Skip to main content

autore: Autore: Daniele Barbieri

10. Tutti (o quasi) i libri e i film citati, in ordine di apparizione

Franco Ferrini, La musa stupefatta o della fantascienza, Messina-Firenze, D’Anna editrice, 1974 

Guido Ferraro e Isabella Brugo, Comunque umani, Roma, Meltemi, 2008

Fabio Giovannini, Mostri, Roma, Castelvecchi, 1999 

Tommaso Pincio, Gli alieni, Roma, Fazi, 2006

Michel Bishop, Il segreto degli Asadi, Milano, Nord, 1986

Guido Barbujani e Pietro Cheli, Sono razzista ma sto cercando di smettere, Roma-Bari, Laterza, 2008
Genevieve Makaping, Traiettorie di sguardi, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2001

Mary Shelley, Frankenstein, varie (quasi infinite) edizioni

H. G. Wells, L’uomo invisibile, idem

H. G. Wells, La guerra dei mondi, idem

H. G. Wells, Nel paese dei ciechi, idem

H. G. Wells, La macchina del tempo, idem

Sven Lindqvist, Sei morto!, Milano, Ponte alle Grazie, 2001

Stanley Winbaum, Odissea marziana, varie edizioni

Olaf Stapledon, Il costruttore di mondi, Longanesi, 1972, Milano

Tuiavii di Tiavea, Papalagi, varie edizioni Stampa alternativa e Nuovi equilibri

Isaac Asimov, Homo Sol: in varie edizioni Urania dell’antologia Asimov Story 

Fredric Brown, Sentinella, in molte edizioni (anche scolastiche)

Fredric Brown, Il vecchio, il mostro spaziale e l’asino, varie antologie

Fredric Brown, Marziani, andate a casa, varie edizioni; per la fine del 2012 è annunciata una riedizione da Delos Books, Milano

L’uomo che cadde sulla terra, regia di Nicholas Roeg

Walter Tevis, L’uomo che cadde sulla terra, Milano, Mondadori (1973) e poi Roma, Minimum Fax, 2006

Joseph Green, Chi è intelligente?, Milano, Urania, 1974

Star Trek (l’intera serie tv)

Orson Scott Card, Il gioco di Ender, Milano, Nord, 1987 

Fred Hoyle, La nuvola nera, varie edizioni; la più recente è Milano, Feltrinelli, 2003

Stanislaw Lem, Solaris, varie edizioni Mondadori (anche in e-book)

Stanislaw Lem, L’invincibile, Milano, Oscar Mondadori, 2003

Isaac Asimov, Nemesis, Milano, prima Urania e poi Cde, 1992
Octavia Butler, Ultima genesi, Milano, Urania, 1987

Octavia Butler, Ritorno alla Terra, Milano, Urania, 1988

Arthur C. Clarke, Le guide del tramonto, Milano, varie edizioni Urania 

Ursula K. Le Guin, Il linguaggio della notte, Roma, Editori Riuniti, 1986

Walter Miller jr., Benedizione oscura, in varie antologie

Ray Bradbury, Cronache marziane, Milano, varie edizioni Mondadori (l’ultima del 2012 negli Oscar)

Henry Slesar, Gli emigranti dal volto azzurro, in varie antologie

Leigh Brackett, I negri verdi, idem

Philip Dick, Vedere un altro orizzonte, Milano, Bompiani; ripubblicato come Svegliatevi dormienti da Fanucci (ultima edizione 2012)

Robert Sawyer, La genesi della specie, Roma, Fanucci, poi Milano, Urania, 2008
Robert Sawyer, Fuga dal pianeta degli umani, Milano, Urania, 2009
Robert Sawyer, Origine dell’ibrido, Milano, Urania, 2009

L. Sprague de Camp e Peter Schuyler Miller, Gorilla Sapiens, Milano, edizioni Urania del 1953 e 1979

Pierre Boulle, Il pianeta delle scimmie, Milano, varie edizioni Mondadori, l’ultima nel 2001 Gianluca

Casseri ed Enrico Rulli, La chiave del caos, Vicenza, Punto d’incontro editore, 2010 (ritirato dopo la
strage di Firenze e poi rimesso in commercio)

Sydney Van Scyoc, Un mondo da salvare, Milano, Urania, 1986

Philip Josè Farmer, Un amore a Siddo (anche con il titolo Gli amanti di Siddo): varie edizioni, la più recenyte è Milano, Mondadori, 2008

Philip K. Dick, Umano è, in molte antologie
Philip K. Dick, I nostri amici di Frolix 8, varie edizioni; l’ultima è Roma, Fanucci, 2012
Philip Dick, Le pre-persone, in varie antologie

Theodore Sturgeon, Un mondo ben perduto, in varie antologie
Theodore Sturgeon, Venere più X, varie edizioni, Milano, Urania (la più recente nel 2004)

Naomi Mitchison, Memorie di un’astronauta, Milano, La Tartaruga e poi Urania, 1995

James Tiptree junior (Alice Sheldon), Le donne invisibili: pubblicato nella rivista “Robot” ma oggi introvabile in italiano

Ursula K. Le Guin, La mano sinistra delle tenebre, varie edizioni, l’ultima è Milano, Tea, 2003
Daniele Barbieri e Riccardo Mancini, Di futuri ce n’è tanti, Roma, Avverbi, 2006

Theodore Sturgeon, Cristalli sognanti, varie edizioni; la più recente è Milano, Urania, 2005
Theodore Sturgeon, Nascita del superuomo, ultima edizione Milano, Urania, 2003; con il titolo Più che umano, Milano, Giano, 2005

Leo Szilard, La voce dei delfini, Milano, Feltrinelli, poi Napoli, Ancora del Mediterraneo, 2004; ne esiste anche una edizione (illustrata da Gipì) da Orecchio Acerbo che ora si può leggere gratuitamente in
pdf

Robert Sheckley, Mai toccato da mani umane, varie edizioni, Milano, Urania (l’ultima nel 2003)

Arkadij e Boris Strugackij, Picnic sul ciglio della strada, Milano, Urania e poi Marcos Y Marcos, 2003

Arthur C. Clarke, Incontro con Rama, Milano, Urania e poi (1991) Bur Rizzoli

Andrè Gorz, Addio al proletariato, Edizioni Lavoro (esaurito)

Isaac Asimov, Crumiro, in varie antologie

Clifford Simak, Oltre l’invisibile, Milano, Urania, 1977

Isaac Asimov L’uomo bi-centenario, in molte antologie

Philip Dick, L’impostore, in varie antologie

Lester Del Rey e Raymond Jones, Alieno in croce, Milano, Urania, 1982

James Blish,  Guerra al grande nulla, Milano, Urania e poi Nord, 1997

John Wyndham, I trasfigurati, Milano, varie edizioni Urania (l’ultima nel 1980)

Robert Sheckley, Accademia, in varie antologie
§
Philip Dick, Follia per 7 clan, Roma, Fanucci, 2012

Minority Report
, regia di Steven Spieberg

Theodore Sturgeon, Ultime notizie, in varie antologie

David Compton, Sinthajoy, oggi introvabile

Marge Piercy, Sul filo del tempo, Milano, Eleuthera, 1990

La sceneggiatura del telefilm è nell’antologia L’umanità è scomparsa, curata da Rod Serling, Milano, Urania, 1992

Howard Fast, Cephes 5, nell’antologia La mano, Milano, Urania, 1974

Manuel Scorza, La danza immobile, Milano, Feltrinelli, ultima edizione 2007

Paul Press, Le porte dei cieli, Milano, Nord, 1984

Charles Sheffield, Progetto Proteo, Milano, Nord, 1986

Patricia Warrick, Il romanzo del futuro, Bari, Dedalo, 1984

Gian Antonio Stella, Negri, froci e giudei & co., Milano, Rizzoli, 2009

Isaac Asimov (prefazione), Storie per giovani alieni, Milano, Bur Rizzoli, esaurito

Ursula K. Le Guin, Il linguaggio della notte, Roma, Editori Riuniti, 1986

9. Un discorso non concluso

“Abbiamo incontrato gli alieni e gli alieni siamo noi” suggerisce Paul Press nel romanzo (del 1984) Le porte dei cieli sulla scia di Fredric Brown. Ma questa consapevolezza purtroppo non appartiene a tutte/i neppure nei mondi delle fanta-scienze.
Restano aperte grandi questioni che qui non possono essere approfondite come meriterebbero. Soprattutto a partire dalla stessa definizione di “essere umano” – si vedano le provocazioni di Philip Dick – rispetto alla quale confrontarsi (o rifiutare, come i razzisti vorrebbero) l’incontro con l’alieno che a sua volta è difficile da definire.
Accenniamo ad alcuni fra i dubbi possibili filosofico-etici.
In primo luogo l’intreccio fra biologico e artificiale. Confrontiamoci ad esempio con  il concetto di “formutazione” elaborato da Charles Sheffield nel romanzo «Progetto Proteo» (del 1978). Così all’inizio del libro:
“Erano entrambi troppo giovani per ricordare i dibattiti sull’umanità. Che cos’è un essere umano? […] Un’entità può dirsi umana se, e solo se, è in grado di realizzare formutazioni intenzionali usando i sistemi di biorigenerazione”.
E poi, poco prima della fine:
“Se il confine tra mondo animato e inanimato è puramente teorico, la formutazione non ha limiti. Si può cominciare a concepire un essere pensante e cosciente grande quanto un pianeta o una stella […] Se i nostri test di umanità sono validi, ogni combinazione tra essere umano, o alieno, e macchina che coinvolga formutazioni intenzionali apparterrebbe di diritto al genere umano. Secondo me la questione è filosofica e non è così facile dare una risposta”.
Fu soprattutto lo sfrenato talento di Philip Dick a spalancare porte (dietro ognuna c’erano problemi in serie, come fossero scatole cinesi) sull’incerto confine fra naturale e artificiale, fra vita e non-vita. Siamo alla difficile – sempre più? – attribuzione di un senso alla nostra umanità.
Da romanziere, Dick si muoveva nei territori (disprezzati da certe elites) della letteratura “di genere”; eppure l’impressione per quel che scriveva fu tale che gli venne chiesto di tenere conferenze per approfondire la sua filosofia. Lasciamogli dunque la parola in questa veste insolita dove non perde in efficacia. Anzi.
“Il più grande cambiamento al quale assistiamo nel nostro mondo è probabilmente la quantità di moto del vivente verso la reificazione e allo stesso tempo del meccanico nell’animazione. […] Un giorno forse vedremo un uomo sparare a un androide appena uscito da una fabbrica di creature artificiali della General Electrics: l’androide, con grande sorpresa dell’uomo, prenderà a sanguinare. L’androide sparerà, di rimando, e con grande sorpresa vedrà una voluta di fumo levarsi dalla pompa elettrica che si trova al posto del cuore dell’uomo. Sarà un grande momento di verità per entrambi”.
Siamo ben oltre la metafora, anche perché dagli anni ’70 a oggi la commistione e/o confusione fra artificiale e biologico ha continuato a camminare. Come commenta Patricia Warrick: “L’analogia fra uomo e macchina è stata sfruttata sino in fondo. L’uomo è programmato dalla società perché funzioni come una macchina; l’uomo è un robot dall’aspetto umano che però si comporta come una macchina”. 

