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autore: Autore: Claudio Imprudente

Affogando con Zigulì, Superabile, Marzo 2012

Qualche settimana fa, entrando in libreria, ho notato un libro dal titolo curioso: Zigulì, sì proprio lo stesso nome delle note caramelle alla frutta. Benché divertente e invitante questo titolo mi ha riportato indietro nel tempo, a una mia vecchia e personale fobia. Nella mia infanzia, chissà perché, ho sempre temuto infatti che le caramelle Zigulì mi andassero di traverso. Così piccole, tonde e zuccherose mi sembravano l’ideale per affogare… Le guardavo con curiosità e terrore, tanto che mi perseguitavano dalla pubblicità fino al tabaccaio sotto casa. Alla fine tuttavia ho acquistato il libro. Ma non per combattere le mie paure…

 

Zigulì. La mia vita dolceamara con un figlio disabile è un romanzo autobiografico di Massimiliano Verga (Mondadori, 2012), docente di Sociologia del Diritto presso l’Università Bicocca di Milano e soprattutto padre di Moreno, un bambino disabile grave, cieco, muto, epilettico e con un forte deficit cognitivo.

Sfogliando il lungo racconto ci si rende subito conto di quanto lo sguardo di Massimiliano nei confronti del figlio sia volutamente crudo e spietato, come lui stesso ha dichiarato nelle sue presentazioni.

Già nelle prime righe, motiva così la scelta del titolo: «Il cervello di Moreno» scrive «è grande come una Zigulì. Quand’ero bambino, mi piacevano molto quelle caramelle. Il cervello di Moreno mi piace un po’ meno. A volte penso che sarebbe bello poterlo mangiare, proprio come una caramella. Ma se potessi farlo, non vorrei sentirne nemmeno il gusto. Lo manderei giù come una pastiglia per il mal di testa. Così sparisce del tutto e non ci penso più». La prima considerazione che faccio è sull’autore. Un padre che scrive del proprio figlio disabile, al di là di quello che fu il caso di Giuseppe Pontiggia con il suo pluripremiato Nati due volte (2000), è in queste circostanze un’occasione rara. Se la bibliografia su questo campo è ampia a scrivere le loro testimonianze di solito restano soprattutto le madri.

Nel libro si nota la mancanza di falsi buonismi e di pietismo, sono delle pagine scritte di getto, con il cuore. Le difficoltà che si incontrano in questi contesti familiari diventano qui dolorosamente evidenti e prive di ipocrisia. In uno sfogo Verga arriva persino ad ipotizzare l’omicidio del piccolo…e purtroppo, questa, è una reazione che può dirsi normale. Un libro da leggere tutto d’un fiato, cercando di non affogare! A cinquant’anni suonati ho così deciso di mangiare la mia prima Zigulì ed ho capito quanto fossero affrettati i miei giudizi: era piccola e dolce come immaginavo. Ma io, come Moreno, sono ancora vivo.

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)

Notte prima della gita, Superabile, Marzo 2012

Finalmente la primavera è alle porte. I ragazzi frequentanti l’ultimo anno di liceo o scuola superiore aggiustano il mirino verso il loro obiettivo finale, oramai così vicino…
State pensando all’esame di stato, vero? Sbagliato!
Io sto parlando della gita scolastica di fine anno, dove spesso per la prima volta ci si innamora, si litiga, ci si conosce meglio e a volte si trasgredisce.

Insomma una tappa fondamentale che spesso segna il confine tra la fine del periodo adolescenziale e la vita adulta.

Mentre gli autisti dei pullman controllano olio e pneumatici, io vengo inondato da mail di genitori e fratelli di ragazzi con disabilità per la quale questa, che dovrebbe essere una meravigliosa esperienza, a volte rischia di diventare un’occasione discriminatoria. Sarebbe scontato far dei riferimenti alla cronica mancanza di fondi che influisce pesantemente nell’organizzazione di attività extra-scolastiche, in questo caso però mi preme di più soffermarmi su dinamiche prettamente educative che se svolte con superficialità rischiano di sfociare in esclusione/emarginazione.

Penso che avere un diversamente abile in gita possa essere un’occasione per creare un clima diverso, ad esempio valorizzando la logica della lentezza che favorisce una relazione più intensa, necessaria al processo di integrazione. Tra le diverse mail che ho ricevuto su questo argomento mi ha colpito molto quella di una sibling, che raccontava l’esperienza discriminatoria vissuta dal fratello disabile in una gita scolastica a Parigi.

Ne riporto solo un breve passo, le sue amare conclusioni:

"…Sono allibita. Nauseata al punto che fatico a trovare qualcosa di sensato da dire. Forse non ci sono commenti da fare. Quante cose si dicono alle famiglie, poca verità la maggior parte delle volte. Pochi di coloro che parlano poi si calano nelle situazioni e le comprendono, molti agiscono senza professionalità e parecchi se ne approfittano. Lavoro nella scuola e vedo continuamente la scarsa professionalità di queste figure che quasi mai vedono nelle persone diversabili innanzitutto persone…".

Mi piacerebbe conoscere le vostre gite, belle o brutte, inclusive o discriminatorie, innamorate o litigiose… Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook. (Claudio Imprudente)

Di chi è la colpa? Superabile, Marzo 2012

Ci siamo sempre chiesti, qui al centro documentazione handicap di Bologna, come affrontare una delle sfide più delicate ed importanti: la costruzione della propria identità. La scorsa settimana partecipavo ad un nuovo laboratorio organizzato dal progetto calamaio, rivolto a dei giovani con disabilità che hanno appena terminato il proprio percorso scolastico. Le attività sono varie, da alcuni esercizi motori fino ai giochi di ruolo, e uno degli obiettivi finali è aumentare la consapevolezza di se stessi, indispensabile per il nostro lavoro nelle scuole. Nell’ultimo incontro con i ragazzi è saltato fuori un tema molto complesso: tutto è nato da un affermazione di una persona con disabilità, il quale ha affermato che diverse volte nel corso della sua vita, sentendosi un peso per la famiglia e inutile per la società, ha pensato al suicidio. Il clima, solitamente allegro e spensierato, è subito divenuto cupo. Chiaramente era una forzatura, una provocazione che ha scosso il gruppo, scatenando un dibattito. Perché proprio a me? Di chi è la colpa? Perché non posso avere una vita come gli altri? Quante volte, tra convegni, percorsi e formazioni ho sentito queste domande nella mia vita… Questi interrogativi sono un passaggio obbligatorio e fondamentale nel processo di costruzione di un’identità adulta, acquisire consapevolezza dei propri limiti e delle proprie risorse rappresenta una sfida che tutti dobbiamo affrontare, indipendentemente dalla disabilità. Argomenti pesanti, di cui è complicato parlare. Allora concludiamo con un sorriso e ascoltiamo cosa aveva da dire Bennato… E voi cosa avete da dire in proposito? Scrivete come sempre a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook. (Claudio Imprudente)

Non dare il cioccolato ad un handicappato! Superabile, Marzo 2012

Venerdì è uscito nelle sale un nuovo film francese che ha fatto scalpore. Campione d’incassi nei cinema dei nostri cugini transalpini "Quasi amici" è una storia tratta da una vicenda realmente accaduta. Il tema è la disabilità. Non potevo proprio esimermi dal correre a vederlo, così il mio sabato passato è trascorso in un noto cinema bolognese di via indipendenza. Il risultato è stato molto positivo, ho passato due ore davvero divertenti, con spunti molto ironici e incisivi.

