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autore: Autore: Luca Baldassarre

1. Introduzione

di Luca Baldassarre

Negli ultimi mesi al nostro gruppo di lavoro è capitato più volte di intrecciare il cammino di riforma delle politiche sociali rivolte alle persone con disabilità in terra balcanica. Abbiamo infatti seguito con attenzione un paio di iniziative progettuali culminate nella partecipazione ad alcuni appuntamenti seminariali tenutisi a Belgrado e a Sarajevo. I contatti con le ONG (Organizzazioni Non Governative) locali, le scuole, gli amministratori pubblici e il mondo della comunicazione serba e bosniaca ci hanno molto interrogato avviandoci alla conoscenza di una regione che porta in dote un grande potenziale umano oltre che una tradizione culturale ed educativa di tutto rispetto. In verità, accomunare sotto l’etichetta “Balcani” la variegata costellazione di autonomie nazionali nata dalla dissoluzione della Jugoslavia è una semplificazione che non aiuta a comprendere fino in fondo una realtà tanto complessa. Per quanto ci riguarda è stato davvero illuminante ascoltare le esperienze altrui, partecipare al confronto sugli obiettivi da perseguire, sull’approccio alla disabilità e alle comunità locali di riferimento, sugli stili di lavoro, le modalità di impiego di risorse, la soluzione dei problemi. Come rivedere il film di una vita lavorativa in pochi secondi. A noi è servito moltissimo per fermarsi e riflettere sulla situazione dell’inclusione sociale e scolastica delle persone con disabilità nel nostro Paese. Una sorta di rilettura per comparazione che attualizza gli oltre trent’anni di lavoro già fatto e introduce alle prospettive future. A rafforzare questo parallelismo contribuisce l’ultima parte della monografia, dedicata interamente ai colleghi con disabilità del nostro gruppo di lavoro della cooperativa Accaparlante e Centro Documentazione Handicap, che hanno accettato di raccontare le proprie esperienze di inclusione attraverso contesti chiave quali la famiglia e la scuola. Oltre a queste, nel numero approfondiremo il lavoro della ONG Serba, VelikiMali (in italiano: Grande Piccolo), che da anni si occupa di concrete azioni educative di inclusione di bambini con disabilità, soprattutto nelle scuole. E, infine, daremo spazio a un progetto di cooperazione internazionale, nato da un’idea della ONG italiana EducAid e dell’Università di Bologna realizzato in Bosnia Erzegovina o, com’è più corretto dire, Federazione Bosnia Erzegovina e Repubblica Srpska, sovvenzionato dal Ministero degli Affari Esteri italiano col cofinanziamento delle regioni Marche ed Emilia-Romagna. Alla chiusura del numero la lettura del materiale ci ha restituito delle belle sensazioni. Forti. L’auspicio è che l’intensità di queste pagine, trasudanti di storie, fatiche e qualche bella soddisfazione, catturi l’attenzione anche dei nostri lettori fornendo loro qualche spunto di riflessione. 

