatrice Progetto Calamaio, Cooperativa Accaparlante

All’interno del laboratorio di idee che era il Centro Documentazione Handicap una ventina di anni fa, poco più che all’inizio della sua storia, “Non guardare, non sta bene!” fu una frase che stimolò fin da subito una certa curiosità e interesse. È una frase che Claudio Imprudente sentì rivolgere al proprio figlio da una madre preoccupata di… di cosa? Me lo sono chiesto allora e continuo a chiedermelo anche ora. Quale era la preoccupazione di quella madre? E nei confronti di chi?
Riesco a individuare tre possibilità.
La preoccupazione per Claudio, una persona con una grave disabilità motoria che se ne andava in giro sotto i portici di Bologna sulla sua carrozzina, spinto dal suo accompagnatore, un amico/a, un/a collega, una fidanzata, un operatore.
La preoccupazione verso il bambino, che mano nella mano passeggiava per la città con la mamma, probabilmente per un pomeriggio di relax e divertimento.
O la preoccupazione per se stessa, per le risposte che avrebbe dovuto dare alle curiosità del bambino?
Lo riesco a vedere, Claudio, a passeggio per la città. La testa appoggiata al poggiatesta un po’ inclinata sulla spalla, la bocca aperta, la lingua un po’ fuori dalla bocca e un filo di saliva che scende sul bavaglino. Il corpo magro seduto sulla carrozzina, un braccio piegato sotto il sedere e l’altro legato con un cinturino al bracciolo della carrozzina, i piedi appoggiati, che qualche volta cadono dando la sensazione che siano in pericolo e stimolano nei più coraggiosi il bisogno di segnalare a chi spinge la carrozzina che i piedi sono caduti e di evitare così a Claudio un gran dolore.
È sicuramente un’immagine che desta curiosità. Un’immagine verso cui non si ha sempre familiarità, in modo particolare non la si aveva alla fine degli anni ’80. Un’immagine che richiama quindi la nostra attenzione, il nostro sguardo, delle domande, il pudore di non essere scoperti in questo attimo di spontaneità e invadenza verso l’altro, un altro diverso da noi.
Questa diversità che spesso ci inquieta, ci mette in difficoltà e ci obbliga a sconvolgere i nostri punti di riferimento si porta dietro storie, identità, esperienze e tentativi per superare le distanze. Questo è interessante. Non la diversità in sé, quanto ciò che altre vite e altre identità affrontano nel proprio percorso. E a incuriosirci di più è proprio ciò che è lontano dal nostro familiare e consueto. Ma per avvicinarci a questo dobbiamo passare attraverso il contatto con dimensioni delicate che mostrano anche la fatica, il dolore, la rabbia per una condizione che porta in sé difficoltà.
Rispondere alle domande dei bambini sulla disabilità può essere difficile perché comporta una conoscenza e un avvicinamento da parte degli adulti a una realtà che ci mette a disagio, che ci spaventa perché ci richiama l’immagine della fragilità, della debolezza e del dolore. Per prima cosa dobbiamo permettere a noi stessi di farci delle domande e di darci delle risposte anche scomode. Se è difficile per noi avvicinarci al dolore e alla paura della diversità, è ben arduo lasciare avvicinare i bambini alla conoscenza di tale realtà, perché vogliamo proteggerli dalle esperienze difficili.
Tutto questo rappresenta per l’adulto una duplice prova: contattare le proprie emozioni difficili e poi condividerle con il bambino, aprendosi così alla fragilità, propria e dell’altro.
Da trent’anni gli educatori e animatori del Progetto Calamaio, disabili e non, parlano di disabilità nelle scuole. Lo fanno con una importante valigia degli attrezzi ricca di strumenti che mediano e facilitano questa delicata operazione. Il primo di tutti è la lunga esperienza di confidenza con la disabilità e con le emozioni che essa suscita. Partiamo sempre dal presupposto che la relazione con la diversità sia complessa nel primo impatto, proprio perché è un’esperienza di novità che ci porta incognite dell’altro e anche nostre. Abbiamo quindi bisogno di entrare in questa area di novità con rispetto, tempo e tanto allenamento.
L’incontro con la diversità non suscita solo timori, ma anche curiosità. Nei bambini in particolare, che non hanno bisogno di essere politicamente corretti, e che davanti a un corpo che si muove in modo strano o un ausilio che sembra un gioco magico, non trattengono sguardi stupiti e indiscreto interesse. Cosa succede se invece di rispondere alle loro domande con “Non guardare, non sta bene” li sollecitiamo a esprimere il loro desiderio di sapere? L’incontro diretto e la conoscenza delle persone con disabilità che si raccontano in prima persona fa sì che ciò che non si poteva nominare acquisisca un nome e una identità; ciò che era distante e indefinito si trasformi in qualcosa di familiare e conosciuto.
Avviene anche qualcos’altro. Tanto che alla fine dell’incontro, è passato in secondo piano non solo il disagio iniziale, ma anche la nostra disabilità. Perché con quella disabilità ci abbiamo giocato tutto il tempo e l’abbiamo fatta diventare un’occasione per entrare nella relazione con noi e non la causa di una distanza. Abbiamo giocato con la difficoltà di linguaggio di Stefania che mette il suo deficit a disposizione della classe e lo trasforma in una sfida. “Vi dividete in due squadre” dice lei. Sulle facce dei bambini c’è stampato un bel punto interrogativo. Non hanno capito nulla di quello che hanno sentito. E ci crediamo! Un altro animatore corre in soccorso dei ragazzi e chiede loro se hanno capito. Qualche temerario risponde di no. L’animatore allora li invita a chiedere a Stefania di ripetere. E lei ripete fino a che qualcuno non si butta e tenta una traduzione. Bene! Si inizia a giocare!
C’è la squadra del BIP e c’è la squadra del BOP. Ogni giocatore non lo sa ma ha nella propria tasca sinistra un pulsante magico che, se premuto, emette il suono che occorre per prenotarsi. Prova pulsanti:
BIIIIIIIIIIIIIIIIIP
BOOOOOOOOOOP
Tutto funziona! La tecnologia, aiutata dalla fantasia ci aiuta. Stefania comincia a pronunciare qualche semplice parola e chi comprende ciò che lei dice si prenota con il pulsante magico e tenta una risposta. Si tiene il conto dei punti e la gara si fa sempre più agguerrita. Dalle semplici parole, Stefania passa alle frasi. Il divertimento del gioco e la passione della sfida non fanno accorgere i ragazzi dell’aumento della difficoltà. Ma cosa più importante: hanno fatto dimenticare a tutti che Stefania ha un deficit che in un qualsiasi altro contesto rappresenterebbe un grande ostacolo alla comunicazione. Qui, ora, è diventato invece uno strumento di vicinanza e di divertimento. E brava Stefy! Ancora una volta il trucchetto ha funzionato!
L’incontro con l’altro nel Progetto Calamaio avviene così: entrando in relazione con aspetti che, in altre situazioni, possono essere punti di debolezza, facendoli diventare per noi punti di forza. Si tratta dei nostri deficit, che diventano occasione di gioco e di sfida.