Il nucleo del film è il rapporto di confidenza ed amicizia che nasce tra un disabile grave benestante (ex avvocato di successo) ed un ragazzo di colore in cerca del permesso di soggiorno. La storia è una continua uscita dagli schemi educativi e formativi canonici, le differenze socio-culturali tra i due protagonisti sono la forza e la complicità che educano e sensibilizzano il loro contesto. Il film risulta privo di pietismo, sentimentalismo e buonismo, cosa affatto non scontata quando si trattano questi delicati argomenti per un pubblico di massa. Per questo risulta più vero, autentico. Credo anche sia una buona base di partenza, trattando a così ampio raggio il tema della disabilità, per iniziare a parlare di qualcosa che vale più dell’azione: la relazione.

Vorrei concludere con una battuta di Driss (il ragazzo di colore) che sembra banale, ma credo testimoni bene il rapporto di fiducia ed ironia esistente tra i due… a tempo di rap "non dare il cioccolato/ ad un handicappato!". Buona visione! Scrivete i vostri commenti a claudio@accaparlante.it oppure sulla mia pagina Facebook. (Claudio Imprudente)

’Na tazzulella ’e cafè, Il messaggero di Sant’Antonio, Marzo 2012

Come possiamo trasformare il dopo pranzo della domenica – durante il quale il calcio sembra l’unico argomento – in un pomeriggio di riflessione sulla disabilità? E se bastasse cominciare a bere insieme un semplice caffè? Proprio alcuni week-end fa, mentre sonnecchiavo davanti alla tv in un uggioso pomeriggio emiliano, la semplice visione di un set di tazzine colorate, in netto contrasto con il grigio del cielo, ha acceso la mia fantasia. Erano delle semplici tazze colorate di ceramica, che tuttavia avevano una forma un po’ insolita: erano infatti storte e sbilenche – probabilmente per inseguire i nuovi cliché del design moderno – proprio come succede ai bicchieri di carta quando hanno assolto il loro compito, e si buttano via. Ovviamente non posso dirvi la marca, ma di certo capiterà anche a voi di berci qualcosa. Quello che mi ha colpito di queste tazzine è stata, a dire il vero, la loro inutilità, tanto per cominciare, perché erano così imperfette e così scomode che non ho potuto non rivedermi in quei piccoli oggetti apparentemente inutili. A pensarci bene, però, come la maggioranza delle persone, ho fatto un errore di superficialità: mi sono concentrato sulla forma delle tazzine, sulla loro immagine, e non sul loro potenziale contenuto, proprio come molti fanno al primo impatto di fronte a disabilità evidenti. La mia domenica, dunque, è proseguita osservando queste tazzine: più le guardavo, e più mi identificavo in loro. Senza dubbio, le mie prime impressioni erano state affrettate.

Le tazzine, infatti, erano ergonomiche. Possiamo dire, addirittura, che non ci si accorgeva della loro comodità finché uno non le prendeva in mano. Parlando fuor di metafora, le mie prime impressioni erano state simili a quanto accade, spesso, alle persone che incontrano la disabilità. Finché non la si tocca con mano, con un atto di relazione, la disabilità resta, agli occhi dei più, una realtà scomoda, informe e, per certi versi, inutile. Però, come ci dimostrano queste tazzine, l’imperfezione, se è trasformata in modo creativo, può diventare non solo più utile del previsto, ma anche interessante e originale.

Molte volte, a scuola, durante le animazioni del «Progetto Calamaio», i ragazzi pongono queste domande: la disabilità è bella o è brutta? È comoda o è scomoda? Guardo di nuovo queste tazzine e mi viene spontanea la risposta: la disabilità non è né una realtà bella né una realtà scomoda, è semplicemente una realtà propria e originale, con il suo valore intrinseco. Le tazzine sono, a loro modo, attraenti perché, come ogni singolo individuo, mantengono le qualità e le peculiarità che gli sono proprie. Bisogna evitare di fare il mio stesso errore: giudicare prima di toccare. Alla fine ho gustato il mio caffè, con due cucchiaini di zucchero, in una di quelle tazzine. Era imperfetta, di colore rosso acceso… e devo dire che il caffè era davvero delizioso! E voi, che tazzine usate? Scrivete a: claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.

Viva la rai! Superabile, Febbraio 2012

A Sanremo la performance di Simona Atzori, che porta la sua disabilità sul palcoscenico più seguito della televisione italiana. Come più di 40 anni prima aveva fatto Pierangelo Bertoli. Anni che non sono passati invano
collage di foto di Simona Atzori

La sbornia di cinque giorni, da festival nazional-popolare della canzone, devo ancora smaltirla.

Tutto previsto, dalle incursioni di Celentano alle varie farfalline: serate passate senza scossoni, come in ogni febbraio a Sanremo che si rispetti. Forse qualcosa di nuovo in realtà l’ho visto… Nell’apertura della quarta serata sul palco dell’Ariston è comparsa una sinuosa quanto particolare ballerina, accompagnata da una coreografia di forte impatto. Simona Atzori, questo il nome dell’artista, è entrata nelle case di sedici milioni di italiani in prima serata, con questa performance.

Sicuramente non affronterò le tematiche tecnico-coreografiche del balletto (non è proprio il mio campo…) ma vorrei evidenziare un fatto culturale interessante. La disabilità di Simona mi ha riportato alla mente un’Italia, e una Rai, ancora in bianco e nero. Nel 1971, sulla stessa rete, il cantautore Pierangelo Bertoli metteva in crisi i coreografi della tv di stato, vedere per credere… Ammirevole lo sforzo di quelle belle ragazze atto a coprire quella scomoda carrozzina!

Facile dire che questi quarant’anni non sono passati invano. Evidente il processo di cambiamento nell’esposizione mediatica della disabilità. Dall’imbarazzo collettivo per la disabilità di Bertoli fino all’evidente gioco di immagini che finiva per evidenziare l’handicap della Atzori, un passo in avanti che reputo positivo e di buon auspicio. Voi cosa ne pensate? Scrivete a claudio@accaparlante.it o contattatemi nella pagina facebook. (Claudio Imprudente)