Forse tradire
Con ogni evidenza una conclusione è impossibile. Accettare l’alieno (quale che sia) venuto dall’esterno o scoperto dentro di noi è per molti tradimento. Del resto una definizione ristretta del concetto di umanità significa già, per molti, che riconoscere eguali diritti a “negri, froci e giudei” (tanto per citare il provocatorio titolo di un recente libro di Gian Antonio Stella), sorridere a chi viene definito turco, gay, islamico, handicappato… è tradire. Ma per altri il vero pericolo – se si vuole l’unico mostro – è uccidere gli alieni, le diversità fra noi e/o che ci portiamo dentro e/o gli extraterrestri, se mai li incontreremo.

Solo per caso
Così il mio piccolo suggerimento è guardare a qualsiasi alieno (presente e futuro, terrestre o extra) ripensando a una canzone – There But For Fortune – di Phil Ochs; eccola nella traduzione italiana di Riccardo Venturi:
“Fammi vedere una prigione, fammi vedere una galera,
Fammi vedere un prigioniero con la faccia impallidita
E io ti farò vedere un ragazzo, e ci son molte ragioni
Che, solo per caso, quel ragazzo non sia io o te, io e te.
Fammi vedere il vicolo, fammi vedere il treno,
Fammi vedere il vagabondo che dorme fuori, sotto la pioggia,
E io ti farò vedere un ragazzo, e ci son molte ragioni
Che, solo per caso, quel ragazzo non sia io o te, io e te.
Fammi vedere le macchie di whisky sul pavimento,
Fammi vedere l’ubriaco che inciampa fuori dalla porta,
E io ti farò vedere un ragazzo, e ci son molte ragioni
Che, solo per caso, quel ragazzo non sia io o te, io e te.
Fammi vedere la carestia, fammi vedere la debolezza,
Occhi senza futuro che mostrano i nostri fallimenti,
E io ti farò vedere dei bambini, e ci son molte ragioni
Che, solo per caso, quei bambini non siamo io o te, io e te.
Fammi vedere il Paese dove son dovute cadere le bombe,
Fammi vedere le rovine degli edifici una volta tanto alti,
E io ti farò vedere un giovane Paese, e ci son molte ragioni
Che, solo per caso, quel Paese non siamo io o te, io e te”.
Evidentemente molte persone sono sconvolte da quest’idea che “solo per caso”… Ma invece c’è chi lo crede vero; chi lo sente dentro di sé anche senza conoscere Phil Ochs; chi vorrebbe che questo fosse l’atteggiamento per guardare il mondo, anzi i mondi. Philip Dick, nel presentare alcuni suoi racconti, scriveva così:
“La premessa fondamentale di tutte le mie storie è che se dovessi incontrare un essere intelligente extraterrestre (più comunemente definito ‘una creatura dello spazio esterno’) mi accorgerei di avere più cose da dire a lui che al mio vicino di casa”.
Solo per caso non siamo alieni. O più probabilmente in qualche modo lo siamo.

Ed ecco le tre righe finali di Sentinella
“Molti, con il passare del tempo, si erano abituati, non ci facevano più caso: ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d’un bianco nauseante, e senza squame”. 

Aspettando l’incontro ravvicinato
Se volete sapere a che punto sono i viaggi spaziali e/o avere notizie su Seti e altri programmi di ricerca sulle “intelligenze extraterrestri” dovete rivolgervi a libri o siti appositi. La situazione però non è molto mutata da quanto scriveva Asimov nella prefazione all’antologia, rivolta a ragazze/i dai 10 anni in su, Storie per giovani alieni che contiene almeno due storie bellissime con protagonisti:
“Esistono gli alieni? Non lo sappiamo. […] Per quanto riguarda il nostro sistema solare ogni ricerca in tal senso ci ha riservato solo delusioni. […] Ma il Sole non è altro che una singola stella in una galassia che ne contiene qualcosa come 200-300 miliardi: e la nostra galassia è solo una delle tante galassie che popolano l’universo, calcolate in circa 100 miliardi. […] Le stelle sono così lontane da noi che è virtualmente impossibile studiarle nei dettagli. […] Gli ottimisti ritengono che tutte, o quasi tutte, le stelle possiedano un proprio sistema planetario. […] Pertanto solo nella nostra galassia potrebbero esistere miliardi di pianeti portatori di vita. […] Gli astronomi ottimisti pensano che lo sviluppo dell’intelligenza sia un fatto inevitabile. […] Dal loro canto gli astronomi pessimisti contestano l’ipotesi di partenza: non sono affatto sicuri che ogni stella possieda un suo sistema planetario. […] Inoltre, aggiungono, per essere adatto alla vita, un pianeta deve possedere una così cospicua serie di proprietà e condizioni “giuste” che una tale eventualità appare altamente improbabile”.
Detto in 5 parole: per ora non lo sappiamo.

8. L’alienità totale (ovvero del pensare non accettato)

Come abbiamo visto la parola alienità si riferisce anche alle (vere o presunte) alterazioni della “salute” mentale. Dunque questo percorso si avventura in una doppia direzione: come la letteratura di fantascienza ha affrontato i nostri “matti” ma anche come noi terrestri potremmo essere “folli” per chi ha una logica davvero altra.
Per entrare in argomento tuffiamoci direttamente dentro una storia.
In ogni posto di lavoro, per strada o a casa, incontrate i sanity-meters ovvero gli “alienometri” prodotti dalla Cahill Thomas Manufacturing: li vedete intorno a voi, non troppo dissimili dai parchimetri ma funzionano senza monete o tessere. Misurano il disadattamento – “la pazzia” – di ogni cittadino. Se si supera la norma (fra 0 e 3) si è sottoposti a sorveglianza; quando si arriva al livello 10 obbligatoriamente si sottostà alla “correzione chirurgica” oppure si entra (per sempre o fino a guarigione?) nella misteriosa Accademia. E per l’appunto Accademia s’intitola un racconto-profezia scritto nel 1954 da Robert Sheckley.
Mi è capitato – nelle vesti di attore che ogni tanto, con sfacciataggine, indosso – di leggerne alcuni brani in una sede particolare come è quella dell’associazione dei familiari di degenti negli (ex, dopo la legge che tutti conoscono come “Basaglia”) ospedali psichiatrici e mi ha molto colpito il commento di alcune persone che più o meno suonava così: è fantascienza sino a un certo punto perché anche senza “alienometri” in questa società c’è chi (più o meno “autorizzato”) misura il nostro livello – da 1 a 10 – di “normalità”.
Ovviamente lo spunto iniziale di Sheckley è la tipica ossessione statunitense per “l’igiene” mentale e la conseguente diffidenza verso tutto ciò che si discosta da una presunta norma. Non abbiamo gli “alienometri” fra noi però negli ultimi anni il tentativo di psichiatrizzare tutto si è allargato dagli Usa al resto del mondo, trovando ostacoli ma anche vincendo battaglie importanti. Come sempre la buona science fiction ci può aiutare a muoverci nei sentieri del presente e dei possibili futuri prossimi.
Proviamo allora a tuffarci in uno dei mondi inventati dal già citato Dick. Nel complesso ed efficacissimo Follia per 7 clan ha addirittura disegnato un intero sistema sociale basato su diversi tipi di malattie mentali in “guerra” fra loro. C’è forse un solo “Norm” in mezzo ai “Mani” (la loro capitale è definita – notate la perfidia – “Grande Da Vinci”), ai “Para” (nella città di “Adolf-ville”), agli “Schizo”, ai “Poli” maniaci, agli “Eb” (i troppo buoni e dunque ebeti che si ritrovano – questa è ancora più provocatoria – in un luogo chiamato  “Gandhitown”), ai “Dep” (depressi, con ogni evidenza) e infine agli “Os-com” cioè gli ossessivi-compulsivi. Come sempre accade in Dick anche qui ci sono paraventi (tre almeno ma evidentemente questa non è la sede per approfondire) che nascondono altre verità.
Questa provocazione definitoria in Dick ha evidenti radici nel nostro mondo. La mania di classificare ogni minima “deviazione” continua a tradursi in statistiche che urlano vertiginosi aumenti di vecchie/nuove forme del malessere psichico. Di continuo i mass media rilanciano allarmi su “epidemie” che, lungi dall’essere indagate e/o verificate, servono invece a lanciare altri farmaci, cure, psicoterapie ma anche ad allargare il controllo sulla vita privata. Bambini compresi, che vengono curati in sostanza perché “troppo vivaci”. Istituti definiti autorevoli – e magari lo sono ma hanno finanziamenti assai loffi, cioè di chi poi venderà i rimedi contro le presunte sindromi – possono periodicamente e tranquillamente sostenere che in Occidente un bimbo su quattro si può classificare “malato di mente”. Persino l’Oms, cioè l’Organizzazione mondiale della sanità delle Nazioni Unite, aveva annunciato – per il 2005 – mezzo miliardo di “picchiatelli” in circolazione sul pianeta: per la precisione (ma chi fa i conti?) 413 milioni nelle società sviluppate e 122 nei Paesi “pezzenti”. E se vivere in effetti è sempre più difficile appare improbabile che l’abuso di farmaci  risolva tutte le difficoltà esistenziali.
Ancora Dick ha previsto l’arrivo degli “psichiatri portatili” (ben prima di programmi computerizzati come Eliza). Vale aggiungere per coloro che hanno visto il (bruttino) Minority Report di Steven Spieberg – tratto dall’omonimo racconto di Philip Dick, sempre lui – che nel sistema giuridico statunitense esiste già la possibilità che sulla base di una “precognizione” (di uno psichiatra, guarda un po’) scatti condanna, persino la pena di morte.
Si potrebbe continuare ritornando a Sturgeon. Nel lontano 1956 Ultime notizie, un altro suo racconto, da una parte conduceva in un labirinto psichiatrico che (almeno per l’epoca) era dotto quanto sconvolgente ma dall’altra poneva una questione che sempre più risulta attuale e angosciosa: di fronte alla quantità di dolore, impotenza e rabbia che i mass media – le “ultime notizie” appunto – ci riversano addosso cosa possiamo fare per non soffrire? E se quando decidiamo di nasconderci (di “rimuovere” o “regredire” per usare termini tecnici) qualcuno ci viene a snidare… Ma senza offrire alcuna soluzione per quelle sofferenze, cosa potrebbe accaderci?
Due vicende esemplari hanno al centro – non per caso – donne. La prima è la protagonista di Sinthajoy dell’inglese David Compton sospesa tra le false vite dei “nastri” che le scorrono nel cervello e il puzzolente mondo reale dove scopre che “solo adesso che sono ‘ufficialmente’ psicotica posso fissare la gente senza provare imbarazzo”. L’altra donna è invece una chicana – cioè un’immigrata latina negli Usa – di mezza età, Connie Ramos, che viene classificata folle ma in realtà è solo un’emarginata: dalla sua “gabbia” Connie può però sintonizzarsi su un futuro (ahi-noi lontano) comunitario, ecologista, non sessista e libertario. C’è in questo romanzo di Marge Piercy, Sul filo del tempo una frase chiave che, mi scuserete la digressione personale, ho scelto come sottotitolo del mio blog: “Per conquistare il futuro bisogna prima sognarlo”.