4. Un’idea forte

di Luca Baldassarre, ex animatore e formatore del Progetto Calamaio

Gli oltre vent’anni passati al CDH sono stati più di un’esperienza professionale, ma un vero percorso di vita che ha accompagnato e scompaginato la mia crescita umana e personale. È stata una fortuna poter condividere ideali forti e grande sintonia con un bel gruppo di lavoro che ha avuto voglia di stare assieme e migliorare. Non a caso siamo riusciti a focalizzare e concretizzare obiettivi importanti. Credo che parte del merito vada riconosciuto a un contesto territoriale favorevole, con una comunità attenta e una rete di servizi sociali davvero all’avanguardia e di prim’ordine, che per parecchi anni ha potuto contare su competenze, idee innovative e risorse economiche importanti.
Venendo a me, dell’esperienza nel Calamaio conservo tutto: le facce e le vite delle persone, la dimensione del gruppo, le soddisfazioni, la fatica e le pesantezze e le tante tantissime risate spensierate. Nel Calamaio sono stato bene. Negli anni in cui ne ho fatto parte ho sentito il fermento creativo e ho visto partorire tanti spunti interessanti che sono diventati anche progetti reali.
Se dovessi scegliere, penso che l’idea forte del Calamaio, la più innovativa e creativa, sia stata quella di proporre le persone con disabilità come educatori e formatori, quando la loro immagine sociale li relegava a un ruolo da utenti di servizi, definendoli “non collocabili al lavoro”. Per me, anche il passaggio da un’associazione di promozione sociale a una cooperativa sociale di produzione lavoro scommetteva su questo. Sul concetto che le persone con disabilità potessero essere parte attiva e partecipata della società, nei limiti e nel rispetto delle proprie difficoltà ma con un protagonismo competente e una funzione da educatori riconosciuta e apprezzata. Il passaggio successivo è stato quello di trovare una mediazione tra questa istanza, di proporsi in un mercato libero con prodotti culturali, e un quadro generale di sostenibilità dell’impresa cooperativa alla luce anche dei bisogni del territorio, dei servizi sociali e delle esigenze delle famiglie.
Pur dentro un mercato protetto, è stato chiaro da subito che la sostenibilità della cooperativa non poteva prescindere dall’affiancare a prodotti culturali a mercato, servizi di natura socio-assistenziale, pagati dalle aziende sanitarie locali o di servizi alla persona, che fornissero risposte alle famiglie. Di qui, la scelta logica di associarsi ad altri enti cooperativi proponendosi come soggetto gestore di servizi educativi, socio riabilitativi e di inserimento lavorativo, rivolti a persone con disabilità.
Non so se questa impostazione sia il giusto compimento alle grandi ispirazioni iniziali ma forse era e resta l’unica strada percorribile…

Vedi Napoli e poi… ci torni!