Dietro all’altare, Messaggero di Sant’Antonio, Febbraio 2012

Ricordo che il giorno della mia Prima Comunione, nel 1970, fu un disastro. Che le cose sarebbero andate così lo si poteva anche prevedere: pensate che la preparazione alla Comunione non la ricevetti come gli altri bambini al catechismo, ma dalla maestra delle elementari (speciali) che al tempo frequentavo. Il sacerdote della mia parrocchia mi riteneva incapace di accedere ai contenuti e di esprimere una fede consapevole. Il giorno della cerimonia, mentre tutti gli altri bambini erano seduti uno fianco all’altro, ben visibili davanti all’altare come veri protagonisti del dono del sacramento, per me e i miei genitori era stata invece predisposta una postazione sul retro della tavola eucaristica. Nessuno quindi poteva sapere che eravamo presenti in chiesa, tanto più che il Cardinale quando elencò i nomi dei bambini “dimenticò” di pronunciare il mio.
La disabilità, all’epoca, metteva infatti profondamente in crisi l’istituzione religiosa cattolica, impreparata a gestirne le implicazioni se non dal punto di vista assistenziale, come già accennavo in un articolo di circa due anni fa. Per il mondo della disabilità, d’altra parte, l’accesso ai sacramenti veniva considerato inutile, la salvezza per loro era già scritta, già data, né a loro veniva chiesto di far (ri)vivere quei sacramenti nella vita della comunità. Credo che ancora oggi potremmo ritrovare casi simili, nonostante le tante persone che vivono con responsabilità all’interno della Chiesa. A questo proposito desidero condividere con voi questa lettera che mi ha dato molta gioia e speranza:
“Ciao Claudio, per la Prima Comunione ventisei tesori che si apprestano a ricevere per la prima volta l’Eucaristia. Uno dei bimbi è autistico. Si è preparato come tutti anche grazie all’aiuto della sorellina. Quella mattina quando è arrivato in chiesa aveva paura di tutta quella gente. La sorellina lo ha accompagnato ed è rimasta con lui. Alla fine è salito all’altare, ha alzato le braccia al Cielo e si è messo a gridare “Grazie! Grazie! Che bello! Grazie!”. È stato l’unico che ha capito il dono grande che gli è stato fatto ed ha ringraziato. Qualche mamma, aveva un po’ storto il naso, perché il bimbo riceveva il sacramento con gli altri…(…) Come vedi, i veri disabili siamo noi”. M. A.
Di questa lettera mi piace sottolineare il ribaltamento dei ruoli: i genitori degli altri bimbi scettici a fronte di un’apertura piena da parte della parrocchia e non una chiesa restia a mostrare una parte del suo gregge. Il merito, in questo caso, va al percorso che la Chiesa ha voluto garantire a un suo membro con un deficit psichico, non un deficit di fede.
Credo che dei passi in avanti siano stati fatti…avete voglia di raccontare anche voi le vostre prime comunioni?
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.

Claudio Imprudente
 

Un paese di navigatori… e di eroi. Superabile, Febbraio 2012

In queste ultime settimane l’eco sul naufragio della Costa Crociere ha inondato, nel vero senso della parola, i mass-media nostrani.
Ormai siamo tutti esperti di inchini e scialuppe, conosciamo a memoria la biografia di capitan coraggio Schettino e siamo consapevoli della pericolosità degli scogli: tutti i nostri idoli del passato, da Cristoforo Colombo fino al buono e paffuto Capitan Findus sono così svaniti nel buio…
Alcuni giorni fa navigando sul nostro www.superabile.it ho letto una notizia, proprio su questa vicenda, che mi ha stuzzicato alcune riflessioni.
Protagonista un’anziana disabile di origine tedesca, Lilli Knepeck, in crociera per festeggiare le nozze d’oro col marito, che, durante il naufragio è stata miracolosamente salvata dal nipote diciannovenne Omar Brolli, fattosi strada tra la folla in panico, mentre il personale di bordo la intimava caldamente a tornarsene in cabina a riposare…
La notizia ha fatto praticamente il giro del mondo, tant’è che, cito dall’articolo, “Omar non va a scuola da giorni, è sempre in giro fra trasmissioni televisive. Sul suo profilo facebook fioccano i complimenti dai compagni di classe […]”
Potrei di nuovo scrivere, e di materiale ce ne sarebbe in abbondanza, su come siamo ancora troppo indietro per quanto riguarda l’accoglienza e la sicurezza dei disabili sui mezzi pubblici (qui addirittura stiamo parlando di una nave da crociera), sulla formazione del personale addetto e sulla scarsa organizzazione dell’equipaggio. Tutto vero.
A me però preme maggiormente parlarvi di un argomento a cui tengo molto.
Mi pongo delle domande: il salvataggio della signora disabile è differente dalla messa in sicurezza delle altre quattromila persone a bordo?
E se lo è, in cosa consiste questa differenza? Questo giovane nipote, che ora gira per radio e televisioni, è davvero l’unico esempio di coraggio in questa tragedia? Se sua nonna fosse stata normodotata, avrebbe avuto lo stesso risalto?
Proprio di questo voglio parlare, della spettacolarizzazione della disabilità.
Troppo spesso viene utilizzata la disabilità come megafono, per ampliare situazioni già di per sé drammatiche, troppo spesso vengono esaltati gesti che dovrebbero essere naturali come eccezionali. Pensateci, in una situazione del genere non avremmo cercato tutti noi di salvare un nostro parente in difficoltà, disabile o meno?
Non voglio sminuire l’azione di Omar, assolutamente. Voglio solo parlare di parità e inclusione, al di là di un supposto atto di eroismo.
Ancora oggi infatti la disabilità vista dai media fa ancora un effetto particolare, come direbbero gli addetti ai lavori, fa audience. Perché? Lo chiedo a me stesso ma lo chiedo anche a voi…
Personalmente forse, vorrei solo, già da ora, un integrazione più reale, dove la disabilità non diventi il pretesto per puntare la riflessione sul commuovente caso del singolo, evitando così di andare a fondo sulle effettive e scomode cause che ci hanno portato e ci portano a confrontarci con certi tragici avvenimenti. La disabilità in questo senso, dovrebbe essere solo una condizione tra le tante, una testimonianza importante magari, ma non la notizia in sé.
Mi rendo conto di essere provocatorio con queste affermazioni ma credo che porsi domande come queste e tentare di darsi delle risposte sia oggi una necessità e un dovere per tutti per guardare in faccia la realtà senza ipocrisie e sterili buonismi.
Allora mi accontento di sognare, per guardare al futuro con ottimismo e mi diverto persino a scomodare anche il pluripremiato film di James Cameron Titanic…Quando tra cento anni un subacqueo, invece di un prezioso gioiello, ritroverà una carrozzina in fondo al mar Tirreno, avvolta da alghe e molluschi, non sarà molto sorpreso. Si interrogherà soltanto sulla visione di quella presenza, testimonianza di una vita passata, sommersa tra le tante.
Non penserà, speriamo, a Omar, penserà alle cause di quella scoperta, perché, per dirla con Bertold Brecht: “Beato il paese che non ha bisogno di eroi”.
E voi vi sentite più navigatori o eroi?
Scrivete come sempre a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.

