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autore: Autore: Lucia Cominoli

Amalia e basta. Storia di una persona comune

Questa è la storia di Amalia, una trentenne come tante, laureata in Storia dell’arte e hostess all’interno di un museo. Questa è la storia di Amalia, una ragazza piena di amici dalle molteplici storie. Questa è la storia di Amalia, quella di cui si è innamorato Luca e che, mannaggia, non era previsto. Questa è la storia di Amalia, nata sorda.
Amalia e basta/Primo Studio è un monologo a più voci, lucido e drammaturgicamente densissimo che esplora con ironia e delicatezza la condizione dell’ipoacusia. Lo spettacolo, fortemente acclamato dal pubblico e segnalato dalla critica, si è aggiudicato, tra gli altri, il primo premio Monologhi “Sipario-Autori Italiani-2012”, il primo premio Testo Teatrale “InediTO-Colline Torino-2012” e il secondo premio del concorso nazionale di drammaturgia “Teatro e disabilità-2011”.
Ne abbiamo parlato con l’attrice, autrice e regista Silvia Zoffoli.
La sordità è una delle cosiddette “disabilità invisibili”, poco frequentata sulla scena se non in termini di linguaggio e di fruizione accessibili. Ma ad Amalia non basta. Amalia è una che si impunta. Amalia si alza dalla sua comoda poltrona, sale sul palco e si fa protagonista…
Sì, solitamente tematiche come la sordità sono messe in scena in termini di linguaggio e fruizione accessibili, ma io non sono un’esperta di teatro “per sordi” e, del resto, trovo interessante proprio poter portare questa tematica al di fuori di un pubblico di settore, facendola conoscere a tutti.
Amalia, è vero, racconta di una disabilità invisibile, ma non lo fa con ostentazione o arroganza, semplicemente lei è sorda. Fa i conti con la propria fragilità e in questo rappresenta l’archetipo di quel percorso di accettazione di sé con il quale tutti noi, prima o poi, ci confrontiamo: è forse anche questo a rendercela più vicina umanamente. Il pubblico si ritrova a scoprire quest’altro punto di vista sul mondo e sulla disabilità, pian piano pensando, vivendo, e sentendo come Amalia.

Che cosa ti ha spinto ad affrontare un tema come questo?
Il motivo di sempre: “l’urgenza” di mettere in scena qualcosa che ritengo stimolante raccontare e far conoscere.

Con chi ti sei confrontata durante il tuo percorso di ricerca?
Anch’io sono partita dal pregiudizio per cui credevo che i sordi fossero sordomuti, anch’io non sapevo che la sordità ha varie sfumature e che è una realtà molto complessa (ci sono, ad esempio, figli udenti di genitori sordi, coppie bilingue, sordità di vario grado e tipo, condizioni sociali e culturali che influiscono sul percorso di apprendimento, ecc.).
La mia ricerca, invece, è continuata ed è stata lunga e approfondita. Soprattutto prima di scrivere il testo mi sono documentata moltissimo, citare tutte le fonti sarebbe davvero difficile… Ho incontrato, parlato o anche solo scambiato mail con persone direttamente e indirettamente legate alla sordità. Il bello dello spettacolo è stato proprio questo, il percorso, è stata un’esperienza umana che mi ha arricchita profondamente soprattutto a livello personale.
Ad un certo punto, quando mi sono sentita “satura” e ho avuto la sensazione di avere tutti gli elementi per poter creare il mio personaggio, è nata Amalia, il testo. La ricerca, poi,  è continuata anche dopo la fase di scrittura, soprattutto per cercare di entrare a fondo nella psicologia di una persona sorda come Amalia e nel capire come interpretarla in scena, il più possibile con rispetto e delicatezza.
Sicuramente importanti sono stati gli incontri con Martina Gerosa, un architetto e donna straordinaria che mi ha suggerito una ricca bibliografia in merito, con la psicologa Enrica Repaci che ha creato un sito internet molto interessante chiamato “Arcipelago sordità”, con la dott.ssa Federica Morgantini e il dott. Roberto Lupo, che mi hanno fatto conoscere da vicino la parte più strettamente “clinica”, con Giulia Cicchetti per la lingua dei segni, e moltissime altre persone. È stato anche divertente vedere come, per una serie di coincidenze, poi tutto fosse collegato, anche gli incontri più casuali, in una sorta di “domino umano” davvero curioso.

Perché la pittura e l’arte in genere sono tanto importanti per Amalia?
Fra i tanti libri che ho incontrato durante il mio percorso di ricerca c’è stato Il pianista che ascolta con le dita (Ed. Archivio Dedalus), scritto da Paola Magi, in cui si parla del rapporto fra le arti e le disabilità sensoriali e nel quale viene raccontata l’esperienza di Daniele Gambini, con il quale mi sono poi confrontata direttamente sul rapporto tra sordità e musica, un binomio molto interessante da conoscere ma che, in realtà, non ho mai pensato di rendere centrale nel mio testo.
Non volevo che Amalia fosse un’artista, ma una persona comune e inoltre si stava facendo strada il desiderio di raccontare una storia positiva: una persona sorda che riesce a laurearsi, cosa che nell’immaginario collettivo sembra quasi impossibile. Nel frattempo mi sono resa conto che molte persone con questo tipo di disabilità sensoriale hanno una componente visiva decisamente sviluppata, sono attenti osservatori: quindi l’arte poteva essere un buono spunto.
Come solitamente faccio da quando ho intrapreso una strada “autoriale” (il mio precedente spettacolo è stato sull’amicizia fra Hannah Arendt e Mary McCarthy), ho scritto il testo già pensando di metterlo in scena (talvolta scrivo addirittura recitando) e poi c’era l’idea di lavorare con Leonardo Carrano alle scenografie: questo è stato un ulteriore elemento a favore della scelta della pittura come interesse privilegiato di Amalia. In seguito, meditando sulla regia, mi è venuto in mente di giocare su un mondo colorato e, in particolare, sui colori primari e sulla combinazione fra essi ed è stato poi quello il file rouge con il quale abbiamo lavorato con Leonardo alle scene e anche poi alle luci con Marco Maione.

Come hai lavorato, al momento della messinscena, dal punto di vista sensoriale?
Non lo so… Diciamo che io ci ho provato a modo mio. Scrivere il testo, farne la regia e interpretarlo significa vivere una storia fino in fondo, cucirsela addosso e, al tempo stesso, metterci tutta me stessa: un vero e proprio parto… Mi sono completamente donata, ho usato tutto di me, la camminata, i gesti, perfino i capelli, tutto il mio corpo… per mettermi completamente a disposizione del personaggio e dello spettacolo. Ho lavorato per mesi, varie ore al giorno da sola con la mia Amalia, io e lei: è stato un percorso molto intenso.

Amalia ha ricevuto molti riconoscimenti. Quali sono state le reazioni dei più diretti interessati?
Sì il testo ha ricevuto bellissimi riconoscimenti perché provenienti da giurie sia di addetti ai lavori della disabilità, sia della drammaturgia, oltre che da giurie popolari in certe fasi di selezione di alcuni premi. Tuttavia, la soddisfazione più grande è stata nell’incontro con il pubblico: non avrei mai immaginato una risposta così calorosa e i bellissimi commenti sulla pagina Facebook dello spettacolo. Le persone che non conoscevano questa tematica hanno apprezzato lo spettacolo, molti mi hanno detto di essersi sentiti “acculturati”, perché hanno imparato qualcosa in più che prima ignoravano. Mi ha poi stupito che alcuni siano venuti, in qualche modo, “allo scoperto”, raccontandomi che hanno un parente o un amico con questa disabilità sensoriale, segno che è molto più diffusa di quanto si possa immaginare e forse taciuta per un tabù difficile a credersi in un’epoca in cui molti altri sono decaduti. Ovviamente temevo la reazione delle persone sorde, perché riuscire a “rappresentarle” era una grande responsabilità, invece è stato bellissimo trovarle ad aspettarmi a fine replica con gli occhi pieni di emozione e con parole di ringraziamento. Amalia mi ha già donato tantissimo: in fondo faccio teatro perché mi interessa “arrivare” alla gente.