7. L’esperienza degli autori

Diceva Calvino che “l’arte di scriver storie sta nel saper tirar fuori da quel nulla che si è capito della vita tutto il resto; ma finita la pagina si riprende la vita e ci s’accorge che quel che si sapeva è proprio un nulla”.
Ecco, quindi, che lo scrittore non è colui che può insegnare qualcosa ma semplicemente qualcuno che, più consapevolmente, riconosce di non conoscere e, scrivendo, tenta di porvi rimedio.
Ad alcuni autori, scrittori e illustratori, abbiamo chiesto di raccontare il loro rapporto con la narrazione e la rappresentazione. Il come, appunto, si può raccontare ai bambini e ai ragazzi la realtà che ci circonda

7.1. Le parole giuste
di Arianna Papini, scrittrice, artista, docente, arteterapeuta

I miei tre principali mestieri sono accolti dai libri che scrivo e illustro. Lì le storie che incontro come terapeuta, le immagini che nascono tra le mie mani di artista e le parole non dette ma indelebili nella mia mente di scrittrice entrano in contatto tra loro e creano, al di là di quello che posso decidere razionalmente. Perché i temi ci chiamano. La vita ci pone di fronte a essi quando meno ce l’aspettiamo.
Spesso tali temi, cosiddetti difficili, portano le persone di tutte le età a varcare la soglia del mio studio di arteterapia, a chiedere aiuto, quasi fossi un’isola in mezzo al mare in tempesta. Così mi sento per i miei pazienti e così, a mio parere, devono essere anche i libri. Lì dobbiamo poter incontrare le nostre storie e trovare definizione di eventi indicibili che ci annientano, tanta è la loro forza ardente, ci portano via, distolgono la nostra creatività dalla strada immensa del fare per proiettarci, a volte, verso quella del distruggere.
L’arteterapia ci dona strumenti per costruire sempre, usare le mani, il corpo, i sensi in modo creativo così da andare oltre e rinominare l’accaduto. Spesso quando conduco grandi gruppi inizio leggendo un buon libro per bambini, quindi un libro senza età, in cui gli adulti possano ritrovarsi e incontrare gli altri, rendere poetico ciò che proprio non lo è, tradurre eventi in immagini, esattamente come accade con la terapia non verbale nel momento in cui lavoriamo con i materiali artistici.
La stanza, quando vi si condivide un buon libro, diventa densa. Le parole e le immagini di alta qualità artistica e letteraria creano percorsi bellissimi e dunque accettabili, poiché la bellezza è linguaggio universale e inter-età. Gli sguardi commossi, le guance arrossate di chi ascolta e pende dalle tue labbra creano ponti affettivi indelebili, preziosissimi. Condividere la lettura è un’opportunità grande, colma di senso.
Ciò che giunge continuamente ad adulti e bambini è una serie di informazioni poco affettuose, che vanno dritto al motivo per cui sono erogate, pensiamo alla pubblicità ad esempio. È utilizzato fortemente l’accento didascalico, tu devi fare questo perché è bene per te e avrai così in cambio qualcosa. Tale messaggio è terribile. Abitua al pensiero che le cose vadano fatte e comprate con l’aspettativa di un ritorno visibile, concreto. La vita per fortuna non è così. Ciò che abbiamo di più prezioso non ci siamo accorti di quando ci è stato dato, sono doni in natura, percorsi comuni, condivisioni di senso, di spazio e di tempo. Comprendiamo quanto preziosi siano solamente quando ci vengono a mancare e il nostro dovere, come terapeuti, è quello di essere grandi lenti d’ingrandimento per i pazienti, così che possano concretamente osservare quanto siano ricchi.
La dimostrazione di quanto il falso segnale di scambio oggetto-felicità sia deleterio è l’osservazione dell’infelicità costante in cui vivono persone che lo perseguono, che spesse volte finiscono in un turbine di compulsività legato all’alimentazione, al gioco o all’acquisto di oggetti inutili. E ancora, quanto ci si senta ricchi appena usciti da un’esperienza di volontariato, quando non siamo pagati per niente, ci dice molto sulla falsità del suddetto precetto.
In controtendenza il libro, quando è bello, non è mai didascalico. Invita a un percorso che per forza è lento, altrimenti non potrebbe essere letto o ascoltato. L’invito è opzionale e di ampia interpretazione. Il nostro linguaggio è così sfaccettato… Molte parole hanno più di un significato e nella poesia questo è accentuato incredibilmente, per non parlare delle immagini. Ciò che l’autore desidera comunicare è elevato all’ennesima potenza e prende strade diversificate e misteriose, andando a sondare ciò di cui l’autore stesso non ha tenuto conto. Accade quindi che leggendo ad alta voce un proprio scritto e osservando chi ascolta si aprano nuove strade interpretative allo scrittore stesso che trova, attraverso la condivisione del libro, significati nuovi e allo stesso tempo antichissimi, profondamente radicati nella propria storia.
Spesso sento dire che un libro contiene un messaggio troppo difficile o duro per i bambini. È un tema importante questo, che riguarda la fiducia che noi, operatori della crescita, abbiamo nei piccoli di cui ci occupiamo. Io ho estrema fiducia nelle persone, quando poi sono ancora piccole hanno sempre una capacità immensa di comprendere ciò che accade. Assisto alla loro frustrazione, poiché i temi che hanno ben presenti non sono svolti dagli adulti come da loro richiesto. La nascita, la morte, la guerra, il dolore giungono ai bambini in modo diretto e spesse volte cruento, ma è difficile che gli adulti si impegnino nel trovare le parole giuste, poiché sono ossessionati dal dover dimostrare di saper spiegare.
Sappiamo bene che dove la scienza non arriva nascono l’arte, la musica, il sogno, la spiritualità. Dunque non sapere rappresenta una grande opportunità creativa. Ma l’adulto perde coscienza di questo, poiché l’essere umano nasce attento ma cresce distratto.
È inutile voler spiegare l’inspiegabile o cercare di essere forti nel sostenere il dolore dei bambini, che evidentemente è insopportabile anche per chi lo accoglie per mestiere, oppure cercare di distrarli da un pensiero perché non sappiamo affrontare il loro tema, troppo doloroso per noi. Quando un bambino, fissandoci negli occhi, ci chiede dove sia il suo zio ora che è morto o da dove sia nata la sua sorella o ancora perché il suo gatto si sia ammalato anche se è tanto buono, credo che si debba abbandonare l’idea di spiegare e che l’unica via sia quella di condividere le sane, difficili curiosità tornando bambini, dando nome e colore alla via comune del racconto, che appartiene alla vita e come tale è sempre molto prezioso

