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autore: Autore: Claudio Imprudente

Lettere al direttore

Risponde Cluadio Imprudente

Caro Claudio,
seduzione, allora? Ma certo! Martina ti aveva inoltrato il mio post al forum della Sotis, vero?
Non male l’immagine della frutta. Partecipo anch’io al gioco: per me, scelgo la zucca. È un frutto dal colore caldo, ma non vistoso; apparentemente anonima e un po’ dimessa, ha la proprietà alimentare e culinaria di essere un ingrediente ottimo se abbinato ad altri, dei quali esalta e trasforma il gusto; è multiforme e flessibile, ma la riconosci sempre; rimane inconfondibile, e dà un’impronta speciale ai piatti con cui è preparata. Si sposa ai sapori salati e a quelli dolci, alla cannella come all’alloro, alla noce moscata e all’amaretto. Per palati raffinati… come io mi pregio di essere, modestamente. 🙂 Ciao, noce!
Un saluto dalla zucca Paola

Cara Paola, pochi giorni fa, nel recarmi a Padova per un convegno sui trent’anni dalla Legge 517/77 sulla integrazione scolastica, sono passato da Ferrara. Ferrara, quanti ricordi! Mia mamma, infatti era di questa piccola chicca di città. L’unica città in Italia dove ci sono più biciclette che macchine, la città con più “erre” e meno frenesia. La piazza Estense è dominata da un castello che farebbe invidia anche a quello della Walt Disney. Ma la cosa più affascinante del castello è il fossato d’acqua che pullula di pesci rossi, grazie alle briciole che i bambini si divertono a gettare loro. Quando scende la sera il castello è pervaso da un’atmosfera romantica, e diventa un ottimo scenario per una cenetta a due. Non si può fare a meno di ordinare un piatto tipico ferrarese, i tortelloni di zucca, con il loro gusto dolce misto al sapore speziato di noce moscata. Parafrasando Pupo: “Tortello profumato dolce un po’ speziato, il tortello profumato”. Ma che buoni! È proprio vero che in quel contesto la zucca diventa molto seduttiva. E questo rafforza una riflessione che ho fatto anche nel mio libro C’è ancora inchiostro nel Calamaio! (Edizioni Erickson, 2006): e cioè che la seduzione è una questione di contesto. Mi autocito: “È questo il segreto [della seduzione]: anche nel mondo della disabilità è necessario uno sforzo per modificare i contesti e far emergere quel potenziale seduttivo che in altre circostanze risulta oscurato o inesistente. Uno sforzo che coinvolge non solo i disabili ma anche tutti coloro che convivono con la disabilità e ne sono interessati a livello familiare, lavorativo e di gruppo sociale”. Insomma, a seconda del contesto la zucca può essere sinonimo di poca intelligenza, ma anche di grande seduzione. E che dire, fatti una cenetta al lume di… zucca.

Ciao Claudio,
sono una “giovane” lettrice del Messaggero di Sant’Antonio.
Da quando ho cominciato a leggere i tuoi articoli ho assaporato il gusto della riflessione che purtroppo – da tanto tempo – nessuna lettura giornalistica mi dava. Quindi voglio ringraziarti di vero cuore per la tua umiltà e sapienza, qualità che insieme formano la SAGGEZZA. Spero che nel Messaggero del prossimo anno io possa continuare a leggere i tuoi articoli, magari trovandoli prima delle rubriche per la casa!
Buon lavoro, Rosa

Oh Rosa,
come puoi immaginare, nella gestione delle mie rubriche ho bisogno dell’aiuto di un fedele collaboratore che scriva ciò che io detto attraverso la mia lavagnetta. Non appena ho scelto la tua e-mail per la rubrica “Lettere al direttore”, il volto della mia collaboratrice, carino e serio, si è trasformato in un ghigno fantozziano. Il fatto è che dopo quasi un anno di lavoro insieme ha imparato a conoscermi, e sa che prima di giungere alla stesura finale di un articolo, che ai lettori sembrerà piuttosto acuto e intelligente, c’è un retroscena fatto di battute a volte stupide, frasi senza senso, elenchi di sinonimi e contrari, ricerche su internet, barzellette, citazioni da film, comici e canzoni, luoghi comuni… Insomma, dietro a ogni pezzo c’è un cocktail di risate, per lo meno fino a che non sopraggiunge un’illuminazione, e allora l’articolo prende corpo e consistenza. Così le mie “perle di saggezza”, come dici tu, nascono in realtà dal nulla, dalla creatività che si sviluppa dalla interazione con chi sta lavorando con me in quel momento, da notizie che hanno stuzzicato la mia fantasia e, ovviamente, dalle riflessioni che voi lettori scegliete di condividere con me. Dice il saggio: chi è l’ultimo… chiuda la porta.

Caro Claudio
il nuovo anno non è iniziato nel migliore dei modi riguardo alla cultura e alla disabilità, la quale ha subito nel giro di pochi giorni un paio di scosse regressive impressionanti… la prima riguarda la notizia linguistica di una nuova parola, coniata da poco e per fortuna ancora non tanto diffusa… ma il dato è preoccupante perché la lingua, o meglio, il nostro linguaggio rappresenta la nostra visione del mondo, esprime le nostre emozioni i nostri sentimenti le nostre paure… e la parola coniata ha molto a che fare con la paura… il termine è “handifobia” e indica la paura di rapportarsi con la disabilità o anche la paura di essere soggetto a una disabilità (anche solo a livello di pensiero)… dunque il dato certo è che la disabilità fa ancora paura… e questo a dispetto della tanto blaterata e – dico io – immaginifica apertura della cultura alle istanze integrative e di accoglienza… una volta mi è capitato di leggere i risultati di una ricerca sociologica fatta pare nel 2002… i risultati evidenziavano una netta discrepanza tra le posizioni dichiarate, le affermazioni di principio, e le resistenze inconsce che determinano i comportamenti… ecco. questo scarto sta alla base della formazione della parola “handifobia”: a livello formale tutti si conformano al buonismo politicamente corretto, a livello informale però operano quelle resistenze inconsce che sovvertono le posizioni dichiarate… Dunque l’handicap fa ancora paura… questo assunto è alla base della seconda scossa che ha subito la cultura della disabilità che noi tanto faticosamente abbiamo contribuito a diffondere… l’handicap fa così tanto paura da indurre i genitori (?) di una ragazza disabile americana a intraprendere una complicata terapia genetica che inibisce lo sviluppo evolutivo naturale… così grazie a questo trattamento di eugenetica avremmo una “eterna bambina”… ma questo è progresso? ma quando era il nazismo a fare trattamenti scientifici di questo genere sempre sui disabili, la cosa era deprecabile e abominevole… Adesso che è la grande civiltà democratica americana a fare queste cose, si tratta di un progresso scientifico… no, Claudio… questo è il trionfo del nichilismo che porta al regresso affettivo… per me è inconcepibile questo impoverimento affettivo della nostra civiltà… non siamo in grado di provare affetto neanche per un figlio, si ha paura delle conseguenze che la disabilità può comportare e prendiamo la decisione di comodo di eliminare la disabilità, e non affrontare di petto la situazione, chiamare i problemi per nome, diffondere una cultura solidale… questo per me è bieca rinuncia alla vita…
Ciao Claudio e, mai come in questa occasione è valido il tuo saluto: “Buona Vita”

Questa tua lettera mi offre l’occasione di parlare di un argomento che da un lato mi è molto caro mentre dall’altro è davvero “scottante”.
L’handifobia, la paura del diverso, le paure in generale hanno bisogno di essere chiamate per nome: se il nemico è sconosciuto non lo si può combattere, è solo riconoscendolo che ci si può armare per sconfiggerlo. Questa tua lettera mi fa venire in mente un pezzo di un capitolo del mio ultimo libro: C’è ancora inchiostro nel Calamaio!, che fa proprio al caso nostro riguardo a questo argomento. Nel capitolo “Pirati e Corsari” mi sono soffermato sulla differenza fra le due categorie: i pirati sono i predoni del mare, ovvero quelli che operano senza una legge precisa, con il solo scopo di arricchirsi; i corsari invece erano autorizzati a depredare il nemico da uno stato o da un sovrano, potevano quindi considerarsi dei combattenti regolari. Nel nostro viaggio per raggiungere il tesoro nascosto che è l’integrazione dobbiamo affrontare tutte le insidie nascoste del mare: i corsari altro non sono che le nostre sovrastrutture, i preconcetti e i pregiudizi sedimentatisi nella nostra cultura, mentre i pirati rappresentano le nostre chiusure individuali, le nostre paure e il nostro imbarazzo di fronte a realtà che ci spaventano e ci turbano. I corsari e i pirati ci ostacolano nel raggiungimento del tesoro, ci attaccano e ci minacciano, rallentano il nostro cammino in modo spesso subdolo, nascondendo la bandiera nera che li identifica. Sono come le nostre paure che possono paralizzarci improvvisamente o restare latenti dentro di noi. Restare in balia delle paure vuol dire rinnegare la vita, annichilirsi, produrre morte: ecco a cosa fa riferimento il teschio sulla bandiera nera! Ma allora come fare per arrivare indenni al tesoro? Esiste un solo modo: chiamare i pirati con il loro nome, che significa prenderne coscienza e fronteggiarli. Se scopriamo che un pirata si chiama Francis Drake, immediatamente la paura che nutriamo nei suoi confronti inizia a scemare. Se qualcuno mi guarda e prova imbarazzo senza riuscire a dare un nome a questa sensazione il suo disagio diventa invincibile. Se un insegnante non trova il modo di valorizzare le capacità di un alunno la situazione diventa insostenibile per entrambi. L’educatore è colui che chiama e insegna agli altri a chiamare le cose con il loro nome. Navigando nel mare dell’educazione si possono sconfiggere pirati e corsari. Certo, il mare dell’educazione non è sempre calmo, anzi! A volte è agitato da burrasche e venti furiosi, ma non dobbiamo temerlo: un vero educatore si fa cullare dalle onde e non si lascia sopraffare dall’ansia. Solo compiendo questo percorso di riconoscimento delle nostre paure, se impediamo a pirati e corsari di depredarci, possiamo finalmente raggiungere il nostro prezioso scrigno.
Che altro dire… Adesso sta a ognuno di noi aprire questo prezioso scrigno e condividere il tesoro dell’integrazione anche con quelli che non comprendono il senso profondo di questa traversata. Vento in poppa a tutti!

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente

Ciao Claudio,
mi chiamo Marlon, sono un bambino a cui piace molto leggere.
Ho letto il tuo libro “RE 33”, che mi è stato regalato dalla mia carissima amica Ilaria che tu conosci bene.
Il libro mi è piaciuto molto sia per la storia sia come è scritto e anche per le illustrazioni.
Mi è piaciuto come Re 33 ha capito che tutti (uomini e animali) devono essere liberi e che è importante rispettare i diritti di tutti specialmente dei bambini.
Vorrei chiederti se da piccolo tu volevi fare lo scrittore perché anche io vorrei scrivere racconti e poesie.
Ti scrivo due poesie che ho scritto per il S. Natale.
Ciao a presto
Marlon

BABBO NATALE
La luna va su
il sole va giù
e
Babbo Natale
sale
scende
dalle scale.

GESU’ BAMBINO
La luna va giù
il sole va su
e
Gesù Bambino
scende
nel mio cuoricino.