Claudio Imprudente

 

La disabilità al telecomando

Per conoscere e seguire cambiamenti significativi negli ambiti più vari è spesso alla “periferia” che occorre volgere lo sguardo. Se lo puntiamo solo verso il grande, il già noto, il centro, che è un centro per certi versi imposto e conservato al di là dei meriti qualitativi

che gli vengano riconosciuti, rischiamo non solo di perdere numerose e preziose notizie e di trascurare movimenti rilevanti, ma anche di restare inermi e sconsolati di fronte ad un mancanza di cambiamento che, a ben vedere, è solo apparente. E’, invece, “ai margini”, nel piccolo e dal piccolo, dal basso che il più delle volte si sviluppano dinamiche e si propongono modelli e soluzioni innovative, pionieristiche e, ad uno sguardo attento, inclusive.
In questo caso, in realtà, parlare di periferia sarebbe inappropriato, perché la vicenda si svolge a Roma; però il canale che ospita la trasmissione di cui parleremo si colloca fuori da quelli che, ancora, in Italia vengono identificati come canali di massa, ovvero i primi sei o sette del nostro telecomando…Ed è una notizia che, due anni dopo, si pone in controtendenza rispetto ad un’altra che al tempo mi aveva colpito non poco, una storia che, immediatamente, avevo collocato in Italia e, invece, con mia grande sorpresa (e non sollievo…) riguardava una nazione “insospettabile”, ovvero l’Inghilterra: numerosi genitori avevano protestato sonoramente perché, per condurre un programma rivolto ai bambini, la BBC aveva scelto una ragazza, attrice, nata con un avambraccio solo. Insospettabile, peraltro, la rete televisiva stessa, anche perché, come ho riportato in un articolo di qualche mese fa, la stessa BBC da diversi anni trasmette Something special out and about (Qualcosa di speciale in giro), un programma per la prima infanzia, il cui fulcro sono alcuni bambini con disabilità – perlopiù affetti da sindrome di Down – chiamati a intrattenere i giovani spettatori. Questo format televisivo prevede, quindi, che le persone disabili figurino come animatori, cioè che siano loro a «fare qualcosa per» e non a «ricevere qualcosa da». Esperienza inspiegabilmente negata alla conduttrice di cui sopra.
Eccoci al punto centrale del nostro articolo: Gold Tv, dai primi giorni di novembre 2011, sta mandando in onda, in tutto il Lazio, la prima trasmissione televisiva interamente condotta da un giornalista con disabilità grave. Si intitola I Dintorni dell’Handicap, ha cadenza settimanale e affronta i temi della disabilità e dell’attualità. Condotto da Andrea Venuto, il giornalista disabile in questione, il progetto è nato da un’idea di Mario De Luca, presidente del Forum regionale sulle disabilità ed è stato realizzato dal Forum regionale del Terzo Settore ed Editare 2000 srl in collaborazione con Roma Salute News.
Altro aspetto rilevante è che per la realizzazione della trasmissione è stata decisiva la collaborazione di numerose cooperative ed associazioni che operano nel campo del sociale (Insieme, Agenzia per la vita indipendente, Centro per l’autonomia, Coop. Agora’, Coop. Cotrad, Coop. Iskra, Coop. Nuova Sair Coop. Omnia, Coop. Solcoe l’Unione Italiana lotta alla Distrofia Muscolare Sezione Laziale Onlus). Diverse organizzazioni che hanno voluto sostenere il progetto d’informazione sull’handicap per valorizzare e far conoscere il proprio operato e, contemporaneamente, affrontare le problematiche del settore. Tutto il materiale video, inoltre, è prodotto dalla cooperativa sociale integrata Matrioska, una realtà che ha accolto ex ospiti dell’Orfanotrofio di Begoml, ormai adulti, che hanno vissuto in Bielorussia e che oggi sono cineoperatori, montatori, fotografi e anche registi. Ragazzi che, nonostante abbiano tutti una diagnosi di polifrenia, hanno già al loro attivo numerosi cortometraggi e veri e propri film-documentari che realizzano e scrivono in piena autonomia.
Credo sia interessante riportare questi dettagli, per mostrare che la presenza nel ruolo di conduttore di una persona disabile, già significativa in sé, in questo caso è “solo” la parte più evidente, emergente di un progetto che vede il “mondo” della disabilità porsi come produttore di informazione, come suggeritore di un immaginario, di un modo di intendere e interpretare la realtà circostante, la realtà di tutti, non solo quella che tocca più da vicino chi vive una disabilità in maniera più o meno diretta. Indubbiamente un’esperienza da seguire con attenzione e da raccontare perché possano crearsi altre occasioni affini, in particolare in una nazione, l’Italia, in cui la moltiplicazione delle fonti delle notizie e delle modalità con cui vengono date è una necessità vitale per la costruzione di una cittadinanza consapevole e attiva.
Scrivete come sempre a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook. E buona informazione a tutti!

Claudio Imprudente

 

C’è nessuno? – Il Messaggero di sant’Antonio, dicembre 2011

L’andamento degli eventi non segue un corso rettilineo, prevedibile. È la storia stessa a non svolgersi in maniera lineare o, meglio, la lettura che ne diamo in base ai dati che riusciamo a raccogliere (più o meno affidabili). Scarti, strappi, variazioni, eventi occasionali e forse irripetibili e periodi connotati da una maggiore regolarità, almeno all’apparenza: sono questi gli elementi che caratterizzano lo sviluppo e la successione temporale dei fatti. A volte, addirittura, sembra di vivere una condizione schizofrenica. Alcuni eventi li avvertiamo come discordanti, inconciliabili, quasi che un caso smentisse l’altro appena il primo ha avuto modo di mostrarsi e, magari, di suggerire un’interpretazione di quanto avvenuto.
Questa sensazione di straniamento si fa tanto più evidente quanto più breve è il tempo che intercorre tra un evento e quello successivo che smentisce il primo. In alcune occasioni questo scarto, questa negazione di un fatto da parte di un altro ci colpisce particolarmente, lasciandoci spiazzati, inermi e – perché no – offesi. Soprattutto se, come scrivevo, la nostra ragione aveva ricostruito, da alcune premesse, un’interpretazione che reputavamo credibile, resistente nel tempo, affidabile per noi e non solo.
 
Come già accennato nell’articolo pubblicato sul numero di settembre del «Messaggero», l’università di Bologna mi ha conferito pochi mesi fa la laurea honoris causa in formazione e cooperazione. Un riconoscimento che, in quanto indirizzato alla mia persona, vi confidavo, ho subito interpretato come frutto di un lungo lavoro collettivo e – è questo che qui ci interessa – anche come parziale segno dei tempi, almeno dello sviluppo della cultura negli ultimi cinque decenni. Non è cosa di poco conto dichiarare pubblicamente che un disabile è meritevole per le sue capacità professionali. Si tratta di un traguardo che è il risultato di un processo, di un’evoluzione che mi sembrava innegabile, evidente.
Ma, e questo passaggio dalla storia alla cronaca non deve sembrare inopportuno, dal giorno del conferimento della laurea mi è capitato, nella comunità di famiglie in cui vivo, Maranà-tha, di subire tre o quattro «non-riconoscimenti» che mi hanno colpito e fatto dubitare. È successo quando alcuni avventori occasionali, pur vedendomi in giardino o nell’atrio d’ingresso, si sono sgolati in cerca di qualcuno (che non c’era o non rispondeva) in grado di dare loro informazioni, senza nemmeno provare a interpellare me che ero lì a due passi e disponibile. Un salto indietro di trent’anni nel giro di una settimana…
 
A ben vedere, la cosa si faceva involontariamente ironica, perché chi chiama un qualcuno generico solitamente usa questa espressione interrogativa: «C’è nessuno?». Mentre io ero fisicamente lì, un qualcuno c’era, anzi ero l’unico a esserci, presente e senziente. Ma non venivo affatto tenuto in considerazione come persona in grado di fornire delle indicazioni. Di nuovo un’ironia dolorosa, proprio a pochi mesi di distanza da un riconoscimento accademico per le mie capacità formative e informative.
Questo episodio serve a segnare in maniera evidente quante contraddizioni possano coesistere, non solo nel medesimo arco di tempo, ma anche nella stessa area geografica, addirittura probabilmente prodotte da persone simili per cultura e grado di studio.
Ma tutto ciò non ci spinga a riconoscere le ambiguità come una condizione immodificabile. Ci induca semmai a farcene carico in maniera doppia, a cercare un intervento nel mondo ancora più efficace e ostinato. Una buona intenzione per l’anno che sta per iniziare. A proposito, buon Natale e buon 2012. Scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.
  