In via degli Aceri o su Cephes 5
Bisogna sognare anche un’altra psichiatria (meglio: una non psichiatria) che neghi l’esistenza di due diversi universi per i “folli” e per i “sani”. La ricorrente idea di un controllo sociale totale ha già storicamente prodotto l’internamento psichiatrico dei dissidenti nell’ex Urss e la lobotomia di massa negli Usa. Altre tragedie porterà se dimenticheremo quel che aveva urlato Erasmo: “non è vero che ogni illusione o vaneggiamento debba chiamarsi follia”. Anzi. Sempre più in una società di orrenda e socialmente iniqua “normalità”, di pensiero unico e di guerra preventiva/permanente chi vaneggia può essere maggiormente saggio di quelli che pretendono essere questo il migliore dei mondi possibile. Forse la nostra follia è più saggia della nostra saggezza, ci hanno ammonito Erasmo e Montaigne. Ma, con ogni evidenza, qui bisogna interrompere il discorso che andrebbe ben oltre il senso di questa specifica ricerca.
Accennando però a un altro paio di storie. La prima è in un telefilm – che forse i meno giovani ricorderanno – Arrivano i mostri in via degli Aceri, esemplare racconto di paranoia collettiva: siamo all’interno della celebre serie Ai confini della realtà (dal 1959 al 1964) e sono significative le frasi di chiusura dell’episodio: “I pensieri, le opinioni, i pregiudizi possono essere armi, armi che esistono solo nella mente degli uomini […] I pregiudizi possono uccidere e il sospetto può distruggere, la ricerca di un capro espiatorio contamina, come l’Atomica, i figli già nati e i nascituri”. Gli alieni – di loro si parla nel telefilm – spingono gli umani a farsi guerra fra di loro.
“In cima alla collina due individui nascosti stavano accanto al portello di una nave spaziale e osservavano via degli Aceri.
[…] Lo schema è sempre lo stesso?
Sì, con poche variazioni. – fu la risposta – Scelgono il nemico più pericoloso che c’è e lo trovano in loro stessi”.
La seconda storia è Cephes 5, un racconto (del 1973) di Howard Fast.
A bordo della “grande nave interstellare” un ufficiale sente crescere il malessere mentale. Ne parla con “il Consigliere” dell’equipaggio che gli domanda se ha sentito parlare di “delitto” cioè di una “azione che sopprime una vita umana e che come idea ha origine in sentimenti anormali di odio e di aggressione”.
Lo stupefatto ufficiale quasi non capisce di cosa parli il Consigliere:
“Volete dire che c’è gente che ammazza altra gente?”.
Purtroppo sì, spiega il Consigliere: anche se accade in pochissimi dei “33.472 pianeti abitati della galassia”.
Cosa si fa con gli assassini?
“Li isoliamo” spiega il Consigliere “sul pianeta Cephes 5”. La nave interstellare è diretta lì: quel senso di malessere avvertito dall’ufficiale nasce dalle “cattive vibrazioni” dei 500 assassini “di tutte le razze della galassia”.
Il racconto è pieno di interrogativi ma uno – il più choccante – si scioglie nelle ultime righe.
“Noi chiamiamo questo pianeta Cephes 5 – disse l’ufficiale – ma tutti i pianeti hanno un loro nome, dato dagli abitanti. Come chiama quella gente il suo pianeta?
– Lo chiama Terra – rispose il vecchio Consigliere”.
E in sintonia con la provocazione di Fast, per questo segmento l’ultima parola si potrebbe dare a un esponente del “realismo magico” latino-americano, quel Manuel Scorza che nel romanzo La danza immobile (del 1983) ci illuminò: “Lenin aveva torto… non è l’imperialismo la fase suprema del capitalismo, è la schizofrenia di massa”.
Di alieni mentali ce ne sono parecchi in giro, anzi come diceva quella vecchia frase (che è anche su molte t-shirt) “visto da vicino nessuno è normale”. Che poi siano tutti pericolosi è tutto da dimostrare. Dipende, al solito, da chi ha il potere di guardare e decidere. Abitare in via degli Aceri e rendere migliore Cephes 5 come sempre almeno in parte dipende da noi.

7. Qualche accenno sull’alienità religiosa

Dallo spazio arrivano i protagonisti di Alieno in croce, del 1978, scritto a quattro mani da Lester Del Rey e Raymond Jones. Il “prete” ufficiale della spedizione è Toreg. In apparenza è feroce oppositore di ogni eresia ma dentro aveva: “come una ferita sanguinante […] la portava con sé, la nutriva, la combatteva e ne sopportava il dolore, perfino nelle lunghe preghiere che dedicava al Keelong a cui non credeva. Il peso restava; e cresceva la sua ferocia contro l’eresia. Nessuno sapeva che quella ferocia era diretta più contro se stesso che contro gli altri”.
I protagonisti di questo bel romanzo sono di color verde pallido a scaglie sottili ma quando arrivano sulla Terra nessuno s’impressiona: infatti il pianeta è stato distrutto da un’ultima, terribile guerra. Nessun superstite. Pochi resti e difficilmente decifrabili.
Però sotto le macerie Toreg trova “due pezzi di legno uniti fra loro a forma di croce  […] Non riuscì a trattenere un grido. Era la cosa più orribile che avesse visto in tutta la sua vita”. Il sacerdote alieno s’interroga sulla misteriosa figura “torturata”. Dopo lunghe ricerche, Toreg può dare un nome – Gesù di Nazareth – al crocefisso ma senza scoprire altro. Nel martirio di quell’“alieno in croce” sembra esserci più forza che nelle credenze Keelong. Potrebbe trattarsi solamente del fascino di una religione nuova e densa di misteri… o forse no. Il romanzo preferisce lasciarci nel dubbio. È un diverso – alieno appunto – sguardo sulla religione, sulla forza che potrebbe avere per diverse specie.
Si può provare a immaginare il rovescio di Toreg: come accoglieranno i non-umani il messaggio di redenzione dei terrestri? Ne ha scritto, fra gli altri, lo scrittore irlandese Clive Staples Lewis. Chiedendosi: “I nostri futuri missionari se incontrassero una razza senza peccato sarebbero in grado di comprenderla? […] Non potrebbero giudicare peccato quelle differenze di comportamento che la storia biologica e spirituale di creature diverse giustificherebbe pienamente? […] Dobbiamo fermamente opporci a ogni sfruttamento teologico”.
È un quesito che tornerà, con forza inaudita, soprattutto in un romanzo di James Blish che esamineremo fra poco.
Tradizionale nello schema post-catastrofe ma straordinario per invenzioni, ritmo, scrittura – e anche per offrirci un po’ di speranza rispetto agli alieni fra noi – è il romanzo I trasfigurati di John Wyndham del 1955. Siamo proiettati subito in una società post catastrofe atomica succube del fanatismo religioso e che riconosce nei mutanti i segni della persistente collera divina. Le parole para-bibliche “solo l’immagine di Dio è il vero uomo” servono a giustificare persino il rogo d’una bimba colpevole d’avere 6 dita in un piede. Gli squarci di intolleranza descritti da Wyndham si mescolano alla fiducia nell’umanità, all’idea che essa possa rinascere come una farfalla dal bruco (proprio Re-birth o The Chrysalids sono i titoli con cui il libro è circolato in altri Paesi) e che le mutazioni potrebbero rivelarsi anche uno sviluppo positivo o il disvelamento di potenzialità latenti. Forse ci sono alieni che stanno nascendo dietro di noi (non necessariamente a seguito di catastrofi o radiazioni) e comunque difficile credere a un dio che misura l’umanità come avrebbe potuto fare un Cesare Lombroso.
L’intreccio fra alienità e religione trova uno dei suoi apici in un romanzo che, pur scritto nel lontanissimo 1958, resta alla memoria: Guerra al grande nulla di James Blish.
Quattro scienziati terrestri, fra cui un gesuita peruviano, arrivano sul pianeta Lithia dove gli abitanti ignorano cosa sia il male. Se i lithiani non conoscono peccato e dunque mancano di Dio – si chiede il tormentato gesuita – essi sono forse un’utopia di Satana? A questo punto l’intreccio, anche teologico, si complica assai: Egtverchi, “l’unico rettile dell’universo con genitori mammiferi”, arrivato sulla Terra, mostra grande abilità nell’usare e/o scombussolare i mass media.
“Commentatore ormai di notizie alla tv, Egtverchi era il primo oratore televisivo che avesse un pubblico composto per metà di intellettuali disingannati e per metà di bambini entusiasti. Era un fenomeno senza precedenti”.
Il successo di Egtverchi è tale che può persino invitare il pubblico a “inviare lettere anonime ingiuriose alla ditta che paga le sue trasmissioni”. Forse accadrà il peggio se il gesuita non fermerà questo demonio/non demonio… Ma come si conclude la vicenda dovrete scoprirlo da soli, recuperando il libro in qualche biblioteca.
Altri alieni “religiosamente” inquietanti in Le guide del tramonto di Clarke, che hanno una piccola differenza biologica come si è accennato.
Il libro risente dell’età (uscì nel 1954) soprattutto nella seconda parte ma l’inizio e la studiata preparazione al colpo di scena alien-teologico restano godibilissimi anche oggi. In sintesi: stavolta i potentissimi alieni sono venuti in pace, portano una fruttuosa collaborazione. Ma allora perché trattano solo con le Nazioni Unite, perché non si mostrano? Passano gli anni: finiti i sospetti e congiure, i terrestri appariranno rassicurati: così i “buoni alieni” potranno comparire in pubblico… con le due corna sulla testa e la coda ma senza impressionare più di tanto. Tutte le calunnie venivano da una precedente visita troppo prematura, sostiene Clarke.
Abbandoniamo a malincuore il segmento dell’alienità religiosa e avviamoci verso le conclusioni.