Caro Marlon,
la tua lettera e le tue poesie mi sono piaciute così tanto che io, Re 33, ho deciso di risponderti personalmente. Ti sei mai chiesto che cosa si direbbero Babbo Natale e Gesù Bambino se si incontrassero per le scale? Chi dei due salirebbe e chi scenderebbe? Ma poi Babbo Natale e Gesù Bambino si conoscono? Ma se si conoscessero sarebbero in concorrenza? Oppure si porterebbero i regali a vicenda? Ora la smetto di fare domande e cerco di risponderti: non so se Claudio da bambino avesse già chiaro ciò che avrebbe voluto fare da grande, so solo che quando è venuto il momento di scrivere la mia favola tutto gli è stato chiaro. Claudio mi dice sempre che per lui scrivere storie è una cosa molto importante poiché raccontandole si può cambiare la cultura. Vedi caro Marlon, un bambino come te ha bisogno di sognare, e un bravo scrittore-educatore è colui che trasforma i sogni in bisogni da realizzare. Perciò non dimenticarti mai di sognare! In un sogno una scala può trasformarsi in una fisarmonica che, a seconda del ritmo della musica, allunga e accorcia le distanze fra Babbo Natale e Gesù Bambino che salgono e scendono. (Claudio però preferisce gli scivoli alle scale… questione di gusti!). Il lavoro dello scrittore, quindi, è proprio quello di far sognare la gente così da trasformare tutte le scale in fisarmoniche in modo che tutte le persone che salgono e scendono si possano incontrare e parlare prendendo esempio da Babbo Natale e Gesù bambino. E che dire…

Non si corre sulle scale
suggerisce Babbo Natale
scendi invece pian pianino
come fa Gesù Bambino.

Scrivimi ancora, tuo Re 33

Buonasera,
mi presento: sono Concettina e scrivo da Salerno. Ho letto il suo articolo per caso a Lucera a casa dei miei genitori assidui lettori del Messaggero di S. Antonio. Di solito non finisco mai di leggere un articolo ma il suo mi ha colpita particolarmente in positivo. È bellissimo. Sono stupende le cose che lei ha scritto. Non ho potuto fare a meno di pensare in auto, nel viaggio che mi portava a casa dopo le vacanze di Natale, che frutto fossi. Alla fine sì l’ho trovato e saperlo mi ha aiutato a capirmi. Mi definirei un kiwi. Sì, un kiwi, perché? Ho meditato su me stessa, sembro apparentemente scostante, difficile da trattare. In effetti un po’ lo sono ma dentro sono dolce e acida allo stesso modo. Sì io sono proprio così, a volte dolcissima, a volte acidissima. È bello ciò che ha detto sulla noce e sulle noccioline dell’aperitivo… L’apparenza inganna a volte. Ciò che conta è il frutto dentro. Grazie per avermi fatto capire tante cose su me stessa e sugli altri. Spero di risentirla. Parlare con lei sarebbe stupendo. Distinti saluti,
Concettina

Che bello ricevere delle lettere così “fruttuose”! Da quando ho una rubrica anche sul Messaggero di S. Antonio mi arrivano una valanga di lettere da tutti i frutti del mondo! L’articolo colpevole di questo tormentone è “La seduzione” legata al mondo della disabilità. Vedi cara Concettina, per me la seduzione della diversabilità si può paragonare alla noce perché essa è apparentemente poco attraente: il guscio è duro e rugoso, e per aprirlo ci vuole sempre uno schiaccianoci. Parafrasando, lo schiaccianoci rappresenta l’educatore che con i giusti mezzi può rompere il guscio e far emergere le diverse personalità. Chissà quanti educatori si sentono schiaccianoci? Credo che il trucco sia proprio quello di percepirsi come uno strumento utile a far emergere l’identità, perché solo riconoscendosi in essa si diventa seducenti. Mi ricordo che quando ero piccolo durante i pranzi di Natale o di Pasqua c’era sempre un momento di panico generale: quando mia mamma metteva in tavola le noci… Ma dov’è lo schiaccianoci? Senza di esso il pranzo era come dimezzato. Tralasciando il fatto che se mangio una noce come minimo mi strozzo, questo è un esempio lampante della grande importanza del ruolo dell’educatore.
E se mettiamo in tavola le noci assieme ai kiwi? Tutto è ancora più interessante perché i gusti di uno esaltano quelli dell’altro… Secondo voi perché hanno inventato la macedonia?

Salve,
mi chiamo Veronica ho 26 anni e in aprile finirò il mio percorso di studi in “logopedia”; sono abbonata da poco alla sua rivista “HP-Accaparlante”, è stato per me un immenso piacere conoscerla sabato 2 dicembre ad Handimatica… mi ha colpito moltissimo il suo “Elogio alla lentezza” che rileggo kontinuamente sul mio block notes e che “vorrei” inserire, se me lo consente, nella mia tesi; alla fine della giornata di sabato sono stata molto male, amareggiata e delusa da “società” che si definiscono all’avanguardia per quanto riguarda la comunicazione, e poi si smentiscono immediatamente nel corso di un seminario, pronunciando: “Bhe se xx usasse sempre e solo l’etran per parlare ci metterebbe 1 secolo…”, e immediatamente mi sono ritornate in mente le sue parole del suo intervento di qualche ora prima… e mi chiedevo: “la logica della lentezza???”. Inoltre amareggiata in quanto su tutta la bibliografia relativa alla C.A.A. ci sono tantissimi riferimenti ai segni, ai gesti, e invece poi smentiscono anche questo, dicendo che un bambino non deve “segnare”, non può, neanche se a lui rimane più semplice, utilizzare il linguaggio dei segni perché non è condiviso…, ma tabelle e ausili vocas.
Ho fatto immediatamente un paragone logica lentezza-linguaggio dei segni!! Ho sbagliato alla grande?
Sto facendo una tesi sull’utilizzo della lingua dei segni in un ragazzo con paralisi cerebrale, lui viene da anni e anni di logopedia classica, e da una serie di tutte quelle nuove bellissime “artiterapie”, (fallimentari, senza senso)… avendo delle difficoltà di motricità fine i suoi segni sono logicamente non identici e fluidi come quelli di una persona sorda, ma finalmente ora COMUNICA con la mamma e con la propria famiglia avendo riacquistato fiducia in sé, si comincerà un lavoro sulla scrittura con simboli e tabelle. Giorni fa la mamma lo accompagna e con le lacrime agli occhi ci dice: “ieri siamo andati al mercato e per la prima volta Federico ha potuto esprimere un suo parere segnando “bambola compro nonna”. Ha espresso un concetto che tramite tabelle e ausili vari avrebbe impiegato 4-6 mesi per esprimere!!!
Tutto questo per dire che invece di essere aperti a nuovi orizzonti, a nuove modalità, a scambi, mi sembra che alcune società abbiano il monopolio assoluto su sistemi di comunicazione, e non riesco a capire perché non appena nomini “linguaggio dei segni” e/o “gestualità” sei fatta immediatamente fuori!!!!!!!
Mi scusi tanto per il disturbo, ma dato che nessuna delle persone “normodotate gravi” presenti negli stand mi ha saputo e /o voluto rispondere, vorrei se possibile girare la domanda a lei.
La ringrazio
Cordiali Saluti

La prima volta che ho sentito parlare della logica della lentezza è stato quando nel mio mangiadischi (ormai oggetto d’antiquariato) ho messo il disco di Bruno Lauzi e ho ascoltato “La tartaruga”.
Riascoltandola poi negli anni mi sono sempre più convinto che questa canzone è davvero un inno alla lentezza. La tartaruga che un tempo era un animale che correva a testa in giù e filava via come un siluro, più veloce di un treno in corsa, dopo un incidente rallentò e… si accorse andando pian pianino di moltissime cose che non aveva mai notato: “un bosco di carote, un mare di gelato e un biondo tartarugo che ha sposato un mese fa”.
A parte il fatto che il biondo tartarugo fa impazzire pure me (de gustibus non disputandum est) è proprio vero, dovremmo recuperare la lentezza come un valore, è proprio importante in un mondo che va ai mille e mille all’ora. Il ruolo della diversità ha questa funzione: di mostrare che ci sono diversi tipi di velocità e andature. La lentezza può in questo senso diventare una risorsa. Il saper rallentare, il saper guardare ti dà la possibilità di cogliere delle occasioni che correndo troppo non vedresti neppure. Diciamoci la verità: le riprese alla moviola sono molto più affascinanti di quelle normali perché si possono vedere tutti i particolari, le espressioni, le gocce di sudore, gli sguardi…
Quindi basta scoprire un bosco di insalata e un mare di frittata che subito un biondo tartarugo sposa la logica della lentezza.

Eutanasia, risponde una lettrice – Superabile, maggio 2011 – 2

Avevo scritto, nel primo articolo di maggio 2011, in relazione a eutanasia e testamento biologico, che la semplificazione dell’argomento non contribuisce alla sua soluzione. Elena, in risposta al mio articolo, contribuisce ad alimentare un confronto che è quello cui solitamente non ci è dato di assistere nei canali di comunicazione tradizionali, generalisti, televisivi, ecc. A lei la parola e i miei ringraziamenti più che sentiti.

Caro Claudio,

Ti scrivo a commento del tuo articolo sul testamento biologico. La cosa che apprezzo di più nei tuoi scritti è che sei uno dei pochi nel nostro paese a non voler imporre la propria opinione, a metterla addirittura in secondo piano rispetto ai fatti o al pensiero altrui.
Io credo che sia impossibile, e che sarà sempre così, raggiungere l’unanimità di opinioni in un ambito così delicato, questo però non vuol dire che non sia necessario trattare l’argomento.
Una doverosa premessa, forse l’unica cosa su cui siamo tutti d’accordo: il fatto che l’accanimento terapeutico (anche qui si potrebbero perdere secoli a tracciare un confine tra cura ed accanimento) sia sbagliato ed immorale, in quanto non tiene conto del corso naturale della vita che prevede una nascita e una morte. Alcune considerazioni: ritengo sbagliato che il testamento biologico venga fatto prima che si ponga il problema. Una persona giovane, nel pieno della salute e delle forze, si farà inevitabilmente condizionare dalla paura della sofferenza, dall’incertezza riguardo alla condizione di stato vegetativo (non è chiaro cosa e come si riesca a percepire), dalla consapevolezza di divenire un peso per i propri familiari che dovranno assisterla per anni. Sono tutte ipotesi che quando stai bene sembrano così orribili da dare per scontato che la soluzione migliore sia l’eutanasia. Un esempio pratico, anche se all’inverso, è l’aborto cosiddetto terapeutico: quante coppie spaventate dall’esito di un esame che mostra una malformazione decidono di abortire? Sono sicure che loro e il loro bambino vivrebbero una vita infelice, e questa soluzione sembra loro la migliore. Ma non sempre è così, come tu sai bene. Se io oggi chiedessi a 100 persone se preferiscono diventare tetraplegici o morire, sono sicura che almeno 90 sceglierebbero la seconda alternativa, principalmente perché non sanno che anche se hai un deficit  fisico non è detto che tu non possa avere amicizie, relazioni, soddisfazioni umane e professionali.
Trovo che i due casi più famosi, emblematici e discussi nel nostro paese siano profondamente diversi, anche se spesso vengono trattati allo stesso modo.
Eluana Englaro era in stato vegetativo permanente, prima dell’incidente aveva espresso chiaramente e fermamente la sua opinione, ma non sappiamo cosa sentisse o percepisse quando era in coma, non possiamo sapere se avesse cambiato idea. Capisco il padre, preoccupato solo di realizzare la volontà della figlia ed impossibilitato ad elaborare il lutto fino a quando non fosse davvero morta. Ma ho avuto la fortuna di conoscere una persona nelle sue stesse condizioni, e la mia impressione è che un certo livello di coscienza comunque ci sia, la persona che ho conosciuto percepiva chiaramente quando entravo nella sua stanza, si notava da piccole cose come un minimo movimento degli occhi o dall’accelerazione del battito cardiaco. Le ipotesi sono due: se chi è in stato vegetativo permanente sa di essere vivo l’eutanasia è perlomeno ingiusta. Se non si rende conto di essere in vita, a cosa gioverebbe invece la sua morte? E poi nemmeno i neonati riescono ad elaborare pensieri complessi, ma a nessuno viene in mente che la loro vita sia priva di senso. In molti sostengono che una vita come quella non ha dignità, ma a togliere la dignità alla vita non è stata la malattia, ma la completa mancanza di assistenza da parte dello stato, che lascia tutto sulle spalle delle famiglie, e ti assicuro che è un compito davvero gravoso. Molto diverso invece il caso del sig. Welby. Lui ha chiesto e scelto consapevolmente la morte dopo essere stato per molto anni completamente paralizzato. La sua è una scelta libera e personale, quindi rispettabile. Ma anche qui, se dovessimo fare una legge, dove porremmo il limite? Chiunque chieda di morire deve essere assistito medicalmente? Se una persona depressa un giorno chiedesse aiuto per farla finita, ne avrebbe meno "diritto" di lui? A parte il fatto che secondo me una società che parla di "diritto alla morte" è fondamentalmente malata, anche in questo caso, mi è impossibile non chiedermi quanto abbia inciso nella sua decisione la consapevolezza di essere un "peso" per la moglie e l’inevitabile senso di colpa che ne conseguiva. Mi risuonano nella mente le parole di Madre Teresa. Durante una lunga intervista il giornalista le ha chiesto cosa pensasse dell’eutanasia. Lei ha risposto che l’aborto è una piaga sociale e iniziato a spiegare tutto quello che stava facendo per combatterlo. Il giornalista, dolcemente, le fa notare che la sua domanda era sull’eutanasia, e la Madre, sgranando i suoi occhi da bambina, chiede con candore cosa fosse. Le spiegano che alcune persone molto malate chiedono di porre fine alle loro sofferenze. Madre Teresa è stata un attimo in silenzio, poi ha risposto che le Missionarie della Carità assistono ogni giorno malati terminali ma nessuno ha mai espresso il desiderio di anticipare la sua morte, e questo perché si sentono amati. Nessuno se si sente amato desidera morire.
Mi dispiace, non riesco ad essere obiettiva come te, il mio intento era elencare una serie di punti di vista per rendere più completa la riflessione sull’eutanasia ma vedo che si capisce apertamente la mia posizione. Mi rendo conto che sia facile parlare per chi, come me, non si trova in quella situazione, spero di non aver mancato di rispetto a nessuno con le mie opinioni.
Con stima ed affetto.
Elena