Superare l’alfabeto – Il Messaggero di sant’Antonio, novembre 2011

Nell’aprile del 2008, forse qualcuno di voi lo ricorderà, il «Messaggero di sant’Antonio» pubblicò un mio articolo dal titolo La tavoletta magica, nel quale raccontavo il valore extra-tecnico dell’ausilio che utilizzo per comunicare, una tavoletta di plexiglass nella quale sono impresse tutte le lettere dell’alfabeto. Dall’altro lato della tavoletta c’è una persona che, seguendo il movimento dei miei occhi, compone, lettera dopo lettera, le parole e le frasi che io voglio trasmettere, e le ripete a voce alta, così che io possa interagire con le altre persone. In quell’occasione avevo deciso, appunto, di raccontare cosa comporta, soprattutto a livello relazionale, la condivisione di quel mezzo di comunicazione con chi ricostruisce ed enuncia quello che compongo con gli occhi. Per chi volesse rileggerlo, l’articolo è ancora on line sul sito del «Messaggero».

In quella testimonianza non avevo privilegiato un aspetto di fondo, forse il più importante, ovvero la questione della pluralità dei linguaggi e dei modelli comunicativi, che – spesso non ci si riflette abbastanza – vanno ben oltre il più comune codice alfabetico e danno la possibilità di esprimersi e «condividersi» anche a chi non ha accesso, per le ragioni più varie, al comune linguaggio.
Ho usato volutamente la parola «comune»: in realtà, per quanto il codice alfabetico sembri il più naturale possibile, è, al contrario, convenzionale, cioè frutto di convenzioni, e là dove c’è convenzione c’è apertura alla pluralità, all’invenzione, alla creatività. La pluralità, ovviamente, non è solo «in uscita», ma anche «in entrata». Non ci sono infatti solo molteplici possibilità di e per esprimersi, ma anche molteplici modalità di apprendere e catturare informazioni (chiamiamole così, in senso neutro). Un esempio è il mondo dei libri per tutti e dei libri accessibili, un universo davvero affascinante, ricco, colorato, molto interessante anche dal punto di vista estetico (la qual cosa non è secondaria). È il tema della monografia del numero della rivista «Hp-Accaparlante» di settembre 2011, dal titolo Leggere per vivere. Libri per tutti e accessibilità della lettura.

Vi è mai capitato di avere tra le mani un libro tattile per bambini sia vedenti che non vedenti? Oppure, vi è mai capitato di condividere la lettura in simboli con vostro figlio, a prescindere dalla presenza di un deficit che giustifichi il ricorso a un sistema simbolico di quel tipo? Ci sono, poi, alcuni codici che nascono per far fronte a delle necessità, ma si dimostrano di interesse (e anche utili) in ambiti per cui, inizialmente, non erano stati pensati: e questo è uno degli aspetti più interessanti e «integrativi» che si possano immaginare.
Un discorso peraltro molto simile a quello valido per l’accessibilità architettonica: realizzata per chi ha particolari esigenze, rende un ambiente migliore per tutti, non solo per la minoranza. Faccio un esempio: un libro in simboli dentro una scuola dell’infanzia avvince non solo il bambino per il quale il libro è stato costruito «su misura», cioè adattato ai suoi bisogni specifici, ma anche i compagni, e diventa uno strumento da condividere, esplorare e gustare assieme. Evade dalla funzione per cui è stato pensato e si apre al mondo, agli altri, diventando, a seconda dei punti di vista, ancora più funzionale e, al contrario, meravigliosamente slegato dai vincoli stretti della funzionalità. Si rivela molto efficace anche per velocizzare il processo di apprendimento della lingua da parte di un adulto straniero… senza disabilità. Avvicina, accorcia le distanze, contribuisce a costruire un contesto culturale e relazionale più vivo. Scrivete (anche in simboli, se volete) a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.

 

Adattare non significa semplificare – Superabile, Novembre 2011 – 2

Nell’aprile del 2008, forse qualcuno di voi lo ricorderà, "Il Messaggero di Sant’Antonio" pubblicò un mio articolo dal titolo "La tavoletta magica", nel quale raccontavo il valore extra-tecnico dell’ausilio che utilizzo per comunicare. In quell’occasione avevo deciso, appunto, di raccontare cosa comporta, soprattutto a livello relazionale, la condivisione di quel mezzo di comunicazione con la metà che rende possibile il suo utilizzo, ovvero chi ricostruisce ed enuncia quello che compongo con gli occhi. Non avevo privilegiato un aspetto di fondo, forse il più importante, ovvero la questione della pluralità dei linguaggi e dei modelli comunicativi, che, spesso non ci si riflette abbastanza, vanno ben oltre quello più comune alfabetico e danno la possibilità di esprimersi e "condividersi" anche a chi non ha accesso, per le ragioni più varie, a quel codice comunicativo. Che sembra il più naturale possibile ed è, al contrario, frutto di convenzioni, convenzionale, appunto: e là dove c’è convenzione, allora c’è apertura alla pluralità, all’invenzione, alla creatività.

La pluralità, ovviamente, non è solo "in uscita", ma anche "in entrata": ovvero, non ci sono solo molteplici possibilità di e per esprimersi, ma anche molteplici modalità di apprendere, "catturare" informazioni (chiamiamole così, in senso neutro). E il mondo dei libri per tutti e dei libri accessibili è davvero un mondo affascinante, ricco, colorato, molto interessante anche dal punto di vista estetico (e non è secondario). E’ il tema della monografia del bellissimo numero della rivista Hp-Accaparlante di settembre 2011, dal titolo Leggere per vivere. Libri per tutti e accessibilità della lettura.

