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7. L’esperienza degli autori

Diceva Calvino che “l’arte di scriver storie sta nel saper tirar fuori da quel nulla che si è capito della vita tutto il resto; ma finita la pagina si riprende la vita e ci s’accorge che quel che si sapeva è proprio un nulla”.
Ecco, quindi, che lo scrittore non è colui che può insegnare qualcosa ma semplicemente qualcuno che, più consapevolmente, riconosce di non conoscere e, scrivendo, tenta di porvi rimedio.
Ad alcuni autori, scrittori e illustratori, abbiamo chiesto di raccontare il loro rapporto con la narrazione e la rappresentazione. Il come, appunto, si può raccontare ai bambini e ai ragazzi la realtà che ci circonda

7.1. Le parole giuste
di Arianna Papini, scrittrice, artista, docente, arteterapeuta

I miei tre principali mestieri sono accolti dai libri che scrivo e illustro. Lì le storie che incontro come terapeuta, le immagini che nascono tra le mie mani di artista e le parole non dette ma indelebili nella mia mente di scrittrice entrano in contatto tra loro e creano, al di là di quello che posso decidere razionalmente. Perché i temi ci chiamano. La vita ci pone di fronte a essi quando meno ce l’aspettiamo.
Spesso tali temi, cosiddetti difficili, portano le persone di tutte le età a varcare la soglia del mio studio di arteterapia, a chiedere aiuto, quasi fossi un’isola in mezzo al mare in tempesta. Così mi sento per i miei pazienti e così, a mio parere, devono essere anche i libri. Lì dobbiamo poter incontrare le nostre storie e trovare definizione di eventi indicibili che ci annientano, tanta è la loro forza ardente, ci portano via, distolgono la nostra creatività dalla strada immensa del fare per proiettarci, a volte, verso quella del distruggere.
L’arteterapia ci dona strumenti per costruire sempre, usare le mani, il corpo, i sensi in modo creativo così da andare oltre e rinominare l’accaduto. Spesso quando conduco grandi gruppi inizio leggendo un buon libro per bambini, quindi un libro senza età, in cui gli adulti possano ritrovarsi e incontrare gli altri, rendere poetico ciò che proprio non lo è, tradurre eventi in immagini, esattamente come accade con la terapia non verbale nel momento in cui lavoriamo con i materiali artistici.
La stanza, quando vi si condivide un buon libro, diventa densa. Le parole e le immagini di alta qualità artistica e letteraria creano percorsi bellissimi e dunque accettabili, poiché la bellezza è linguaggio universale e inter-età. Gli sguardi commossi, le guance arrossate di chi ascolta e pende dalle tue labbra creano ponti affettivi indelebili, preziosissimi. Condividere la lettura è un’opportunità grande, colma di senso.
Ciò che giunge continuamente ad adulti e bambini è una serie di informazioni poco affettuose, che vanno dritto al motivo per cui sono erogate, pensiamo alla pubblicità ad esempio. È utilizzato fortemente l’accento didascalico, tu devi fare questo perché è bene per te e avrai così in cambio qualcosa. Tale messaggio è terribile. Abitua al pensiero che le cose vadano fatte e comprate con l’aspettativa di un ritorno visibile, concreto. La vita per fortuna non è così. Ciò che abbiamo di più prezioso non ci siamo accorti di quando ci è stato dato, sono doni in natura, percorsi comuni, condivisioni di senso, di spazio e di tempo. Comprendiamo quanto preziosi siano solamente quando ci vengono a mancare e il nostro dovere, come terapeuti, è quello di essere grandi lenti d’ingrandimento per i pazienti, così che possano concretamente osservare quanto siano ricchi.
La dimostrazione di quanto il falso segnale di scambio oggetto-felicità sia deleterio è l’osservazione dell’infelicità costante in cui vivono persone che lo perseguono, che spesse volte finiscono in un turbine di compulsività legato all’alimentazione, al gioco o all’acquisto di oggetti inutili. E ancora, quanto ci si senta ricchi appena usciti da un’esperienza di volontariato, quando non siamo pagati per niente, ci dice molto sulla falsità del suddetto precetto.
In controtendenza il libro, quando è bello, non è mai didascalico. Invita a un percorso che per forza è lento, altrimenti non potrebbe essere letto o ascoltato. L’invito è opzionale e di ampia interpretazione. Il nostro linguaggio è così sfaccettato… Molte parole hanno più di un significato e nella poesia questo è accentuato incredibilmente, per non parlare delle immagini. Ciò che l’autore desidera comunicare è elevato all’ennesima potenza e prende strade diversificate e misteriose, andando a sondare ciò di cui l’autore stesso non ha tenuto conto. Accade quindi che leggendo ad alta voce un proprio scritto e osservando chi ascolta si aprano nuove strade interpretative allo scrittore stesso che trova, attraverso la condivisione del libro, significati nuovi e allo stesso tempo antichissimi, profondamente radicati nella propria storia.
Spesso sento dire che un libro contiene un messaggio troppo difficile o duro per i bambini. È un tema importante questo, che riguarda la fiducia che noi, operatori della crescita, abbiamo nei piccoli di cui ci occupiamo. Io ho estrema fiducia nelle persone, quando poi sono ancora piccole hanno sempre una capacità immensa di comprendere ciò che accade. Assisto alla loro frustrazione, poiché i temi che hanno ben presenti non sono svolti dagli adulti come da loro richiesto. La nascita, la morte, la guerra, il dolore giungono ai bambini in modo diretto e spesse volte cruento, ma è difficile che gli adulti si impegnino nel trovare le parole giuste, poiché sono ossessionati dal dover dimostrare di saper spiegare.
Sappiamo bene che dove la scienza non arriva nascono l’arte, la musica, il sogno, la spiritualità. Dunque non sapere rappresenta una grande opportunità creativa. Ma l’adulto perde coscienza di questo, poiché l’essere umano nasce attento ma cresce distratto.
È inutile voler spiegare l’inspiegabile o cercare di essere forti nel sostenere il dolore dei bambini, che evidentemente è insopportabile anche per chi lo accoglie per mestiere, oppure cercare di distrarli da un pensiero perché non sappiamo affrontare il loro tema, troppo doloroso per noi. Quando un bambino, fissandoci negli occhi, ci chiede dove sia il suo zio ora che è morto o da dove sia nata la sua sorella o ancora perché il suo gatto si sia ammalato anche se è tanto buono, credo che si debba abbandonare l’idea di spiegare e che l’unica via sia quella di condividere le sane, difficili curiosità tornando bambini, dando nome e colore alla via comune del racconto, che appartiene alla vita e come tale è sempre molto prezioso