Se volete rispondere, scrivete a: claudio@accaparlante.it 
 

La disabilità “normale” – Il Messaggero di Sant’Antonio, giugno 2011

Il 21 marzo scorso si è svolta la Giornata mondiale delle persone con sindrome di Down. Filo conduttore quest’anno, almeno in Italia, è stato «lo sport per tutti», visto come potente motore d’integrazione sociale, svincolato dalle «incrostazioni» che tendono a ridurlo a qualcosa di molto meno «colorato» e piacevole di quanto potrebbe essere. Questo perché la maggioranza delle persone associa lo sport per disabili ad atleti professionisti che rispettano standard di eccellenza e tensione agonistica molto vicini a quelli degli sportivi normodotati.
A Roma, intanto, è stato presentato un vademecum, a cura di Fisdir (Federazione italiana sport disabilità intellettiva e relazionale) e CoorDown (Coordinamento nazionale associazioni delle persone con sindrome di Down), dal titolo «Orientamenti sulla pratica sportiva per gli atleti con sindrome di Down». Va ricordato che CoorDown, a fine 2010, si è aggiudicato il primo premio della terza edizione del «Pubblicità Progresso Onp Award», assegnato al miglior spot di comunicazione sociale.
 
Dallo sport alla tv: la nuova frontiera dell’handicap passa per il concetto di «normalità». Si intitola Something special out and about (qualcosa di speciale in giro) il programma per la prima infanzia trasmesso ormai da diversi anni sulla BBC. Fulcro della trasmissione sono alcuni bambini con disabilità – perlopiù affetti da sindrome di Down – chiamati a intrattenere i giovani spettatori.
Questo format televisivo prevede che le persone disabili figurino come animatori, cioè che siano loro a «fare qualcosa per» e non a «ricevere qualcosa da».
Come scrive nel suo blog Matteo Schianchi, in relazione alla trasmissione inglese: «Quando si mostra la disabilità al di fuori dei codici (cui siamo più abituati, ndr) che in fin dei conti producono sottocultura, la si può mostrare come dimensione che fa parte del mondo. La rappresentazione della disabilità può diventare ordinaria e abituale senza dover essere necessariamente un evento speciale, con ospiti speciali, storie speciali e straordinarie».
 
La notizia e il commento di Schianchi mi sono tornati in mente quando, pochi giorni dopo la Giornata mondiale delle persone con sindrome di Down, in una domenica qualsiasi, mi sono trovato in un normalissimo bar di provincia, popolato da anziani che si dividevano tra le immagini delle partite di calcio e vivaci match di tresette. Qualche metro più in là, seduta a un tavolo del locale, c’era una coppia di ragazzi Down che si scambiavano baci.
La cosa interessante era che quei vecchini a loro non prestavano attenzione, come probabilmente avrebbero fatto con qualsiasi altra coppia che avesse scelto quel luogo per passare un po’ di tempo in intimità. Ho pensato che la scena sarebbe stata perfetta per uno spot d’integrazione. Era anche un’ottima notizia, sebbene non «facesse notizia» nemmeno per i presenti. Questa, dunque, la sua forza: non essere informazione, ma unicamente realtà (però è stato difficile resistere alla tentazione di filmare col telefonino).
È anche tra questi due poli che si gioca il destino della disabilità: da un lato una realtà che sappia riconoscere come normale, e quindi anche «ignorare», in senso positivo, la diversità. Dall’altro un ambito delle rappresentazioni che aiuti a creare le condizioni per cui questo possa avvenire. Tanto la realtà quanto la rappresentazione che se ne può dare, in un rapporto di collaborazione felice, possono darci esempi di quanto sia assurdo stabilire confini, limiti, divieti. Soprattutto se a determinarli è sempre la «parte sana» della società.

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.
 

Eutanasia. Giudicare? No, grazie – Superabile, maggio 2011 – 1

A volte si verificano concentrazioni di fatti che, pur essendo casuali (le concentrazioni, non i fatti), a noi sembrano evidenziare legami, destini comuni e ci spingono a cercare associazioni di vario tipo tra gli eventi stessi. Insomma, dovremmo poter prendere atto soltanto dell’involontarietà di questi "appuntamenti di accidenti", e invece siamo invogliati a costruire dei discorsi a partire da frammenti di senso (o di fatti).

Prima le polemiche innescate dagli interventi a "Vieni via con me" di Mina Welby e di Beppino Englaro; pochi giorni dopo la morte di Mario Monicelli, suicida a 95 anni d’età, per quanto gravemente malato, anzi forse anche per quello (peraltro, proprio in questi giorni è in discussione in Parlamento l’ultimo disegno di legge proposto dalla maggioranza in tema di testamento biologico, idratazione e alimentazione, ecc). Ecco il precipitare degli eventi di cui parlavamo sopra. Casi slegati, ma simili e che hanno dato a due fazioni opposte l’ennesima occasione per scontrarsi attraverso critiche aspre, frutto di ragionamenti almeno in parte strumentali.

Innanzitutto a Fazio e Saviano vorrei riconoscere il merito di aver compreso l’importanza di un tema come quello dell’eutanasia, che chiama in causa molteplici aspetti di noi come individui singoli e di noi come individui che appartengono ad una società. Anzi, lo vedremo, è proprio ragionando sul rapporto tra queste due istanze (singolo e collettività) che a mio avviso si può rilanciare il dibattito. Se si chiama in causa il divino, o qualcosa che da noi in qualche modo prescinde, mi sembra impossibile ritrovarsi su un terreno comune. Che, sia detto di sfuggita, è ciò che tuttora rende impraticabile la definizione e l’approvazione di una legge che tuteli i diritti e i doveri di chi si trova di fronte ad una scelta o, comunque, dentro una situazione come quella vissuta dalle famiglie Welby, Englaro e da tutte le altre persone di cui i quotidiani italiani ci hanno messo o rimesso al corrente. Dando vita, così, ad una guerra di "casi umani" a mio avviso un po’ penosa e irrispettosa degli stessi.

L’argomento attiene all’idea di libertà, di laicità, di autodeterminazione, di autonomia del singolo, del rapporto tra se stessi e gli altri. Quindi presuppone e rimanda ad un’idea di legge, di Stato, di convivenza tra cittadini, di rapporto tra legislazione e scienza, di organizzazione di servizi sanitari. E altro ancora. Notate, ad esempio, che le critiche seguite alla serata di "Vieni via con me" non riguardavano solo il contenuto, il cuore degli argomenti, ma si è subito allargata ai meccanismi, ai tempi, agli spazi e alle regole ai quali la tv dovrebbe attenersi (già oggi o, in futuro, a seguito di eventuali modifiche dei regolamenti). In questo caso, avanzando la richiesta, molto poco convincente, opportuna e praticabile, a mio avviso, che se in un programma si è espresso A, allora la volta successiva, se non immediatamente a latere, debba potersi esprimere anche B.

Sono a favore del testamento biologico, quel documento che potrebbe garantire il rispetto della propria volontà in materia di trattamento medico anche nel caso in cui non si sia più in grado di comunicarla agli altri. Sono a favore del riconoscimento di un limite oltre il quale una cura si configura come irragionevole accanimento terapeutico e del diritto del singolo a determinare lui quel livello, sostenuto dai consigli consapevoli di un medico e secondo procedure che si possono pensare, valutando anche modelli esteri già operanti. Perché nemmeno su questi due ambiti (e strumenti), che tra tanti mi sembrano appartenere ad un territorio meno conflittuale, si riesce a predisporre in breve tempo una legge che contribuisca a fare almeno un po’ di chiarezza?

Sono personalmente contrario all’eutanasia, almeno nella misura in cui io non "sfrutterei" questa forma di "libertà". Ma posso dirmi teoricamente a favore della stessa. Se questa è frutto di una scelta la cui determinazione non può che derivare, dipendere anche dalla qualità, dalla quantità, dalla forza, dalla debolezza dei rapporti tra gli individui, si giunge ad un punto in cui è davvero pericoloso, e a suo modo violento, esprimere un giudizio di valore su vicende che riguardano altre persone. La morte di una persona è una scelta di vita, anche perché essa chiama in causa la vita degli altri, e questo rapporto non può essere solo di dipendenza negativa («non mi "ammazzo" o non mi "faccio ammazzare", perché gli altri sono ancora vivi»), ma anche di (in)dipendenza positiva. Come se poi tutto l’onere della decisione dovesse ricadere o ricada effettivamente su chi soffre il dolore fisico o l’inutilità di un trattamento e non anche su chi "assiste" il diretto interessato (nel senso del prendersi cura ed essere testimone partecipe di quell’evento). Come se la realtà non fosse più complicata, sottile, sfuggente e le scelte non fossero costruzioni me risultati collettivi, pur restando la vita, in ultima istanza, nella disponibilità dell’individuo e il "diritto alla vita" pertinente alle singole persone (con le dovute differenze per chi, legittimamente, ritenga la propria vita un bene "indisponibile").

Non riconoscere tutte queste implicazioni significa semplificare la questione (è questo il rischio, nonostante il numero e la coralità degli interventi a mezzo stampa possa dare l’illusione di un confronto aperto e profondo tra posizioni diverse) e semplificarla non aiuta ad approssimare una soluzione. Per evitare questo rischio ritengo che l’unica possibilità sia quella di partire da se stessi e riconoscere la fondatezza piena delle proprie idee e, allo stesso tempo, essere in grado di "allontanarci da noi", porci ad una distanza tale da consentirci il rispetto delle scelte altrui.