“Nulla si può fare ma tutto è consentito!”. È questa massima della nonna materna del signor Galliano, di professione taxista, che ci introduce a Napoli. In realtà, nel tragitto percorso assieme a bordo del suo taxi, che dall’aeroporto Capodichino ci ha condotto fino al centro città, il sig. Galliano non si è limitato alla citazione della da lui definita “nerboruta” ava buonanima, ma si è lungamente soffermato su molti argomenti. Ha declamato il fascino della sua città, dei suoi tanti pregi e di qualche difetto; ha raccontato della sua esperienza di genitore e della bellezza di crescere in famiglie numerose (si è detto un po’ dispiaciuto di non avere tantissimi figli ma solo cinque!). E alla fine è giunto a evidenziare le pecche di un “stravagante” sviluppo urbanistico fino a un paio di digressioni un po’ astiose su due temi che hanno tenuto banco la scorsa estate: il “Decreto Bersani” per la liberalizzazione di alcuni settori del commercio, tra cui quello dei taxi. E il bombardamento mediatico che, sempre a suo dire, ha ingiustamente dipinto il luogo dove lui vive (il quartiere di Scampia), come una zona di guerra.
Al di là di tutto, all’arrivo in città, in un bell’albergo appena dietro il Duomo, non ci eravamo pentiti di aver scelto Napoli per realizzare l’ultima guida accessibile della collana “Incontri” (frutto della collaborazione con Coloplast). Inoltre, avevamo già un primo termometro degli umori della città, che ci avrebbe aiutato nel nostro soggiorno nel capoluogo partenopeo.
Ecco, forse l’essenza del fare turismo inizia proprio da qui. Dal prendere contatto con il territorio, con il sentire delle persone che lo abitano e lo respirano quotidianamente. Da questo punto di vista, il sig. Galliano rappresenta un passaggio obbligato per l’approdo a un vero turismo emozionale. L’anello di congiunzione tra il “Dove? Sì, ci sono stato… mmm… bello” e il “Caspita se mi ricordo! È un’esperienza che mi porterò dentro per parecchio tempo!”.
Per il gruppo di lavoro del Centro Documentazione Handicap di Bologna e della Cooperativa “Accaparlante” quest’approccio è divenuto da tempo una precisa scelta operativa. E il processo di costruzione di una guida accessibile è fatto anche molto di questo. Parlare con le persone, chiedere loro consigli su come dove e perché andare lì… È bello sentire le “impressioni di pancia”. Tipo: “Si, va bene, il museo del Tesoro di San Gennaro sarà anche una tappa obbligata ma lei, dovendo pagare, ci andrebbe?”. Per il rispetto dovuto al Santo, ometteremo qualunque risposta in merito. Nel condurre la rilevazione sul territorio ci si comporta un po’ come farebbe un antropologo nell’intento di elaborare una metodologia di ricerca sulla comunicazione urbana. Ci si perde nella città, tra i suoi vicoli, i suoi palazzi, e non per caso ma perché ci si vuole perdere; si gode nello smarrirsi. Per cercare, scoprire… per vivere e comprendere al meglio il luogo che si visita.