6. Alienità sociale

Partiamo da un racconto di Leo Szilard che, per chi non lo sapesse è uno dei padri (involontari) della bomba atomica. In Rapporto sul Gran Central Terminal – nell’antologia di racconti La voce dei delfini – ci provoca così: “Immaginate che colpo fu per noi atterrare in quella grande città e trovarla deserta. Da dieci anni viaggiavamo attraverso lo spazio. […] Quando finalmente atterrammo scoprimmo che su quel pianeta la vita si era estinta. […] A quel punto Xram si ricordò che circa 5 anni prima erano stati osservati misteriosi bagliori, tutti nella stessa settimana. Gli venne in mente che quei bagliori potevano essere stati prodotti da esplosioni di uranio. […]  Ritenevamo che chi aveva costruito città così grande fosse dotato di razionalità per cui ci sembrava difficile che si fosse impegnato a trattare l’uranio per tanto tempo”.
Questo è il quadro di partenza: io ho un pochino barato tacendovi che il pianeta si chiama Terra mentre Szilard lo mette subito in chiaro. Quel che qui ci interessa – la difficoltà a decifrare un mondo alieno – però non riguarda l’energia atomica.
“Non sapendo da dove iniziare le ricerche, scegliemmo come primo oggetto di indagine uno degli edifici più grandi della città. Anche se non sapevamo cosa significasse Grand Central Terminal, non avevamo dubbi su quale fosse il suo utilizzo. Era parte di un primitivo sistema di trasporto basato su rozze macchine che correvano su rotaie tirandosi dietro vetture a ruote.
Per più di 10 giorni studiammo quell’edificio e scoprimmo dettagli interessanti e sconcertanti”.
Le scritte “fumatori” e “non fumatori” restano inspiegabili per gli scienziati alieni e certi dipinti che mostrano esseri con le ali confondono ancor più le idee.
“Nel grande spazio del Central Terminal trovammo stanze abbastanza piccole collocate a coppie e in posizioni abbastanza nascoste. Ciascuna di queste stanze (chiamate ‘Uomini’ e ‘Donne’) conteneva cabine che probabilmente potevano servire come riparo temporaneo per i terrestri mentre depositavano i loro escrementi”.
Ma restano molte domande irrisolte e… Szilard si diverte. Cosa significa la scritta “libero” all’ingresso di queste cabine? Perché si aprono solo con un gettone? E perché analoghi congegni nelle case non hanno il meccanismo apribile con un dischetto e la scritta “libero”? Cos’abbia a vedere la libertà con gli escrementi è un quesito che appassiona questi scienziati alieni. Così “saggi” da non credere che i terrestri possano essersi auto-distrutti con l’uranio.
Di paradossi e provocazioni simili (magari a ruoli rovesciati, cioè con i terrestri nella parte degli alieni che indagano) è piena la fantascienza. Chi è appassionato del genere ricorderà quantomeno il racconto Mai toccato da mani umane del caustico Robert Sheckley, il romanzo Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Strugackij (trasposto al cinema da Andrej Tarkovskij come Stalker) o lo sconcertante (soprattutto nel finale) Incontro con Rama dell’altro scienziato-scrittore Arthur C. Clarke.
Ma qui ci interessa l’alieno sociale che, anche nella metafora fantascientifica, a volte somiglia al nostro: questione di classe dunque.
Chi si rifà in qualche modo al pensiero di Marx già saprà che, per i borghesi, alieni sono i proletari e viceversa. E per quanto i rapporti (di potere) fra le classi cambino il capitalismo inevitabilmente fabbrica alieni. Nel 1982 Andrè Gorz ricorda – in Addio al proletariato – che già Adam Smith annotava che “molti padroni di fabbriche preferiscono impiegare operai ‘mezzi idioti’” e che poi Marx “descriverà il lavoro operaio, sia nelle manifatturiere che nelle cosiddette fabbriche automatiche, come una mutilazione delle facoltà intellettuali e corporali degli operai”. E Gorz riassume: “La fabbrica produce ‘mostri’”. Alieni. O umani mutanti direbbe qualche scrittore-scrittrice di science fiction.

Crumiro
Qui ci interessa la fantascienza che ha al suo centro l’alieno sociale dunque diverso, incomprensibile, “non umano” per ragioni di classe o per un particolare lavoro.
Un buon esempio è il racconto Crumiro (del 1957) di Isaac Asimov che vedremo in dettaglio.
Steven Lamorak è un sociologo terrestre che visita Altrovia, un planetoide terrestre, fuori dal sistema solare, con un diametro di un centinaio di miglia, patria di una colonia umana, formata da trentamila persone. Capiremo poi che qui si è sviluppato un rigido sistema di caste dove ogni lavoro è limitato a un particolare insieme di famiglie.
Il consigliere Blei spiega a Lamorak: “Dobbiamo rimettere tutto in circolo […] i rifiuti di ogni genere devono essere ritrasformati in materia prima”. Blei sembra imbarazzato e reticente però accetta di parlare del sistema di caste: “ogni uomo, donna o bambino sa qual è il suo posto”.
Dopo il colloquio e la promessa di poter visitare il giorno dopo il pianetino, Lamorak sfoglia il giornale locale. Nulla di interessante salvo un articolo che gli risulta incomprensibile. “Sotto il titolo ‘Richieste immutate’ si leggeva: ‘Non vi è stato alcun cambiamento nel suo atteggiamento di ieri. Il Consigliere Capo, dopo un secondo colloquio, ha annunciato che le sue richieste continuano a essere irragionevoli e che non possono essere soddisfatte per nessuna ragione al mondo’ […] Lamorak rilesse l’articolo tre volte: il ‘suo’ atteggiamento, le ‘sue richieste […]. Di chi? Dormì malissimo quella notte”.
Nei giorni successivi Lamorak costringe Blei a dirgli la verità. “Igor Ragusnik è l’uomo che si occupa dei processi industriali direttamente connessi ai rifiuti […] ma noi non possiamo parlare con lui”. E ora Ragusnik “pretende uguaglianza sociale. Vuole che i suoi figli si mescolino ai nostri”. E minaccia di scioperare.
Blei dice a Lamorak: “come terrestre immagino che lei non possa capire”. E lui risponde: “come sociologo penso di sì” e “pensa agli intoccabili dell’antica India, a coloro che maneggiavano i cadaveri, ai guardiani di porci nell’antica Giudea” ma anche ai tabù terrestri, altrettanto forti: “il cannibalismo, l’incesto, la bestemmia sulle labbra di un uomo devoto”.
Se Ragusnik continuerà lo sciopero, il sistema di smaltimento rifiuti si bloccherà e l’intera colonia morirà a causa delle malattie. Lamorak chiede di parlare con Ragusnik… per video-telefono; di persona non è possibile.
Il dialogo è difficile. Lamorak ha di fronte un uomo disperato: “perché dobbiamo vivere in isolamento come se fossimo mostri? […] Non mi arrenderò. Muoia pure d’infezione tutta Altrovia, compresi me e i miei figli ma non cederò”.
Lamorak capisce che nessuna delle due parti è disposta a cercare compromessi. E annuncia: “Lo sostituirò io” pur sapendo che sta “tradendo un uomo brutalmente sfruttato”.
Non dirò come finisce il racconto. Se volete leggerlo lo trovate, fra l’altro, nell’antologia di Asimov pubblicata (nel 1987 dalla Nord) con il titolo Le migliori opere di fantascienza. Nell’introdurre il racconto, Asimov scrive: “Credo che questo sia un racconto importante […] invece precipitò nella più totale indifferenza”. Beata ingenuità: il saggissimo Isaac sembra incapace di vedere che non si tratta solo di una metafora della condizione dei “negri” negli Stati Uniti di allora ma più in generale di svelare la rigida divisione in classi della società.
Molte altre suggestioni, visioni e metafore sociali dell’alienità sociale potrebbero essere raccontate. Non c’è qui lo spazio necessario. Chi deciderà di proseguire questo cammino si confronti soprattutto con James Ballard, John Brunner, Damon Knight, il tedesco Joachim Zelter (che in La scuola dei disoccupati ha immaginato una società-incubo che abbia come suo faro la costruzione del curriculum), di nuovo Le Guin e Sheckley e italiani: i due Vittorio (Catani e Curtoni), Valerio Evangelisti e magari Primo Levi che scrisse alcune storie di fantascienza che inizialmente il suo editore editò con uno pseudonimo con la curiosa giustificazione che uno scrittore così legato alla tragica realtà dei lager non avrebbe dovuto, con lo stesso nome, pubblicare storie di fantascienza.
Invece la buona fantascienza ha raccontato molto sulle oppressioni presenti e future aiutandoci a capire dove si annidano nuovi pericoli. Potremmo essere tutti alieni (alienati) in un certo tipo di mondo che si va costruendo. Ad affrontare questo tema – anzi a scardinarlo – è Frederik Pohl, uno degli autori fantascientifici più importanti, sin dagli anni ’50.

Incatenati al 15 giugno
Vediamo, in estrema sintesi, Il tunnel sotto il mondo, lungo racconto che Pohl scrisse nel 1954.
“La mattina del 15 giugno, Guy Burchardt si svegliò da un sogno. Gridava”.
Poco dopo Guy si rassicura: tutto è a posto, era solo un incubo. Per strada nota qualcosa di strano: una pubblicità più aggressiva del solito. Poca roba in fondo. È insolito che il suo capo non sia in ufficio visto che il 15 giugno “è il giorno della denuncia fiscale per il trimestre”. Guy potrebbe andare a cercarlo in fabbrica ma non gli garba perché in una precedente visita era rimasto abbastanza scosso: “non c’era un’anima, soltanto le macchine”.
Quel giorno continua ad andare in modo “sbagliato”: piccole cose fuori posto e, sulla strada del ritorno, altoparlanti minacciosi che urlano ossessivamente frasi del tipo: “Hai già un frigorifero. Puzza! Se non è un frigorifero Feckle, puzza. […] Sai chi ha i frigoriferi Ajax? Gli invertiti hanno i frigoriferi Ajax. Sai chi ha i frigoriferi Triplecod? I comunisti hanno i frigoriferi Triplecod. […] Vuoi mangiare cibo andato a male? O vuoi farti furbo e comperare un Feckle, Feckle, Feckle”.
Anche a casa sua Guy troverà stranezze, illogicità. Va a dormire perplesso. La mattina dopo apprende – dal giornale e dalla radio – con stupore che non è il previsto 16 giugno ma sempre il 15. Guy sta impazzendo?
Il racconto ha una svolta quando (con l’aiuto di un certo Swanson) il protagonista scopre che sotto la città corre un tunnel. Qualcuno sembra seguirli. “Russi? Marziani? Qualunque cosa fossero che cosa potevano sperare di guadagnare da quella pazzesca carnevalata?”.
La verità è a un passo: “Non sono russi e non sono marziani. Quella gente sono uomini della pubblicità. In qualche modo si sono impadroniti della città […] ci hanno catturato tutti, 20 o 30mila persone e ci tengono sotto il loro controllo”.
L’eterno 15 giugno è un grande esperimento sociale per testare nuovi prodotti. Il racconto di Pohl ha in serbo altre tremende sorprese ma, per il discorso che qui si va facendo, basta così. La dittatura di Pol Spot nel 1954 era di là da venire ma oggi è nelle pieghe del mondo reale. Guy è un uomo qualunque che si crede strano o impazzito (due varianti dell’alieno): in realtà è una marionetta. Non c’è forse peggiore alienità della impossibilità di gestire la propria vita.