7.2. Pesi massimi e segni leggeri
di Federico Appel, illustratore

Come illustratore, con il mio tratto che prova il più delle volte a essere leggero e surreale e ironico, affrontare i cosiddetti temi difficili non è semplice. Anzi, posso dire che in ogni lavoro che mi è stato commissionato, ho sempre provato a svicolare dalla rappresentazione diretta del dramma. Nel romanzo Muschio di David Cirici, che è stato da poco pubblicato da Il Castoro, e che racconta la storia di un cane alle prese con la guerra, ho provato in ogni illustrazione a deviare l’attenzione dal dramma verso particolari secondari e ho preferito rappresentare, anziché l’azione principale e più spettacolare, momenti marginali ma che potevano fornire una chiave inedita per leggere la storia.
Ma è anche vero che quest’operazione non sempre è possibile. In Pesi Massimi, ad esempio, che ho scritto e illustrato, è successo che il tema difficile sia comparso anche quando ho provato a eluderlo. Anzi: quando mi sono prefisso di raccontare storie di sport e razzismo, mi ero prefisso anche di non cedere a una fantomatica retorica e di provare a mantenere inalterata la mia voglia di ironia. Così, anche quando ho raccontato momenti drammatici di esclusione o di segregazione, ho sempre provato, nelle illustrazioni di quel libro a fumetti, a inserire nelle immagini elementi incongrui, per strappare un sorriso ma anche e soprattutto per punzecchiare l’intelligenza. Così è uscito fuori un Mickey Mouse tra i prigionieri dello stadio di Santiago del Cile, oppure un pavone posato sulle spalle di Arthur Ashe che annuncia al mondo di essere sieropositivo. Avevo cioè paura dei momenti difficili e paura che il mio disegno poco accademico e molto selvaggio non avesse spalle abbastanza larghe per sorreggere la complessità. Invece poi, a lavoro finito, ho visto che il tema difficile e complesso e ricco di sentimento usciva fuori comunque, a prescindere dal mio disegno. Anzi, ho notato, o scoperto, che i sotterfugi ironici che ho usato in taluni casi, nella loro bizzarria, sono riusciti ad amplificare la potenza espressiva del tema. Ed ecco che sono usciti fuori momenti commoventi (la morte di Luz Long ad esempio), efficaci, nonostante la mia riottosità ad affrontare il sentimento. A riprova, se vogliamo, che una storia bella, se raccontata senza troppi artifici, ha bisogno solo di un onesto raccontatore che la rilanci, per portare fuori tutto quello che contiene.
Allo stesso modo, nel recente La leggenda di Zumbi l’immortale, scritto da Fabio Stassi e da me fumettato, mi sono trovato ad affrontare una storia piena di uccisioni, ingiustizie cosmiche e apparentemente senza soluzione, sofferenza. Stavolta, un po’ più sicuro forse delle mie possibilità espressive, ho cercato un tratto più drammatico, forse un po’ più adulto, ma sono anche riuscito (in maniera per me soddisfacente) a integrare il dramma con un po’ di ironia razionale, così che la storia di Zumbi, primo schiavo ribelle e supereroe ante litteram, acquistasse forza e leggerezza, avesse sentimento ma anche divertimento e anzi ognuno di questi elementi fosse complementare alla forza dell’altro. Provare, cioè, a opporre alla realtà, difficile e dura, un ottimismo della volontà, ironico e leggero. Un po’ come accade ad esempio in Miracolo a Le Havre, splendido film di Aki Kaurismaki che parla di emigrazione e sofferenza con la leggerezza di una favola e con un’ironia veramente irresistibile.