Certo è che per stilare un itinerario di qualità secondo i crismi dell’accessibilità servono almeno due differenti dotazioni. Una tecnica: un metro, un “occhio clinico” per le pendenze, i restringimenti delle passerelle e degli scivoli, le altezze delle pulsantiere; un bagaglio di conoscenze normative sul tema delle barriere architettoniche e un’attenzione agli aspetti logistici. L’altra, sempre attenta alla “dotazione tecnica” ma che potremmo definire più godereccia, richiede: una discreta passione per la tradizione enologica e gastronomica del nostro Paese, un interesse a scoprire il locale “rustico”, il luogo fuori dai giri del turismo di massa. Una buona capacità di valutare se e in che termini valga la pena di adattarsi temporaneamente a una situazione accessibile con difficoltà (in attesa di una completa accessibilità) come quella di un hotel, un ristorante, un museo, valutando cosa viene offerto in cambio dello sforzo.
Questo concetto merita un approfondimento. Pensando a una guida su Napoli era logico supporre l’esistenza di problemi di accessibilità. Intanto per ragioni strutturali: Napoli si sviluppa su un territorio tutt’altro che pianeggiante, con molte zone decisamente “faticose” (ad esempio, in cima a impervie salite) e diverse sostanzialmente inaccessibili. Il cuore del centro storico ha una pavimentazione a lastroni e/o sampietrini che col traffico di auto e moto tende a dissestarsi, rendendo la percorribilità per le carrozzine molto più difficoltosa.
Sta di fatto che cercare di non perdere di vista la logica del “entro certi limiti si può provare ad adattare il presente al possibile” normalmente consente di ottenere risultati insperati.
Questa logica si riflette direttamente nel metodo di lavoro per la costruzione di itinerari accessibili, soprattutto se teniamo presenti almeno quattro punti:
1. Spostamenti da un luogo a un altro
Si cerca di studiare e descrivere il percorso più adatto a chi si sposta con l’ausilio della carrozzina, o ha dei problemi di mobilità, privilegiando il passaggio su marciapiedi provvisti di scivoli, evitando strettoie, strade di difficile attraversamento.
2. Strutture da visitare
Ogni struttura segnalata all’interno degli itinerari è oggetto di un sopralluogo teso a verificarne e descriverne il grado di accessibilità, indicandone eventuali ostacoli.
3. Strutture ricettive
Gli hotel, i bar e ristoranti segnalati saranno valutati non sono per il livello di accessibilità e per la quantità di servizi offerti, ma anche secondo parametri legati all’accoglienza, all’ospitalità e alla cordialità.
4. Trasporti
Verranno fornite le informazioni sia per chi si sposta con l’auto che per chi utilizza i mezzi pubblici, compatibilmente con l’accessibilità del servizio locale.
Sulla base di questa semplice griglia, anche l’esito della rilevazione di Napoli si può definire sostanzialmente soddisfacente. Sono molte le strutture fruibili e visitabili, come ovviamente ve ne sono di inaccessibili. Qui come in altri città il valore aggiunto alla città è dato dai suoi abitanti. Parlare con i napoletani nei bar, per strada, sulla funicolare e un modo per farsi raccontare da loro la loro città, e, come accade molto spesso, questo è un viaggio nel viaggio.
La guida sarà presto data alle stampe ma nel frattempo qualche anticipazione per i lettori di HP-Accaparlante: il Castel Sant’Elmo, il Museo Nazionale e Parco di Capodimonte e lo splendido Caravaggio ospitato presso la Chiesa del Pio Monte della Misericordia, da vedere. Alla Trattoria da Nennella (nei Quartieri Spagnoli) e al volo per strada o seduti, nelle Pizzerie “Il Presidente” e “Da Matteo”, in via dei Tribunali, per mangiare.