Cosa ci attende nel prossimo studio?
Ritengo che in un testo come questo ci siano ancora infiniti spunti di approfondimento. Un personaggio come Amalia è decisamente complesso da affrontare sia per la tematica trattata, sia per i diversi piani narrativi e temporali della storia: c’è il tempo del presente, della sala del museo, quello del passato, c’è l’Amalia adolescente, c’è l’Amalia che ricorda, c’è un’ora in scena da sola calibrando energie fisiche ed emotive, lavorando su percezione di sé (la voce interiore di Amalia)-percezione rispetto agli altri (la voce per così dire “da sorda”) e impersonando anche tutte le altre voci-personaggi della storia. In futuro mi piacerebbe lavorare più a fondo su alcune sfumature della protagonista e alcuni passaggi del testo. Inoltre ritengo che il modo migliore per far crescere uno spettacolo sia fondamentalmente “farlo”, perché un giorno di replica molto spesso vale più di molti giorni di prove: il teatro è sempre dialogo con un pubblico, anche quando è un monologo.

Per informazioni:
Associazione Culturale “Falesia Attiva”
cell. 327/873.44.15
falesiattiva@gmail.com
www.facebook.com/amaliaebasta 

La corsia degli incurabili

Di Lucia Cominoli

Corsia degli incurabili è un atto unico per un attore solo, composto in versi dalla poetessa Patrizia Valduga. Il protagonista, un malato su sedia a rotelle, vive e lotta contro l’immobilità, la sua e quella della società italiana, superficiale e corrotta, espressione manifesta della dittatura televisiva degli ultimi anni.
L’omonimo spettacolo, riletto e diretto nel 2010 da Valter Malosti, regista di Teatro di Dioniso di Torino, ha avuto per protagonista Federica Fracassi, attrice e fondatrice di Teatro I di Milano. Il Teatro dell’Elfo (MI) ne ha ospitato lo scorso gennaio una nuova replica, segnalata tra le migliori proposte della stagione nazionale.

… ora e nell’ora della nostra morte.
Ave Maria… Buongiorno, nuovo giorno!
E ave alla vita! … della nostra morte!

Piena di grazia, il Signore è con te…
Quello spicchio di luce è il nuovo giorno.
Il Signore è con te, luce, è in te…

… e nell’ora che passa la paura.
Mia dolce luce, gioventù del giorno,
tu spicchio di giustizia vera, giura

che qui, a noi, soldati del dolore,
non porterà troppo dolore il giorno,
che a tutti i giusti gemiti del cuore

si darà ascolto… ci sarà pietà…
almeno per un giorno, questo giorno…
Pura luce, misura d’umiltà,
giura che sarà giusto il nuovo giorno,
che sarà azzurro più di ogni altro giorno

(Allegramente)
Che programmi per oggi? Su vediamo:
un migliaio di cose a cui pensare.
Beh, un migliaio… non esageriamo!

Quello spicchio di luce è il nostro giorno:
l’azzurro lo dobbiamo immaginare;
alba e tramonto, aurora e mezzogiorno

stanno più su, da quelli col denaro.
E con tanto di stelle, luna e sole.
Ma mica se li godono, sia chiaro.

La chiamano così: democrazia.
(Con violenza)
Non c’è più rispetto per le parole!
si usano a vanvera!… Santa Maria…

madre di Dio! E ti credo che il mondo
è così stronzo! È questo vile oltraggio
alle parole il motivo profondo!

È il continuo oltraggiare le parole
che vede i furbi sempre col vantaggio
e lascia noi qui sotto senza sole!

Ma tu ora sole salpa, dai, coraggio,
fa vela verso loro, e fa buon viaggio.

Patrizia Valduga, poetessa veneta, quando scrisse questi versi diciotto anni fa, nell’agosto del 1995, lo fece pensando a Franca Nuti, attrice torinese. Un bel confronto quello tra la moglie del poeta e critico letterario Giovanni Raboni e una delle più popolari signore del teatro anni ’80,  premio Ubu come miglior attrice. Corsia degli incurabili, atto unico per un attore solo, non è certo una prova facile, nemmeno per lo spettatore più sensibile.
In scena una lotta alla sopravvivenza senza esclusione di colpi, protagonista un malato generico su sedia a rotelle impegnato a trascorre gli ultimi giorni tra il desiderio della fine e un’incurabile voglia di bellezza. La poesia, calmante e ansiolitico, ne è l’unica e inarrestabile esplosione segreta.
Scomodo e complesso, Corsia degli incurabili è un testo che si affronta con una buona dose di coraggio, proprio come hanno fatto altri due premi Ubu dei giorni nostri, il regista di Teatro di Dioniso di Torino Valter Malosti e  la lodatissima Federica Fracassi, attrice e fondatrice con Renzo Martinelli dello spazio Teatro I sulla cerchia dei Navigli milanesi.
Già composto nel 2010 e ripresentato a gennaio al Teatro dell’Elfo di Milano, lo spettacolo è stato accolto anche quest’anno con grande entusiasmo, capace ancora com’è di riversare lo sguardo sui morbi non solo del singolo ma dell’intera società contemporanea,  tra canto e grido, tra soavità e furia.
Endecasillabi, le parole, combinati in terzine e distici alla maniera sirventese, quella dei padri danteschi, scivolano in raffinate e ironiche litanie, rampogne, rimpianti delle montagne, ferite liriche in cui balenano il ricordo di amori tinti d’oro e d’azzurro, della giovinezza veneziana, di notti da trecento ore. Finché non si arriva al presente e la sofferenza lascia il posto all’indignazione.
Chi è davvero il terminale nell’Italia berlusconiana? – ci chiede la Valduga – il malato o il pubblico della dittatura televisiva? Che cosa resta a un poeta che non può più muoversi di fronte alla semplificazione, alla dimenticanza, allo svuotamento del corpo e del linguaggio? Il popolo ignora i suoi cantori e quel che è peggio è che anche li ammazza, lasciandone la voce solitaria e inascoltata.
Indimenticabile, l’interpretazione di Federica Fracassi si misura, sottile ed energica, tra i registri del sublime e la più banale attualità.
La disabilità è qui condizione simbolica di immobilità corporea, esistenziale e politica.
Un’icona volutamente patetica e stereotipata, quella della donna “soldato del dolore”,  che si ribalta nell’impetuosità della parola, nell’intensità dell’accusa e negli ironici commenti a margine del quotidiano.
Complice il volto pallido, il camice bianco e i capelli rossissimi dell’attrice,  dove anche l’immagine più consueta, la pianta-vegetale, si fa surreale e fantasmatica senza perdere di vista il concreto, il luogo comune, il trito e ritrito della “normalità”:

[…] Le tivù ci hanno fatto l’incantesimo…
Se non scarica il cielo una saetta,
tutti servi del secolo ventesimo!