Vi è mai capitato di avere tra le mani, di leggere con le mani un libro tattile per bambini vedenti e non vedenti? Oppure, vi è mai capitato di condividere la lettura in simboli con vostro figlio, a prescindere dalla presenza di un deficit che giustifichi il ricorso ad un sistema simbolico di quel tipo? Alcuni codici nascono per far fronte a delle necessità, ma si dimostrano di interesse (e utilità) anche in ambiti per cui, inizialmente, non erano stati pensati: e questo è uno degli aspetti più interessanti e "integrativi" che si possano immaginare. Un discorso peraltro molto simile a quello valido per l’accessibilità architettonica: realizzata per chi ha particolari esigenze, rende un ambiente migliore per tutti, non solo per la minoranza. Faccio un esempio: un libro in simboli dentro una scuola materna affascina, avvince non solo il bambino per il quale il libro è stato costruito "su misura", cioè adattato ai suoi bisogni specifici, ma anche i compagni e diventa uno strumento da condividere, esplorare e gustare assieme. Evade dalla funzione per cui è stato pensato e si apre al mondo, agli altri, diventando, a seconda dei punti di vista, ancora più funzionale e, al contrario, meravigliosamente slegato dai vincoli stretti della funzionalità. Si rivela molto efficace anche per velocizzare il processo di apprendimento della lingua da parte di un adulto straniero…senza disabilità. Avvicina, accorcia le distanze, contribuisce a costruire un contesto culturale e relazionale più vivo. Scrivete (anche in simboli, se volete) a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook. (Claudio Imprudente)

Lettere al direttore

Caro Claudio,
mi chiamo Beatrice e ho appena finito il liceo classico Minghetti di Bologna dove ti vidi per la prima volta in un incontro a scuola grazie all’invito della mia prof di religione Martina Amaduzzi.
Ho letto il tuo ultimo articolo su “Il Messaggero di S. Antonio” e vorrei raccontarti come, grazie a una serie di “voci” completate poi da un mio gesto, ho avverato il sogno dei miei 15 anni (ora ne ho 19) e cioè come ho conosciuto il ragazzo che ha triplicato per la prima volta i battiti del mio cuore.
[…] Dunque… era la metà dell’agosto 2004 quando una domenica mi sono recata a messa nella chiesa di Marina di Ravenna dove vado regolarmente in vacanza. Ero insieme ai miei genitori e nella panca davanti alla nostra sedevano nell’ordine un ragazzino dalla chioma riccia rossa, una signora magra bionda, un bimbo piccolino che dava sempre tanti bacini alla sua mamma e un ragazzo di media altezza e media corporatura dai capelli dorati. Fu quando si voltò per il segno della pace che vidi che portava un paio di occhiali Rayban che mi ricordarono subito il fascino indelebile di Tom Cruise in Top Gun (hai presente vero?!). Purtroppo di quella messa non mi rimase granché perché i miei occhi si erano incollati su quell’arcangelo biondo seduto davanti a me e quando al ritorno dalla Comunione vidi i suoi occhi verdi, molto simili a quelli della signora di fianco, il cuore moltiplicò i suoi battiti per tutta la settimana successiva per poi triplicarsi la domenica seguente quando lo rividi nella stessa occasione.
Inutile dirti che per la prima volta desiderai che la messa durasse all’infinito… ma purtroppo anche la messa più bella ha un termine di tempo e, appena iniziato il canto finale, la signora bionda-mamma del piccolo uscì subito dalla chiesa e con mia grande meraviglia vidi mia madre uscire dalla chiesa velocemente prima di me mentre io… beh immagini chi stessi guardando io!!
Solo più tardi mia mamma mi disse che aveva seguito la signora bionda e aveva in mano un foglietto con la targa della macchina in cui era salita con il piccolo. Tutto ciò che sapevo di quella meraviglia era questo: una Mercedes station wagon panna.
Passò un anno […], l’estate successiva andò così: ovviamente andai alla messa domenicale con molto più entusiasmo del solito, che però un po’ si affievoliva quando con lo sguardo setacciavo la chiesa in lungo e in largo e non sfolgorava nessun ragazzo biondo, ma non persi di certo la speranza e continuai così per tutto giugno e luglio fino a quando non riconobbi a stento la signora (meno bionda) e il piccolo già discretamente cresciuto rispetto all’anno precedente… di lui, però, nessuna traccia.
Quando uscimmo dalla chiesa mi colpì in modo particolare la mini mountain bike del bimbo, era minuscola e tutta colorata, mi rimase molto impressa mentre la mamma la stava slegando dal porta bici che fiancheggia la chiesa dedicata a S. Giuseppe.
La settimana dopo andai a messa il sabato pomeriggio ma non la domenica mattina, per esaudire la richiesta di mia mamma di andare a raccogliere pinoli freschi per una torta, passeggiando lungo le strade costeggiate dai pini, mi ritrovai dalla chiesa e vidi la biciclettina… “è già passato un anno” –
mi dissi – “se non voglio lasciarne passare un altro devo fare qualcosa”. E il qualcosa si chiamava vecchio scontrino e pennarello indelebile.
Ho scritto, appoggiata a un vaso di fiori, “A che bagno sei? un’ammiratrice di tuo fratello (quello più grande) e il mio numero di cellulare” e ho poi incastrato il bigliettino nel portapacchi della bicicletta multicolor.
[…] Morale della favola (perché la considero una favola) al pomeriggio ricevetti uno squillo seguito da questo messaggio: “Sei tu quella che ha lasciato il biglietto sulla bici di mio fratello?”. Un arcangelo non poteva che andare al bagno Paradiso, che guarda caso era il secondo bagno dopo il mio, ci siamo incontrati la mattina dopo e la prima cosa che mi disse dopo il suo nome (Giovanni) fu che sperava che l’autrice del biglietto fosse quella ragazza riccia che l’anno prima sedeva dietro di lui e che indossava una gonna beige, lui avrebbe tanto voluto conoscerla ma la paura di un rifiuto lo terrorizzava troppo (quanti battiti avesse il mio cuore in quei momenti non saprei dirlo, ricordo però che quella sera lo sterno mi ha creato un poco fastidio!). Siamo stati insieme circa un anno e mezzo e di cambiamenti nelle nostre vite ce ne sono stati tanti da quel nostro primo, sognato, bramato, pregato incontro e ringrazio ancora oggi il Vero Autore di tutto ciò, per aver realizzato questo mio sogno d’oro.
Beatrice

Avrei voluto da sempre tenere una Rubrica del Cuore, come quella di Natalia Aspesi sul Venerdì de la Repubblica, nella quale la smaliziata giornalista solitamente “trafigge” i malcapitati scrittori/confidenti con i suoi giudizi pungenti, ma in ultima istanza comprensivi.
Al liceo già mi esercitavo: le mie compagne di classe mi confidavano i loro travagli sentimentali, a volte mi chiedevo se avessero tutte le rotelle al posto giusto, ma poi ammettevo sempre che l’amore ha poco a che fare con dei meccanismi ben oliati e perfettamente funzionanti. Altrimenti non sarebbe amore…
Col tempo mi ero anche accorto che le situazioni ritornavano, ed era come se avessi costruito, un po’ alla volta, una gamma di risposte che poi adattavo al singolo caso: su queste potevo fare affidamento per cercare di risolvere anche gli intrecci e gli intrighi più complicati, o per tentare di ricomporre i pezzi dei cuori più infranti.
Insomma, ero diventato un esperto: io rappresentavo un punto fermo per le mie compagne e il fatto stesso che a me si rivolgessero mi dava fiducia. In fondo era un dare e ricevere reciproco, proprio come l’integrazione. Ma non è di questo che vorrei parlarti, per una volta: piuttosto mi fermerei volentieri sull’“Arcangelo Biondo” di cui mi hai raccontato.
Intanto per farti notare, cara Beatrice, la fantastica variazione sul tema: non siamo di fronte a un comune Principe Azzurro, ma a un Arcangelo Biondo… se non altro quest’ultimo esiste, mentre il primo resta così, sospeso tra finzione letteraria, mito, sogni e aspirazioni irrealizzabili…
In secondo luogo, ed è questa la cosa più importante, mi hai ricordato un aspetto fondamentale dei movimenti amorosi del cuore, e della vita in generale: che quel che conta non è la soddisfazione dei bisogni (per realizzare la quale si possono scegliere percorsi poco accidentati e dal risultato praticamente certo), ma la realizzazione dei propri sogni. E questa può prevedere sconfitte, sentieri tortuosi, sofferenze. E ancora: tormenti, digiuni, attese impazienti di un trillo del cellulare…
Cara Beatrice, tu già dal nome dantesco ti porti dietro un destino d’amore ai più alti livelli, e certamente riuscirai ancora a far tuoi Angeli e Arcangeli. Io, intanto, ti ringrazio per le intime e illuminanti memorie che hai voluto raccontarmi. E che dire? All you need is love, papparapapà ma questo non vale solo per Beatrice…
Dr. Claudio “Stranamore” Imprudente