Vito Mancuso, in "Che cosa vuol dire morire" (Einaudi, 2010) scrive "Ogni essere umano adulto responsabile ha il diritto di dire l’ultima parola sulla sua vita". Assumiamolo come punto di partenza per arrivare ad una soluzione che non obblighi "qualcuno a", non delinei o, peggio, imponga percorsi rigidi e automatici, ma che piuttosto metta i singoli e coloro che con essi sono in rapporto nella "condizione di". E’ la natura delle cose a richiederlo.

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Claudio Imprudente
 

Il valore di un confine – Il Messaggero di sant’Antonio, maggio 2011

Più volte ho riflettuto, anche in queste pagine, sulla sofferenza (e la sua percezione), descrivendola come risultato di associazioni improprie tra elementi (Disabilità non fa rima con solitudine, «Messaggero di sant’Antonio» novembre 2008) o come una prospettiva grazie alla quale ci possiamo riappropriare di una capacità «visionaria» per intendere e modellare la realtà (La fragilità visionaria, «Messaggero di sant’Antonio» maggio 2010).
Ma cosa dire rispetto alla condivisione della sofferenza?
Nadia mi ha scritto di M. e della sua volontà di vivere il dolore da solo: «Non so nulla di che cosa possa voler dire sperimentare ciò che lui soffre. Questo potrebbe rappresentare una distanza incolmabile? Ma, considerata la nostra specifica unicità, sarebbe mai possibile partecipare del vissuto altrui? Sarebbe tremendo e, direi, andrebbe contro ciò che mi pare l’originalità (il segno, l’orma interiore) dell’essere persona, ossia la possibilità – o quasi necessità – costitutiva del rivolgersi al “tu”. In una cecità subita o scelta, senza lo sguardo altrui, che cosa potrebbe restarci se non il deserto?».

Rispondo che non si tratta di stabilire che cosa si perde nei casi in cui non è possibile essere o rendere partecipi di qualcosa che riguarda altri o noi.
Le cose non sono a senso unico.
Le cose, nostro malgrado, sono mobili, mutevoli. Non c’è un’essenza da rispettare o smentire. Non ci sono terreni da conoscere necessariamente. Se M. viveva quel dolore in modo non condiviso, a un certo punto occorreva prendere solo atto di quel che diceva e desiderava. E forse trarre una lezione anche da questo.
Nadia, ancora, chiede: «Tu scrivi in un modo molto intenso. Non ho facile accesso alla tua scrittura, ma ci provo. È come una sfida a rompere, a primavera, delle zolle indurite e resistenti. Perché mi sono messa in mente di rispondere, tuo tramite, a M.? Forse non so misurarmi con la malattia. Irrazionalmente la temo. Mi chiedo: è rifiuto della fragilità il mio? Il tuo dire mi ha indicato di scavare più a fondo. La sottintesa intenzione del “dare” viene messa in discussione quando tu dici che non si tratta di “stabilire che cosa si perde”. Si tratta forse di oltrepassare sia termini di “gestione” che di “giudizio”? Ma allora… è il caso di scrivere a M.?».

È vero: a volte le parole e i pensieri sono come zolle dure in primavera, che vanno «forzate» per essere attraversate, piegate, avvicinate. E, nel mio caso, tanto più la situazione è così, quanto più sento un argomento difficile, non solo da scrivere e descrivere, ma anche soltanto da pensare. Non solo difficile per il ragionamento, quindi, ma anche rispetto alla capacità di affrontarlo, di «arrivarci» con il sentire. Lì si creano dubbi e incertezze che la scrittura deve cercare di mimare e riportare, anche «indurendosi», se necessario. In una realtà inafferrabile non possiamo muoverci come se essa non fosse tale. Il rischio è che questo atteggiamento, a sua volta, produca incertezze. Agendo diversamente, però, rischiamo proprio di non capirla affatto questa realtà e di produrre solo incomprensioni o ferite nel confronto con gli altri.
Il punto, allora, è che non possiamo contare che su «conquiste» parziali: ci viene chiesto di abbandonare di continuo posizioni per occuparne altre. Questo non vuol dire smentire noi stessi o quello che sta davanti a noi o, appunto, costringerci all’inazione. Vuol dire provare a costruire e ricostruire un rapporto più intenso con le cose e con le persone, affinché comprendiamo che non abbiamo di fronte dei monoliti, non stiamo interpretando e parlando a dei minerali.
Ma non era di «semplice» sofferenza che dovevamo discutere?
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Tra le pieghe del lavoro – Superabile, aprile 2011 – 2

La monografia di HP-Accaparlante di settembre 2010 era dedicata all’analisi delle recenti trasformazioni del mondo del lavoro rispetto all’inserimento lavorativo delle persone con disabilità. L’indagine, condotta da Massimiliano Rubbi, faceva emergere, anche attraverso interviste a "datori di lavoro" operanti in settori diversi, un quadro vario, caratterizzato da elementi positivi ed altri, invece, critici e forieri di ulteriori elementi di difficoltà. Un aspetto molto interessante, come scrive l’autore, è che «la disabilità, tanto più quanto è più grave, può essere considerata come il paradigma estremo, e per questo più illuminante, dei limiti del nostro modello economico e lavorativo. (…) L’integrazione lavorativa vista come elemento di realizzazione personale per la persona con disabilità, fuori da ogni logica sia risarcitoria che assistenziale, mette in crisi il concetto di "condizioni di mercato", in base a cui la persona disabile sarebbe semplicemente incollocabile e appunto da risarcire/assistere – ma con questo mina alla base l’idea che, in ambito economico e non solo, ci si possa muovere esclusivamente nei limiti di "ciò che decide il mercato"». Considerazioni molto importanti e suggestive, per approfondire le quali, nella monografia, si possono leggere le parole di esperti come Carlo Lepri, la sindacalista Nina Daita, il massmediologo Sergio Bellucci, il docente universitario Stefano Zamagni e altri ancora.

Ad attualizzare (e "brutalizzare") questo importantissimo discorso, giunge la notizia che l’Italia è stata deferita da parte della Commissione Europea alla Corte di Giustizia continentale perché, pur avendo recepito con il Decreto Legislativo 216/03 la Direttiva 2000/78 del Consiglio Europeo, che aveva stabilito «un quadro per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro», il nostro Paese non ha ancora «una norma generale che imponga al datore di lavoro di prevedere soluzioni ragionevoli per i portatori di qualunque tipo di disabilità e per tutti gli aspetti dell’occupazione». Sono molti gli ambiti in cui l’Italia presenta dei vuoti normativi totali (pensiamo a quello, grave, relativo al reato di tortura, che, di conseguenza, non è previsto dal nostro ordinamento) o, come in questo caso, dei vuoti parziali, delle mancanze, delle disfunzioni che rendono una legge poco chiara ed efficace. E, di conseguenza, rendono un diritto non pienamente esigibile e garantito. Peraltro, sono mancanze meno visibili di un vuoto legislativo totale e particolarmente spiacevoli perché la legge di riferimento più importante in merito all’inserimento lavorativo delle persone disabili ha ormai dodici anni di vita (Legge n° 68 del 1999). Quindi, è a regime da molto tempo (la monografia cui facevo cenno è proprio un viaggio attorno e dentro la "68").

Ulteriore paradosso, di un paese abituato a produrne in quantità (o semplicente ironia della sorte): nello stesso giorno in cui ho letto la notizia del deferimento dell’Italia alla Corte di Giustizia Europea, prendo visione su Youtube di un video di sensibilizzazione recitato dai comici Ale e Franz, su iniziativa di Emergo (il Piano per l’occupazione dei disabili attuato dalla Provincia di Milano, e di Light (un consorzio di cooperative sociali), appena presentato. Il breve video si intitola "Gin e Fizz e la banda della 68" e ci mostra i due gangster, Ale e Franz, mentre cercano di riunire la loro banda, scontrandosi però con l’efficacia della legge "68" che, inesorabilmente, ha colpito ancora: ha trovato per tutti un lavoro regolare. Insomma, come recita il video, li hanno "presi" tutti, non per sbatterli in gattabuia, ma per dare loro un lavoro vero. Per cui, il video, peraltro molto divertente, è sì di sensibilizzazione, ma è come se raccontasse di una realtà che sembra non dover essere "sensibilizzata", in quanto già pronta e funzionante. Ma al di là di questo, lo spot si conclude così: «La legge aiuta le aziende a "prendere" i lavoratori disabili». Occorre, però, capire quanto e come questa e altre leggi aiutino in una scelta che, per tante ragioni, non è semplice, in particolar modo per chi ha, della disabilità, una visione ristretta e una conoscenza che non sia il frutto di un’esperienza concreta. Ragione per cui associare produttività-lavoro a disabilità risulta a tanti un’operazione impropria. E occorre fare attenzione ai dettagli, alle pieghe delle leggi, come il caso del deferimento del nostro Paese dimostra. Ammesso che poi la Corte decida di procedere valutando la decisione della Commissione Europea come legittima. Buon lavoro! E se vi avanza un po’ di tempo, scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook. (Claudio Imprudente)

(18 aprile 2011)
 

Meno sostegno, dibattito aperto – Il Messaggero di Sant’Antonio, Aprile 2011

L’articolo di gennaio dal titolo "Meno sostegno più inclusione?" (del quale potete leggere il seguito scritto direttamente da Claudia Trombetta, la mamma dalla cui vicenda l’articolo partiva, sul sito http://www.educationduepuntozero.it) ha dato avvio a uno scambio di idee molto interessante – animato, come prevedibile, da molti insegnanti di sostegno, ma non solo – che ci permette di individuare ambiti tematici e criticità solo sfiorati dal mio scritto. Subito un aspetto importante: gli insegnanti che mi hanno risposto sottolineano spesso l’importanza, il «bisogno» della presenza dell’alunno disabile in classe, come risorsa per tutti (e non come generatore di problemi e difficoltà aggiuntive).

Un elemento critico che emerge da più lettere riguarda, invece, la qualità delle condizioni lavorative dell’insegnante, riconoscendo la validità della questione centrale che avevo messo in evidenza. Grazia scrive: «Per l’esperienza maturata negli ultimi dieci anni di carriera mi sono trovata a domandarmi: ai fini dell’inclusione, “serve” la mia presenza? E ancor di più per gli alunni gravi, serve l’insegnante di sostegno in una scuola impreparata ad accoglierli? Nei casi più lievi, invece, serve per “fare la differenza”? Forse e involontariamente ho aperto un capitolo triste e doloroso: nella scuola siamo tutti numeri, l’alunno e il docente, e l’umanità è affidata al cuore di ciascuno. Nobile è la legge 104, ma da rivedere».
 
Altri auspicano uno scambio costante di idee ed esperienze per poter definire meglio parametri quanto più condivisi, in modo da capire chi e per quanto tempo (o in che ordine di studi) possa fare a meno dell’insegnante di sostegno, pur avvertendo che in ultima istanza la decisione deve spettare alla famiglia e che in ogni caso non è possibile una generalizzazione. Altri ancora ritengono non problematico il discorso se riferito alla scuola dell’infanzia, suggerendo però, come fa Ausilia, che «l’insegnante specializzato, essendo competente e operando “in punta di piedi” nel contesto classe, è in grado di rilevare precocemente nel bambino la mancanza di prerequisiti fondamentali all’apprendimento. È poi determinante che l’insegnante di sostegno non sia percepito dagli alunni come “l’insegnante del bambino con problemi”, bensì “l’insegnante di tutti gli alunni”, come gli altri docenti. Ciò dipende dalla professionalità – oltre che dal buonsenso – di tutti i colleghi, che devono sempre ricoprire all’interno della classe ruoli intercambiabili».
 