Classifiche, sondaggi, lotterie…
siamo solo strumenti di collaudo
per i bordelli… o per le osterie…

Che cosa non si deve sopportare!
Se penso che c’è ancora Pippo Baudo
che son trent’anni che mi fa cagare…

Trent’anni? ma saranno anche quaranta…
E la paghiamo noi… ha certi prezzi…
lui munge le sue vacche lì… e ci canta

le canzonette… fa i pettegolezzi…
Se mai esco di qui mi fanno a pezzi!

La regia di Valter Malosti amplifica il romanticismo decadente della rappresentazione insieme alla sua vocazione più contemporanea in un contraddittorio di luci e di musiche, di suoni barocchi e inquieti, di riferimenti colti e  di omaggi popolari. Tra questi Gluck e Beethoven,  Chris Watson e Fausto Romitelli, Carmelo Bene e Uri Caine, Giovanni Lindo Ferretti e Caruso fino alle romanze da pianoforte di Francesco Paolo Tosti.
Sospeso tra tradizione e ricerca il Teatro di Dioniso di Malosti come al solito straborda, per arrivare alle radici del discorso, ambiguo, irriverente e sensuale, così come lo è la nostra protagonista immobilizzata.
Sul teatro di poesia la critica si è spesa moltissimo ma nulla, in questo caso, ci sembra più vicino alla sua origine dei punti 3 e 9 della Lode della scrittura. Dieci tesi per un teatro organico del drammaturgo, poeta e pedagogo Giuliano Scabia che così annota:

[…]
3) La scrittura di un testo è innanzitutto un atto di ricerca radicale e organica. Una ricerca spinta fino alle estreme capacità di tensione del linguaggio e delle visioni del mondo, dentro le strutture del proprio tempo.

[…]
9) Ciò tuttavia fa pensare che di fronte a forme diverse ma convergenti di conformismo uno degli elementi di validità della scrittura teatrale consista nello spingersi al limite estremo di tollerabilità nei confronti di tutta la situazione esistente, nell’essere il meno tattica possibile, nel ricercare il livello più alto di scontro. Ciò che rende rischiosa e verificante la scrittura è questo trovarsi in continuo stato d’assedio: assediante e assediata.

Radicale e organica è qui anche la ricerca sulla disabilità, una ferita acquisita, ostentata, non idonea, dichiaratamente non conforme. Quello della Valduga è un corpo estraneo che se lo vive sulla pelle, un sismografo capace di cogliere le dissonanze di un paese che non si prende più sul serio e che ha perso i vocaboli. Alla fine se qualcosa resta ai cantori è la responsabilità di un gesto esteso, l’agitazione delle idee, la trasformazione dell’immaginario, agli altri la necessità di scavare all’interno di quelle immagini fino alle loro fondamenta. 

Rimetteremo in moto cento cieli…
d’oro e d’azzurro… oh, d’azzurro e d’oro…
se staremi distesi e paralleli…

sì, mettimi una mano tra i capelli…
sto migliorando… vedi che miglioro…

Per informazioni:
www.teatrodidioniso.it
www.teatroi.org

L’arte della trasformazione

All’Istiuto dei Ciechi di Bologna Francesco Cavazza con Gruppo Elettrogeno e Orbitateatro.
È orario di prove all’Istituto dei Ciechi di Bologna Francesco Cavazza. Per non disturbare ci soffermiamo in silenzio sulla soglia della palestra. Dentro c’è un percorso a ostacoli. Ad attraversarlo ci sono gli attori di Orbitateatro, la compagnia di vedenti, non vedenti e ipovedenti nata in seno al laboratorio teatrale “Arte della trasformazione”, condotto dal 2008 da Martina Palmieri e Marilena Lodi, in arte Gruppo Elettrogeno. “Pelle”, “carne” e “ossa” sono le parole chiave dell’edizione 2012, prosecuzione ideale del percorso che lo scorso aprile ha visto otto componenti del gruppo protagonisti dello spettacolo Brindisi con boia/Primo studio, riscrittura scenica del radiodramma di Friedrich Dürrenmatt Colloquio notturno con un uomo disprezzato, per ben due repliche sold out al centro sociale e laboratorio di sperimentazione artistica TPO.
Ci siamo così trovati nel mezzo di un’esperienza unica nel suo genere, intima, energica e destabilizzante che terrà impegnati il Gruppo e la compagnia per l’intera stagione 2012-13 in un ciclo laboratoriale di sedici incontri rivolti alla città, con l’obiettivo, per chi lo vorrà, di partecipare nuovamente alla realizzazione di un vero e proprio spettacolo finale aperto al pubblico.
Quella di Orbitateatro è una storia teatrale integrata e tutta in divenire, fatta di incontri, conquiste e conflitti vissuti non a partire dalla propria disabilità ma al di là della stessa, che ci chiama personalmente alla reazione, a rispondere ai nostri deficit e quotidiani smarrimenti con un atto creativo di trasformazione rispettoso e disinibito.
A raccontarcela meglio ci hanno pensato la conduttrice Martina Palmieri e le attrici vedenti e non vedenti Angela, Lisa e Irene, che, tra un esercizio e l’altro, ci hanno rivelato difficoltà e conquiste del proprio percorso “a rivelazioni”, proporzioni in bilico dove il teatro sta all’arte come il limite alla sfida.
Ho cominciato a seguire il laboratorio nel 2009, su consiglio della mia amica Irene, un po’ per gioco e per curiosità, rassicurata dal fatto che si svolgeva al Cavazza, per me da sempre un punto di riferimento importante. La prima cosa che mi ha colpita è stato il confronto con un gruppo di persone molto eterogeneo. Vedenti, non vedenti, sordociechi, persone con diversità sessuali, persone completamente “straniere” tra loro con cui si stava bene comunque senza tanti perché.
Poi c’è stato il confronto con l’azione e gli esercizi… Il solo pensiero di fare certe cose all’inizio mi metteva in imbarazzo, come per esempio l’avere un contatto fisico diretto che non fosse strettamente conoscitivo con persone che non conoscevo o che conoscevo relativamente. Il tempo e gli esercizi in questo senso mi hanno conferito molta più naturalezza, oltre che avermi aiutato nella mobilità. Un esercizio da questo punto di vista utilissimo che spesso sperimentiamo durante le serate di laboratorio è, per esempio, “la zattera”. Si cammina per la palestra, qualcuno è bendato ebisogna capire quando una persona ti si avvicina. A volte ci troviamo di fronte un muro o un ostacolo… superarlo permette di acquisire più coraggio e di conseguenza più autonomia nel movimento.
Dopo le varie peripezie delle prove siamo arrivati a“Brindisi con boia”, un’esperienza esaltante… Arrivare allo spettacolo non ci è sembrato vero, ancora di più sapendo che là fuori c’era la fila. Quando è stata l’ora di entrare si è cercato ovviamente di sdrammatizzare ma nonostante ciò l’emozione è rimasta… Per superarla mi sono detta che alla fine anche se il teatro era pieno io tanto non lo avrei potuto vedere e che quindi non avrei dovuto fare altro se non quello che ero abituata a fare nelle prove. Ha funzionato. Quando ho finito di recitare la mia parte è partito un applauso che non scorderò mai! Le critiche sono state molto positive anche perché era uno spettacolo contemporaneo, cioè non era il solito spettacolo di prosa e chi è venuto a vederlo è rimasto colpito da tutto lo spettacolo in sé, che peraltro non era facilmente comprensibile come primo impatto. Anche il lavoro sul testo infatti è stato diverso da quello che mi aspettavo. Entrambe le mie parti sono state prodotte da me in prima persona sulla base di improvvisazioni che mi avevano vista protagonista. Non ho mai percepito nel pubblico atteggiamenti pietistici, anche perché sfido a capire nel mezzo del contesto dello spettacolo chi fosse cieco e chi no, nelle scene che sono state composte infatti non era facilmente comprensibile… Il bello di questo spettacolo è che c’è stata un’integrazione forte con tutti, attori e pubblico senza commiserazioni e senza imbarazzi.
Arrivata a questo punto credo ora di dovermi cimentare in un ruolo diverso. Sto scoprendo negli ultimi incontri di laboratorio quanto mi piace far capire e percepire ai nuovi arrivati quello che io ho ricevuto nelle esperienze precedenti. Mi sono accorta di quanto anche tra le persone normodotate ognuno di noi abbia sempre qualcosa di personale da migliorare e da scoprire.
Angela