7.2. Pesi massimi e segni leggeri
di Federico Appel, illustratore

Come illustratore, con il mio tratto che prova il più delle volte a essere leggero e surreale e ironico, affrontare i cosiddetti temi difficili non è semplice. Anzi, posso dire che in ogni lavoro che mi è stato commissionato, ho sempre provato a svicolare dalla rappresentazione diretta del dramma. Nel romanzo Muschio di David Cirici, che è stato da poco pubblicato da Il Castoro, e che racconta la storia di un cane alle prese con la guerra, ho provato in ogni illustrazione a deviare l’attenzione dal dramma verso particolari secondari e ho preferito rappresentare, anziché l’azione principale e più spettacolare, momenti marginali ma che potevano fornire una chiave inedita per leggere la storia.
Ma è anche vero che quest’operazione non sempre è possibile. In Pesi Massimi, ad esempio, che ho scritto e illustrato, è successo che il tema difficile sia comparso anche quando ho provato a eluderlo. Anzi: quando mi sono prefisso di raccontare storie di sport e razzismo, mi ero prefisso anche di non cedere a una fantomatica retorica e di provare a mantenere inalterata la mia voglia di ironia. Così, anche quando ho raccontato momenti drammatici di esclusione o di segregazione, ho sempre provato, nelle illustrazioni di quel libro a fumetti, a inserire nelle immagini elementi incongrui, per strappare un sorriso ma anche e soprattutto per punzecchiare l’intelligenza. Così è uscito fuori un Mickey Mouse tra i prigionieri dello stadio di Santiago del Cile, oppure un pavone posato sulle spalle di Arthur Ashe che annuncia al mondo di essere sieropositivo. Avevo cioè paura dei momenti difficili e paura che il mio disegno poco accademico e molto selvaggio non avesse spalle abbastanza larghe per sorreggere la complessità. Invece poi, a lavoro finito, ho visto che il tema difficile e complesso e ricco di sentimento usciva fuori comunque, a prescindere dal mio disegno. Anzi, ho notato, o scoperto, che i sotterfugi ironici che ho usato in taluni casi, nella loro bizzarria, sono riusciti ad amplificare la potenza espressiva del tema. Ed ecco che sono usciti fuori momenti commoventi (la morte di Luz Long ad esempio), efficaci, nonostante la mia riottosità ad affrontare il sentimento. A riprova, se vogliamo, che una storia bella, se raccontata senza troppi artifici, ha bisogno solo di un onesto raccontatore che la rilanci, per portare fuori tutto quello che contiene.
Allo stesso modo, nel recente La leggenda di Zumbi l’immortale, scritto da Fabio Stassi e da me fumettato, mi sono trovato ad affrontare una storia piena di uccisioni, ingiustizie cosmiche e apparentemente senza soluzione, sofferenza. Stavolta, un po’ più sicuro forse delle mie possibilità espressive, ho cercato un tratto più drammatico, forse un po’ più adulto, ma sono anche riuscito (in maniera per me soddisfacente) a integrare il dramma con un po’ di ironia razionale, così che la storia di Zumbi, primo schiavo ribelle e supereroe ante litteram, acquistasse forza e leggerezza, avesse sentimento ma anche divertimento e anzi ognuno di questi elementi fosse complementare alla forza dell’altro. Provare, cioè, a opporre alla realtà, difficile e dura, un ottimismo della volontà, ironico e leggero. Un po’ come accade ad esempio in Miracolo a Le Havre, splendido film di Aki Kaurismaki che parla di emigrazione e sofferenza con la leggerezza di una favola e con un’ironia veramente irresistibile.