7.3. Offrire ai bambini la varietà delle differenze
di Grazia Verasani, scrittrice

Io penso che i bambini siano dei detective naturali.
Penso cioè che sappiano molte cose ancora prima che gliele si spieghi.
È un istinto. Il terreno vergine di una sensibilità che assorbe in grande quantità e che sa andare al nocciolo, stupendoci spesso, anche per quell’essenzialità che nei bambini è un talento innato.
Il bambino chiede. E l’imbarazzo, a volte, è solo nostro. Ci arrabattiamo a cercare risposte che non siano complesse e che non li confondano o danneggino. Ma io credo che i bambini, sotto sotto, ridano di noi e dei nostri teatrini. A questo proposito, mi viene in mente un episodio della mia infanzia.
Avevo dieci anni e mi svegliai in piena notte sentendo il trillo del telefono in corridoio, la voce di mia madre che rispondeva e poi scoppiava a piangere.
Il giorno dopo, mio padre non sapeva come dirmi che il nonno era morto quella notte. Mi fece sedere con aria solenne, mi prese le mani ed ebbe inizio il rituale. Avrei potuto fermarlo, dirgli: “Guarda che lo so già che il nonno è morto”. Invece mi misi a piangere perché quella era la reazione che ci si aspettava da me. Questo per dire che i bambini incamerano le nostre ipocrisie, le fiutano a distanza, sono imitativi, fiduciosi, ma non sono stupidi. Il bello è che, pur metabolizzando in fretta le regole, le infrangono con il gioco, strumento per eccellenza di sdrammatizzazione, di irriverenza, e di amor proprio difensivo. Evitare argomenti come la morte o il dolore è, a mio parere, l’illusione di offrire loro un riparo impossibile. Aggiungo che, anche se forse è una banalità, i bambini che crescono con qualche animale hanno molte più chance di accettare la morte come un evento naturale. Se la trovano di fronte come un fatto doloroso ma incontrovertibile, e in un certo senso democratico. E anche lì, il funerale di un gatto o di un cane, svolge un ruolo di rappresentazione onoraria, di rispetto della vita, e quindi della morte, sempre a patto che non ne venga sminuita o ridicolizzata l’importanza.
Sono le parole che si usano, a contare. L’attenzione e la cura delle parole. La difficoltà maggiore credo sia questa.
Trovare un modo intelligente, delicato, o anche surreale e divertente, per aprire tutte le finestre a disposizione, morte e dolore compresi, senza tabù o infingimenti. Dando alla commozione un valore liberatorio, e non trattandola come un segno di debolezza. Dimostrando cioè che la fragilità non è un difetto, anzi, è la nostra vera forza. Perché possiamo condividerla, e quindi consolarcene. Perché siamo tutti umani e fallibili, e la vita è più ampia di una gara a chi perde e chi vince, e non c’è manicheismo che tenga. Credo sia importante parlare della sconfitta in termini leggeri, per evitare anche quell’ansia da prestazione che vedo in tanti adolescenti e di cui ho parlato nel mio ultimo libro (Senza ragione apparente, Feltrinelli, 2015)
Ma io non sono un educatore. Sono solo una che, se avesse avuto dei figli, gli avrebbe fatto leggere Rodari. O libri come La nonna addormentata di Roberto Parmeggiani che ho trovato bellissimo. E avrei lasciato che la fantasia la facesse da padrona. Perché stimolarla è il più grande regalo che si possa fare a un bambino. Io in questo senso sono stata davvero fortunata, ho avuto Antonio Faeti come maestro elementare: ci faceva disegnare in classe fumetti e a me regalò un quaderno da usare come diario (il primo di una lunga serie).
In sintesi, penso che occorra offrire ai bambini la varietà delle differenze (la realtà è un incontro di opposti), delle scelte possibili che poi saranno solo loro. Ma mostrargliele tutte. Senza tabù, dogmi, rigidezze, pregiudizi. Del resto, ci si libera della paura solo sapendo che esiste, e non rimuovendola. E presentando ai bambini i modelli migliori, cioè adulti che ogni tanto si tolgono le maschere.

7.4. Zio, perché scrivi?
di Roberto Parmeggiani, scrittore

Durante un pranzo domenicale in famiglia, mia nipote Chiara, quattordicenne, all’improvviso mi chiede, un po’ stupita, un po’ inorridita: ma zio, perché scrivi? Cioè perché ti piace tanto scrivere?
In quel momento, colto alla sprovvista, ho fatto fatica a rispondere, ho balbettato qualcosa poi ho cambiato discorso. Quella domanda, però, come spesso capita con le cose importanti, mi è rimasta attaccata, anzi si è messa in contatto con il bambino che ero e che, a scuola, non riusciva a scrivere più di una riga per mancanza di idee e che forse, così come mia nipote, si meritava una risposta.
Quella risposta, oggi, mi sembra possa servire anche a tentare di rispondere alle domande che ci siamo poste in questa monografia. Come scrittore, infatti, ritengo che prima del chiedersi come sia possibile raccontare temi definiti difficili ai bambini si debba aver chiaro il motivo che ci spinge a scrivere, a usare cioè le parole come principale mezzo di relazione. Sono convinto, ancora, che sia proprio nella motivazione del perché che possiamo trovare anche la risposta del come.
Ecco, allora, la risposta che ho condiviso con mia nipote.

Cara Chiara,
ho avuto bisogno di un po’ di tempo per chiarirmi le idee ma adesso posso rispondere alla tua domanda. Posso finalmente dirti perché ho deciso di dedicare tanto tempo alle parole e di fare della scrittura il mio lavoro.
Dei tanti motivi a cui ho pensato, ne ho scelti tre. Non so se sono i più importanti o i più significativi, di certo sono quelli che in questo momento mi contraddistinguono maggiormente.

Primo, scrivo per costruire luoghi
Scrivo per costruire luoghi dove i lettori possano smarrirsi, dove non abbiano paura di perdersi e, anzi, dove desiderino farlo. Perdersi per incontrarsi di nuovo, per scoprire qualcosa di loro che ancora non conoscono e che riesca a svelare ai loro occhi un aspetto che prima era incosciente, sommerso, qualcosa che causava vergogna, per esempio, perché percepita come diversa dal normale e che fino a quel momento, magari, avevano rifiutato. Un luogo dove le persone, e io per primo, possano passeggiare, sedersi, mangiare, incontrarsi, condividere; dove sia possibile identificarsi e trovare un legame tra quello che il lettore vive, la sua esperienza personale, e la storia raccontata nel libro. Un luogo, cioè, dove non essere soli ma, al contrario, sentirsi compresi e non estranei a questo mondo.
Chiara, quando penso a un luogo penso a un paese come quello delle meraviglie di Alice, a una fabbrica come quella di cioccolato di Willy Wonka, o una città come quelle invisibili di Calvino. Ma anche a un giardino segreto come quello dove sono cresciuti Mary e Colin, alla strada di mattoni gialli del Mago di Oz, a un bosco come quello dove vivevano i Fratelli Grimm o, infine, al fondo del mare, come quello della Sirenetta o del Capitano Nemo.
Come dice lo scrittore turco Omar Pamuk: “Scrivere è riconoscere le proprie ferite segrete e condividerle”, trasformarle, cioè, in uno specchio nel quale gli altri possano riflettersi scoprendo che non sono gli unici a sentire e vivere certe cose.
Anche tu avrai un luogo dove ti rifugi quando ti senti triste oppure dove ti piace andare quando sei felice. Io spero di riuscire a offrire ai miei lettori spazi dove stare bene, dove qualcuno come te possa trovare se stessa.