In principio ho dovuto affrontare un problema di linguaggio. Nella nostra vita quotidiana siamo abituati a usare con naturalezza verbi come “vedi”, “guarda”, “osserva”… e all’inizio lo facevo anch’io, abituata a spiegare così le cose che vedevo e non conoscendo ancora in me la parte che era in grado semplicemente di farle. Ciononostante non ho mai avuto paura di confrontarmi direttamente con la disabilità anche perché il laboratorio non si è mai concentrato su questo concetto ma, piuttosto, su quello di trasformazione. Ognuno di noi ha le propria disabilità. La realizzazione di “Brindisi con boia” è stato un esperimento molto intenso che ci è servito a rinforzare il gruppo e a capire che il lavoro dei tre anni precedenti aveva un fine. Lavorare poi in uno spazio scenico immerso tra le persone avendo per parametro non la disabilità ma l’uniformità del meccanismo ha fatto inoltre del nostro non il classico spettacolino dei non vedenti ma lo spettacolo di una vera e propria compagnia teatrale. Anche portare lo spettacolo in un centro sociale come il TPO ha infatti la sua importanza, la maggior parte delle persone che incontravo quando lo promuovevo si ritrovavano spiazzate dal fatto che non si tenesse al Cavazza… Il nostro è un teatro contemporaneo prima di tutto perché del qui e dell’ora, basato sulla ricerca di quelle piccole crepe e di quegli interstizi che risiedono in noi e che dobbiamo imparare a riscrivere.
Lisa

Quello con il Gruppo è stato un incontro ai limiti del casuale. Io faccio parte dell’Unione Ciechi e una volta, a Torino. sono venuta a conoscenza di un’esperienza del genere e ne ho cercata una analoga  Bologna. Qui ho incontrato Martina.

Avendo frequentato scuola e università avevo alla fine più amici vedenti che non vedenti per cui all’idea di partecipare a un laboratorio integrato ero più curiosa che spaventata. Ho scoperto che  mi piace questo tipo di esperienza benché ne avessi già iniziate un po’ di tutti i colori, compreso il tango! Con il teatro tuttavia ho imparato a sviluppare un atteggiamento più rilassato verso me stessa. Nel fare sulla scena cose che nella vita quotidiana non faresti mai infatti, c’è un forte senso di liberazione. Quello che a teatro mi ha particolarmente coinvolto è il lavoro sull’espressione del corpo e del viso, essendo cieca dalla nascita non ho chiara la percezione di questo tipo di movimento, ho sempre bisogno che qualcuno a riguardo mi dia un feedback. L’esperienza di “Brindisi con boia” è stata divertente e faticosa, io in particolare ero in attesa del mio bambino e avevo sempre paura di non arrivare alla fine… Farcela è stato molto gratificante anche di fronte al pubblico così numeroso con cui mi sono rapportata, credo, con una certa serenità. Il rischio del pietismo ovviamente è sempre insito nella disabilità, si sa che può sempre suscitare compassione nel vero senso del termine… A mio parere non si può evitare così come non ha senso nasconderla, l’unico modo è cercare di lavorare al di là della disabilità. Allo stesso modo, va detto, io non devo dimostrare niente a nessuno, al massimo posso giocare con me stessa. Non ci è mai stato chiesto, d’altronde, un lavoro sulla cecità…
Irene

Io sono ipovedente ma me la cavo bene grazie al teatro, forse per questo o forse no… ormai non lo so più dire. Dopo aver svolto diverse esperienze con il Gruppo, nato nel ’99, siamo passati dall’organizzazione di festival al lavoro che tutt’oggi proseguiamo con i detenuti del carcere della Dozza, finché non ho incontrato Fernando Torrente, il nostro coordinatore del Cavazza, che mi ha fatto conoscere Irene.
All’inizio non è stato semplice, ho dovuto prendere le misure, tanto per cominciare perché si tende a spiegare qualcosa facendolo vedere. Le prime questioni da risolvere, dunque, erano di carattere pratico. In seguito ci sono state una serie di prove durante le quali la qualità della ricerca si è alzata. Abbiamo cercato di uscire da obiettivi, cliché e stereotipi che appartengono a tutti. Ogni vedente e ipovedente ha la sua storia, c’è chi si applica a fare in modo che ciò non si veda e lo ripropone in scena, chi invece prova ad andare oltre. Abbiamo cominciato a capire come si svolge l’azione, che cosa è la scenografia e cosa non lo è, che cosa vuol dire muoversi nello spazio scenico. Superare gli stereotipi, non è facile per nessuno e credo sia stato il momento di ricerca teatrale più interessante. Per i vedenti infatti sembra sempre si tratti di una grande esperienza mistica quando in realtà non c’è fascino nell’essere non vedente. Dire che hanno una diversa capacità sensoriale è molto politicamente corretto. Se quello che teatralmente ne emerge è buono è perché dietro c’è un’esperienza, fatta a volte con una certa consapevolezza e competenza, dovuta alla pratica e all’allenamento. Per un vedente sembra forte il fatto di essere bendati, in realtà sono esperienze che a teatro si fanno normalmente. Noi non facciamo teatro terapia, il teatro ha già insita in sé questa funzione, il teatro può voler dire molte cose e si fa per i motivi più disparati. Ci sono persone che anche se hanno ormai concluso il percorso se lo ricordano sia perché ha fatto emergere dei conflitti sia perché ha fatto emergere dei risultati e chi invece continua a farlo come fosse una necessità. Tra queste persone tuttavia abbiamo scoperto che ce ne sono alcuni con identità artistiche, attori capaci e creativi come se fossero vedenti. Nessuno di noi è dentro il cappello di “teatro sociale”, ci sono delle esperienze di teatro prima di tutto dove per fatalità la compagnia non può più lavorare in altri contesti per interesse. Questo non toglie la responsabilità di lavorare su obiettivi di qualità, l’esperienza di compagnia, le prove, devono avere un livello alto, lo spettacolo deve essere in grado di girare, dentro si esprime anche la disabilità ma vale per tutti ed è parte del teatro. Avvicinare realmente le persone alla cecità è difficilissimo, fa paura. Dietro ci sono lo specchio e il rischio.
Martina Palmieri

L’iniziativa è realizzata con il sostegno della provincia di Bologna e in collaborazione con: 0GK – Associazione internazionale per la promozione sociale dell’arte; Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti – Sezione provinciale di Bologna; Istituto dei ciechi Francesco Cavazza di Bologna; Accademia di Belle Arti di Bologna. 