7.3. Offrire ai bambini la varietà delle differenze
di Grazia Verasani, scrittrice

Io penso che i bambini siano dei detective naturali.
Penso cioè che sappiano molte cose ancora prima che gliele si spieghi.
È un istinto. Il terreno vergine di una sensibilità che assorbe in grande quantità e che sa andare al nocciolo, stupendoci spesso, anche per quell’essenzialità che nei bambini è un talento innato.
Il bambino chiede. E l’imbarazzo, a volte, è solo nostro. Ci arrabattiamo a cercare risposte che non siano complesse e che non li confondano o danneggino. Ma io credo che i bambini, sotto sotto, ridano di noi e dei nostri teatrini. A questo proposito, mi viene in mente un episodio della mia infanzia.
Avevo dieci anni e mi svegliai in piena notte sentendo il trillo del telefono in corridoio, la voce di mia madre che rispondeva e poi scoppiava a piangere.
Il giorno dopo, mio padre non sapeva come dirmi che il nonno era morto quella notte. Mi fece sedere con aria solenne, mi prese le mani ed ebbe inizio il rituale. Avrei potuto fermarlo, dirgli: “Guarda che lo so già che il nonno è morto”. Invece mi misi a piangere perché quella era la reazione che ci si aspettava da me. Questo per dire che i bambini incamerano le nostre ipocrisie, le fiutano a distanza, sono imitativi, fiduciosi, ma non sono stupidi. Il bello è che, pur metabolizzando in fretta le regole, le infrangono con il gioco, strumento per eccellenza di sdrammatizzazione, di irriverenza, e di amor proprio difensivo. Evitare argomenti come la morte o il dolore è, a mio parere, l’illusione di offrire loro un riparo impossibile. Aggiungo che, anche se forse è una banalità, i bambini che crescono con qualche animale hanno molte più chance di accettare la morte come un evento naturale. Se la trovano di fronte come un fatto doloroso ma incontrovertibile, e in un certo senso democratico. E anche lì, il funerale di un gatto o di un cane, svolge un ruolo di rappresentazione onoraria, di rispetto della vita, e quindi della morte, sempre a patto che non ne venga sminuita o ridicolizzata l’importanza.
Sono le parole che si usano, a contare. L’attenzione e la cura delle parole. La difficoltà maggiore credo sia questa.
Trovare un modo intelligente, delicato, o anche surreale e divertente, per aprire tutte le finestre a disposizione, morte e dolore compresi, senza tabù o infingimenti. Dando alla commozione un valore liberatorio, e non trattandola come un segno di debolezza. Dimostrando cioè che la fragilità non è un difetto, anzi, è la nostra vera forza. Perché possiamo condividerla, e quindi consolarcene. Perché siamo tutti umani e fallibili, e la vita è più ampia di una gara a chi perde e chi vince, e non c’è manicheismo che tenga. Credo sia importante parlare della sconfitta in termini leggeri, per evitare anche quell’ansia da prestazione che vedo in tanti adolescenti e di cui ho parlato nel mio ultimo libro (Senza ragione apparente, Feltrinelli, 2015)
Ma io non sono un educatore. Sono solo una che, se avesse avuto dei figli, gli avrebbe fatto leggere Rodari. O libri come La nonna addormentata di Roberto Parmeggiani che ho trovato bellissimo. E avrei lasciato che la fantasia la facesse da padrona. Perché stimolarla è il più grande regalo che si possa fare a un bambino. Io in questo senso sono stata davvero fortunata, ho avuto Antonio Faeti come maestro elementare: ci faceva disegnare in classe fumetti e a me regalò un quaderno da usare come diario (il primo di una lunga serie).
In sintesi, penso che occorra offrire ai bambini la varietà delle differenze (la realtà è un incontro di opposti), delle scelte possibili che poi saranno solo loro. Ma mostrargliele tutte. Senza tabù, dogmi, rigidezze, pregiudizi. Del resto, ci si libera della paura solo sapendo che esiste, e non rimuovendola. E presentando ai bambini i modelli migliori, cioè adulti che ogni tanto si tolgono le maschere.