E se sotto quei circuiti…
Anche i robot e gli androidi in molte storie fantascientifiche sono, con ogni evidenza, metafora del diverso – razziale o sociale – in cerca di integrazione. Se il termine androide vi lascia perplessi chiarisco subito: nella science fiction si intende una creatura artificiale che, a differenza del robot, è costituita di protoplasma e comunque non ha una prevalenza di parti meccaniche.
Anche se non c’è qui spazio per approfondire ulteriormente, qualche esempio di alieno “social-robotico” può aiutarci.
Uno dei romanzi più espliciti dove gli androidi sono a caccia dei “diritti civili” è il complesso romanzo (del 1951) Oltre l’invisibile di Clifford Simak.
Lo stesso Simak scava sul tema in alcuni racconti. Ora tocca a noi a esempio è la minuziosa cronaca del procedimento giudiziario nel quale i robot ottengono il diritto a “non essere più servi di nessuno”.
Con Il peggiore esempio Simak azzarda un’amara riflessione. Incontriamo Tobias, la disgrazia della città, vergogna pubblica, appunto “il peggior esempio, da non imitare mai”. Un giorno però Tobias dimentica di barcollare e sta per tradirsi.
“Lui doveva essere accettato come un umano […] Come vagabondo, ubriacone umano lui era uno scudo. Come robot, uno sporco robot ubriacone buono a nulla, non sarebbe contato nulla. Così nessuno sapeva”.
A sostenere l’inganno esiste persino una tassa (del quale tutti ignorano la vera destinazione) pagata alla Samru cioè “Società per l’Avanzamento e il Miglioramento della Razza Umana”. Il nome è con ogni evidenza simile a quello della Naacp (cioè National Association for the Advancement of Colored People) che nell’epoca in cui il racconto fu scritto si batteva – i risultati erano lontani da venire – per i diritti civili degli afroamericani.
Sarà poi Isaac Asimov a completare il discorso dei robot in cerca dei diritti civili nel famoso racconto (in realtà un romanzo breve) L’uomo bi-centenario. Chi non lo conoscesse ne trova una sintesi nel citato dossier che ho curato per “HP-Accaparlante” nel 2001.
A dar man forte all’ala più iconoclasta della fantascienza in quel periodo arriva, come si è già detto, Philip Dick. A proposito di creature artificiali e di metafore, nel racconto Impostore (del 1953) il protagonista viene accusato di essere un robot del nemico con una potente bomba incorporata. Lui fugge perché sa di essere innocente ed è con stupore pari al suo che, al termine del racconto, chi legge assisterà all’esplosione. Un tipico esempio del modo in cui Dick affronta la confusione fra vivente e meccanico, fra realtà e illusione, temi al centro di tutta la sua opera. Un tema sul quale torneremo più avanti.

4. L’alienità sessuale (e i suoi tabù)


“Tol studiò la faccia allegra dell’Allegon cercando di conciliarla con il concetto umano di mascolinità. Ma su quel pianeta, si disse, i ruoli sessuali come tali erano in gran parte inesistenti, il desiderio sessuale, secondo il testo di antropologia, era quasi interamente sotto controllo razionale. Il ‘matrimonio a tre’ era asessuale per natura e sanciva l’unione di un Allegon, un Gonnegon e un Berregon. Dopo la formazione della triade, ciascun adulto si accordava fuori dal matrimonio con qualcuno della sua specie per la concezione e la nascita di un figlio. Alla nascita, il figlio veniva affidato al genitore con cui ci si era accordati e l’altro, fosse padre o madre, rinunciava a ogni diritto su di lui. Successivamente, il piccolo Allegon, fosse maschio o femmina, cresceva educato a servire; il Gonnegon a comandare; il Berregon a produrre”. Se in questo scenario – il romanzo Un mondo da salvare di Sydney Van Scyoc (del 1973 ma tradotto in italiano nel 1986) – sono un po’ complicati per i nostri standard, quelli sociali sono purtroppo chiarissimi.
Un passo indietro perché il sesso – ci avevate fatto caso? – è argomento assai complicato. Combattuti fra una rilassante normalità (non meglio precisata) e il fascino indiscreto della diversità (l’esotico è erotico?) la nostra buffa razza continua da millenni a vivere in termini schizofrenici il rapporto con le differenze, oscillando fra attrazione e ripugnanza senza trovare punti di equilibrio. Particolarmente vero dalle parti dell’amore e del sesso.
C’è naturalmente chi la vede semplice; tanto per fare un esempio: l’uomo domina, la donna ubbidisce e via così. Cosa c’è da indagare?
Pregherei chi sta leggendo di dedicare un attimo di attenzione al disegno noto come “la moglie e la suocera di W. E. Hill”.
Cosa vedete? Se non lo conoscete, faticherete a mettere a fuoco contemporaneamente la vecchia e la giovane. Eppure le due figure ci sono e non bisogna girare il foglio o ricorrere a qualche trucco: se non riuscite a trovarle… fatevi aiutare. Una volta individuate entrambe vedrete che le ritroverete sempre.
Così dalle parti di amore-sesso. C’è chi vede (si ostina?) un solo modo, un’immutabile realtà e chi – guardando meglio – scopre complessità, ne prende atto.
Una battuta, vecchia forse come il mondo, proclama “una piccola differenza, viva la differenza”. Ma uno sguardo sul mondo e sulla storia invece dice che questa diversità inquieta al punto che nel pensiero religioso, filosofico, politico – come in quello “da bar” – uno dei due sessi (sapete bene quale) viene considerato inferiore e/o pericoloso.
E poi davvero sono solamente due, maschile e femminile, le caratterizzazioni? Non stiamo facendo confusione fra genere e sessualità? E le caratteristiche fisiche, mentali, psicologiche di M e F dipendono (come i ruoli) dalla genetica o anche dalla determinazione storica?
Oppure: quanto dall’una e quanto dall’altra?
Per capire le incomprensioni ma ancor più le falsificazioni intorno alla sessualità, bisognerebbe ripartire da Il secondo sesso (del 1949) e da altri scritti di Simone de Beauvoir ma anche dalla convinzione di Carl Gustav Jung che i maschi cercano dentro se stessi un archetipo femminile (in certo senso il mito platonico del centauro spezzato in due da un fulmine) appunto l’altro da sé.
In questo orizzonte bi-sessuali, transessuali o asessuati sono anomalie, mostruosità o solamente opzioni rare? Quanto al numeroso “gay people” insomma all’omosessualità… amare persone dello stesso sesso è – ancora lo proclamano i più accreditati esponenti delle tre maggiori religioni monoteiste – una offesa a dio (o come volete chiamarlo) e/o alla natura? O chi lo dice è solo uno spaventato, ignorante razzista?
Differenze sessuali: in definitiva chi invidia chi? E chi ha paura di chi? Dobbiamo accettare o rifiutare che in differenti periodi storici e/o sociali, sotto altre latitudini o magari solo per libera scelta vi siano modi assai variegati per esprimere amore e per cercare una felicità sessuale? O è roba da alieni?
Domande difficili. La fantascienza forse ci può aiutare. Mettendo a fuoco – come in un certo senso prevede il suo “statuto” – la ricerca di un punto di vista insolito o il semplice “e se invece accadesse?”. Proviamo a vedere se ci è riuscita, almeno un poco.

Siddo, il Veneto, il marito di Gil
L’esordiente Philip Josè Farmer nel 1951 suscitò reazioni scandalizzate e boicottaggi ma contrapposte grida di giubilo. Accadde con il racconto The lovers, in seguito allungato a romanzo e noto in Italia come Un amore a Siddo. Lo struggente rapporto, anche erotico, fra un umano (bianco e anglosassone) e un’aliena veramente diversa, per di più immaginato in uno scenario controllato da rigide strutture para-religiose, non poteva che scatenare – nel mondo detto reale – le ire di razzisti e bigotti, amplificate dalla vittoria di Farmer come “autore dell’anno” nel premio Hugo, il riconoscimento più importante della fantascienza. Altro che sesso inter-razziale, qui siamo all’accoppiamento fra specie biologicamente molto diverse. Signora mia dove andremo a finire? Non sembri una battuta: posso testimoniare per conoscenza diretta che pochi anni fa in un paesino del Veneto un padre picchiò la figlia (maggiorenne oltretutto) perché usciva con “il figlio della zoppa”; a gettare benzina sul “rogo”… il fatto che buona parte dei vicini si schierasse con il padre della ragazza. Signora mia, si comincia a uscire con il figlio della zoppa e si finisce con gli et.
Negli anni Cinquanta esordisce anche Dick, un autore importante e assai contraddittorio, con punte di forte misoginia altalenate a un’insolita sensibilità che forse potremmo definire femminile.
Uno dei suoi racconti più delicati è senza dubbio Umano è del 1955 e vale la pena ricordarlo perché ci parla di amore con alieni ma soprattutto ci ricorda che il concetto di umanità non è definito una volta per sempre.
Lester Merrick è un umano quanto meno odioso, indisponente e violento nei rapporti con la moglie, la mite Gil. Al ritorno da un viaggio spaziale, Gil scopre che il marito è profondamente mutato: attento, disponibile, tenero. Non ha quasi il tempo di essere felice che piombano da lei due agenti dell’onnipotente Sicurezza federale: sono certi che Merrick sia stato “invaso” da un parassita di quel lontano pianeta; sapremo più tardi che si tratta di una razza antichissima e in via di estinzione ma anche che “l’impossessamento” è avvenuto solo perché Lester era già morente. I super-sbirri chiedono alla donna di aiutarli a neutralizzare “il mostro”. La donna esita ma alla fine tradisce i suoi “simili”. Preferisce l’alieno, infinitamente migliore dell’arrogante, crudele maschio terrestre che prima aveva occupato quel corpo ora capace di dolcezza. E fugge con lui. Il racconto termina con questo dialogo.
“Stavo pensando – disse la donna all’essere non terrestre – che forse continuerò a chiamarti Lester, se non ti dispiace”.
E l’alieno risponde: “Tutto quello che vuoi purché possa farti felice”.
In una antologia, Dick lo ha commentato così: “Per me questa storia simboleggia ciò che un essere umano è. Non si tratta di avere un certo aspetto o di provenire da un certo pianeta ma di vedere sino a che punto si è gentili. La gentilezza ci differenzia dai sassi, dai pezzi di legno, dal metallo e così sarà sempre, qualsiasi forma assumiamo, dovunque andiamo, qualunque cosa diventiamo. Umano è è il mio credo e mi auguro che possa essere il vostro”.
Questo concetto era così importante per Dick che lo ha ripetuto spesso; a esempio nel romanzo I nostri amici di Frolix 8. Ascoltate: “La misura dell’uomo non è la sua intelligenza. Non consiste nell’altezza che può raggiungere in un sistema sbagliato. La misura dell’uomo è questa: con quale rapidità sa reagire ai bisogni di un’altra persona? E quanto può dare di sé?”.
Gentilezza, amore, empatia: passa da queste parti la strada giusta per uscire dalla terribile triade di violenza, potere, paura. E se non parliamo anche di questo allora ogni discorso sulla sessualità rimanda solo a una ginnastica vagamente solipsista. O almeno chi scrive la pensa così.

L’incerta definizione di umanità
Eppure definire un essere umano non è semplice. Lo stesso Dick in altre sue storie offre tutt’altri parametri. Per esempio nel racconto Le pre-persone la definizione legislativa di umanità è stringente: solo chi è in grado di risolvere un’equazione di secondo grado è un umano “completo”. A una certa età se qualcuna/o non supera quest’esame può (in quanto umano non completo) essere eliminato; o meglio “abortito” nella provocazione di Philip Dick.
Chiederei al riguardo un attimo di riflessione a chi sta leggendo, soprattutto se non ha mai amato le equazioni.
Questa rigidissima definizione non vi sembri assurda. I nazisti hanno legiferato, in nome della scienza, contro le “razze inferiori”. Tanto per fare un solo esempio che ci chiama in causa, un recente governo italiano ha chiesto ai medici – che in massa si sono rifiutati, per fortuna – di non riconoscere il diritto universale alle cure mediche per quelle persone che una apposita definizione di “non umanità” (la clandestinità è il suo ridicolo nome) aveva escluso dai diritti fondamentali.