Per informazioni:
artedellatrasformazione@gmail.com
torrente@cavazza.it
www.gruppoelettrogeno.org 

Lo spettatore inatteso. Il laboratorio di educazione alla visione “La Quinta Parete”

Se il paradosso parte dal palco
Che cosa significa per una persona disabile andare a vedere uno spettacolo? Quello che significa – sarebbe corretto e ovvio rispondere – per uno spettatore qualsiasi… Un’occasione festiva d’incontro, un momento di divertimento e di riflessione, un’esperienza estetica, il tempo di una relazione unica e irripetibile con l’attore e via dicendo.
Eppure non è così, non solo perché la maggior parte dei teatri presentano ancora grossi problemi in termini di barriere architettoniche e di accessibilità, ma anche e soprattutto perché lo spettatore disabile a teatro semplicemente non c’è. Se lo troviamo, il più delle volte accade sul palco, protagonista in realtà di percorsi laboratoriali dagli esiti spettacolari obbligati, all’interno di un processo artistico dalle finalità prevalentemente ludiche e terapeutiche. Tutto questo andrebbe benissimo se, paradossalmente, non ci ponesse subito di fronte alla messa in mostra di un’eccezionalità intrinseca che porta con sé un altrettanto spontaneo e dibattuto problema di ruoli.
Il pericolo principale sotteso a questa dinamica è la ben nota politica della pietà, basata secondo la definizione di Hannah Arendt, sulla distinzione tra esseri umani che soffrono ed esseri umani che non soffrono, in cui emerge l’insistenza di sguardo dei secondi sulla sofferenza dei primi, la svalutazione del processo artistico a favore di quello psicologico, la macabra curiosità nei confronti del “mostro”. A ciò si aggiunge l’autoreferenzialità di una platea composta unicamente da famigliari, operatori del settore educativo, teatranti, in cui il “fuori” non è mai veramente chiamato ad accettare e riconoscere l’attività appresa. Fenomeni e rischi, questi, propri di tutto il cosiddetto teatro sociale, che si estendono dal mondo dell’immigrazione a quello del carcere.
In questo modo lo sguardo dell’altro, ciò che tautologicamente è racchiuso quale essenza stessa della parola “teatro” (letteralmente “il luogo dello sguardo”) viene a mancare in tali contesti dei suoi termini di sfida. Come afferma Salvo Pitruzzella: “Lo sguardo dell’altro può essere fonte di autorizzazione, ma anche negarla: ‘L’inferno sono gli altri’, sosteneva Jean-Paul Sartre. Quello che il regista chiede è di porsi di fronte a questa contraddizione, e trascenderla con uno sforzo eroico, o con un atto disperato” (cfr. S. Pitruzzella, L’importanza dello sguardo dell’altro, in “ Catarsi teatri delle diversità”, 24, dicembre 2002, p.17). Atto che ponga in luce il conflitto, le contraddizioni e gli scontri dei ruoli e della visione. Ma se provassimo allora a fare davvero uno sforzo eroico, a scendere un gradino più in basso e a ribaltare i ruoli a partire dalle nostre stesse posizioni? Ci accorgeremmo che si può parlare di integrazione dal palco come dalla platea, dalla parte dell’attore e da quella dello spettatore, dall’eccezione alla regola e dalla regola all’eccezione.

Entrare, accedere, conoscere
Entrare a teatro, una volta superata la rampa, aver ricevuto l’accoglienza delle maschere, essersi fatti strada tra gli altri spettatori nel foyer, aver riconosciuto e raggiunto il proprio posto nelle prime file presso i corridoi e le uscite di sicurezza, è tutto sommato per una persona disabile un fatto semplice se siamo disposti ad accettarne la logica della lentezza. Accedere invece è qualcosa di più impegnativo, che implica uno sforzo e un’attenzione speciali. Se infatti l’entrata non è che un’azione meccanica e ordinaria, l’accesso implica un’azione creativa ed extra ordinaria, dove la qualità dell’incontro con l’evento coincide con la qualità stessa della sua percezione. In una parola, non si accede senza conoscere.
Al di là di offrirci uno spunto per continuare a ripensare la parola “accessibilità”, c’è ora da chiedersi che cosa un tale assunto può indicare di fronte alla visione di uno spettacolo teatrale e più in generale di fronte alla creazione artistica. Si potrebbe rispondere, per cominciare, che per lo spettatore disabile e non la fruizione passa sempre attraverso l’esperienza e la frequenza di un linguaggio. Sembra scontato ma non lo è. Pensiamo alle numerose volte in cui certi gruppi di tempo libero, case famiglia e cooperative letteralmente parcheggiano nello spazio-teatro i propri utenti, proponendo loro spettacoli di scarsa qualità… Spettacoli amatoriali, dialettali o prettamente legati alle formule dell’infanzia si susseguono per ore di fronte ai consumatori perplessi o passivi, mentre i promotori delle uscite o sono altrove o a malapena conoscono i titoli delle opere. Andare a vedere una performance, andare al bar, al cinema o a mangiare una pizza è la stessa cosa. In questo modo, è indubbio, allo spettatore resta in mano ben poco, pronto a entrare a teatro con la completa certezza di uscirne tale e quale. Se una volta fuori dallo spazio scenico poi, non sentiremo in noi alcun accenno di cambiamento, potremo proprio star sicuri di aver perso del tempo o, ancora peggio, di esserci terribilmente annoiati.

“Non potremmo ammirare la leggerezza del linguaggio se non sapessimo ammirare anche il linguaggio dotato di peso” diceva Italo Calvino (cfr. I. Calvino, Lezioni americane, Milano, Mondadori, 2002, p. 19).

Qualità e consapevolezza sono due passaggi importanti, due elementi costitutivi dell’arte stessa e dello sguardo dello spettatore, che in quest’ottica dovrà saper fare delle scelte che varranno la pena solo se in grado di suggerire rivoluzioni e cambi di prospettiva. È chiaro che la consapevolezza si acquisisce nel tempo e che l’esperienza, quando limitata da un’autonomia parziale, deve essere, almeno inizialmente, indirizzata e mediata. Il discorso quindi vale, a nostro parere, anche per gli operatori e gli accompagnatori normodotati del settore assistenziale e educativo, che dovrebbero provare a confrontarsi sulle proprie offerte in sinergia con figure e professionalità specifiche dell’ambiente artistico.
Cominciare ad ammirare o semplicemente a partecipare alle caratteristiche e ai contenuti di un linguaggio, tuttavia, non significa diventare improvvisamente spettatori critici capaci di maneggiare codici eleganti e complessi, sarebbe un tentativo inutile sia per chi presenta deficit cognitivi importanti sia per chi ha come obiettivo di fondo la mediazione.
Quello che è interessante nell’atto teatrale è piuttosto l’incontro in presenza e la sua connaturata capacità di fare leva su parole come autostima, divertimento e relazione in grado di rendere il disabile non solo il protagonista di un’attività ma anche il fruitore di un’opera di qualità in quanto cittadino parte e partecipe del suo tempo. Integrarsi nel gioco della scena con il resto dei partecipanti sarà allora il passaggio conseguente e successivo. Come arrivarci? Imparando a entrare, accedere e conoscere fino a lasciare delle tracce.