Da accogliere e meditare anche gli interventi in più deciso disaccordo. Rita, ad esempio, si mostra perplessa: «Se con il termine inclusione intendiamo la partecipazione attiva alla vita scolastica dell’alunno con bisogni speciali, come si può affermare che sia molto meglio senza l’insegnante di sostegno? L’approccio inclusivo presuppone un docente competente che aiuti l’alunno ad acquisire quelle abilità fondamentali per un’interazione corretta con ambienti e compagni. L’età della scuola dell’infanzia è quella in cui si interviene con maggior efficacia nei risultati. Sono una docente di sostegno, non vivo in simbiosi con l’alunno, ma credo nel mio lavoro. Apprezzo l’articolo, ma non generalizziamo».
Molteplici voci, molteplici aspetti, numerosi (e doverosi) piani di lettura. Invito a proseguire questo confronto, data la qualità delle risposte e degli spunti arrivati sino ad ora, a testimonianza che l’azione della signora Trombetta non è una pretesa slegata dalla realtà; piuttosto è un tentativo mosso dall’osservazione, dalla conoscenza di sua figlia, un tentativo che ci invita ad approfondire le questioni e a non considerarle date una volta per tutte. Scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.
 

 

Claudio Imprudente 
 

Un vigile non fa primavera – Superabile, Aprile 2011 – 1

A volte le cronache locali riservano notizie "piccole", ma non prive di ambiguità e di certo utili a svolgere discorsi di portata più generale. Non mi riferisco alla cronaca nera o rosa, ma a notizie di difficile collocazione, che per facilità potremmo dire di costume. Non ci spaventi la parola, se con essa indichiamo un campo che riguarda i rapporti tra le persone e tra esse e le istituzioni, le strutture, i cambiamenti che occorrono in un dato arco di tempo. A metà febbraio u.s. il "Corriere di Rieti" ha pubblicato un articolo con il quale informava che il Comune si sarebbe dotato in tempi brevi di un "vigile in carrozzina". Lì per lì ho pensato che si trattasse effettivamente di un apertura del corpo della polizia alla possibilità che persone disabili contribuiscano in qualche modo da "poliziotti" alle attività proprie dei vigili urbani (disabili in generale, anche perché "in carrozzina", il più delle volte, è una sineddoche, un po’ come il contrassegno per le auto, che è lo stesso per tutti, anche per chi ha una disabilità non motoria). Non potendo però credere a questa prima, precipitosa interpretazione, ho continuato la lettura per scoprire che, in realtà, si trattava di un progetto già presente in altre città, rispondente, certo, ad un problema diffuso (ricordo anche un recente progetto, "Multe Morali", del Centro Documentazione Handicap di Campobasso, anche se meno strutturato ed istituzionale di quello rietino), ma con caratteristiche non innovative.

In sostanza, "l’iniziativa impiegherà sei unità operative (composte da persone con disabilità, N.d.R.), che con il tempo potrebbero diventare di più, il cui compito sarà quello di segnalare alla sala operativa della polizia municipale eventuali infrazioni da parte degli automobilisti, legate alle barriere architettoniche. I vigili in carrozzina (…) avranno il compito di segnalare l’uso improprio del tagliando per i disabili rilasciato per la sosta o l’accesso alla zona a traffico limitato, ma anche l’occupazione dei posti auto riservati ai disabili da parte di chi non ne ha titolo o le soste che bloccano gli scivoli rendendo impossibile il passaggio delle carrozzine. Tutte situazioni che si verificano di frequente e che i vigili impiegati nel progetto – che non avranno comunque potere sanzionatorio – avranno premura di segnalare affinché la municipale intervenga per rimuoverle".
Insomma, una sorta di ronda, ma senza la sfumatura pericolosa che il termine ha assunto in Italia negli ultimi anni. Ed un modo per dare lavoro a persone che presumibilmente fanno difficoltà ad accedere ad una professione. Infatti, se ho ben capito, il Comune cerca risorse non solo per dotare i futuri vigili di carrozzine speciali con il logo del municipio, ma anche per garantire loro un reddito. Come tutto quello che va in direzione di una effettiva realizzazione dei diritti esigibili, la notizia in sé è da accogliere positivamente.

Anche se forse sarebbe più interessante allargare il raggio di influenza di questi "vigili senza portafoglio". Mi spiego meglio. Sarebbe interessante se potessero segnalare anche tutte quelle occasioni in cui rinvengano la presenza di barriere architettoniche laddove la legge preveda che esse non debbano esistere. Questo non solo perché, al di là di quelle infrazioni e violazioni della legge che dipendono dall’insensibilità altrui, come quella di chi posteggia in un parcheggio riservato senza averne il diritto, nelle nostre città sono numerosissimi i casi in cui ci si imbatte in barriere di tipo architettonico-strutturale, ma anche perché un compito di questo genere richiederebbe una formazione preventiva più approfondita e andrebbe nella direzione di creare dei lavoratori disabili con competenze più ampie e specialistiche, come quelle richieste a qualsiasi lavoratore in relazione al suo ambito professionale.

A questo, però, va aggiunta una considerazione, ed è qui che risiede l’ambiguità cui accennavo sopra. Quando si esaspera la pratica sanzionatoria, o si avverte la necessità di potenziarla, beh, significa che le cose non vanno proprio nel verso giusto. Mi viene in mente la questione delle "quote rosa", contro le quali è difficile esprimersi in una nazione come la nostra (che evidentemente ha bisogno di imposizioni per avanzare, smarcarsi da un assetto patriarcale non solo anacronistico e offensivo, ma controproducente sotto tutti i punti di vista, anche economico), ma che allo stesso tempo provocano perplessità all’interno dello stesso "universo femminile" ("è giusto che per legge si preveda la presenza del 50% di donne all’interno di una giunta comunale?").

Quello che voglio dire è che quanto descritto sopra si svolge in un’ottica emergenziale, riparatoria, che non è detto porti ad un cambiamento strutturale, politico e culturale. C’è un divario enorme tra legge e cultura e questo dato non va rimosso, per quanto, va da sé, le leggi di cui una nazione si dota riflettano la cultura della nazione stessa. Ma senza incidere nella dimensione profonda, culturale, identitaria, antropologica, se vogliamo, ogni cambiamento rischia di essere momentaneo, provvisorio, superficiale. Non dimentichiamo che, in particolare per chi opera quotidianamente in questo settore, l’orizzonte deve essere quello; pena, appunto, la volatilità di qualsiasi conquista e l’incertezza di qualsiasi futuro.

Scrivete, come sempre, a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.

Claudio Imprudente

Cara integrazione ti rispondo…con inclusione e sostegno – Superabile, marzo 2011 – 2

I bambini disabili sono sempre discriminati a scuola? Qual è il vero ruolo degli insegnanti di sostegno nelle classi miste? Botta e risposta tra Claudio Imprudente e un maestro sul problema della scuola

Egregio sig. Claudio Imprudente, le scrivo perché ho avuto il (dis)piacere di leggere il suo articolo sul "Messaggero di Sant’Antonio" di gennaio. (…)Vorrei spiegarle perché, secondo me, la sua è una visione alquanto miope di quella che è davvero la realtà dei fatti. (…) Il campo dell’integrazione scolastica deve necessariamente prevedere interventi mirati, attraverso progetti e politiche quotidiane che coinvolgono tutto il personale operante nella scuola, ma anche gli Enti territoriali e le famiglie (…). Probabilmente la sua è una concezione datata del ruolo, secondo la quale il/la maestro/a di sostegno è una persona, più o meno preparata (…) che è pagata per assistere un solo bambino disabile al quale dovrà trasmettere una serie di acquisizioni di base; con modalità del tutto differenti rispetto a quelle utilizzate per il resto della classe; anzi meglio se lo faccia, concretamente, fuori dalla classe…Credo che questa non sia la sua visione d’insieme, ma, per scongiurare tali luoghi comuni, devo citare la legislazione scolastica che parla non di insegnante di sostegno del bambino, bensì di insegnante di sostegno della classe; della quale detiene la contitolarità con gli altri insegnanti. Insegnare ad apprendere, insegnare a vivere, insegnare a convivere: per raggiungere tali obiettivi la scuola è uno strumento determinante, ma non solo per chi è in difficoltà, in quanto questi sono obiettivi formativi di ogni essere umano e risultano più facilmente raggiungibili in presenza di una situazione di handicap, che rappresenta un’esperienza altamente formativa, che l’insegnante di sostegno si appresta a mediare, affinché la "diversità" non venga vissuta e interpretata come "differenza" ma come unicità!(…) La invito a visitare le mie classi, a seguire una mia giornata lavorativa: potrà capire veramente che per me il bambino con disabilità è, prima di tutto, un bambino, con gli stessi e identici bisogni e diritti di tutti gli altri. Solo dopo viene la sua disabilità! E che il mio non è un grigio rapporto con un semplice "utente" o addirittura con un anonimo "numero"…! Luigi Marchese

Egregio sig. Luigi Marchese,

sono pienamente d’accordo con quanto riporta nella sua lettera e non vedo una contraddizione insanabile tra il contenuto dei suoi pensieri e i miei. Conosco i dati legislativi ed esperienziali che lei mi ricorda; devo precisare, però, che sono il destinatario di tantissime lettere in cui viene messo in risalto il divario tra le prescrizioni normative e la realtà dei fatti, per cui quello che dovrebbe essere il ruolo dell’insegnante di sostegno non trova possibilità di applicazione pratica secondo quanto previsto dalla legge. Con tutto quello che questo gap comporta sia per l’insegnante di sostegno, sia per l’alunno e la classe "sostenuti". Stesso discorso per la collaborazione tra insegnanti, enti, famiglie: se questa fosse effettiva e diffusa, non ci sarebbe niente da dire, ma è certo che la situazione sia davvero questa? Come prima, dalle parole delle persone con cui mi capita di intrattenere rapporti epistolari e dagli incontri che la mia attività di formatore mi permette di avere, mi arrivano informazioni non proprio rassicuranti. Se sulle premesse e sul modo di intendere il ruolo dell’insegnante di sostegno siamo d’accordo, divergiamo su un punto, ovvero sul peso che diamo allo scarto tra realtà e "teoria", "legge". Quanto alla questione del "numero", nell’articolo non si intendeva dire che il rapporto dell’insegnante di sostegno con l’alunno disabile sia in genere distaccato, freddo, ma che esiste una differenza innata tra il rapporto extrascolastico e quello che può applicare l’istituzione al singolo, ancora prima che inizi la relazione tra alunno e docente. Infatti la sig.ra Trombetta non lamentava una relazione malsana tra sua figlia e l’insegnante, ma, ancor prima, la difficoltà a sottoporre all’attenzione istituzionale la sua richiesta. In tutto questo non c’entra niente la professionalità (e il ruolo previsto dalla legge) dell’insegnante di sostegno, né si intendeva sostenere che l’assegnazione di un insegnante di sostegno sia l’applicazione di un’etichetta sul bambino disabile o che porti all’oscuramento delle abilità e alla sottolineatura del deficit. La mia riflessione si esercitava sulla legittimità della richiesta della sig.ra Trombetta, sulle conseguenze che l’accettazione della stessa, e del principio che la sottende, comporterebbe e al miglioramento, in termini di integrazione, che potrebbe garantire.

Il confronto non si arresta: scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.

