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07-Belli, senza eccezioni

Umano è. Come la fantascienza racconta l’universo-handicap

Ed ecco, in sintesi, la storia. Nostra madre Terra ha confinato sul pianetino artificiale Handicap Haven un migliaio di "accidentali" ovvero – secondo il crudo, cinico, offensivo linguaggio di Cameron, un medico – "umani patetici e rappezzati, uomini e donne per metà o un quarto, organismi frazionari camuffati da persone". Coloro che vi stanno confinati, spiega Wallace, "erano disposti a riconoscersi handicappati ma non chiamavano haven l’asteroide. Usavano altri termini, e nessuno di quei termini aveva a che fare con l’idea del rifugio". Il vero problema non sarebbe curarli o assicurare loro mobilità e lavoro, perché il contesto immaginato da Wallace gode di tecnologie (mediche e non) in grado di risolvere quasi ogni problema. Ma esiste una questione di fondo, che molti da entrambe (Handicap Haven e la Terra) le parti rimuovono. Ovvero il totale rifiuto dei "normali" cittadini di accettare quei corpi portatori di "bruttezza" all’interno d’una società ormai maniacalmente edonista e che non riconosce bellezza al di fuori dei suoi ristretti canoni. Su questa Terra del futuro infatti "quasi tutte le malattie erano state eliminate. Erano tutti sani… eccettuati coloro che avevano avuto incidenti e non potevano venire riplasmati con la chirurgia e la rigenerazione secondo i bei modelli caratteristici dell’intera popolazione. Quei pochi venivano mandati all’asteroide". Più volte Wallace torna a battere questo tasto: "Erano tutti belli. Senza eccezione. O almeno delle eccezioni non si parlava in pubblico. Naturalmente gli accidentali non avevano posto in
quella società. In altri tempi sarebbero finiti a lavorare nei circhi… se fossero riusciti a non finire in formalina"
.
Gli esclusi si organizzano: iniziano la ribellione, dirottando il loro pianeta-razzo. Cercano solidarietà sulla Terra, saltando il filtro del Medi-consiglio (una sorta di governo sui supremi affari, cioè salute e bellezza) e non la trovano. Decidono allora di lasciare tutto e partire, da soli, verso il fino ad allora irraggiungibile sistema di Alpha e Proxima Centauri. Vogliono dimostrare che proprio loro, che forse solo loro (forti d’intelligenza, sensibilità e delle "mutazioni" scoperte dentro/oltre
l’handicap) possono affrontare il lungo viaggio verso le stelle, l’antico sogno di tutta la razza umana. Sfuggono all’arrivo dei militari e nonostante le mille difficoltà tecniche e psicologiche arrivano a destinazione. Ed è strada facendo che conquistano molte libertà. "La vita sull’asteroide aveva subìto una trasformazione non troppo sottile, adesso che non c’erano più umani normali a offrire disastrosi termini di paragone. Potevano cominciare a comportarsi in modo sano e sensato" scrive Wallace.
I bei terrestri sarebbero disposti a ingoiare tutto pur di liberarsi degli "accidentali". Ma c’è qualcosa che gli arroganti "normali" non potranno tollerare: che il primo contatto con gli "et", gli alieni stellari, sia stabilito proprio dai "peggiori" rappresentanti della specie umana. Il colpo di scena finale apparirà oggi quasi ovvio al lettore ma all’epoca (il 1955 appunto) anch’esso era contro-corrente, come tutto l’impianto narrativo. Proprio perché quegli stranieri spaziali risultano veramente diversi, alieni – altro che hilf o umanoidi, si tratta di grandi farfalle pensanti – la cosa migliore per la Terra, chiusa nel suo delirio di forme, sarà che a rappresentarla siano proprio coloro che la condizione di alienità la conoscono bene, fin sulla loro pelle. Forse nel lettore (come nell’autore?) rimane un dubbio: questa delega agli affari "speciali" sarà per gli "accidentali" un vero successo o piuttosto l’ennesima, infame strumentalizzazione? Del resto interrogativi e ambivalenze simili accompagnano, da sempre, ogni tappa dello scontro fra dominanti ed esclusi, fra poteri e contro-poteri; sarebbe ben strano se non li trovassimo quando "le persone con bisogni speciali" fanno i conti con chi si crede involucro d’ogni bellezza e salute.
È interessante notare che questo messaggio (del 1955) chiarissimo viene abbastanza frainteso nella prefazione italiana (del 1981)(22). Non solo la nota introduttiva parla di una "conclusione ironica, quasi beffarda", ma più volte si torna sul concetto buonista di "tolleranza"; dobbiamo accettare questi mostri – è il senso – per "coronare le nostre ambizioni, essere in pace con noi stessi". Il che conferma quanto meno l’ambiguità, la sciatteria, l’ipocrisia, gli strumenti culturali inadeguati di molti
editori o sedicenti intellettuali nostrani ma soprattutto la diffusa paura (inconscia?) di accettare un messaggio positivo, un insegnamento non sui "diversi" ma da loro.