 

Emozioni di “seconda mano”

Di Luca Baldassare

La “qualità emozionale” nei servizi turistici è un tema di cui si parla da qualche tempo e probabilmente non senza reali motivi d’interesse. Intanto bisogna specificare che il concetto di “qualità emozionale” non è analogo a quello di “qualità percepita”. Infatti, mentre la seconda è più orientata alla misurazione del livello di soddisfazione del cliente, in sostanza liquidabile come mera questione di marketing, la prima investe un piano assolutamente più emotivo, emozionale per l’appunto. Attiene cioè a quella sfera del privato invasa dalla voglia di conoscenza, di libertà e, forse, anche al desiderio di fuggire dalla propria realtà. Praticare questo tipo di turismo significa rivisitare il proprio rapporto con l’ambiente e con gli individui che lo abitano e perciò anche delle relazioni che con loro si intrattengono.
L’argomento è interessante sia per chi offre i servizi turistici sia per chi ne usufruisce. Se valutata dal punto di vista di un operatore del mercato del turismo che vuole stimolare la “domanda”, la questione potrebbe porsi nei seguenti termini: “Come si fa a misurare l’intensità di un’emozione che si prova di fronte a uno spettacolo della natura?”. La probabile risposta è che non sia possibile in nessun modo, non fosse altro perché il “sentire”, almeno questo sentire, è troppo soggettivo per essere oggettivizzato. È altresì vero che non ci sono dubbi circa l’importanza della qualità emozionale, senza la quale verrebbe meno la motivazione e forse l’essenza stessa del fare turismo. Onde evitare di incartarsi, è bene porre la questione diversamente.
Ragionando ad esempio di cultura dell’accoglienza e dell’ospitalità, miscelata opportunamente ai concetti di accessibilità e fruibilità dei servizi, più semplici da misurare, avremmo qualche primo concreto indicatore della qualità emozionale.
A quelli cui quest’idea della qualità emozionale potrà sembrare strampalata, è bene chiarire due elementi. Intanto, che in tutti i territori dell’economia, e quindi anche in quello del turismo, recepire un cambiamento, se non anticiparlo, si traduce in un vantaggio strategico e di competitività che interessa qualsiasi impresa. In quest’ottica sono i numeri del turismo di massa, che negli anni hanno incrementato sensibilmente la domanda e allargato e differenziato l’utenza, che quasi costringono alla ricerca di nuove strategie per intercettare la crescente domanda di servizi. L’altro elemento, non meno importante, è che la letteratura sull’argomento propone da tempo molti livelli di riflessione, alcuni addirittura già tradotti in bandi di enti pubblici per la promozione di servizi turistici.
Non solo: esistono addirittura veri e propri vademecum per operatori turistici che snocciolano principi di buona accoglienza quali rispetto, disponibilità all’ascolto, cortesia, gentilezza; e sottolineano con forza l’importanza di porre le basi per una buona relazione, ovvio, per “vendersi” meglio, ma evidentemente con beneficio dell’utente/fruitore.
È altrettanto ovvio che la cortesia e la disponibilità non si possono imporre per legge, pertanto solo chi ne coglie la potenzialità ci scommetterà sopra.
Come gruppo di lavoro del Centro Documentazione Handicap e della Cooperativa Accaparlante, che si cimenta ormai da oltre dieci anni nella realizzazione di prodotti turistici con un occhio di riguardo per chi ha problemi di mobilità, la promozione di un turismo di qualità emozionale è vista come un’interessante opportunità.
Esiste una correlazione stretta tra una scelta improntata al turismo emozionale, a una logica dell’accoglienza, e la fruibilità e l’accessibilità delle strutture ricettive. In questi anni di lavoro ci è spesso capitato di editare guide all’accessibilità di luoghi e contesti, a priori ritenuti inaccessibili. Lavorare in una logica emozionale vuol dire impegnarsi a fornire emozioni , se non proprio di “prima” almeno di “seconda mano”. Magari apparirà una forzatura, invece è frutto di un impegno preciso e voluto. Costruire degli itinerari di accessibilità tenendo conto di questo, vuol dire ad esempio, segnalare uno scorcio cittadino, una porzione urbana insignificante ai più, ma capace di fermare l’emozione del rilevatore di quel momento. Trasporre quell’emozione in quella segnalazione vuol dire farla rivivere, in quel turista, che verrà dopo di te.