Claudio Imprudente

Caro sig. Imprudente,

innanzitutto la ringrazio per l’attenzione e il tempo che mi sta dedicando e colgo l’occasione per scusarmi qualora il tono della mia lettera precedente le fosse sembrato un tantino "duro": non era quella la mia volontà; men che meno farlo verso chi, come lei, sulla tematica del rispetto della diversità non solo ha competenze, ma è un esempio di vita…! Se a volte mi spingo un po’ "sopra le righe" è perché sono veramente innamorato della mia professione e ogni giorno mi spendo affinché anche ai miei bambini arrivi forte il riflesso della mia intensa passione. Come lei ben saprà quella degli insegnanti è una categoria , purtroppo, spesso bistrattata e snobbata (di sicuro non da persone come lei) e questo mi addolora molto.
Al tempo stesso, tuttavia, devo ammettere che se ciò accade è anche un po’
colpa nostra, o meglio di tutto un cattivo funzionamento e raccordo tra diversi anelli amministrativi, di difficili coordinamenti tra vari enti ed istituzioni:
insomma concordo a pieno sulle sue perplessità sul divario tra "teoria" e "pratica". Potrei portarle tutta una serie di esempi di "mala gestione" di situazioni che orbitano attorno all’handicap: vedi i GLH (gruppi di lavoro per l’handicap) dove, durante l’anno scolastico, le varie componenti e tutte le figure educative che si occupano del bambino si incontrano e dovrebbero confrontarsi e delineare le strategie educativo-didattiche più idonee rispetto alla sua problematica. Uso il condizionale perché spesso le figure medico- professionali che intervengono (solitamente neuropsichiatri infantili o psicologi) anziché dare indicazioni più precise, con un taglio clinico della problematica e quindi suggerire all’insegnante metodologie da poter utilizzare, si limitano ad ascoltare le nostre relazioni sulle diverse situazioni, registrare gli "umori" della famiglia del bambino e andar via, senza fornirci strumenti concreti e spendibili nella nostra relazione con il fanciullo. O ancora la compilazione dei P.D.F. (profilo dinamico funzionale) un documento ove si registrano le difficoltà legate a ciascun area (sensoriale, psico-motorie, mnestica, linguistica, ecc.) e si indicano le strategie da adottare per il futuro. Tale documento, come sicuramente lei ben saprà, dovrebbe essere redatto (PER LEGGE!) da tutte le "parti in causa": genitori, insegnanti (di sostegno e non), specialista dell’ASL, operatori scolastici che eventualmente intervengono (assistenti educativi, ecc.), eventuali terapisti dell’extra scuola (logopedisti, psicomotricisti, ecc.). Ho usato nuovamente il condizionale, perché la trasposizione reale di tale situazione vede (quasi sistematicamente) solo ed esclusivamente l’insegnante di sostegno "relegato" a tale impegno nonostante, alla fine, tutti le componenti vi appongono la propria firma …! Personalmente non ho problemi e timori "reverenziali" a confrontarmi con documentazioni dove si approfondiscono molte tematiche quasi a livello medico, visto che (e non lo dico per falsa modestia ) ho una formazione, per così dire, abbastanza "robusta" che mi consente di avere conoscenze e di far fronte anche a situazioni che vanno al di là del campo strettamente professionale dell’insegnante di sostegno; ma molti colleghi che non posseggono tali acquisizioni (e non sono obbligati a farlo) si ritrovano in una situazione di difficoltà creata, a monte, dal mancato rispetto di una chiara norma legislativa.
Insomma, caro sig. Imprudente, questo nostro chiarimento ci ha fatto scoprire di convergere su molti punti; anche perché sarei un’ipocrita se dipingessi solo una realtà rosea e felice: questi problemi sono oggettivamente riscontrabili e sotto gli occhi di tutti. Però, come ormai avrà ben capito, mi piace evidenziare anche le "cose che funzionano", soprattutto quelle legate al lavoro dell’insegnante, e ritengo giusto farlo proprio per evitare che a far notizia siano solo le storture e le negatività, mentre non si dia rilievo a chi, ogni giorno fa (bene) il suo dovere.
E’ per questo che, prima di salutarla, le racconterò brevemente una storia personale che va annoverata di sicuro tra le cose belle e positive intrinseche al mondo della scuola.
L’anno (scolastico) scorso ebbi la fortuna di approdare in quella che è ancora oggi la mia attuale scuola (dico fortuna perché è davvero una bella realtà, dove si lavora bene anche grazie alle doti del nostro Dirigente). E’ un circolo didattico molto grande e comprende tre plessi diversi: io itinero su due. Uno di questi sorge in una zona della città considerata socialmente a rischio. La classe in cui avrei dovuto operare era una terza, composta da 19 alunni ognuno dei quali aveva alle spalle una situazione familiare delicatissima. Per loro la scuola era (ed è) il tempo e lo spazio in cui hanno e si riconoscono come identità: fuori di lì, nelle loro case, quei bambini devono far fronte, quotidianamente, a problematiche da adulti…!
Tanto era stato fatto, fin lì, dalle mie colleghe curriculari per creare un’ omogeneità e degli equilibri che spesso venivano minati dagli umori dei bambini per le difficoltà che lasciavano in famiglia prima di entrare a scuola la mattina. In questo contesto era stato segnalato (l’anno precedente) un caso di dislessia e disgrafia: dopo le visite dell’ASL locale e l’accettazione della problematica da parte dei genitori, ad Alex ( il nome del bambino che seguo) è stato concesso il sostegno. Il bambino aveva un attaccamento affettivo molto forte verso la figura materna, la quale, tra l’altro, non aveva "metabolizzato" a pieno la difficoltà del figlio: pur percependo che si trattasse solo di una problematica legata alla letto-scrittura, la viveva come una "macchia" che rendeva il suo bambino (intelligentissimo) "diverso" dagli altri. Prima dell’ inizio della scuola, perciò, convocai più volte i genitori di Alex, con i quali ebbi degli incontri a scopo "distensivo", per far sì che elaborassero (soprattutto la madre) al meglio la situazione del proprio figlio: spiegai loro che la dislessia non è un deficit ma un disordine qualitativo, che è una problematica che investe limitatamente alcune funzionalità, dalla quale si migliora (seppur non si "guarisce") e con la quale si convive tranquillamente, senza che essa vada ad inficiare aree cognitive particolari e soprattutto senza che (se affrontata con la giusta modalità) impedisca e comprometta un buon andamento scolastico e un’affermazione culturale e lavorativa del soggetto dislessico (d’altronde anche Einstein era dislessico…).
Se forse avevo portato a casa un primo risultato, e cioè quello di tranquillizzare i genitori (per lo meno la mamma aveva smesso di piangere quando pronunciava la parola "dislessia"…!), ora c’era da vincere la partita più importante: evitare che Alex soffrisse il peso di questa nuova figura che l’avrebbe dovuto accompagnare.
Lui è, infatti, un bambino molto sensibile, introverso, già cosciente delle sue difficoltà nella letto-scrittura e sofferente nel confronto con i compagni: capire di avere un insegnante di sostegno avrebbe avuto solo come risultato quello di una chiusura ulteriore in se stesso e con la sua problematica, accentuando ai suoi occhi il divario tra lui e i suoi compagni di classe. Se dai primi giorni di scuola, io mi fossi seduto costantemente affianco a lui, non avrei fatto altro che destabilizzarlo ulteriormente.
Per questo, in pieno accordo e sintonia con le colleghe di classe, sono stato presentato ai bambini come un nuovo maestro che era lì per aiutare e stare insieme a tutti gli alunni. Naturalmente, per confermare ai loro occhi tale impostazione, ho attivato una serie di strategie: ad esempio girare continuamente tra i banchi e soffermarmi su chiunque ne avesse bisogno; introdurre insieme alla collega di turno, argomenti di italiano, matematica, storia, ecc, o addirittura spiegare e interrogare solamente io in alcune circostanze; quando decidevo di dover fare dei lavori specifici e individuali per Alex, organizzavo dei piccoli lavori di gruppo o comunque lo portavo fuori dalla classe sempre insieme a qualche altro bambino; ecc.
Insomma, per non dilungarmi troppo, ancora oggi, dopo due anni, nessun bambino ha intuito o ha mai affermato che io sono l’insegnante di sostegno di Alex: tutti si sono legati tanto a me e mi ritengono il "loro maestro".
Alex, da par suo, è migliorato tantissimo, non solo dal punto di vista della letto-scrittura, ma anche sull’aspetto emotivo: si è aperto molto di più con compagni e insegnanti, soffrendo meno il suo disagio interiore.

In tutto questo, la mia gratificazione più grande, oltre naturalmente ai progressi di Alex, è quella di poter espletare a pieno la vera natura e funzione del mio ruolo: essere l’insegnante di sostegno non del singolo bambino ma della classe!

Ringraziandola per il tempo e l’attenzione che vorrà dedicarmi e soprattutto per lo spazio che ha deciso di concedere già alla mia precedente lettera, le dico che, qualora avrà voglia di proseguire in qualche modo questa nostra corrispondenza, sarò lieto di raccontarle altre storie che, sicuramente, fanno bene alla realtà scolastica e danno giusto spessore e valore alla mia categoria.

Cari saluti.
Luigi Marchese

(Pubblicato su www.superabile.it il 18 marzo 2011)

La famiglia con disabilità: l’ABC ci insegna… l’abc – Superabile, Marzo 2011 – 1

Una insegnante, in un’interessante lettera di risposta ad un mio articolo, ha usato queste parole: «Il lavoro dell’insegnante di sostegno è il lavoro  della "solitudine" perché non abbiamo interlocutori sensibili…». Quello della solitudine, delle solitudini, perché ci sono tanti modi e tante ragioni di e per sentirsi soli, è un sentimento largamente diffuso tra chi si trova a vivere, fronteggiare, gestire una condizione di disabilità. Per questo motivo dalle lettere che ricevo emerge sempre un bisogno urgente di confronto, scambio reciproco, condivisione di esperienze: è una necessità facilmente comprensibile e alla quale il ricorso ad esperti del settore (o presunti tali) non sempre fornisce risposte soddisfacenti e credibili. Non faccio alcuna fatica ad annoverarmi tra i rappresentanti di questa "categoria"… ma, al tempo stesso, sono tra i primi ad auspicare (e tentare di stimolare) momenti di confronto, occasioni di dialogo tra chi, prima di riflettere, vive una data situazione. Sono, peraltro, in ottima compagnia, condivido questo percorso con tantissime persone, che forniscono quasi sempre stimoli "non accademici" di una verità, mi si passi il termine, eclatante, evidente, dalla quale non si può distogliere lo sguardo o la riflessione… e sono il primo a non distrarmi.

E’ per questa ragione che vorrei dedicare questo articolo alla "promozione" di un "libretto" (come affettuosamente e con molta modestia è stato definito da chi me lo ha presentato/sottoposto) prodotto dall’Associazione Bambini Cerebrolesi (ABC) Federazione Italiana e basato sull’esperienza delle famiglie dell’associazione e di altre conosciute dalla stessa nei suoi anni di attività. Il libro, che è stato consegnato ai Presidenti delle Commissioni parlamentari e regionali che si occupano di disabilità, tratta in maniera semplice (una semplicità complessa, però, in quanto frutto dell’esperienza) e piana di tutte le tematiche che riguardano la disabilità grave di un figlio "in famiglia" e i relativi rapporti con società, istituzioni e "resto del mondo".

Il testo è stato anche messo in rete a puntate su www.superando.it/content/view/6986/122 e l’edizione cartacea è gratuita e destinata agli uomini e alle donne delle istituzioni (alcuni dei quali e delle quali spesso parlano di disabilità senza aver la più pallida idea dell’argomento che trattano. Questa un’altra delle ragioni che hanno portato alla produzione di questo libro). L’assunto, ormai noto a tanti, quanto disatteso nella realizzazione pratica di politiche socio-assistenziali, è che tra disabilità ed handicap sussiste una differenza dalla quale non si può prescindere soprattutto nella fase di organizzazione e nell’approntamento di interventi concreti. Il secondo assunto è che, dal momento che le persone con disabilità grave vivono essenzialmente in famiglia (dal 70 al 90% dei casi, secondo le fonti), sembra quantomeno opportuno approfondire gli aspetti, le problematiche, le conoscenze che riguardano questo nucleo, questo attore sociale (a prescindere dalle forme che la famiglia può oggi assumere, anche se in Italia il problema… colpevolmente "non si pone"). Come si può leggere nella prefazione, «le interazioni tra disabilità e famiglia sono numerosissime ed investono in pratica tutti gli aspetti della vita familiare: da quello affettivo, a quello economico, dai rapporti tra i vari membri della famiglia a quelli con la società».