Secondo: scrivo perché scrivere significa amare
Scrivo perché scrivere è narrare e narrare è un modo di amare.
Forse ti stai chiedendo in che senso. Amare, soprattutto per un’adolescente come te, è qualcosa di apparentemente molto diverso dalla scrittura: è sudore, sguardi imbarazzati, il cuore che batte senza fermarsi, lo stomaco chiuso, ore senza fine in attesa di un nuovo gesto.
Beh, ti dirò che tutto questo ha molto a che fare con la scrittura e con l’amore del narratore.
Narrare, infatti, significa lasciare una traccia nel lettore, nella società e nella storia. Significa sudare con i propri personaggi, lanciare sguardi imbarazzati, avere un cuore che batte senza fermarsi, andare a dormire con lo stomaco chiuso, aspettare ore senza fine un nuovo gesto che cambi la giornata. Io scrivo perché esprimo, attraverso la narrazione, il mio amore per l’altro, per la società in cui vivo e per la storia. Scrivo perché narrare significa disegnare la mappa dell’anima degli esseri umani, una mappa che porta sempre all’incontro con l’umanità che tutti ci unisce.
La mia storia personale si incontra con quella del lettore, in un dialogo amoroso.
Quante volte, leggendo un libro, mi sono incontrato in mezzo a quelle parole! Come poteva saperlo lo scrittore? Come poteva aver inserito nel testo qualcosa che era successo prima nella mia vita? In molti hanno parlato di me: Pirandello, Hesse, Dostoevskij, Austen, Grossman… e molti altri continueranno a farlo. Parleranno di me, di te e dell’umanità intera, in una continua narrazione amorosa.
Certo, non è sempre facile amare come non lo è scrivere. Ci sono momenti nei quali vorrei desistere, chiudere la finestra e non lasciare più entrare nessuno: persone, storie, desideri, parole. Ma sono solo momenti passeggeri e ti assicuro che se trasformerai ogni azione della tua vita in una declinazione del verbo amare, non ti sentirai mai perduta. Soffrirai, ti arrabbierai, sarai triste… ma mai perduta.

Terzo, scrivo per prestare le parole
Quando scrivo non mi pongo l’obiettivo di dare risposte, non ho scoperto nessuna verità e non ho nemmeno formule magiche per risolvere problemi più o meno gravi.
Più semplicemente scrivo per prestare le parole.
Attraverso le mie storie spero che i lettori possano trovare le parole per dire quello che sentono, per nominare, raccontare, definire le emozioni, le sensazioni, l’indefinibile che spesso sperimentiamo.
Non so se ti è mai successo. Leggi una citazione, ascolti certi versi di una canzone e ti dici che nessuno ti capisce come quell’autore, capace di dar voce a quello che stai sentendo meglio di chiunque altro, anche di te stessa. Ecco, quando ho scritto della morte e della malattia oppure del valore della diversità e del piacere delle relazioni, l’ho fatto con questo intento: raccontare una storia che permettesse al lettore bambino di mettere da parte le parole per poter nominare le emozioni, nel momento in cui ne avrà bisogno.
Parole come le briciole di Pollicino, come lo Specchio delle Brame trovato da Harry Potter, come il Supercalifragilistichespiralidoso di Mary Poppins o come la polverina magica di Trilly. Parole, cioè, capaci di non farci perdere la strada di casa e ritrovar noi stessi, di mostrarci i ricordi e di farci immaginare il futuro, di modificare il contesto che ci circonda e di renderci leggeri e capaci di guardare le situazioni da un altro punto di vista.
Vedi, Chiara, le parole sono di tutti, quello che può fare uno scrittore è metterle insieme, dar loro una forma e prestarle sapendo che, prima o poi, gli torneranno indietro.
Per questo, ti auguro di essere generosa: sia con le parole che con i gesti. Perché le uniche cose che possediamo davvero sono quello che abbiamo condiviso con gli altri.
Spero di essere riuscito a rispondere alla tua domanda.
Di certo il bambino che ero ti ringrazia perché almeno lui, adesso, ha le idee un po’ più chiare.

6. Le case editrici

Il ruolo degli editori è fondamentale perché spetta loro il compito e la responsabilità di scegliere ciò che possiamo trovare in libreria o in biblioteca e che, quindi, come lettori possiamo raggiungere.
Un ruolo importante, questo, perché incide fortemente nella definizione del processo e nella formazione culturale di un popolo.
Ma quali sono le riflessioni che portano una casa editrice a scegliere di pubblicare un libro piuttosto che un altro?
Quali i ragionamenti che stanno alla base della costruzione di un catalogo che non è solo un insieme di titoli ma il vero e proprio progetto editoriale?
Abbiamo chiesto a tre editrici (non volutamente ma significativamente sono tutte donne) di raccontarci il loro punto di vista e la loro esperienza.