Sturgeon
Torniamo all’alieno sessuale. In questo segmento l’uragano si chiama Sturgeon. E occorre dedicargli un ampio spazio perché anche oggi – dopo 60/70 anni – le sue opere dividono, inquietano, suscitano resistenze, aprono orizzonti.
Edward Hamilton Waldo, più noto come Theodore Sturgeon, a suo tempo venne presentato dagli editori italiani come “portatore di scandalo” quando andava bene o più spesso come “sgradevole, che fa nascere la sua poesia in mezzo ai rifiuti”. Ciò è lontano dalla verità: Sturgeon non vuole scandalizzare; con il suo inimitabile stile esplora alcuni mondi possibili di altre sessualità e affettività dove talora incontra storie che ad alcuni possono risultare sgradevoli o impossibili a capire. Se per “svegliare il mondo sull’orlo del possibile” Sturgeon ha dovuto pagare un alto prezzo di censure, insulti, mancate pubblicazioni, ghettizzazione ciò conferma solo la forza, la persistenza di intolleranze e pregiudizi che ha cercato di smontare.
Di sicuro il racconto che costò a Sturgeon il massimo di insulti e minacce fu Un mondo ben perduto del 1953. Dallo spazio arrivano fra noi “due bipedi implumi, abbastanza simili a noi”. Vengono da Dirbanu, pianeta lontano e rinchiuso in uno splendido isolamento. Della coppia di forestieri ben poco si sa ma sono disarmati, non rappresentano una minaccia. I due sono inseparabili e questo grande amore commuove i terrestri, anche quelli che di solito hanno “il cuore di pietra”. Poi arriva da Dirbanu un laconico messaggio: sono criminali, restituiteceli subito.
Ovviamente la “ragion di Stato” – cioè i buoni rapporti con un vicino che si sa essere potente – prevale e, seppure a malincuore, la Terra decide di rimpatriarli. A riportare “gli inseparabili” sul loro lontano pianeta è l’astronave Stramite-439 con i due piloti spaziali Rootes e Grunty. Nella tensione del lungo viaggio, Grunty scopre un sistema per comunicare con i due alieni: ora sa chi sono e in cosa consista il loro “crimine”. E decide di farli fuggire, all’insaputa di Rootes che, quando lo scopre, esige un chiarimento. A fatica Grunty gli fa capire qual è il problema: i due “inseparabili” sono dello stesso sesso. “Vuoi dire che abbiamo viaggiato per tutto questo tempo con una maledetta coppia di invertiti? Oh, se l’avessi saputo li avrei ammazzati” urla Rootes.
Ma Sturgeon ha in serbo una sorpresa che dà un’ulteriore chiave di lettura a un racconto già eccellente. Dopo il litigio, Rootes si è addormentato. Grunty lo guarda “con grande tenerezza e assoluta attenzione, come una madre farebbe con il suo bambino”. Poi, senza svegliarlo, tende la sua mano gigantesca e “con un tocco di piuma accarezza le labbra addormentate”.
L’incontro con gli stranieri di Dirbanu serve a Sturgeon per ricordarci che gli alieni sono già fra noi anche se molti fingono di non saperlo. Dove nasce questa paura? Lui risponde così: “L’homo sapiens crede, nella parte più buia del suo cuore, che tutto ciò che è diverso è pericoloso per definizione e che per questo deve essere sterminato”,  si legge in Venere più X (del 1960) uno dei pochi romanzi di Sturgeon. In questo caso gli alieni “sessuali” sono già fra noi e si nascondono, sono un sentiero parallelo dell’evoluzione oppure – il romanzo lascia un margine di dubbio – sono il nostro futuro?
Vale accennare la trama. Charlie Johns, un uomo qualsiasi, si trova scaraventato nella civiltà dei Ledom. Umani. Eppure incomprensibili: religione, bambini, valori, scienza… tutto è diverso da quel che Charlie conosce. Gli indecifrabili Ledom possono servirgli per una riflessione critica sul suo mondo. A impaurire Charlie è scoprire che i Ledom sono ermafroditi eppure prova egualmente a rivolgersi le domande proibite, a capire dove è nato l’orrore del diverso: “Quando gli uomini hanno cominciato a dichiarare impuri i flussi mensili e a praticare il rito noto come la vecchia purificazione post-parto? E chi ha iniziato a dire che le differenze fra uomo e donna erano maggiori delle somiglianze?”.
Una prima provvisoria risposta è: “Perché, dicono, l’uomo è superiore […] e non sei buono a far niente, allora l’unico modo per dimostrare che tu sei superiore è rendere inferiore qualcun altro”.
Ma i Ledom non gli hanno ancora detto tutto (né qui l’intera trama sarà rivelata: prendetelo come un invito a rintracciare il libro in qualche buona biblioteca) al punto che Charlie sconvolto dirà: “Oh, la distanza e la fusione tra la deità e una sconcia barzelletta”. Il mondo dei Ledom non è una felice utopia chiusa e rassicurante. Come dicono essi stessi: “Di tanto in tanto dobbiamo incontrarci con l’homo sapiens per vedere se è pronto a vivere, ad amare, ad adorare senza la gruccia di una bi-sessualità imposta […] Noi non siamo una utopia. Un’utopia è qualcosa di finito, di completo; noi siamo transienti: custodi […] o un ponte. Transienza è passaggio, è dinamismo, è movimento, è evoluzione, è mutamento, è vita”.
Le inquietudini “sessuali” – qui solo accennate – narrate da Sturgeon rappresentano un punto di vista insolito nella fantascienza maschile. Ma c’è anche (ed esplode in sincronia con il femminismo degli anni ’70) una science fiction femminile. Per quel che qui ci interessa, vedremo solo Naomi Mitchison, Alice Sheldon e Ursula K. Le Guin.

Naomi, Alice, Ursula e le altre
Le donne hanno maggiore predisposizione a capire le psicologie aliene? È uno dei quesiti che serpeggia nel romanzo Diario di una astronauta scritto nel 1962 dalla scozzese Naomi Mitchison, attivista politica per i diritti umani e occasionalmente (ma con eccellenti risultati) scrittrice. Qui gli alieni non sono creature artificiali ma animali che divengono alieni per come sono osservati; Mary – la protagonista – è una esperta in “eso-comunicazioni”. Mitchison spalanca un impressionante numero di porte (impossibile qui dettagliare) sulla fallibilità della scienza, sulle complicazioni della “civiltà” ma soprattutto sul meticciato, su maternità e maternage, sul sesso (varie razze aliene non posseggono generi sessuali) in definitiva sulla “alienità” dell’essere donne. Come notava Nicoletta Vallorani nella prefazione alla ristampa del romanzo c’è una “oscillazione costante di Mary dal suo ruolo privato di madre a quello pubblico di esperta in linguaggi alieni”.
Le donne invisibili di Alice Sheldon merita un sia pur breve riassunto.
Un gruppo di scienziati terrestri, uomini e donne, è al lavoro in un luogo sperduto quando incontra alieni tanto superiori quanto sprezzanti. Ed è dunque con stupore che i terrestri ricevono l’offerta di accompagnare questi misteriosi et nel loro viaggio fra le galassie. Non è chiaro se gli alieni vogliono compagni di viaggio in stile barboncini, allievi da educare o cosa. Si discute. Il sospetto e il fastidio (per l’arroganza sino ad allora dimostrata) sono tali che tutti declinano l’invito. Ma “tutti” appunto, cioè i maschi perché invece le donne accettano. E spiegano agli stupefatti colleghi una verità nascosta (o rimossa, fate voi): per male che vada, le donne non potranno essere trattate dagli alieni “peggio” di come già accade sulla Terra.
Come sa chi ha frequentato la fantascienza lo scandalo di Alice Sheldon è doppio: perché questo racconto (e molti altri simili per provocazione) erano firmati James Tiptre junior e solo all’ennesimo premio il celebre autore si rivelò… un’aliena dello “spazio interno”.
Chi ama questa serie ricorderà uno dei più riusciti episodi di Star Trek – The next generation. L’equipaggio dell’Enterprise D entra in contatto diplomatico con un pianeta alieno dove i suoi abitanti sono obbligati alla più completa asessualità e ogni sbilanciamento verso l’uno o l’altro sesso, viene punito con la rieducazione coatta ma uno di loro, dopo aver conosciuto il primo ufficiale Ryker, sente il bisogno di cambiare e sceglie di diventare donna. L’amore fra i due dura il tempo di un battito di ciglia, poiché l’aliena è prelevata e portata al centro di rieducazione. Ryker ha le mani legate: non può violare i precetti della Prima Direttiva, che impone la non interferenza con altri popoli.
Ed eccoci a Ursula K. Le Guin (nata Kroeber, sposata con il francese Le Guin) che è oggi un’arzilla vecchietta: ha abbandonato quasi del tutto i territori della fantascienza in senso stretto ma continua a muoversi, con gran bravura, dalle parti della letteratura fantastica.
Quando nel 1970 vinse i premi Hugo e Nebula con La mano sinistra delle tenebre la Le Guin non ebbe che plausi, nonostante il tema fosse considerato scabroso. Per la prima volta una donna otteneva quei riconoscimenti, i più importanti della fantascienza e per di più mettendo “sottosopra” i tabù sessuali; ma i tempi erano cambiati anche nella science fiction.
Il narratore, Genly Ai, viene ufficialmente inviato sul pianeta Inverno che attraversa una perenne era glaciale. È il primo vero contatto con una razza aliena potente ma sino ad allora chiusa in un indecifrabile isolamento. Gli abitanti di Inverno, i getheniani, sono asessuati con un periodo mensile di fertilità (il kemmer) durante il quale ognuna/o si trova un partner e, a causa delle secrezioni ormonali, può diventare maschio o femmina alternativamente. Non v’è traccia di rigidi dualismi e incancrenite differenziazioni come sulla Terra. Ecco come un rapporto racconta – a un “uditorio” eterosessuale – le implicazioni socioculturali di questa sorprendente fisiologia.
“Tenere presente: chiunque può dedicarsi a qualunque cosa. Sembra molto semplice, ma i suoi effetti psicologici sono incalcolabili. Il fatto che chiunque fra i diciassette e i trentacinque anni circa sia soggetto a diventare (come dice Nim) ‘vincolato alla gravidanza’ implica che qui nessuno è ‘vincolato’ come, in qualunque altro posto, lo sono le donne – psicologicamente o fisicamente. Responsabilità e privilegi vengono condivisi equamente: ognuno ha in egual misura rischi da correre o scelte da fare. Perciò qui nessuno è tanto libero quanto lo è un maschio libero in qualunque altro posto.
Tenere presente: l’umanità non è divisa in una metà forte e in una metà debole, in protettori e protetti, in dominatori e sottoposti, in proprietari e nullatenenti, in attivi e passivi. Infatti la tendenza al dualismo, che pervade il modo di pensare degli esseri umani, è qui mitigata o mutata.
Quanto segue deve essere riportato nelle mie “Istruzioni”: allorché si incontra un getheniano, non si può e non si deve fare ciò che fa di solito un individuo etero-sessuale, cioè costringerlo nel ruolo di Uomo o di Donna, adottando perciò verso di lui un atteggiamento che si basi su quelle che si prevede siano le interazioni prestabilite o possibili fra persone dello stesso sesso o del sesso opposto.
Un individuo qui viene rispettato e giudicato soltanto come essere umano. È una esperienza fantastica”.
L’incomprensione è reciproca. L’inviato “eterosessuale” non riesce a capire ma dall’altra parte incontra un’analoga chiusura.
Nessuno dei due mondi è superiore all’altro, una verità con la V maiuscola appare introvabile. Del resto persino l’utopia è ambigua come suggerisce la stessa Le Guin nel sottotitolo di I reietti dell’altro pianeta, l’altro suo romanzo più famoso. E la migliore science fiction sembra in sintonia con questo suggerimento di Eduardo Galeano che, si sa, non è scrittore di fantascienza.
“L’utopia è come l’orizzonte. Cammino due passi e lei si allontana due passi, cammino dieci passi e si allontana dieci passi. Per quanto io cammini, l’orizzonte è irraggiungibile. E allora a cosa serve l’utopia? A questo serve: per continuare a camminare”.
L’utopia evidentemente non è l’argomento di questo saggio. Invece per ulteriori approfondimenti su questo segmento dell’alienità rimando al capitolo “Sesso, amore e X” nel libro Di futuri ce n’è tanti che ho scritto, nel 1986, con Riccardo Mancini e anche alla home page di Giovanni Dell’Orto con uno specifico approfondimento sulla fantascienza con personaggi GLBT dove la sigla sta a indicare persone Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender.