Il libro si compone di capitoli brevi, agevoli, che non hanno la velleità di risolvere alcun discorso, ma di fornire delle "regole" basilari, propedeutiche all’approfondimento o, quantomeno, funzionali alla creazione di un punto di partenza condiviso. Tra gli altri, cito «La comunicazione della diagnosi»; « I rapporti della famiglia con l’equipe riabilitativa: la pari dignità»; «I costi economici sopportati dalla famiglia con disabilità: la diminuita capacità di reddito e l’abbandono del lavoro»; «E dopo la scuola ? come trasformare l’integrazione scolastica in  inclusione sociale partecipata ed attiva»; «Vent’anni dopo: la fatica assistenziale, il logoramento fisico».

Mi sembra di cogliere un intento di fondo peraltro molto condivisibile, ovvero la ricerca di una "pari dignità" e di un equilibrio virtuoso e non statico tra i soggetti coinvolti nei vari ambiti e momenti di "gestione" della disabilità del figlio/bambino/ragazzo. Per cui viene dato risalto a quello che un attore può fare per l’altro e a quello che un attore può aspettarsi e "pretendere" dall’altro (si veda a tal proposito il cap. 8, nel quale le potenzialità, i limiti e gli ambiti di competenza di famiglie, associazioni, rappresentanti, mezzi di comunicazione, ecc. vengono spiegati molto bene).

Quindi, la famiglia "con disabilità" come motore non unico e soprattutto come motore "di serie", ma anche come "monitor sociale", riprendendo un’espressione che avevo coniato tempo fa, e delle dinamiche della famiglia stessa: «Trattando delle caratteristiche della famiglia con disabilità non vorremmo averne creato un mito. La famiglia con disabilità, in fin dei conti, è una famiglia come le altre. La nostra esperienza ci permette però di affermare che la disabilità funziona come un evidenziatore che rende più visibili, nel bene e nel male, virtù e vizi della famiglia».  E non solo, per fortuna, aggiungo io.

Da ultimo, un po’ come fanno le band emergenti a fine concerto, con modestia (vera o finta che sia) o imbarazzo, quando, indicando un tavolinetto all’angolo, dicono "se il concerto è piaciuto, ma anche se non è piaciuto, là trovate il nostro disco a 10 euro…", ecco, con lo stesso spirito vi lascio gli estremi per aiutare concretamente alcune famiglie con disabilità: potete effettuare un piccolo versamento a favore dell’Associazione Dopodomani Onlus, c/c postale 56978695, codice IBAN IT81 C076 0110 6000 0005 6978 695 per la realizzazione di "Villa Amico", casa-famiglia per persone con disabilità. Per info: abcliguria@gmail.com. Il testo, come già detto, verrà messo in rete a puntate su www.superando.it e l’edizione cartacea è gratuita e destinata agli uomini e alle donne delle istituzioni. Buona lettura e scrivete come sempre a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook. (Claudio Imprudente)

Il peso specifico dell’handicap – Il Messaggero di Sant’Antonio, Marzo 2011

Ho scritto più volte che il Vangelo ha un solo modo per continuare a respirare: essere letto, interpretato, penetrato. È qui che risiede la sua forza: nella capacità di resistere al e nel tempo, non «sempre uguale a se stesso». Il Vangelo apre inaspettati stimoli di riflessione capaci, in quanto tali, di «cambiare» in parte lo stesso testo di partenza rivelandone di volta in volta significati altri. Il Vangelo è contemporaneamente «fuori dalle nostre mani» e «nelle nostre mani», cioè nella disponibilità dei nostri ragionamenti… o pennelli. Mi spiego. Ho visitato poche settimane fa, presso la Raccolta Lercaro di Bologna, la mostra «Attraverso le tenebre. Goya, Battaglia, Samorì», riflessione attorno alla realtà del male. In particolare mi hanno colpito le opere di Samorì, una rivisitazione della Via Crucis. Se l’arte del pittore emiliano-romagnolo è abitualmente una sorta di «corpo a corpo» con il sacro, a prescindere dal fatto che egli sia credente o meno, in questo caso il confronto pare diretto, immediato, e il risultato è un potenziamento del «già letto», un suo aggiornamento anche emotivo.
 
Una delle stazioni della Via Crucis racconta il passaggio della croce da Gesù a Simone di Cirene. I Vangeli non si dilungano molto su questa figura, non aggiungono dettagli salienti, né raccontano di un dialogo diretto o di un confronto tra Gesù e Simone. Anzi, quest’ultimo (descritto solo come «proveniente dalla campagna» e «padre di Alessandro e Rufo») non si propone in prima persona, viene «costretto» a portare la croce di Gesù. Ma noi, da credenti «ostinati», riusciamo a leggere nelle righe vuote e troviamo una volontà anche laddove essa non è esplicitata. Perché gli evangelisti fanno riferimento a questo personaggio senza inquadrare meglio la sua presenza? Perché raccontare che Gesù non è riuscito a trasportare fino al Gòlgota la sua croce da solo, trascurando poi ogni dettaglio della persona cui è stato imposto l’aiuto? Svista narrativa degli evangelisti? Scarsa attenzione di chi ha deciso che i Vangeli canonici dovessero essere quelli? Dubitando di queste interpretazioni minimaliste, il cenno a Simone serve a dare alla dimensione umana del divino un senso di condivisione, di partecipazione. Dio è con noi, ma non è una vicinanza «a costo zero», né Dio vuole che sia tale. Non è una concessione; è, piuttosto, un invito al cambiamento e alla crescita.
 
C’è poi un elemento in più: nel momento in cui di Gesù viene posta in risalto l’umanità, ecco che emerge con forza la necessità di condividere, di spartire il peso specifico delle cose. Di quale cosa, nel contesto in questione? Della croce, del destino, dell’handicap. Al di là dell’esattezza fisica del termine, mi è sempre piaciuto pensare che l’handicap (molto più del deficit) abbia un peso specifico e che questo sia variabile, non dato. Perché questo passaggio dal dato all’indefinito possa avvenire, occorre che la gravità sia distribuita. Non è solo un modo per condividere la fatica derivante da una situazione (la situazione di handicap), ma per condividerne il portato, le prospettive di consapevolezza che essa può aprire. Nel momento in cui divido il peso, ecco che aumento la capacità di «rivelare» le cose. Non condivido unicamente la fatica, ma la condizione in cui la fatica mi pone. Distribuire non ha solo l’obiettivo – egoistico o mosso dalla necessità – di alleggerire, quindi di sottrarre, ma anche quello di condividere in termini di crescita, di disvelamento. Si rinuncia a una parte di peso per distribuire la consapevolezza alla quale il peso porta. Si legano, così, azione e riflessione, condivisione e progresso, singolo e comunità. Scrivete a (e condividete con) claudio@accaparlante.it o al mio profilo di Facebook.
 

Insegnante di sostegno, diritto o dovere? – Superabile, febbraio 2011 – 1

A gennaio ho pubblicato un articolo su "Il Messaggero di Sant’Antonio", prendendo spunto dal contenuto di un’intensa corrsopondenza con Claudia, mamma di Irene. Là anticipavo che, se fossi riuscito, avrei pubblicato un contributo scritto direttamente da Claudia, saltando la mia "mediazione" giornalistica. Di seguito potete leggere la prima parte del suo articolo, che sarà presto seguita dalla seconda

Sono la mamma di una bimba con Sindrome di Down, Irene.
Irene ha quasi due anni e mezzo, è una bimba gioiosa e furbetta, divertente e riflessiva. Ora cammina in modo deciso alla scoperta del mondo ed inizia a pronunciare le prime parole, spinta da un forte desiderio di farsi capire. A noi piace moltissimo guardarla nelle sue esplorazioni, nei suoi sorrisi, nel suo modo di comunicare, anche nella sua goffaggine nel camminare!
Da settembre 2010 frequenta il nido comunale, in un gruppo di pari età, dove si è inserita con facilità e partecipa felice alla vita "sociale", anche grazie all’intelligenza ed alla disponibilità della sua maestra Patrizia e del resto del personale, capaci di accogliere Irene con attenzione e leggerezza al tempo stesso. In questo contesto aperto ed accogliente, Irene riesce a regalare giorno dopo giorno, sia a noi cha alla maestra, la gioia e la sorpresa di continui apprendimenti.
Tutto sta quindi procedendo al meglio, ma… Una nuova "sfida" si affaccia alla nostra porta: l’imminente iscrizione alla Scuola d’Infanzia. La questione è così semplice e così complessa al tempo stesso: continuo a sorprendermi di quanto una cosa così semplice possa diventare così incredibilmente complicata!
Mi spiego. Da quando ho inziato ad attivarmi per l’iscrizione, mi sono scontrata con l’idea che il diritto all’inclusione scolastica coincide con il diritto all’insegnante di sostegno. Sento fastidioso questo abbinamento automatico: perché le due cose si sono così sovrapposte!? Non è questo che dice la legge sull’integrazione. Non è questo che dicono alcune circolari ministeriali. Non è questo che dicono molti esperti. E non è questo ciò che penso serva alla mia Irene!
La richiesta dell’insegnante di sostegno sembra ormai essere l’esito di un processo acritico ed automatico, una prassi ormai consolidata ma poco "pensata": diritto all’inclusione uguale diagnosi funzionale uguale insegnante di sostegno. La scuola lo dà per scontato. I servizi lo danno per scontato. Le famiglie pure. L’ipotesi di non richiederlo sembra assurda: com’è pensabile rinunciare ad un diritto così importante?
Io invece sento il bisogno di fermare la corsa burocratica e pensarci un attimo: davvero l’insegnante di sostegno sarebbe un’opportunità per mia figlia in questo momento? Penso di no. I motivi sono tanti. Ne cito solo alcuni.
Primo, stiamo parlando della Scuola dell’Infanzia.
Poi ho un’idea radicata: le cosidette "professioni d’aiuto" vanno usate con attenzione e moderazione (e lo dico da psicologa): se da una parte offrono aiuto, dall’altra possono etichettare, trasmettere messaggi di deficit ed inadeguatezza, molto pericolosi in età evolutiva.
Un pò come l’utilissimo antibiotico: sappiamo bene che se ne abusiamo, l’inefficacia non tarderà a comparire. L’idea " più ne usi meglio è" (spesso diffusa negli interventi riabilitativi, terapeutici, di sostegno), può essere molto pericolosa.
Quindi mi chiedo: serve proprio a Irene l’insegnante di sostegno alla Scuola d’Infanzia ove la didattica ha un ruolo ancora limitato? O la sua presenza rischia di etichettarla già come inadeguata, incapace, deficitaria in un momento della sua vita in cui non è poi così vero nè necessario? Perchè devo già sottolineare le sue differenze come se fossero differenze negative, mancanti, problematiche tanto da necessitare una adulto tutto per lei per "normalizzarla" il più possibile? Ne trarrebbe giovamento la sua autostima? E la sua autonomia? L’avere un adulto "tutto per sè" non rischia di "infantilizzarla" più del dovuto e di ostacolare processi di autonomizzazione che potrebbero invece più facilmente svilupparsi se lei potesse essere trattata come tutti gli altri bimbi?
Spesso si sente dire che i bambini con disabilità sono innanzitutto bambini: posso capire che chi non ha avuto la fortuna di crescere per due anni e mezzo con una bimba come Irene possa fare più fatica a cogliere la veridicità di questa affermazione. Come mamma però sento profondamente che è così: innanzittutto una bambina, con bisogni, desideri e modi simili a qualsiasi bambino.
Che ci siano dei limiti, questo è innegabile. Non dobbiamo neanche negare, però, che spesso ipervalutiamo i limiti, perchè ciò che è diverso ci spaventa e ci mette a disagio. Sopravvalutiamo il limite per avere la sensazione che, definendolo, lo possiamo gestire meglio.
Forse allora può essere utile fermarsi un attimo, bloccare le prassi consolidate e gli automatismi interventistici.
Senza attese miracolistiche, con la consapevolezza che l’ inclusione scolastica sarà un obiettivo mai raggiunto completamente e che dobbiamo fare tutti insieme un passo dietro l’altro.
L’inizio, per me, per noi, per quello che può fare la nostra famiglia per contribuire a questo processo, è questo: dare fiducia alla nostra bimba, dare fiducia alle insegnanti che l’accoglieranno, alla scuola, a noi come famiglia. Puntare sulle potenzialità di tutti e sperimentare un percorso scolastico alla scuola materna ove siano presenti le insegnanti curriculari in prima linea, la mia Irene, la nostra famiglia, le associazioni, i professionisti che sapranno aiutarci e sostenerci.
Un modo per iniziare può essere, dunque, questo: sfidare i nostri pregiudizi e le nostre paure e vedere l’ingresso di Irene alla scuola materna come un’opportunità per tutti oltre che come un impegno ed una fatica in più. Iniziare concretamente, con questa scelta di rinunciare ad un diritto, quello all’insegnante di sostegno, che sembra essere diventato un dovere.