Una somma difficile da calcolare – Superabile, ottobre 2011 – 1

Ogni inizio di anno scolastico porta con sé tante speranze, aspettative, desideri, espressi e sentiti da tutti gli "attori" coinvolti, insegnanti, alunni, personale amministrativo, dirigenti… Allo stesso tempo ogni anno scolastico è una finestra aperta su un mare di dubbi, preoccupazioni, criticità. Anzi, una doppia finestra: la prima guarda a quello che verrà, la seconda a quanto viene dal o resta del passato e si è sedimentato, accumulato, in questo caso con riferimento a quegli elementi che potremmo definire problematici. Come se la fine di un anno scolastico non coincidesse con la fine delle istanze che nell’arco del suo svolgimento si erano presentate e che, allora, si presentano puntuali a due-tre mesi di distanza. Aggiungendosi a quelle che invece potrebbero presentarsi per la prima volta.

Perché il mondo dell’educazione e dell’insegnamento non è mai uguale a se stesso, e non solo dal punto di vista pedagogico. Spesso a comportare delle differenze sostanziali (oltre, ovviamente, alle politiche nazionali e locali in materia di scuola pubblica o meno) è la composizione stessa delle classi, la qualità e le caratteristiche dei singoli alunni che insieme strutturano il "gruppo-classe". Ogni sezione è diversa dalle altre, certo, e questo è vero da sempre. Ma possono esserci alunni che alla scuola (oggetto di questo articolo, ma il discorso vale per tanti altri ambiti che con la scuola intrattengono legami più o meno forti) richiedono un "adattamento" meno meccanico, più complicato e, quindi, per certi versi, un riassestamento a più livelli.

La rivista Hp-Accaparlante aveva pioneristicamente dedicato al tema la monografia del numero 2 del 2008, Una casa di vetro lungo il fiume. Migranti con disabilità: contesti, vissuti, prospettive, riservando un capitolo ad una ricerca svolta dall’Università di Bologna – Facoltà di Psicologia di Cesena, condotta dal prof. Alain Goussot e relativa proprio ai bambini migranti con deficit. Dalla quale emergeva, a grandi linee, che i bambini disabili stranieri hanno gli stessi "bisogni speciali" degli altri ragazzini, ma con "l’aggravante" di conoscere, più o meno bene, una lingua diversa. Anche la cultura differente e la fatica dei maestri, dei professori e degli insegnanti di sostegno di rapportarsi con la famiglia di origine, nonché la loro scarsa preparazione sui temi dell’approccio interculturale alla disabilità, si presentavano come variabili che rischiano non solo di non dare risposte concrete all’integrazione scolastica, ma anche di incidere sulla diagnosi funzionale dei bambini disabili figli di genitori immigrati. Soprattutto quando si tratta di distinguere tra difficoltà e disturbi dell’apprendimento.

Di pochi giorni fa la notizia di uno studio condotto a Piacenza dalla ricercatrice Caterina Martinazzoli, che sottolinea la doppia condizione di svantaggio vissuta dai bambini allo stesso tempo "migranti" e disabili e i problemi inediti che la loro presenza pone alle figure docenti. Come è già avvenuto e tuttora avviene con la "semplice" disabilità, la condizione di disabile-straniero ci garantisce un punto di osservazione privilegiato per vedere non solo se e come la scuola sarà in grado di modellarsi per riuscire a gestire e valorizzare anche situazioni così problematiche, ma per valutare la risposta della società nel suo complesso (l’idea, da me espressa più volte, che la disabilità sia un potente "monitor sociale").

Se, come già emergeva dalla ricerca cesenate, una delle difficoltà principali è la capacità di comprendere se le difficoltà di apprendimento siano legate allo svantaggio socio-culturale dovuto alla migrazione o a una effettiva disabilità, a questa si aggiungono le difficoltà dei genitori ad accettare l’eventuale deficit (spesso non certificato nel paese d’origine), vissuto a volte con vergogna. Ma superato questo primo passaggio, le famiglie accettano e collaborano con le insegnanti per cercare di stendere un progetto educativo e di sostegno quanto più adeguato. Tenendo presente che le ricerche empiriche e, in generale, il materiale di documentazione sono praticamente inesistenti, così come non è ancora possibile rinvenire modelli didattici specifici e "replicabili": si tratta, quindi, il più delle volte di creazioni, elaborazioni ex-novo, la cui efficacia è tutta da verificare, caso per caso.

Si tratta, indubbiamente, di una sfida aperta che necessita di essere affrontata con convinzione ed organizzazione da subito, dal momento che è difficile immaginare un futuro in cui questi casi diminuiranno piuttosto che aumentare. Una sfida che cade in un momento non facile per la scuola italiana, che di tutto avrebbe bisogno tranne che di nuove urgenze e priorità con cui confrontarsi, date le condizioni in cui si trova ad operare, soprattutto negli ultimi anni. Ma anche una sfida, ne sono certo, che darà nuova linfa e nuovi stimoli a chi ha fatto e farà dell’insegnamento il proprio ambito ed orizzonte di vita e che saprà restituirci in modo ancora più evidente la qualità dei maestri ed egli insegnanti della nostra scuola; e che, di necessità, richiederà una collaborazione ancora più stretta (e potenzialmente molto fertile) tra l’istituzione scolastica e tutte quelle realtà e professionalità che operano in ambiti affini (associazioni, cooperative, enti no-profit, mediatori culturali…) e che hanno avuto già modo di indagare il fenomeno e di affrontarlo nella sua concretezza.