La Quinta Parete
Insieme al Gruppo Calamaio del Centro Documentazione Handicap abbiamo intrapreso quest’anno un primo viaggio nel mondo del teatro, possibile grazie alla visione gratuita di nove spettacoli offertaci dal Teatro Testoni di Casalecchio di Reno e dal Teatro Itc di San Lazzaro, entrambi della provincia di Bologna.
Si tratta di due teatri ben noti alla città, da anni operanti sulle aree periferiche in direzione dell’inclusione e dell’educazione di un pubblico ancora composto, cosa ormai rara, più da gente comune che da addetti.
Qui siamo entrati al solito come gruppo integrato, composto dagli animatori disabili e dagli educatori del Gruppo, per dare vita a una redazione “mista”, La Quinta Parete, in cui si è giocato, scritto e discusso sugli spettacoli a cui, di volta in volta, abbiamo gradualmente avuto accesso. Abbiamo scoperto così che il teatro accade in un tempo e in uno spazio unico e irripetibile ma anche che uno spettacolo può continuare a vivere in noi ben oltre la rappresentazione, che esiste un prima e un dopo la visione e che su questo si possono spendere creazioni, pensieri e immaginazioni. Nel farlo ci siamo fatti aiutare da tecniche di scrittura creativa, dall’intervento di critici teatrali e dall’incontro con gli artisti stessi. Le ombre di Teatro Gioco e Vita di Cane Blu, l’intervista impossibile con l’Antigone delle Belle Bandiere, i lirismi di César Brie o ancora il viaggio Nel profondo degli abissi sul Teatrobus sono solo alcuni degli scenari delle nostre esplorazioni in cui anche voi potrete ora immergervi.
Oltre infatti alla nostra stessa presenza, rumorosa, imprevedibile e dal resto del pubblico visibilmente inattesa, a testimoniare le tracce del passaggio ci ha pensato anche un blog, http://laquintaparete.accaparlante.it/. Integrarsi ha così significato per noi segnalare la nostra entrata in sala con lo scopo di regalare alla cittadinanza tutta nuovi spunti, logiche e aperture sui temi offerti dalla visione, a partire da parole come giustizia, utopia e comunità che riteniamo di valore e importanza comuni.

Scrivere non basta
Fino ad ora abbiamo visto quello che lo spettatore, disabile o non, può fare per approcciarsi più consapevolmente alla fruizione del mondo dell’arte e del teatro. Restano però da capire quali siano oggi in tal senso i compiti del teatro e della sua voce critica.
“Scrivere non basta”, affermava Franco Quadri, il più illustre critico teatrale italiano degli ultimi trent’anni. Il compito della critica, continuava, non sta nel giudicare un’opera quanto piuttosto nel farla esistere, nel fornire delle chiavi di lettura che mantengano stretto il legame e il contatto tra l’opera, lo spettatore e il suo tempo.
Da questo punto di vista l’atto della scrittura è solo la punta di un iceberg, che va a valorizzare il processo creativo da un lato, e il tempo della relazione dall’altro.
Ciò che oggi viene a mancare alla critica è proprio il secondo passo: la conoscenza dello spettatore a cui si rivolge. Il teatro contemporaneo ha già forato la quarta parete, quella tra il pubblico e la scena. Ne resta a nostro parere in piedi ancora una quinta, quella che separa il teatro dalla realtà.
Prima di sfondarla, ci esorta il Calamaio, cominciamo a macchiarla.

Per informazioni:
http://laquintaparete.accaparlante.it/
http://www.itcteatro.it/
http://www.teatrocasalecchio.it/
lucia.cominoli@accaparlante.it 

Il Teatro Oltre il Silenzio: le avventure di un Pinocchio accessibile

Si può raccontare a teatro una favola accessibile a tutti i bambini, anche a quelli con problemi sensoriali? L’Associazione romana Li.Fra, nata nel 2009 dall’incontro tra diverse personalità appartenenti al mondo dello spettacolo e del sociale, ha risposto a questa domanda dando il via al progetto “Teatro Oltre il Silenzio”, che, in collaborazione con l’Associazione di Viterbo CulturAbile Onlus, ha utilizzato le tecniche di LIS (Lingua Italiana dei Segni), Respeaking (sottotitolazione in tempo reale), Audiocommento e Sovratitolazione, per portare a teatro la storia di Pinocchio. Le avventure del piccolo burattino di fronte a un pubblico integrato di bambini normodotati, non udenti e non vendenti.
Una ricerca inclusiva sperimentale, in Italia unica nel suo genere, su cui abbiamo intervistato Lisa Girelli, presidente di Li.Fra e Saveria Arma, presidente di CulturAbile.

Come ha preso avvio il percorso di Teatro Oltre il Silenzio?
LISA GIRELLI: L’origine di Teatro Oltre il Silenzio è stata quasi casuale perché nata da un’informale chiacchierata con un amico, Marco, anche lui teatrante e divenuto sordo a causa di un  incidente, durante la quale si lamentava con me del fatto di non poter più accedere, con la stessa frequenza e qualità, alla maggior parte dei prodotti culturali in circolazione nel nostro paese, sia che si trattasse di film o di spettatoli teatrali. Io e gli altri attori che ora fanno parte di Teatro Oltre il Silenzio eravamo già una compagnia con un proprio circuito e così a Marco è sembrato subito naturale lanciarci una sfida, quella cioè di provare a rendere i nostri spettacoli accessibili a tutti, con una particolare attenzione alle persone affette da sordità e cecità. Da lì è iniziata anche la sfida di Li.Fra e la collaborazione con strutture sanitarie, associazioni di volontariato e enti pubblici che ci ha permesso di sperimentare e produrre una serie di spettacoli inizialmente rivolti ad adulti normoudenti e non udenti, capaci di affrontare diversi generi e tematiche, dalla commedia brillante Il paradiso può attendere (2009) all’impegnativo e drammatico From Medea (2010).

Pinocchio. Le avventure del piccolo burattino è invece il primo spettacolo che Teatro Oltre il Silenzio rivolge ai bambini. Si tratta di una scelta legata alla vostra ricerca attoriale o, anche in questo caso, il seguito di un incontro?
LISA GIRELLI: Direi che si è trattata più che altro di una scelta naturale. Il gruppo lavorava già da tempo nell’ambito del Teatro Ragazzi e a contatto diretto con i bambini nei laboratori scolastici, così abbiamo semplicemente pensato di riadattare all’occasione un testo esistente a cui già ci stavamo a lungo dedicando.
In questo caso però, a differenza dei nostri primi spettacoli come From Medea, in cui l’integrazione tra la parte recitativa e tecnica era più essenziale, qui, grazie all’aiuto di CulturAbile abbiamo inserito e sperimentato l’uso di nuove tecniche e nuovi linguaggi, dalle tecniche di LIS (Lingua Italiana dei Segni) e Respeaking (sottotitolazione in tempo reale) a quelle di Audiocommento e Sovratitolazione, con l’aggiunta di fumetti e immagini, che ci hanno permesso di rendere accessibile lo spettacolo contemporaneamente a un pubblico di bambini non udenti e non vedenti.
L’obiettivo, per nulla facile, era quello di inglobare tutti questi linguaggi come un corpo unico nello spettacolo.