6.1. Il diritto di gustare il sapore della verità
di Lola Barcelò, direttrice editoriale di Kalandraka Italia

L’editore ha anche una responsabilità sociale e non può parlare soltanto di mercato perché altrimenti dovrebbe fare certamente altro nella vita. Kalandraka non è un grande gruppo editoriale, siamo una piccola casa editrice di progetto. Parlare di argomenti quali la morte e la malattia non è una cosa banale e, soprattutto, prima o poi tutti ci troviamo ad affrontarli.
Il libro La nonna addormentata scritto da Roberto Parmeggiani e illustrato dal portoghese João Vaz de Carvalho, pur non essendo di realizzazione propria, pianificato e programmato dalla Kalandraka, ma un acquisto di diritti dalla casa editrice brasiliana DSOP, rientra in modo indiscusso nello stile della collana Libri per Sognare che è la nostra collana per i pre-lettori fino ai bambini di nove anni, che iniziano già con la lettura autonoma.
La nonna addormentata propone una lettura piacevole, stimolante, destinata ad arricchire le vite dei lettori, una lettura per adulti mediatori e per bambini dagli 8 anni in su. Mi interessa sottolineare che è anche una lettura per adulti che devono lavorare sul lutto, il libro infatti è già stato usato in questo senso. Sono fermamente convinta che un libro possa cambiare la persona che legge e quella che ascolta, sono fermamente convinta che la lettura possa cambiare la nostra vita. Perché penso che la letteratura sia un dialogo. La nonna addormentata, narrato in prima persona, crea in un modo naturale, organico, un dialogo con il lettore che non si può sentire fuori da questa lettura che è coinvolgente e ti trascina. È l’autore che, col filo e l’ago del ricordo, cuce il tessuto di un tempo che fu, ma che echeggia nel cuore dei lettori. Piccoli lettori con grandi orecchie che si godono ancora il tempo delle primizie e che hanno diritto a gustare il sapore della verità sulla loro stessa lunghezza d’onda, quella dell’immaginazione, un territorio che va protetto e difeso dalla banale prosaicità sempre all’agguato. Gli adulti spesso schiacciano questi sogni.
Le parole dei bambini sono vive e, come dice Massimo Recalcati nella prefazione al libro di Angela Maria Borello Maestra, ma che ne sarà di me?, “la lingua per loro non è solo uno strumento che devono imparare a usare, ma un incontro generativo che apre a mondi sconosciuti prima”. Il bambino sta inventando il linguaggio: capita spesso che non ricordi o non abbia ancora imparato una parola per nominare un oggetto e l’inventi in base all’uso oppure ne faccia una descrizione in dettaglio usando il repertorio che ha a disposizione ma anche l’immaginazione. Attraverso la sua scrittura Roberto partecipa a questo incontro, offrendo ai bambini – con un linguaggio poetico – la verità della vecchiaia, della malattia, della morte con estrema dolcezza, con estrema precisione. La poesia è molto precisa, più precise della poesia ci sono soltanto la musica e la matematica. È eloquente. Mentre noi, tante volte, vogliamo essere eloquenti e l’unica cosa che siamo è spalatori di nuvole. Roberto sembra consapevole che “le parole dei bambini aprono e ci aprono al mistero del mondo”, come dice Recalcati.
Visto che con le parole costruiamo il mondo, gli altri e il ricordo, usarle dovrebbe essere prezioso, invece tante volte i libri per i bambini si tengono lontani dagli argomenti che interessano ai più piccoli. L’editore è il responsabile della cornice del libro, della forma esterna del libro. La cornice è anche la scelta dei libri che l’editore decide di includere nel catalogo perché possano parlare tra di loro. Questo è l’essenza di un catalogo. Nell’immediato, la scelta dell’albo La nonna addormentata si è rivelata giusta. Quasi sempre l’inutilità del titolo (perché noi editori sbagliamo e in un catalogo possiamo sbagliare spesso) viene scoperta mettendolo nelle mani dei bambini. Tante volte noi, prima di pubblicare un libro, lo leggiamo ai bambini per vedere se funziona o no. Il libro di Roberto è una porta che consente ai bambini (e non solo) di parlare delle loro paure, degli incubi che fanno la notte quando sono in ansia, insomma delle loro emozioni. Attraverso il raccontarsi, Roberto riesce a rendere affidabile un pezzo della realtà che nel mondo adulto causa spesso imbarazzo e anche ribrezzo.
Noi grandi abbiamo già fatto l’esperienza del tradimento, continuiamo a farla e non sempre la interpretiamo come un evento illuminante anche se triste, perché il tradimento può essere tremendamente creativo. Anzi, tradiamo noi stessi, cercando di superare la delusione con la bugia, il cinismo e la vendetta. Il bambino dovrà fare l’inevitabile esperienza del tradimento: il tradimento primordiale della vita che finisce nella morte è democratico, ecologico, nessuno può sfuggirgli, è una verità dolorosa che va spiegata senza imbarazzo né ribrezzo, con sensibilità, fantasia e naturalità, va capita e aiuta a crescere. Il bambino ha diritto a sapere la verità nel rispetto della sua poetica.
Con il motto “Libri per Sognare” Kalandraka ha fatto il suo debutto nel mondo dell’editoria il due aprile 1998 – Giornata Internazionale del Libro Infantile e Giovanile, con l’obiettivo di pubblicare opere in galiziano, caratterizzate da un’accurata ricerca estetica e letteraria, per contribuire alla normalizzazione linguistica in Galizia.
Ha poi aperto il suo catalogo ad altre lingue, divenendo un progetto multilingue che pubblica in castigliano, catalano, basco, italiano e inglese. Attualmente conta su marchi propri in Portogallo, Italia e Messico.
Albi illustrati originali, adattamenti di racconti tradizionali, recupero di classici della letteratura infantile e giovanile di tutti i tempi, libri per pre-lettori, per bambine e bambini con necessità speciali, racconti, libri con cd musicali, poesia e arte sono le principali linee di lavoro che contribuiscono a un catalogo vivo e diversificato. Con il marchio Faktoria k de libros, la proposta si estende alla letteratura per il lettore adulto, la divulgazione scientifica e le pubblicazioni particolari.
Dall’incontro di Kalandraka con la multiculturalità, con l’educazione all’uguaglianza, al rispetto e alla tolleranza, dalla scommessa sull’animazione alla lettura come strategia per stimolare l’immaginazione e la curiosità dei più piccoli, dal sostegno agli autori, nasce lo stimolo per continuare a creare libri che seducano, commuovano, divertano e durino nel tempo.
www.kalandraka.com