Nonna Santa e i Dogi

La prima (e unica) volta che portai mia nonna a visitare Venezia fu veramente un’esperienza da raccontare. Ricordo chiaramente che non stavo nella pelle: non mi pareva vero di essere riuscito a convincerla a lasciare per ben un giorno e mezzo la sua terra d’Abruzzo, la sua casa e le sue abitudini. Come molte persone della sua generazione anche lei, nata nel 1909, ha sempre avuto un concetto di mobilità molto particolare, sicuramente di un’altra epoca. Concetto, per me, estremamente affascinante. Anche a distanza di molti anni dalla sua dipartita, mia nonna rappresenta per me una fonte inesauribile di saggezza. È l’unica persona che abbia mai conosciuto capace di infilare, in ogni discorso e con incredibile tempismo, una pastiglia di assennatezza.
Ne aveva per tutti lei, e ovviamente ne ha avuto anche per Venezia. Appena scesi dal vaporetto alla fermata del Ponte di Rialto, il suo primo commento fu: “Uuuh…ma come fann(e) chiss a suppurtà tutta ‘sct’umidità? Mi fa mal(e) l’uss(e) a me pe’ iss(e)?”.
Ecco, l’essenza di nonna Santa sta in questa frase! Per chi ha vissuto un’intera esistenza nell’arco di pochi chilometri quadrati non è mai facile uscire dal proprio guscio… Ma lei, da questo come da altri punti di vista, era davvero una persona spettacolare! Io sono rimasto spesso stupefatto e incuriosito dal modo in cui lei si approcciava alle cose nuove, che ancora oggi trovo incredibilmente attuale, un po’ come le sue massime… E penso che anche per chi, come me, è figlio di un’epoca che ci ha abituati a un sacco di cose bellissime e supertecnologiche, come per esempio a spostarci anche a grandi distanze con buona disinvoltura, il suo modo di essere e di fare sia veramente interessante. Ebbene, è proprio da qui che vorrei partire. E il punto di partenza non può che essere un luogo geografico ben definito: Manoppello (Coordinate GPS 45.8247222′, 12.5341667′). Questo ridente paesello della provincia di Pescara, ritirato verso l’Appennino ma a soli 30 chilometri dalla costa adriatica, ha visto scorrere la gran parte dell’esistenza dei miei nonni materni: Santa e Donato. Io non ho mai capito come abbiano fatto a vivere dove hanno vissuto, e per tutti quegli anni. Con la famiglia “a regime” sono arrivati a essere in 14/15 persone… Un bel numero non c’è che dire, soprattutto se suddivisi in quattro stanze in tutto (sala da pranzo e cucina incluse). D’altronde, come si dice in questi casi, all’epoca non c’era il televisore. Ma non è di questo che stavamo parlando; parlavamo di Venezia e della nonna. Come soleva spesso dire di sé, lei non aveva fatto scuole, “né alte né basse”, perciò era “gnorante e ‘nalfabeta!”. In verità, sapeva leggere, scrivere e perfino contare. Qui, anche se mi scoccia alimentare uno dei luoghi comuni più insopportabili e retrivi sull’Abruzzo, devo ammettere che lei ha sempre sostenuto di aver imparato a farlo “pascendo le pecore”. Mi secca dirlo, ma tant’è…
Nonna Santa e i viaggi: è un titolo suggestivo per un libro. Ma non sarebbe un tomo molto voluminoso. Lei non viaggiò molto in vita sua e non solo per una questione di soldi, come si potrebbe pensare. E forse neanche per mancanza di una “cultura del viaggio”. Semplicemente non lo fece, nemmeno quando sarebbe stato logico farlo. Ad esempio, per andare a trovare qualcuno dei suoi figli emigrati all’estero: in Canada, in Belgio (a Marcinelle, località tristemente famosa per l’incidente in cui morirono tanti minatori, diversi dei quali proprio di Manoppello) o in Germania. Insomma non si spostò mai dalla sua terra, tranne una volta. Ricordo un viaggio insieme, in Val di Susa (dove vive un’altra delle sue figlie), per un matrimonio. In quella circostanza ebbi l’opportunità, forse per la prima volta, di vedere interagire mia nonna con qualcosa di nuovo e forse per lei inaspettato: Torino. Infatti, nel viaggio di andata ci scappò la sosta nel capoluogo piemontese. Mia nonna apostrofò subito l’imponente seriosità degli edifici della città con un “E tutt(e) s’ cas(e) vicchi(e)?”. A quelli che non riescono a cogliere l’essenza di questo modo di fare, vorrei spiegare che è frutto del background culturale tipico delle genti d’Abruzzo, che si potrebbe riassumere in un, “nel dubbio, sbeffeggia!”. Però, al di là di queste considerazioni, quello che conta è ciò che scattò dopo. Infatti, fregiandomi della mia scolarizzazione da “scuole alte” (all’epoca frequentavo un istituto superiore ospitato in un palazzo di tre piani), introdussi mia nonna alle vicende storiche di quegli edifici dell’ex Capitale d’Italia. Al loro passato e a quello che avevano rappresentato per tutti noi. Lei, come faceva sempre quando le parlavo, mi ascoltò tutto il tempo senza proferire verbo. Aveva un luccichio negli occhi brillantissimo, attenta a percepire ogni mia parola. Col passare del tempo questa cosa mi impressionò sempre meno ma quella volta lì, la ricordo ben nitida, scolpita nella memoria. Sono sempre stato convinto che quell’occhio celasse un atteggiamento di grande curiosità e voglia di conoscenza non così comune, nemmeno per il più navigato dei viaggiatori. Inoltre, spesso diceva che occorreva fare attenzione a lasciare “l’Addor(e)”. So che intendeva dire “non essere invasivi né scostumati”. Cioè: bisogna avere gratitudine e un grande rispetto per l’interlocutore che sceglie di condividere con te quello che sa lasciando fluire il racconto senza incalzarlo troppo. Io questa cosa l’ho sempre trovata di grande civiltà. Mi ha ricordato le tanto da me vituperate “buona maniere” che così spesso mia madre ha cercato di insegnarmi. Dopo quella volta sono stato più attento a verificare il comportamento di mia nonna verso le fonti di informazione e soprattutto verso i luoghi e i posti nuovi. Sentirle rispondere “Buonasera!” allo speaker televisivo del TG1, interpretare la notizia del giorno o leggere attraverso i suoi occhi l’enorme patrimonio storico artistico di Venezia è stato così divertente e affascinante, da vero turista del 1909! Una lettura di puro, pratico buon senso che mi ha restituito una visione unica e originale che nemmeno il più grande dei ciceroni avrebbe potuto mai darmi. E qui non c’è scuola “alta” che tenga!