Una prova decisamente impegnativa, anche perché il teatro è già per sua natura l’arte accessibile per eccellenza, basti pensare al suo rapporto costitutivo con la comunicazione preverbale… Come sventare, in quest’ottica, il rischio della sovrabbondanza dei linguaggi in uno spettacolo come Pinocchio?
LISA GIRELLI: Questa è stata esattamente l’impasse in cui, inevitabilmente, i tecnici e gli interpreti di CulturAbile e gli attori di Li.Fra si sono maggiormente scontrati e su cui abbiamo cercato di trovare una mediazione condivisa, a rispetto della totale comprensione del pubblico da un lato e della qualità artistica dall’altro, che è fatta non solo di tecnica ma anche di evocazione e di poesia.
La vera forza di questo progetto è stata iniziare avendo tutte le carte in mano.
Tutti sapevamo che il teatro è già di per sé accessibile, che le sue componenti interne devono scontrarsi, che è dall’attrito che nascono le scintille e che solo alla fine si va a limare. Non bisognava, quindi, creare un di più. Ci sono voluti nove mesi di studio e ricerca, in cui ci siamo incontrati con chi la disabilità la vive di persona e con diverse associazioni, in particolare con CulturAbile, dove abbiamo conosciuto persone creative e aperte. Tutti hanno sposato completamente la natura del progetto, la necessità di non invadere il campo dell’altro e all’occorrenza di compensarlo. Dove per esempio la nostra voce non poteva bastare a dipingere l’opera per i bambini non vedenti sono state inserite delle cuffie, che davano loro la possibilità di ascoltare un commento narrativo e più descrittivo capace di orientarli al meglio nella fiaba e, allo stesso modo, dove non arrivava il sovratitolo per i bambini non udenti arrivava l’elasticità del corpo dell’attore.

Cecità e sordità presentano problematiche differenti come avete fatto dal punto di vista teatrale a lavorare su entrambe?
SAVERIA ARMA: Abbiamo lavorato insieme su due fronti, quello della sovratitolazione e dell’audiodescrizione in modo non tradizionale.
Di solito queste tecniche forniscono un’informazione asettica ed esente da commenti e giudizi mentre noi, all’opposto, abbiamo cercato di audiocommentare non in un’ottica soggettiva ma narrativa, cercando cioè un equilibrio tra descrizione e narrazione. Si tratta di un metodo che unisce la tecnica di Respeaking (sottotitolazione in tempo reale) a quella dell’audiocommento e della sovratitolazione tradizionali. In Italia è un metodo ancora poco conosciuto mentre molto diffuso negli USA. Per quanto riguarda i bambini ciechi pur avendoli dotati delle comuni cuffie, abbiamo introdotto un altro personaggio, un vecchio nonno che fa da voce narrante. In questo modo l’aspetto descrittivo così come quello evocativo è stato affidato agli attori che hanno lavorato sul copione e sulla descrizione delle battute. Il grillo parlante, invece, è un personaggio che con il suo corpo parla e al contempo descrive utilizzando parte degli strumenti della LIS (Lingua Italiana dei Segni). In questo modo non si isola il bambino cieco e al contempo si dà un valore aggiunto a chi ci vede, agendo come un vero e proprio strumento di integrazione per i bambini disabili e normodotati.
Il lavoro sulla sovratitolazione è stato più semplice, anche se ha dovuto tenere conto di vari aspetti come per esempio il ritmo, dovendo adattarsi al tempo di lettura dei bambini che è sempre diverso da quello degli adulti. Inoltre a ogni personaggio è stato assegnato un colore che ne ricalca la personalità e intorno a lui disegna un’atmosfera, una tecnica diffusa per i non udenti già utilizzata da Li.Fra in From Medea.
I fumetti cui accennava Lisa, oltre che cartelli e insegne, fanno parte del tentativo di arricchire il sovratitolo creandovi intorno un contesto fantasioso, che così si trasforma in un elemento scenico oltre che di scrittura.
Oltre al grillo poi, anche gli altri attori accompagnano la loro recitazione con linguaggio dei segni, anche se non è il linguaggio dei segni vero e proprio. La LIS, infatti, lo dice il nome, non è un linguaggio ma una lingua dove non si parla di “gesto” ma di “parola-concetto”.
Quello utilizzato in Pinocchio è piuttosto un “linguaggio segnato” dove il mimico non corrisponde direttamente alla parola. Inizialmente per gli attori è stato molto complesso interagirvi perché sono passati da un condizionamento espressivo forte dato che, per vocazione, la Lingua dei Segni è molto teatrale.

Quali sono state le reazioni dei bambini disabili e quali quelle dei normodotati?
LISA GIRELLI: Un po’ di paura c’è sempre, sia per chi aveva bisogno di strumenti accessibili che per chi non ne aveva bisogno. Superata la prima parte i normodotati non si accorgevano più di nulla e si sono abbandonati completamente allo spettacolo. Per arrivare poi a rompere appieno le barriere, facciamo in modo di essere molto presenti in platea, i bambini sono seduti per terra e noi siamo lì, che passiamo in mezzo a loro e li stimoliamo anche dal punto di vista tattile con diverse sorprese…
Ricordo poi un episodio. Durante una replica a Seregno (MI), un bambino sordocieco nel momento in cui è entrata in scena la Fata Turchina si è alzato e ha cominciato a girare lentamente su se stesso come in una danza sognante. Questo è accaduto perché i bambini sordociechi percepiscono subito i cambi di atmosfera e ci restituiscono immediatamente la loro percezione.

SAVERIA ARMA: Per quanto riguarda lo spettatore udente, da parte dei bambini scaturisce subito una grande curiosità mista a un desiderio di emulazione con una partecipazione emotiva molto ampia.
Più che i bambini tuttavia il problema sono gli adulti che restano ambivalenti o prevale un senso di fastidio o una grande apertura nei confronti di una nuova possibilità espressiva.
Il processo di integrazione non si è ancora concluso, così come alcune questione tecniche, come capire dove il sovratitolo può essere il corrispondente del segno o ometterlo…
La sfida è oggi quella di portare parallelamente avanti questo tipo di lavoro, da testare di volta in volta su pubblici sempre diversi.

LISA GIRELLI: Il vero lavoro comincia adesso!

Per informazioni:
Lisa Girelli
Associazione culturale Li.Fra
Via Ostiense 71/A
00154 Roma
Tel./fax: 06/99.70.57.56
lisagirelli@yahoo.it
www.lifraweb.com

Saveria Arma
CulturAbile Onlus
Via dei Maratoneti snc
01028 Orte (VT)
info@culturabile.it
culturabile@gmail.com
www.culturabile.it 

Il Laboratorio Teatrale Integrato. Bambini e disabili sulla scena della diversità


Utopici e rari, luoghi capaci di superare le distanze per mezzo dell’immaginazione. Sono questi i “Teatri Possibili” che desideriamo incontrare nella nuova rubrica dedicata alla diversità e alle arti performative. Esperienze e pratiche in trasformazione per superare i limiti del corpo e del presente.
Per questo numero di “HP-Accaparlante” proponiamo l’Istituto Piccolo Cottolengo Don Orione di Genova dove l’integrazione si fa anche sul palco. Da quattro anni, infatti, l’Istituto ospita al suo interno il Laboratorio Teatrale Integrato, coinvolgendo i bambini delle scuole elementari e le proprie ospiti con disabilità nella realizzazione di uno spettacolo annuale, rappresentato e condiviso pubblicamente con gli abitanti del quartiere cittadino. Un esperimento coraggioso e innovativo su cui abbiamo intervistato Giuseppe Pellegrini, curatore e conduttore del progetto.