L’idea che ammalarsi possa diventare un crimine (sociale o addirittura a norma di legge) non è nuova. Più o meno consapevolmente, Wallace riprende una lontana intuizione di Samuel Butler (il suo Erewhon è addirittura del 1872). Come faranno Clifford Simak(23) e altri. Per ciò che più specificamente riguarda il nostro percorso, in questo "sotto-filone" (della doppia ossessione verso la bellezza e contro ogni diversità) vale la pena di accennare a Follia per 7 clan(24) perché in qualche modo ci consente di ragionare anche sull’handicap psichico. Un romanzo dove c’è forse un solo Norm ("normale" appunto) all’interno di una guerra fra 7 diversi sistemi sociali che, come s’intuisce dai nomi, sono in realtà gruppi dominati da diverse malattie mentali: Para, Mani, Schizo, Eb, Poli, Dep e Os-Com. Su
queste sigle s’impone qualche spiegazione. La città dei Mani è nientemeno che Leonardo Da Vinci; così da evidenziare qual sia il loro problema. I para abitano ad Adolf-ville. Chi soffre di ebefrenia alloggia a Gandhi-town (un collegamento crudele e diffamatorio?). I "poli" ovvero gli affetti da schizofrenia polimorfica soggiornano ad Hamlet-Hamlet. Un po’ meno espliciti i riferimenti storici-urbanistici dei Dep (depressi), degli Schizo (cioè mistici e catatonici) e degli Os-Com (ossessivi compulsivi). Per la cronaca l’unico normale andrà a sistemarsi a "Thomas Jefferson-burg". E c’è chi teorizza che "i diversi tipi e sotto-tipi di malattie mentali dovrebbero essere divisi in classi, qualcosa come nell’antica India. Queste persone, gli ebefrenici, dovrebbero essere equivalenti agli intoccabili. I maniaci dovrebbero formare la classe guerriera (…) I paranoici, o meglio i paranoici-schizofrenici, dovrebbero costituire la classe di governo (…) mentre i semplici schizofrenici dovrebbero corrispondere alla classe dei poeti (…) Quelli affetti da schizofrenia polimorfica semplice dovrebbero essere i membri creativi di questa società, quelli che forniscono le nuove idee di base". Ma siamo capitati all’interno di un gigantesco paravento o di un mondo reale? La insanità mentale è di massa o malato è il sistema con cui i terrestri affrontano ogni handicap psichico? Domande che tornano con insistenza in molte altre opere dello stesso autore, Philip Dick: il più visionario forse all’interno di un genere dove tutti devono esserlo almeno un po’. Negli anni ’60, Dick pubblicò anche uno splendido quanto difficile romanzo(25) dove il protagonista è un ragazzo autistico: qui la percezione della realtà, i pensieri dei personaggi, lo stesso linguaggio sembrano in preda
all’autismo. "È uno spaccarsi dei due mondi, quello interno e quello esterno, cosicché nessuno dei due registra l’altro". A suo modo, nella sua particolarissima visione mistica del mondo, Dick mette in discussione le fondamenta del pensiero "normale" con la stessa forza di Wallace nel minare la presunzione di bellezza. "Chi può dire se gli schizofrenici non sono nel giusto? Essi intraprendono un viaggio coraggioso. Rifiutano le mere cose, che uno può maneggiare e volgere a uso pratico; guardano dentro al significato". Provocatorio fino all’estremo, Dick. Ma è per fare – anche lui – un viaggio importante. Di Philip Dick riparleremo più avanti ma ora siamo pronti a fare un altro salto nel tempo, cioè al 1978.

Si possono riscrivere i "classici"? Come no, accade di continuo. Talora è plagio, altre volte un creativo riciclaggio o un ampliamento. Oppure un rovesciamento di prospettiva, come nel caso dell’allora trentenne John Varley che riprende il celebre Il paese dei ciechi dove H. G. Wells aveva immaginato (tanto per cambiare!) un fosco finale dal quale si evidenziava la perfidia di chi non ha la vista. Il romanzo breve (un genere da noi poco apprezzato) di Varley s’intitola La persistenza della visione(26) ed è scritto in prima persona.




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