Claudia Trombetta

Il mio articolo su "Il Messaggero di Sant’Antonio" potete leggerlo cliccando qui http://www.messaggerosantantonio.it/messaggero/pagina_articolo.asp?R=Vivere insieme&ID=2082.

Scrivete come sempre a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook oppure scrivete direttamente a Claudia: ctrombetta@inwind.it

Claudio Imprudente

(Pubblicato su www.superabile.it, il 18 febbraio 2011)

Organismi esistenti e organismi viventi – Superabile, Gennaio 2011 – 2

Il 13 dicembre scorso è caduto l’anniversario dell’approvazione, nel 2006 da parte delle Nazioni Unite, della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, ratificata definitivamente dall’Italia nel febbraio 2009. Pochi giorni prima, il 3, si è festeggiata, invece, la Giornata Internazionale dei Diritti delle persone con disabilità, una scadenza in vista della quale si preparano e presentano numerose iniziative, momenti di riflessione e di informazione. Insomma, una ricorrenza che consente di fare cultura con una visibilità tendenzialmente maggiore rispetto alla media annuale… Comunque, ogni "Giornata" si risolve appunto in "una giornata" e, come tale, ha vita breve: pur riconoscendone il valore non solo simbolico, non credo che meriti grande attenzione, al di là di quella che le dedicano anche i mass media più distratti…senza sottovalutare o ignorare ciò che di interessante i vari soggetti più o meno istituzionali organizzano in quella data.

Di ben altra portata è, invece, il peso politico e sociale della Convenzione delle Nazioni Unite. So benissimo che anche il ruolo dell’O.N.U. è da anni oggetto di discussione (necessaria) sui suoi meccanismi decisionali, sul peso attualmente non riconosciuto a nazioni e ad intere aree geografiche del mondo; di un mondo sempre più multipolare e la cui assenza di un centro definito necessita di un forma di governo super partes ad esso adeguata. Senza contare che spesso i documenti e le risoluzioni approvati dalle Nazioni Unite stesse non riescono ad essere vincolanti per chi dovrebbe sottoporsi ed adeguarsi ad essi. So altrettanto bene che riconoscersi attorno a diritti universali è un’operazione semplice solo a livello ideale, perché le basi culturali e di diritto non sono comuni a tutti: ed è un "salto" quantomeno illegittimo ritenere che le nostre siano a priori le più adeguate.

Ma, al di là di questo, l’importanza di un documento come quello approvato quattro anni fa e attorno al quale si era creato un consenso molto ampio è innegabile. Scrivere "nero su bianco" diritti e doveri delle persone disabili, recependo le legislazioni più avanzate in materia e non limitandosi ad una soluzione di basso profilo, è sempre un atto forte che può far crescere la cultura sul tema. Per alcuni, davvero, una base di partenza per sviluppare politiche ancora sconosciute.

A livello mondiale esiste una disomogeneità enorme nelle politiche "per" la disabilità; già a livello europeo è riscontrabile una varietà di approcci significativa. La Convenzione può essere, quindi, di grande aiuto in questo senso: rappresenta un cambio di paradigma, di cultura e di impostazione verso la condizione delle persone con disabilità che forse noi, dal nostro punto d’osservazione privilegiato, non possiamo apprezzare appieno, ma che altrove può assumere un rilievo sostanziale.

Come riportato proprio da www.superabile.it, peraltro, iIl Protocollo aggiuntivo prevede che a presentare segnalazioni e denunce al Comitato dei diritti possano essere anche persone singole o gruppi non nominati dagli Stati firmatari. Una forma di controllo "dal basso", da parte della società civile, assai apprezzata dalle associazioni dei disabili, che sottolineano la possibilità di sottrarre i ricorsi agli eventuali calcoli di tipo politico».

Inoltre (ed è la ragione per cui proponiamo oggi questo contributo e non in occasione dell’anniversario vero e proprio della Convenzione), pur con un anno e mezzo di ritardo dalla data prevista, a metà dicembre 2010 si è riunito per la prima volta l’Osservatorio nazionale sulle condizioni delle persone con disabilità. Si è trattato di un incontro prevedibilmente interlocutorio e preparatorio, ma, ricordiamolo, all’Osservatorio sono attribuiti compiti importanti, quali la promozione dell’attuazione della Convenzione O.NU.; la predisposizione di un programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone disabili; la raccolta di dati statistici; la stesura di una relazione sullo stato di attuazione delle politiche sulla disabilità. Quindi? Il documento c’è, gli strumenti ci sono, le leggi ci sono…ma poi, e qui stiamo parlando anche della nostra nazione, le risorse per promuovere politiche degne di questo nome sono sempre le prime ad essere messe in discussione (restando ai casi recenti più eclatanti, al di là degli esiti finali, l’aumento della percentuale di invalidità per la pensione e il taglio indiscriminato di insegnanti di sostegno a fronte di un aumento pesante degli alunni disabili); l’inserimento nel mondo del lavoro è ancora occasionale e non assume mai i connotati di un meccanismo funzionante; l’accessibilità alla cultura e all’arte viene considerata quantomeno un aspetto marginale.

Come ha scritto un utente del sito www.disabili.com commentando l’ultimo Rapporto Istat sulla disabilità in Italia, «fa poco ben sperare nel Rapporto proprio lo scarto tra la consapevolezza teorica della dimensione sociale della disabilità e l’incapacità pratica di lettura del bisogno di soluzioni strutturali e non assistenziali e di strumenti e ausili per l’autonomia, la produttività, il benessere fisico e relazionale di cittadini che non vogliono essere né sentirsi "di peso"». Questo per dire che il dato legale, formale, va sempre misurato con le sue traduzioni concrete; anzi, direi che trova il suo senso solo nel momento in cui viene tradotto e trova la sua effettività, quando cioè porta ad un cambiamento tangibile. E’ alla luce di ciò che è davvero reale che si possono valutare la qualità e l’attualità della Convenzione. Quantomeno, da circa un mese, l’Osservatorio non è più una previsione di legge, ma un organismo esistente. E speriamo "vivente". Scrivete a claudio@accaparlante.it. (Claudio Imprudente)
 

Meno sostegno più inclusione – Il Messaggero di Sant’Antonio, gennaio 2011

Di questi tempi, quando scarico la posta, vengo giustamente bersagliato da comunicati stampa sulla carenza di insegnanti di sostegno e sulla ritrosia dei docenti a svolgere questo ruolo. Più volte io stesso mi sono espresso sull’argomento.
Oggi, però, mi vorrei soffermare su un aspetto complementare, non ponendomi in un rapporto oppositivo. L’idea era quella di pubblicare le lettere della mamma di una bimba Down in procinto di iscriversi alla scuola dell’infanzia, con la quale ho intrapreso una corrispondenza molto intensa, ma la difficoltà a estrapolare delle parti sacrificandone altre mi impedisce di farlo. La questione ruota attorno all’eccessivo automatismo col quale si avvia l’ingranaggio «inclusione-necessità dell’insegnante di sostegno» in qualsiasi ordine di studi.
 
È indubbio che tra l’esperienza, la conoscenza e la frequentazione assidua, concreta delle cose e delle persone e la presa in carico da parte di un’istituzione (scolastica, sanitaria…) c’è uno scarto incolmabile. Senza voler offendere la professionalità e l’umanità di nessuno, man mano che ci spostiamo dall’ambito genitoriale-famigliare a quello sanitario-istituzionale ci si avvia su un piano inclinato che scivola dal rapporto con una persona al rapporto con un utente, se non con un numero.
Questi meccanismi sono per certi versi naturali, in particolare se pensati in relazione al funzionamento di strutture complesse come la scuola e la sanità. Ma la «necessaria» semplificazione comporta anche la mancanza di un’analisi sottile e davvero ritagliata sulla persona. Ammettiamolo pure: violato il meccanismo una volta, il pericolo è quello del caos, anche nel caso di eventuali eccezioni nei confronti di uno studente con disabilità: il timore, oltre a derivare dal rapporto col diverso, deriva cioè dal rischio (vero o presunto) che, se si apre una breccia, niente poi sarà gestibile, riconoscibile, affidabile. Peraltro le cose sono difficilmente gestibili, o vengono maneggiate con poca professionalità e/o con pochi mezzi e risorse, già in questo contesto di leggi, analisi, teorie.
 
In relazione ad alcune tipologie di deficit, è assurdo che già alla scuola dell’infanzia venga considerata imprescindibile per il bambino una figura di sostegno. In quell’ordine scolastico si lavora su aspetti e funzioni tali che, salvo alcuni casi, davvero non si vede perché aggiungere un insegnante che, anche involontariamente, forse per il semplice fatto di essere lì, determina un disequilibrio e, cosa più grave, un distacco sensibile tra un bambino con disabilità e i suoi compagni. Proprio in un periodo in cui le eventuali differenze «funzionali» non si manifestano in modo così evidente e in cui i compagni di classe normodotati saranno molto più sereni con (e utili a) quello disabile di quanto possa fare qualsiasi figura adulta. Onnipresente o discreta. Infatti, ogni professione d’aiuto se da una parte sostiene, dall’altra rischia di etichettare e trasmettere messaggi di deficit e inadeguatezza: una sintesi tra i due è difficile da realizzare. Occorrerebbe una maggiore attenzione al contesto e una minor attenzione al «testo» (che sarebbe il bimbo disabile): è un lavoro più lungo e complesso della «reazione» assistenziale, medica e di sostegno; ma, ripeto, teniamo sempre presente che è con un’istituzione che si ha a che fare, di necessità più rigida. Sono «discorsi tetraedrici» che andrebbero affrontati «una faccia alla volta», senza per questo perdere la visione d’insieme. Sarebbe molto importante far circolare le idee, senza che nessuno – perché non ce ne sarebbe ragione – si senta offeso o chiamato in causa o sminuito nel suo ruolo. Come sempre, potete utilizzare la mia mail (claudio@accaparlante.it) o il mio profilo di Facebook per condividere esperienze, riflessioni, dubbi, certezze.