Partiamo dagli esordi di quattro anni fa. Come nasce l’idea del Laboratorio Teatrale Integrato all’interno dell’Istituto Cottolengo Don Orione ?
Tutto è cominciato con la mia entrata in Istituto per l’appunto quasi quattro anni fa. Già allora si utilizzavano degli strumenti teatrali volti all’educare e le persone disabili avevano sperimentato su di loro che lo stare in teatro, così come il provare a farlo, fa bene, distende cioè le tensioni, è capace di tirare fuori  il meglio di noi. Essendo poi l’Istituto collocato in un quartiere molto popolato, fin dall’inizio, non appena sono entrato, ho pensato che sarebbe stato bello integrarci anche con il resto dei suoi abitanti. Così, sono partito con il proporre l’attività teatrale con le persone disabili ai bambini del catechismo mettendo in scena Il Flauto Magico di Mozart. Partendo dai propri limiti e possibilità, i bambini hanno cantato e recitato con disabili riuscendo a portare a termine lo spettacolo con ottimi risultati.
L’anno successivo invece, ho deciso di proporre un laboratorio più strutturato e continuativo in una scuola. L’idea infatti era proprio quella di attuare un percorso condiviso, in cui non fossero solo i bambini a venire a trovarci in Istituto ma in cui anche noi potessimo uscire per mettere a frutto nella scuola la nostra esperienza. Ed ecco che, da questo incontro, è nato il Laboratorio Teatrale Integrato. Al momento ormai, ogni lunedì, due classi della Scuola Solari, che dalla seconda abbiamo portato alla quarta elementare, vengono da noi in Istituto per partecipare insieme a un percorso che ci porta a realizzare uno spettacolo. Più che lo spettacolo, tuttavia, il vero focus è il laboratorio, dove si concentra gran parte del processo. Aggiungi un posto a tavola è stato il nostro secondo spettacolo, partito da un testo comico celebre e condito con musiche molto coinvolgenti.
Lo scorso anno abbiamo invece fatto un salto in più, creando noi un vero e proprio copione, e a provare siamo andati all’interno della palestra della Scuola Solari e questo, per le nostre ospiti, non è affatto un fatto scontato.

Da chi è composto oggi il gruppo del Laboratorio Teatrale Integrato?
Insieme ai 37 bambini delle elementari e alle loro insegnanti c’è il gruppo multiforme delle nostre ospiti, tutte donne, dai 31 fino ai 65 anni. C’è quindi un triplo livello su cui lavoriamo: su di noi, cioè sull’équipe di educatori che propone il Laboratorio Teatrale Integrato, sui docenti e ovviamente sulle ospiti e i bambini.
Tutto questo è impegnativo, affascinante ma è anche un percorso piuttosto lungo. Il gruppo è davvero molto grande quindi si va avanti a piccoli passi. Oggi siamo giunti a creare, come accennavo, un copione tutto nostro, Il Baule Magico dei desideri, un testo autobiografico, nato a partire dalle storie delle nostre ospiti, che accanto ai bambini lavoravano così sui propri testi e racconti, sulle musiche che prediligevano, le scenografie…

Come reagiscono i bambini a questo incontro e, viceversa, qual è  la risposta delle ospiti?
Noi cominciamo alle 9:30 e le ospiti entrano in sala prove molto prima dei bambini, un momento che genera subito un grande stato d’attesa e di emozione, che, ovviamente, è andato nel tempo crescendo. Si tratta di un gruppo in formazione, un gruppo che sta cominciando a condividere parte della sua quotidianità e della propria vita.
Spesso non si vede l’ora che arrivi la volta successiva per poterci rivedere e poter ricominciare.
Quando poi deve iniziare lo spettacolo, la voglia di farsi vedere e di mostrare al pubblico il lavoro fatto è a dir poco esplosivo!
Dai bambini poi escono molte cose, ho tanto materiale derivato da loro, disegni, frasi citate dallo spettacolo che spesso sono le loro stesse battute, quello che ne nasce è una rielaborazione sempre molto spontanea. I bambini scoprono che anche se ci sono degli attori e delle attrici con difficoltà poi si trovano delle soluzioni. Il passo successivo è giocarci sopra e divertirsi insieme.

Sembra che il perpetuarsi di quest’incontro abbia maturato nel tempo i suoi frutti. Con la crescita dei rapporti e delle amicizie sono cresciute di pari passo anche le vostre competenze…
Sì, con Il Flauto Magico siamo partiti da un testo tratto da un libro per bambini che ci ha proposto un’insegnante, che poi abbiamo riadattato e rielaborato a modo nostro.
Con Aggiungi un posto a tavola, abbiamo affrontato invece le esilaranti pieghe della commedia. Grazie a questo spettacolo, in seguito siamo addirittura entrati agli Arcimboldi di Milano, dove l’attore Gianluca Guidi ci ha permesso, con tutto il gruppo di bambini e ospiti, di fargli un’intervista.
Poi siamo passati a Il Baule Magico dei desideri, partendo direttamente da noi. Nel Baule, oltre alle storie autobiografiche c’è anche la presenza del mare, un luogo che racconta… Abitando noi a Genova, un giorno siamo andati proprio sul mare, bambini e ospiti, lì un cameraman ci ha ripreso e ne ha fatto un docufilm. Questo momento, e il fatto che sia stato documentato, per noi è molto importante, perché si è focalizzato sul processo. In questo docufilm c’è anche uno spezzone in cui i bambini fanno un racconto che poi è stato inserito nello spettacolo, oltre che dei momenti di gioco che noi viviamo all’interno del laboratorio che poi vanno a introdurre quello che si fa la volta successiva.

Alla fine si conclude sempre con un momento di festa, di solito una bella tavola imbandita al centro dell’Istituto. Tutti gli anni ci diamo così appuntamento per l’anno successivo, lasciamo un dvd del percorso ai genitori dei bambini e cerchiamo di venderlo per finanziare l’attività.

Più l’Istituto ci presta attenzione, più, ovviamente, è facile per noi fare ogni anno dei passi in avanti.

Come sono state preparate le insegnanti che hanno affiancato i bambini in questo percorso?
Ho cercato di parlare con loro del concetto di inclusione e integrazione ma soprattutto di quello di qualità. Ho spiegato loro quelle che erano per me le necessità e l’efficacia dell’appoggiarsi al percorso teatrale e ho chiesto loro di partecipare a patto di stipulare insieme un contratto iniziale:  sospendere per un attimo il giudizio e lasciare spazio ai bambini di esprimersi in libertà.
Questo contratto è stato il fondamento di tutto il nostro laboratorio, così come il focus sul processo, una cosa che era molto importante far capire loro. Insieme abbiamo monitorato il percorso, cercando di confrontarci su quello che stava succedendo. Se con tutto lo staff educativo, gli insegnanti e i genitori potessimo incontrarci più spesso credo che si potrebbe fare un ulteriore salto.

Esiste la possibilità di replicare il progetto o di estenderlo alla cittadinanza, al di là del lavoro sul quartiere?
Direi proprio di sì, noi quest’anno stiamo infatti già proseguendo il percorso. In laboratorio al momento stiamo lavorando molto sull’oggetto simbolico specchio, qualcosa che riflette ma chissà che cosa… E poi sul nome. I primi tre mesi li abbiamo spesi tutti intorno a questo tema. Sono assolutamente convinto che le nostre ospiti integrate con i bambini possano sempre regalarci moltissimo. Fare delle repliche da qualche altra parte sarebbe per noi fantastico, per noi e per chi ci ascolterebbe. Il tutto sempre condotto con molta umiltà, so che ci sarà ancora tanta strada da fare ma so anche che quello che abbiamo fatto è reale. E allora alla cittadinanza cosa possiamo dire? Beh, per esempio che si può pensare a un mondo diverso. 

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