6.2. Strumenti per scegliere e per pensare
di Della Passarelli, direttrice editoriale di Sinnos

Nel nostro catalogo ci sono sempre stati temi difficili, con l’impegno forte perché bambini e ragazzi non siano preda di paure o pregiudizi, ma che possano ragionare con la propria testa. Sono subissati da immagini televisive o sul web di orrori di varia natura, dai titoli negativi dei giornali e da adulti che sempre più spesso dichiarano la loro sfiducia nella politica, nelle azioni degli uomini e nel futuro. Come ha scritto Mariella Gramaglia nell’introduzione a Nina e i diritti delle donne di Cecilia D’Elia, tutto questo “non è una legge di natura […] e bisogna avere menti sveglie” e conoscenza per far sì che si possa cambiare.
Il nostro progetto editoriale è tutto volto alla crescita di cittadinanza e partecipazione, e spesso la Costituzione – presente nel primo volume dei libri della collana Nomos, Lorenzo e la Costituzione di Daniela Longo e Rachele Lo Piano – accompagna non solo questa collana di norme e di diritto per più piccoli, ma anche la narrativa, le graphic novel e gli albi illustrati.
Alle bambine e ai bambini, alle ragazze e ai ragazzi, abbiamo mostrato e vogliamo continuare a mostrare che di fronte alle difficoltà e anche di fronte a fenomeni apparentemente invincibili come la mafia, c’è la possibilità di sovvertire: con Salvo e le mafie di Riccardo Guido, il racconto e le testimonianze, i numeri, le leggi fatte, le persone che sono morte per combatterla, le vittorie della magistratura, i ragazzi possono avere i primi strumenti indispensabili per non essere cittadini passivi, ma cittadini consapevoli che questo fenomeno si può fermare, come di fatto sta accadendo. Grandi sono stati i risultati della lotta antimafia in questo paese ed è importante saperlo, per non darsi per sconfitti e per comprendere che anche nei piccoli comportamenti noi possiamo fare qualcosa. L’autore di Salvo e le mafie ha incontrato tantissime classi in tutta Italia, proprio raccontando questo; e i ragazzi lo comprendono bene, lo raccontano a casa: questo è un grande risultato perché – anche se con passo da formichina – crediamo che il cambiamento debba partire proprio dai ragazzi e dagli adulti che responsabilmente offrono loro gli strumenti giusti. Quell’articolo 2 della Costituzione che ci offre “diritti inviolabili” ci dice anche che noi abbiamo il DOVERE di partecipare alla vita politica, economica e sociale del paese. Che a dei diritti corrispondono quindi dei doveri e che siamo noi stessi responsabili, che possiamo scegliere da che parte stare. Senza paura.
Con le Cattive Ragazze di Assia Petricelli e Sergio Riccardi, che racconta delle tante donne che hanno detto “no” in tanti modi a comportamenti e a decisioni ingiuste e a volte violente nei confronti del genere femminile, abbiamo voluto ricordare alle ragazze che non sono nullatenenti e ai ragazzi, invece, che si può essere uomini capaci di stare al nostro fianco come il padre e il marito di Franca Viola, il marito di Madame Curie, il marito di Alfonsina Strada. E che tutti ne beneficiamo, perché le conquiste delle donne hanno aiutato anche gli uomini. Cattive Ragazze è stato oggetto di un grande progetto nazionale curato dall’associazione Kind of. Da Torino ad Alcamo tante scuole secondarie inferiori e superiori hanno lavorato sul libro, incontrato gli autori e aggiunto sulle loro lavagne tanti altri nomi di donne, del loro privato e famose: un bellissimo gioco che ha fatto crescere consapevolezza e ha fatto scoprire vite che nessuno conosceva, vite che hanno lasciato e lasciano segni importanti per la crescita del nostro paese.
Nel nostro catalogo c’è, nell’affrontare i temi difficili, tantissima voglia di sovvertire quel sentire comune che afferma che non si possono cambiare le cose. E anche se raccontiamo di adulti che sono poco responsabili, come in Reato di Fuga di Christophe Léon, è proprio per dire che dobbiamo avere gli strumenti per scegliere e pensare. Che la parola legalità ha un senso solo se si tratta di una legalità compresa  e condivisa (come appunto quella indicata dalla nostra Costituzione) e che bisogna diffidare di chi in nome del potere compie atti antidemocratici, violenti e prepotenti: la storia lo ha insegnato e conoscerla non fa mai male – per questo nel nostro catalogo ci sono storie di scelte importanti, come quelle degli sportivi di Pesi Massimi di Federico Appel. E con queste storie, insieme ad altre, solo apparentemente più leggere, come La prima volta che sono nata di Vincent Cuvellier o Sorridi! di Przemysław Wechterowicz o Caccia alla tigre dai denti a sciabola di Pieter Van Oudheusden cerchiamo narrazioni che mostrino la bellezza del nostro essere umani che è fatta di compassione, gratitudine, capacità di avere empatia e intelligenza, di diffidare dei pregiudizi, di non fermarci alle informazioni ma saperle trasformare in conoscenza: abbiamo un meraviglioso cervello per fare questo e i libri e la lettura, lo dicono i neuroscienziati, sono ottimi strumenti per allenarlo a non essere ottuso, pigro, indifferente.
Fin dagli inizi, con la storica collana I Mappamondi, la casa editrice Sinnos ha reso protagonisti i primi immigrati arrivati nel nostro paese (era il 1990), attraverso le loro storie di vita narrate in doppia lingua ai bambini italiani e stranieri che cominciavano a sedere agli stessi banchi di scuola. Negli anni, si sono aggiunte altre collane: tanti libri che lasciano segni, aggiungono senso, significato, immaginazione, punti di vista diversi. Per dare gambe forti al nostro futuro. Perché se il futuro sono i ragazzi, sta agli adulti offrir loro tutti gli strumenti affinché possano crescere sapienti, capaci di pensare e immaginare, con menti libere.
E allora Sinnos ha voluto dire con chiarezza che le regole condivise sono indispensabili per crescere insieme e, con la collana Nomos, non ha mai smesso di spiegare e raccontare carte, statuti, normative.
Ci sono poi le storie, le fiabe, le leggende. Per narrarle vengono scelte con cura non solo le parole – dando a volte testimonianza delle lingue d’origine – ma anche le immagini: tratti e colori, che sono un secondo linguaggio capace di raccontarle.
Sinnos ha cercato e trovato autori che sapessero raccontare storie con la vita dentro: avventure, difficoltà, emozioni mescolate ai valori importanti per crescere: solidarietà, accoglienza, amicizia, cultura, capacità di scegliere, di cambiare, di non arrendersi… È stato fatto per i piccoli e per i più grandi. E anche per i lettori diciamo più pigri o con difficoltà di lettura, ai quali è stata dedicata una collana e un font, leggimi!: perché leggere sia davvero un diritto per tutti. Non sono stati dimenticati i piccolissimi con filastrocche e canzoni tradizionali, che gli adulti possono leggere loro. Perché una delle cose più belle che si può regalare a un bambino, anche piccolissimo, è il tempo di una lettura ad alta voce.
Ma c’è dell’altro. La Sinnos è nata in un carcere, nel 1990, un luogo rimosso, dimenticato – oggi drammaticamente sovraffollato – dove spesso si arriva per ignoranza. Forse è anche per questo che crede tenacemente nei libri e nella lettura. E per queste motivazioni/spinte che sono all’origine della sua storia, la casa editrice ha dato vita a due progetti di promozione alla lettura: Le biblioteche di Antonio e I libri? Spediamoli a scuola! diventato ora Amo chi legge e curato dall’AIE.
www.sinnos.org