7.4. Zio, perché scrivi?
di Roberto Parmeggiani, scrittore

Durante un pranzo domenicale in famiglia, mia nipote Chiara, quattordicenne, all’improvviso mi chiede, un po’ stupita, un po’ inorridita: ma zio, perché scrivi? Cioè perché ti piace tanto scrivere?
In quel momento, colto alla sprovvista, ho fatto fatica a rispondere, ho balbettato qualcosa poi ho cambiato discorso. Quella domanda, però, come spesso capita con le cose importanti, mi è rimasta attaccata, anzi si è messa in contatto con il bambino che ero e che, a scuola, non riusciva a scrivere più di una riga per mancanza di idee e che forse, così come mia nipote, si meritava una risposta.
Quella risposta, oggi, mi sembra possa servire anche a tentare di rispondere alle domande che ci siamo poste in questa monografia. Come scrittore, infatti, ritengo che prima del chiedersi come sia possibile raccontare temi definiti difficili ai bambini si debba aver chiaro il motivo che ci spinge a scrivere, a usare cioè le parole come principale mezzo di relazione. Sono convinto, ancora, che sia proprio nella motivazione del perché che possiamo trovare anche la risposta del come.
Ecco, allora, la risposta che ho condiviso con mia nipote.

Cara Chiara,
ho avuto bisogno di un po’ di tempo per chiarirmi le idee ma adesso posso rispondere alla tua domanda. Posso finalmente dirti perché ho deciso di dedicare tanto tempo alle parole e di fare della scrittura il mio lavoro.
Dei tanti motivi a cui ho pensato, ne ho scelti tre. Non so se sono i più importanti o i più significativi, di certo sono quelli che in questo momento mi contraddistinguono maggiormente.

Primo, scrivo per costruire luoghi
Scrivo per costruire luoghi dove i lettori possano smarrirsi, dove non abbiano paura di perdersi e, anzi, dove desiderino farlo. Perdersi per incontrarsi di nuovo, per scoprire qualcosa di loro che ancora non conoscono e che riesca a svelare ai loro occhi un aspetto che prima era incosciente, sommerso, qualcosa che causava vergogna, per esempio, perché percepita come diversa dal normale e che fino a quel momento, magari, avevano rifiutato. Un luogo dove le persone, e io per primo, possano passeggiare, sedersi, mangiare, incontrarsi, condividere; dove sia possibile identificarsi e trovare un legame tra quello che il lettore vive, la sua esperienza personale, e la storia raccontata nel libro. Un luogo, cioè, dove non essere soli ma, al contrario, sentirsi compresi e non estranei a questo mondo.
Chiara, quando penso a un luogo penso a un paese come quello delle meraviglie di Alice, a una fabbrica come quella di cioccolato di Willy Wonka, o una città come quelle invisibili di Calvino. Ma anche a un giardino segreto come quello dove sono cresciuti Mary e Colin, alla strada di mattoni gialli del Mago di Oz, a un bosco come quello dove vivevano i Fratelli Grimm o, infine, al fondo del mare, come quello della Sirenetta o del Capitano Nemo.
Come dice lo scrittore turco Omar Pamuk: “Scrivere è riconoscere le proprie ferite segrete e condividerle”, trasformarle, cioè, in uno specchio nel quale gli altri possano riflettersi scoprendo che non sono gli unici a sentire e vivere certe cose.
Anche tu avrai un luogo dove ti rifugi quando ti senti triste oppure dove ti piace andare quando sei felice. Io spero di riuscire a offrire ai miei lettori spazi dove stare bene, dove qualcuno come te possa trovare se stessa.