A proposito di concretezza: mi piacerebbe che questo articolo fosse di stimolo a chi ha già vissuto esperienze di questo tipo a condividerle e metterle in circolazione. Mi offro come calamita e come messaggero: scrivete a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook. Cercherò di far girare quanto più possibile ogni segnalazione, racconto, progetto, programma che possa arrivarmi. (Claudio Imprudente)

(3 ottobre 2011)

Lettere al direttore

Caro Claudio,
prima di tutto grazie per avermi risposto così rapidamente (considerate le tue difficoltà… sei fantastico!), sono curiosa di leggere il tuo libro Una vita imprudente nel quale se ho ben capito tratti anche il tema del ritardo psichico, problema che mi sta particolarmente a cuore!
Come ti ho scritto la mia bimba, Maddalena, è nata con la sindrome di Down, “pacchetto vita” che comprende oltre alla cardiopatia, a una certa goffaggine fisica e una notevole somiglianza a Gengis Khan, anche appunto il ritardo psichico.
Penso che avere una testa che funziona sia uno strumento fondamentale per costruirsi una vita che si realizzi nel percorso che tu chiami “dalla sfiga alla sfida”! Probabilmente (mai dire mai!) la mia bambina questo strumento non lo avrà e questo mi fa temere (magari erroneamente) che sarà più emarginata di qualunque tetraplegico con un cervello tale da consentirgli di tessere relazioni interpersonali di un certo tipo e di battersi per i propri diritti in virtù di quell’intelligenza che contempla la consapevolezza!
Non sono sicura di essere riuscita a spiegare bene quello che intendo, come ti ho scritto Maddalena è la mia quinta figlia (cosa vuoi sono una persona profondamente ottimista e con una grande fiducia nella vita!) perciò la mia esperienza di mamma è quanto meno plurima, ho potuto constatare che, se con i figli normali (quelli con un patrimonio cromosomico standard!) il problema è COSA gli insegniamo!? con Maddalena la cosa si ribalta, COSA IMPARIAMO!? È lei che ogni giorno ci insegna qualcosa: a non dare niente per scontato, a non essere prevenuti in nessun contesto, a misurare tutte le cose con un altro metro molto più attendibile e vero, capace di mettere al riparo da pericolosi abbagli!
La mia BGM (come noi la chiamiamo – Bambina Geneticamente Modificata!) ha solo due anni e mezzo, eppure ha già cambiato la vita di molte persone, se solo potessi trovare il modo di far capire alla società il valore del suo esserci!!!!
Se mi potessi aiutare in questa ricerca ti sarei infinitamente grata ed eternamente riconoscente!
Con affetto e stima
Valeria

Caro Claudio,
leggendoti mi sovviene una strana, strana riflessione sul mio rapporto con i regali…
Quando ricevo un regalo inaspettato, vivo con imbarazzo l’idea di scartarlo, di svelarne il contenuto di fronte al donatore.
La cosa che desidero di più è poter appartarmi, sola con quell’ignoto tra le mie mani, e iniziare il rito di scoperta. Lo sguardo del donatore mi mette fretta, mentre per me l’apertura del regalo è un rituale lento.
E poi vorrei intimità per le mie espressioni! Anche perché il donatore ha un’aspettativa sull’espressione della persona alla quale fa dono, e chissà se la mia sarà quella che lo gratificherà?
E poi quali sono le parole? Ogni formula di ringraziamento mi appare banale…
Credo di avere lo stesso approccio con le persone. Vorrei poter concedermi con ogni persona incontrata sul mio cammino, una scoperta lenta. Non sempre è possibile: i tempi del vivere spesso sono fatti di istanti “mordi e fuggi”… Ma vorrei scartare le persone pian pianino, un lembo alla volta.
Vorrei arrivare al contenuto dopo un viaggio di sensazioni.
Nella vita ho ricevuto regali meravigliosi già solo per l’intenzione della persona che li faceva. Magari semplici, piccole delizie create con le proprie mani con cose povere, ma preziose.
Questo vuol dire che molto del “valore” del dono è fatto di emozione.
Il regalo che per qualcuno potrebbe essere un clamoroso “pacco”, per un’altra persona ha un significato diverso.
Devi sapere che nella mia seconda o terza adolescenza (credo ora di essere alla quarta), ho avuto anche un trascorso di (come si dirà?)… chatter?
Per come sono fatta, puoi immaginarlo, è stata una modalità di comunicazione a me molto congeniale. Aggiungi il fatto che credo di essere abbastanza avveduta e in possesso di buona capacità di giudizio ed ecco spiegato come possa essere stata un’esperienza meravigliosa.
Mi sono trovata nella possibilità di avere di fronte, nell’intimità della mia stanza virtuale, varie “scatole”; non sapevo se sarebbero stati regali-dono o regali-pacco ma mi sono posta nella possibilità di svelare lentamente il contenuto.
Non ho mai avuto interesse per l’età, il sesso o l’aspetto delle persone con cui entravo in contatto. Mi interessavano solo le emozioni.
Mi è capitato di incontrare poi realmente persone con cui avevo costruito un percorso di emozione… e a quel punto qualunque fossero l’aspetto o le caratteristiche di quella persona, non avevano valore perché l’unico valore era l’emozione costruita insieme.
Un bambino disabile, vissuto nel mio immaginario di non-mamma, porta con sé un percorso di emozione che ti permetterà di avere in ogni caso le lenti della meraviglia. Non penso che non sia difficile, che non porti paure… ma credo che se si ha la capacità di scartare e riscartare ci si abbandoni all’accoglienza del dono.
Se capitasse a me di essere mamma di un bimbo disabile, non so che mamma sarei. Però credo di avere quelle lenti della meraviglia.
E continuando in questa riflessione – che è un viaggio – domando a me stessa: bastano queste lenti a nobilitare un regalo-pacco come una malattia?
Bastano queste lenti per vedere un significato diverso nella perdita delle persone amate?
È possibile, tramite la nostra volontà di spostare il nostro punto di vista, cogliere i doni nei pacchi che ogni tanto la vita ti tira in testa?
Ho la fortuna di aver incontrato persone che mi hanno fatto intravedere queste possibilità; persone che portano il peso della sofferenza con la grazia di una piuma e che hanno saputo trasformare un pacco in un dono.
Io non so se saprei.
Questa estate ho dovuto fare un lavoro nella mia casetta di origine, in Sardegna; mio papà vorrebbe venderla e ho cominciato a svuotare le credenze del salotto, alle prese con gli oggetti acquistati o regalati, accumulati negli anni e di cui necessariamente liberarsi. Su alcuni io e mia mamma, quando ancora era in vita, abbiamo fatto grosse risate perché erano veramente dei regali-pacco in Capodimonte e profili dorati e riccioli e capitelli. Il dono, in quei regali, era sicuramente l’humor che ispiravano a mia madre, che partiva con delle gag insuperabili.
A distanza di dieci anni ho riguardato con nostalgia riccioli dorati, pastorelle scolorite e cigni porta fiori che mi hanno fatto dono di quella traccia di passato… e poi, ciò che non era proprio possibile tenere, l’ho destinato alla locale pesca di beneficenza.
Pure sempre “pacchi” che in qualche modo diventano doni.
Un abbraccio!
Alessia

Il prima e il dopo… Non mi resta che raccontarvi cosa è successo in mezzo. Niente di più semplice, cari lettori, un’operazione che pratico spesso e che quasi sempre produce ottimi risultati. Ricevuta la prima di queste due lettere, avevo scritto un articolo che cercava di approfondire – (pro)seguire forse è più appropriato – la lettera era già piuttosto profonda – gli stimoli che da essa venivano. Una lettrice del mio contributo pubblicato su www.superabile.it ha a sua volta aggiunto un anello alla catena, un tassello al mosaico, arricchendo e vivacizzando ancor di più il tema. Mi trovo di nuovo a fare da tramite tra i precedenti lettori-corrispondenti e quelli potenziali futuri. Di nuovo in mezzo, tra un prima e un dopo, per realizzare il quale attendo le vostre parole. Scrivete come sempre a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook. E credetemi: il riferimento ai pacchi e ai regali nella rubrica dicembrina è davvero involontario…
Claudio Imprudente