La fantascienza: cos’è, perché
Secondo Bradbury “la fantascienza migliore è quella scritta da chi, vedendo cose o fatti che gli riescono sgraditi nella nostra società, ha la capacità di demolirli, seduta stante… fantascienza è libertà”.
Per Sturgeon “lo scopo della fantascienza è svegliare il mondo sull’orlo dell’impossibile e quindi, nel bel mezzo della storia, studiare e cercare di scoprire qualcosa di nuovo, con la passione dello scienziato che esamina il suo esperimento o di un amante che guarda la donna amata”.

3. L’alienità “razziale” e le sue metafore

Perché razziale, qui sopra, è indicato fra virgolette? Perché se ci riferiamo ai terrestri il termine è insensato visto che le razze non esistono. Ma come il venerdì 17 (o 13 nei Paesi anglosassoni) porta “sfortuna” a chi ci crede, così la diffusa convinzione che sulla Terra esistano differenti razze causa guai. Non esiste insomma – come spesso si ripete – l’odio o il pregiudizio razziale ma l’odio razzista cioè un’ideologia, una bugia che immagina alcune razze migliori (più “umane”) di altre.
Ciò chiarito torniamo alla fantascienza.
Il periodo d’oro (almeno dal punto di vista della diffusione popolare) della science fiction coincide in gran parte con il periodo storico nel quale negli Usa erano negati agli afro-americani i diritti umani, dunque sino alla metà degli anni ’60 nel secolo scorso. Non c’è dunque da stupirsi che alcuni scrittori e scrittrici abbiano usato la metafora di “razze extraterrestri” per parlare – più o meno apertamente – dei pregiudizi e della segregazione allora dominante negli Stati Uniti (e, più a lungo, nel Sudafrica dell’apartheid).
Qualche esempio fra i tanti.
Nel romanzo breve Benedizione oscura (del 1951) di Walter Miller jr. un morbo spaziale contamina gran parte dell’umanità. È un’affezione benigna, anzi accresce i poteri sensoriali delle persone colpite. Ma… rende nero il colore della pelle e questo effetto collaterale scatena la violenza degli immuni che vedono concretizzarsi il loro peggiore incubo: i “neri” sono migliori di loro e dunque, a maggior ragione, vanno sterminati.
Su quanto l’arrivo dei marziani (o altri et) potrebbe influenzare il “comune sentire” dei terrestri verso gli alieni “casalinghi”, ci sono molte storie interessanti.
Ad esempio questa:
“Sai la novità?”.
“Quale?”.
“I negri… i negri”.
“E allora?”.
“Se ne vanno. Lasciano i loro paesi, le loro case, tutti insieme in massa”.
[…]
“E dove vogliono andare? In Africa?”.
“Su Marte”.
Ray Bradbury ambienta nel “profondo sud” degli Usa un racconto (del 1954) che fa parte delle sue celebri Cronache marziane. Quando la colonizzazione terrestre di Marte è consolidata, tutti i “negri” si organizzano segretamente per andarsene e si avviano in un’immensa fiumana verso le astronavi comperate coi loro risparmi. E qualcuno, lì intorno, commenta così: “Non capisco perché siano partiti proprio adesso. Ora che le cose si stavano aggiustando. Ogni giorno si faceva loro una nuova concessione, voglio dire. Insomma che volevano di più? Gli abbiamo appena tolto la tassa sul voto e parecchi Stati hanno votato leggi contro il linciaggio e hanno accordato loro parità di diritti. Che cosa vogliono di più? Guadagnano quasi come noi bianchi e se ne vanno…”.
Sembra di sentire il Campbell citato sopra.
Qualche anno dopo – nel 1963 – nella finzione narrativa capita il contrario di quanto immaginato da Bradbury. Nel racconto Gli emigranti dal volto azzurro di Henry Slesar pochi e pacifici extraterrestri (identici a noi ma con l’epidermide tendente al celeste) chiedono di essere accolti: il loro pianeta sta morendo e non sanno dove andare. Ufficialmente le accoglienze sono buone ma… cominciano gli omicidi. Alla fine le organizzazioni terroristiche costringono gli Azzurri a un nuovo, difficile esodo. Chi racconta questa storia è un loro discendente: sono passati ormai millenni e le guerre interne hanno distrutto la Terra. “Ho appreso – dice il narratore – che quel mondo meritava di morire”.
Nel 1964 tocca a una scrittrice, Leigh Brackett, tornare sulla metafora del colore con il racconto I negri verdi (era migliore il titolo originale: All the Colour of Rainbow): la guerra spaziale nascerà dalle discriminazioni alle quali i razzisti del Sud degli Usa sottopongono una coppia di turisti extraterrestri, giunti sulla Terra in crociera da un pianeta alleato, e colpevoli solamente di avere la pelle verdina.

Reincontrando i fratelli perduti
“Quante Terre esistono?”.
“Credevo ne esistesse una sola”.
“E una volta credevano che fosse piatta”.
Siamo all’interno di un dialogo, tipicamente alla Philip Dick, verso la metà di un bellissimo romanzo, del 1966, che in italiano è apparso sia con il titolo Vedere un altro orizzonte che come Svegliatevi dormienti. Ci sono gli ibernati cioè i disoccupati che si sono fatti congelare per attendere che passi la crisi economica; c’è il primo afroamericano alla presidenza Usa; e c’è – per quel che qui c’interessa – la scoperta di Terre parallele. È un cliché della science fiction ma anche (dal 1957) un’ipotesi scientifica: potrebbero esistere altre Terre (o universi) nascosti e/o nelle quali vigono leggi fisiche differenti dalle nostre oppure dove tutto è come sulla “Terra numero 1” però non esiste la specie umana. O ancora Terre dove, a un certo momento, la Storia si biforca, prende un altro sentiero perché la Germania ha vinto la seconda guerra mondiale (nel romanzo dickiano noto come L’uomo nell’alto castello o come La svastica sul sole) o perché i cattolici hanno sconfitto i protestanti in tutt’Europa (in Pavana di Keith Roberts).
Ciò chiarito torniamo a Vedere un altro orizzonte: nella porta che d’improvviso si apre su un’altra Terra l’evoluzione ha preso uno sviluppo ben diverso: qui i Sinantropi “sono diventati la specie dominante” e “l’Homo sapiens non è apparso o per qualche motivo non ha vinto la lotta per la sopravvivenza”. Noi eredi dei Cro-magnon e questi altri, più vicini ai pitecantropi, riusciremo a comunicare? Ovviamente per molti gli inquilini di questa (imprevista) porta accanto sono solo scimmie. E uno dei protagonisti del romanzo pensa: “Ora sì che il Ku Klux Klan ha veramente un lavoro fatto su misura”. Alieni che vengono dal nostro stesso ceppo.
Questo tema dei nostri “fratelli perduti” (così simili eppure così alieni) in una delle svolte dell’evoluzione torna in una trilogia di Robert Sawyer, uno dei più interessanti scrittori di oggi. In italiano è stata pubblicata con i titoli (meno belli di quelli originali, più asciutti) La genesi della specie, Fuga dal pianeta degli umani per chiudere con Origine dell’ibrido. Tre lunghi, avventurosi romanzi con delitti sulla Terra e in qualche Altrove; infatti sono ambientati in due universi paralleli, che imprevedibilmente entrano in contatto e si confrontano lungo diversi assi evolutivi…. dato che in uno hanno vinto i “barast” (ovvero la specie Homo Neanderthalensis) mentre nell’altro abbiamo prevalso noi “gliksin” o come presuntuosamente ci definiamo la specie – la razza? – “Homo Sapiens”. Appare evidente che il canadese Sawyer oltre ad avere parecchie critiche da fare al suo vicino di casa (lo zio Sam ovviamente) è dubbioso che l’evoluzione su questa Terra sia andata nel modo migliore possibile. Eppure anche i cugini neanderthaliani – come ce li racconta – non sono “perfetti”. Così al termine della trilogia si è aperto un dibattito (su Internet e/o fra gli appassionati di fantascienza): potendo scegliere cosa terremmo del mondo gliksin e cosa invece dovremmo imitare dai barast?
È forse il caso di rammentare che il Neanderthaliano, vissuto circa 30.000 anni fa, appartiene a una razza parallela, non identica all’Homo Sapiens. Molto simile all’uomo attuale, con una mandibola pronunciata e volume celebrale superiore a quello del Sapiens Sapiens. Gli studi ipotizzano una ibridazione fra le due specie (Neanderthal e Sapiens) avvenuta circa 50.000 anni fa.
Il tema dei Neanderthal e/o di scimmie evolute si è intrecciato spesso con la science fiction. Dall’ingenuo romanzo Gorilla Sapiens (del 1944) di L. Sprague de Camp e Peter Schuyler Miller sino alla celebre serie de Il pianeta delle scimmie, all’origine (nel 1963) un romanzo di Pierre Broulle e poi una serie di film e telefilm, apertamente – seppure superficialmente – antirazzisti e simpatizzanti verso i “fratelli scimmioni”. 