Secondo: scrivo perché scrivere significa amare
Scrivo perché scrivere è narrare e narrare è un modo di amare.
Forse ti stai chiedendo in che senso. Amare, soprattutto per un’adolescente come te, è qualcosa di apparentemente molto diverso dalla scrittura: è sudore, sguardi imbarazzati, il cuore che batte senza fermarsi, lo stomaco chiuso, ore senza fine in attesa di un nuovo gesto.
Beh, ti dirò che tutto questo ha molto a che fare con la scrittura e con l’amore del narratore.
Narrare, infatti, significa lasciare una traccia nel lettore, nella società e nella storia. Significa sudare con i propri personaggi, lanciare sguardi imbarazzati, avere un cuore che batte senza fermarsi, andare a dormire con lo stomaco chiuso, aspettare ore senza fine un nuovo gesto che cambi la giornata. Io scrivo perché esprimo, attraverso la narrazione, il mio amore per l’altro, per la società in cui vivo e per la storia. Scrivo perché narrare significa disegnare la mappa dell’anima degli esseri umani, una mappa che porta sempre all’incontro con l’umanità che tutti ci unisce.
La mia storia personale si incontra con quella del lettore, in un dialogo amoroso.
Quante volte, leggendo un libro, mi sono incontrato in mezzo a quelle parole! Come poteva saperlo lo scrittore? Come poteva aver inserito nel testo qualcosa che era successo prima nella mia vita? In molti hanno parlato di me: Pirandello, Hesse, Dostoevskij, Austen, Grossman… e molti altri continueranno a farlo. Parleranno di me, di te e dell’umanità intera, in una continua narrazione amorosa.
Certo, non è sempre facile amare come non lo è scrivere. Ci sono momenti nei quali vorrei desistere, chiudere la finestra e non lasciare più entrare nessuno: persone, storie, desideri, parole. Ma sono solo momenti passeggeri e ti assicuro che se trasformerai ogni azione della tua vita in una declinazione del verbo amare, non ti sentirai mai perduta. Soffrirai, ti arrabbierai, sarai triste… ma mai perduta.

Terzo, scrivo per prestare le parole
Quando scrivo non mi pongo l’obiettivo di dare risposte, non ho scoperto nessuna verità e non ho nemmeno formule magiche per risolvere problemi più o meno gravi.
Più semplicemente scrivo per prestare le parole.
Attraverso le mie storie spero che i lettori possano trovare le parole per dire quello che sentono, per nominare, raccontare, definire le emozioni, le sensazioni, l’indefinibile che spesso sperimentiamo.
Non so se ti è mai successo. Leggi una citazione, ascolti certi versi di una canzone e ti dici che nessuno ti capisce come quell’autore, capace di dar voce a quello che stai sentendo meglio di chiunque altro, anche di te stessa. Ecco, quando ho scritto della morte e della malattia oppure del valore della diversità e del piacere delle relazioni, l’ho fatto con questo intento: raccontare una storia che permettesse al lettore bambino di mettere da parte le parole per poter nominare le emozioni, nel momento in cui ne avrà bisogno.
Parole come le briciole di Pollicino, come lo Specchio delle Brame trovato da Harry Potter, come il Supercalifragilistichespiralidoso di Mary Poppins o come la polverina magica di Trilly. Parole, cioè, capaci di non farci perdere la strada di casa e ritrovar noi stessi, di mostrarci i ricordi e di farci immaginare il futuro, di modificare il contesto che ci circonda e di renderci leggeri e capaci di guardare le situazioni da un altro punto di vista.
Vedi, Chiara, le parole sono di tutti, quello che può fare uno scrittore è metterle insieme, dar loro una forma e prestarle sapendo che, prima o poi, gli torneranno indietro.
Per questo, ti auguro di essere generosa: sia con le parole che con i gesti. Perché le uniche cose che possediamo davvero sono quello che abbiamo condiviso con gli altri.
Spero di essere riuscito a rispondere alla tua domanda.
Di certo il bambino che ero ti ringrazia perché almeno lui, adesso, ha le idee un po’ più chiare.



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