6.3. I libri come strumento di conoscenza
di Luisella Arzani, direttrice editoriale di Giralangolo

Giralangolo pubblica libri di narrativa e illustrati, e la loro selezione segue criteri differenti. Per quanto riguarda i libri illustrati arrivano spesso proposte interessanti, così come sono mediamente di qualità i portfolio degli illustratori che si rivolgono a noi. Questo ci ha permesso di pubblicare anche progetti originali, spesso con autori e illustratori esordienti e interessanti anche per gli editori stranieri, che ne hanno acquisito i diritti di pubblicazione. Purtroppo lo stesso non avviene per la narrativa: le proposte meritevoli di attenzione sono pochissime, molte quelle che si scartano dopo averne letto una cartella o anche solo la sinossi. Anche per la narrativa siamo comunque riusciti a pubblicare ottimi titoli con autori italiani, sebbene prevalgano quelli tradotti.
La selezione dei titoli avviene dunque su questo doppio binario, con l’ambizione di pubblicare, ove possibile, autori e illustratori italiani e nel contempo proporre bei titoli stranieri, avendo sempre presente la linea editoriale che la casa editrice si è data: per una casa editrice piccola che punta alla qualità e alla creatività è importante comunicare all’esterno che cosa si racconta nei libri che vengono proposti ed essere così riconoscibili. È stato quindi naturale avviare anche progetti innovativi come LeMilleunaMappa, altro modo di esplorare lo spazio in cui viviamo, anche quando viene raccontato nelle fiabe e nei classici per ragazzi.
Giralangolo fin dall’inizio si è infatti dedicata alla narrazione del mondo e di chi lo abita, raccontando anche situazioni scomode (i boskettari di Bucarest, la Turchia del conflitto turco-curdo) o la storia recente con Il segreto di Espen di Margi Preus e L’indimenticabile estate di Abilene Tucker di Clare Vanderpool, ma sempre in modo coinvolgente e appassionato (e appassionante), ottenendo ottimi risultati di critica e di pubblico. Questo ci ha convinto che la strada giusta per noi (e che più ci piace) è quella: non ci occupiamo di fantasy, paranormal romance, ecc., piuttosto di quel che succede davvero, magari in paesi lontani dal nostro ma la cui cultura è ben presente nel quotidiano dei ragazzi, come per esempio gli Stati Uniti rappresentati nelle sit-com.
Proprio come una sit-com si sviluppa Quattro ragazzi per due papà di Dana Eliso Levy, che racconta con ritmo e divertimento una situazione certamente più diffusa in USA che da noi. Anzi, la famiglia omogenitoriale del titolo non è la protagonista del racconto, resta sottotraccia: l’intero romanzo è infatti incentrato sul quotidiano di una famiglia numerosa seguita lungo un intero anno scolastico, con risultati spassosi.
Va precisato che il fatto di avere recentemente pubblicato libri su identità di genere e identità sessuale non è conseguenza di un preciso obiettivo: voler raccontare quel che succede nella società, magari in altri Paesi, in modo avvincente, divertente e con testi di qualità porta a scegliere anche libri di questo tipo tra tutti quelli che stanno abitualmente sul tavolo in attesa di valutazione. È vero che sono anche la conseguenza dell’attenzione alle dinamiche sociali e della determinazione a proporre libri non inutili: le discussioni ormai quotidiane, così come i travisamenti e le interpretazioni non corrette cui assistiamo tutti quando si trattano questi temi, ci spingono a proporli nei nostri romanzi così come nei libri illustrati.
Proprio dall’attenzione per le dinamiche e dunque i bisogni della società, e dalla volontà di proporre libri come strumenti di conoscenza in questo senso, ha preso avvio la collana Sottosopra sull’identità di genere e gli stereotipi. Rivolti ai bambini e alle bambine, a partire dai 3 anni fino agli 8-9, fasce d’età in cui più significativamente intervengono i processi di identificazione di genere (e i condizionamenti culturali), questi libri illustrati propongono una nuova rappresentazione della vita famigliare e sociale. I protagonisti sono bambini, lupacchiotti, orsetti, re, principesse, pirati, nonni, tutti quei soggetti presenti nella vita e nell’immaginario dei piccoli e che in queste storie divertenti e colorate sono liberi di agire, pensare e comportarsi senza vincoli legati al proprio genere.
I riscontri sono stati da subito positivi, sia per gli illustrati sia per la narrativa, seppur in modo diverso per i titoli nei quali si raccontano temi più delicati o ancora poco trattati. Penso ad Alex & Alex di Alyssa Brugman, che parla di intersessualità, o all’illustrato Una bambola per Alberto di Charlotte Zolotow, oggetto di recenti polemiche da parte di associazioni cattoliche dopo essere stato inserito in un progetto di lettura per le scuole elementari sponsorizzato dalla Regione Toscana.
Discussioni e polemiche non ci scoraggiano, anzi, ci convincono ancor più della necessità di affrontare nel modo più corretto tematiche che si prestano a manipolazioni e travisamenti in modo così grossolano da lasciare sgomenti per il seguito che riescono ad avere. Io per prima non mi azzardo a misurarmi direttamente con questioni tanto delicate, e per questo Sottosopra ha una curatrice competente come Irene Biemmi, ricercatrice universitaria della materia e formatrice: sarebbe utile che in generale si tornasse a dare valore agli esperti, agli studiosi, ai sapienti insomma. Mi pare che si sia un po’ perso questo concetto, e il seguito che hanno le critiche ai libri che parlano di educazione al rispetto (basate sulla non conoscenza del tema ma spesso anche dei libri stessi) ne è la conseguenza. Per non parlare delle liste dei libri proibiti, da evitare e addirittura da bruciare, che da qualche tempo periodicamente si ripresentano.
E qui mi viene da concludere con quella frase di Oscar Wilde che dice: “Non ci sono libri morali o immorali, ci sono libri scritti bene o scritti male”. A ciascuno la libertà, il piacere e il potere di decidere da sé se i libri sono scritti (e fatti) bene o male. Ma leggendoli, i libri.
Nata a Torino nel 1976 e specializzata in musica, la casa editrice EDT nel 2005 ha esordito nel settore dell’editoria per ragazzi con la collana Milly, Molly, progetto dalla forte identità dedicato alla promozione del dialogo tra culture diverse, e nel 2007 ha visto la nascita della sigla editoriale Giralangolo, che ha accolto sotto la propria insegna Milly, Molly e ha ampliato la rosa con serie pensate per guidare alla lettura bambini e ragazzi.
I temi dell’intercultura e del rispetto per l’ambiente accanto all’attenzione costante per lo sviluppo della curiosità e dell’immaginazione costituiscono il filo rosso che si ritrova in tutti i libri di Giralangolo, cui si affianca l’ultima recente sfida del marchio editoriale: una collana di libri illustrati orientati al principio dell’identità di genere, contro gli stereotipi e nel rispetto delle differenze.
www.edt.it/aree/ragazzi