Cornelius e Taylor
Un accenno al film, fra i più amari e tormentati di una certa produzione fantastica impegnata. Dopo un esperimento di viaggio a velocità iperluce, durante il quale l’equipaggio è ibernato, l’astronave atterra nel laghetto di un pianeta presunto alieno per scoprire che le scimmie si sono evolute e tengono gli uomini in stato di semi animalità, perfino incapaci di parlare. Il potere scimmiesco presenta alcune caratteristiche del peggior medioevo oscurantista: i sommi sacerdoti detengono i segreti della zona proibita, dove sarebbe nata la loro stirpe che avrebbe schiavizzato gli uomini. Cornelius, un “peloso” scienziato dissidente, porta il suo collega umano Taylor (un Charlton Heston in gran forma) nella zona, dove rinvengono manufatti umani. Dopo uno scontro con le scimmie ortodosse e la fuga di Taylor, la necropoli della zona proibita viene fatta saltare, per cancellare ogni traccia. Finale choccante: Taylor si imbatte nella parte superiore della Statua della Libertà, semisommersa dal mare. Gli uomini hanno distrutto la Terra in un conflitto atomico e le scimmie cercano – con qualche ragione? – che quella “civiltà” venga dimenticata.
Sono simili a scimpanzé e gorilla è la sprezzante accusa che si legge tuttora – in purtroppo tanti libri e siti razzisti – verso i “negri” o altri non bianchicci. In un certo senso l’affermazione è scientificamente fondata visto che noi (neri, gialli ma anche bianchi) abbiamo in comune con gli altri primati, insomma con le “scimmie” il 98 per cento del patrimonio genetico. Anzi, se vogliamo pignoleggiare, le percentuali sono state riviste al rialzo. Un articolo del 2005 sulla rivista “Nature”  http://www.nature.com/nature/journal/v437/n7055/full/nature04072.html – parla di somiglianza al 99% (98,8): dunque la specie Homo Sapiens Sapiens nel Dna differisce dai Pan Troglodytes (gli scimpanzé) dell’1,2%.
Ma solo i razzisti usano le somiglianze fra gli umani e i nostri cugini più pelosi per offendere. Affermazioni del genere oggi si leggono difficilmente in libri di science fiction. Pur se esistono – è triste ma doveroso ricordarlo – anche fantascienza e fantasy con evidenti simpatie naziste che girano in circuiti semiclandestini. Tanto per fare un nome di casa nostra, Gianluca Casseri, cioè il killer dei due senegalesi (a Firenze nel dicembre 2011) che era attivo in Casa Pound, aveva pubblicato La chiave del caos, vagamente fantascientifico, con la prefazione del ben più noto, Gianfranco De Turris, fascista anche lui ma “in guanti bianchi”.

Sawyer e c.
Morti Asimov, Bradbury e Clarke, che qualcuno definì a ragione “l’Abc della fantascienza” c’è chi sostiene che la fantascienza sia morta o comunque confluita in un calderone dove si miscelano tutti i generi. Se la seconda tesi non è priva di riscontri, la prima è del tutto destituita di fondamento perché ci sono in giro un mucchio di scrittori-scrittrici che continuano quell’utile “alfabeto”: dalla R di Robert Reed alla S di Lucius Shepard o del citato Robert Sawyer, dalla K di Nancy Kress per risalire alla C di Ted Chiang o alla M (Ken MacLeod, ad esempio) e per fare un paio di nomi italiani dalla E di Valerio Evangelisti alla F della giovane Clelia Farris.

2. Un rompicapo

Gli alieni potrebbero anche essere un rompicapo biologico, cioè forme di vita e di intelligenza del tutto differenti da come noi le abbiamo sinora concepite. Esiste persino un’apposita disciplina – la xenologia – che studia queste “complicazioni” e ipotizza il modo migliore per comunicare con creature in tutto diverse da noi.
La complicazione risulta evidente sapendo che il termine xenologia è variamente usato: a proposito di extraterrestri ma anche di migranti e persino di parassiti; una triade curiosa vero?
In ogni modo gli extraterrestri potrebbero essere a tal punto differenti da noi che non riusciremmo neppure ad accorgerci della loro esistenza. Un certo numero di sognatori (ma anche qualche scienziato) ipotizza che anche sulla Terra esistono alieni che noi non percepiamo come tali: alcune “scimmie” forse ma soprattutto i delfini – che pare abbiano un linguaggio molto strutturato – con i quali però non vi è stato mai un serio tentativo di comunicare (se non per usi militari; in sostanza per convincerli a “giocare” portando inconsapevolmente ordigni esplosivi nelle acque dei “nemici”).
Chi comunque volesse approfondire nella fantascienza l’intrigante tema di questi organismi viventi del tutto incomprensibili (e che magari abbracciano un intero pianeta) potrebbe utilmente partire da La nuvola nera di Fred Hoyle (un altro scienziato/scrittore) del 1957, dai romanzi di Stanislaw Lem – in particolare Solaris e L’invincibile – ma anche da Hal Clement (uno “specialista” di questo sotto-genere), dall’immaginario pianeta Covenant di Greg Egan oppure da Nemesis (del 1990) di Asimov.
Fra i libri più appassionanti sull’alienità totale c’è Ultima genesi (Dawn il titolo originale) di Octavia Butler, per inciso una delle rare afroamericane che abbia avuto spazio nella fantascienza. In Italia il libro, pubblicato nel 1987, praticamente passò inosservato. Peccato.

Xenogenesi?
Il tema del romanzo è la xenogenesi cioè la nascita di una nuova razza derivante dalla fusione dei terrestri con gli alieni che li hanno strappati – ormai pochi e moribondi – all’“inverno nucleare” dopo l’ultima, demenziale guerra fratricida. Protagonista è una donna, Lilith Iyapo, che un tempo – quando cioè esisteva la Terra – era una statunitense “di colore”. Lilith viene “svegliata” per l’ennesima volta (sono passati 250 anni ma lei al momento lo ignora) da invisibili, ma soprattutto incomprensibili, carcerieri. Quando decide di collaborare gli alieni si mostrano: vagamente umanoidi ma coperti ovunque di “peli” che, a distanza ravvicinata, si rivelano “organi sensori”… ma sembrano “tentacoli” e Lilith rabbrividisce.
Gli alieni Oankali spiegano a Lilith di essere affascinati dai terrestri ma turbati da “due caratteristiche incompatibili” della nostra razza: la prima è “l’intelligenza, la caratteristica più recente, quella che avrebbe potuto usare per salvarvi dalla guerra atomica”; mentre la seconda peculiarità è “una struttura gerarchica”, primitiva e pericolosa.
Per capire come si colloca Ultima genesi in questo quadro dovrò purtroppo (e me ne scuso) svelare alcuni colpi di scena. Gli Oankali non sono astratti studiosi, tantomeno benefattori: ciò che chiedono ai terrestri sopravvissuti è di prestarsi a uno scambio genetico, in sostanza un incrocio razziale. Gli umani ne ricaveranno indubbi vantaggi (non più tumori a esempio) ma le loro caratteristiche di specie spariranno nel tempo. Per Lilith – un nome simbolico che rimanda al mito della donna che precedette Eva – gli Oankali sono, di volta in volta, ammirevoli, incomprensibili, rigidi e poi flessibili, impauriti, straordinari per intuito e capaci anche di imparare da lei e dal suo bisogno di conservare la dignità.
È giusto “spartire il sesso” come viene chiesto a Lilith (anzi le viene “dolcemente” imposto) con questi alieni sensibili quasi fino alla telepatia?
Alla fine tutti, in qualche modo, sbaglieranno e Ultima genesi si conclude con un nuovo splendido inizio… che rimanda a due seguiti: lo sconvolgente Ritorno alla terra (che pure è stato pubblicato da Urania) e Imago, purtroppo mai tradotto in italiano.
Lasciando (a malincuore) la xenogenesi della Butler, torniamo al “rompicapo biologico” solo per rapidamente ricordare che uno scrittore irlandese, James White, ha costruito un’intera serie di romanzi e racconti sulle biologie aliene, ambientandole in una “Stazione ospedale” (nell’originale “Settore generale”) nello spazio: il taglio è dialogante e pacifista. White è ottimista: non nasconde i problemi ma insomma… ce la faremo.
Eppure ci possono essere minime differenze fisiche che risultano intollerabili a noi umani: le ali a esempio non dovrebbero impensierirci ma le corna e la coda sì (rimando soprattutto a Le guide del tramonto, scritto nel 1953 da Arthur C. Clarke). Altra gran bella – o brutta? – diversità potrebbe essere la telepatia: che sia un’evoluzione degli umani o la caratteristica di una razza aliena. Ma qui non c’è spazio per vedere come la fantascienza ha affrontato l’inquietante telepatia e, più in generale, il “rompicapo” biologico (o linguistico): il tema pur interessantissimo, ruberebbe spazio e ci porterebbe lontano da quelle altre “alienità” che sono vicine al nostro modo di vivere e che qui esamineremo soprattutto sotto tre specifici punti di vista.
Ma prima… 

Ursula suggerisce
Dimessi i panni della famosa romanziera, Ursula K. Le Guin ha indossato quelli della saggista per ragionare di science fiction. Alcuni suoi scritti sono stati tradotti in italiano sotto il titolo Il linguaggio della notte. C’è un passaggio (“La fantascienza americana e l’Altro”) che ci interessa particolarmente.
Parlando di socialismo e femminismo e “dell’infima condizione delle donne nella fantascienza” (almeno sino agli anni ’60 del secolo scorso) Le Guin scrive: “Il problema qui sollevato è il problema dell’Altro, dell’essere che è diverso da te stesso. Tale essere può differire da te nel sesso; o nel suo reddito annuale; o nel modo di parlare, di vestire o di agire; o nel colore della pelle; o nella quantità di gambe o di teste che ha. In altre parole esiste l’Alieno sessuale, l’Alieno sociale, l’Alieno culturale e infine l’Alieno razziale”.
Poco più avanti Le Guin aggiunge: “Se uno nega qualsiasi affinità con un’altra persona o genere di persona, se afferma che è completamente diversa da se stesso, come gli uomini hanno fatto con le donne, e le classi hanno fatto con le classi, e le nazioni hanno fatto con le nazioni, può odiare l’altra persona o deificarla; ma in ogni caso ha negato la sua eguaglianza spirituale e la sua realtà umana. L’ha trasformata in un oggetto con il quale un solo rapporto è possibile: un rapporto di potere. E così ha fatalmente impoverito la sua stessa realtà. Ha in effetti alienato se stesso”.
Ed è questo schema, un po’ ampliato, che ci servirà per andare avanti nell’esame della fantascienza alle prese con vari tipi di alieno.

1. Il primo contatto

Nella fantascienza il “primo contatto” con gli alieni (nel senso di et, extraterrestri) si traduce spesso in guerra. Gli umani del tipo sapiens sapiens  delegati allo storico incontro o che casualmente si imbattono in “creature pensanti dello spazio esterno” di solito sono stupidi, spaventati e magari anche militaristi ed espansionisti. A mio avviso le parole stupidi e spaventati si possono sintetizzare in una sola: razzisti. Nella fantascienza reazionaria invece è ovvio, e soprattutto giusto, che si spari subito: non esistono alternative: l’unico alieno buono è quello morto.
Se qualcuna/o si stupisce vuol dire che non ha ben presente la storia del nostro pianetucolo. Infatti, prima di incontrare gli eventuali “et”, i gruppi dominanti della Terra – da un bel po’ l’Occidente, recentemente con spruzzate di Giappone e Cina – hanno avuto un lungo tirocinio con gli “alieni” di casa. Ecco in ordine alfabetico un elenco neppure completo: albini, ebrei, gay, handicappati, musi gialli, pazzi, pellerossa, sporchi negri, streghe, zingari. C’è chi, con purtroppo documentate ragioni storiche, propone di sostituire a streghe la parola donne.
Vi sono poi sempre nuovi razzismi: grazie alla dittatura di Pol Spot (non è un cambogiano ma l’abbreviazione di Polimorfo Spot ovvero la pubblicità dai mille volti e dai centomila martelli) rischia discriminazioni pesanti chiunque sia brutto/a o grasso/a – secondo i canoni dettati appunto da persuasori occulti e palesi – e perfino non abbastanza “alla moda”.
Un disastro lungo millenni. E non ancora concluso.

Cosa intendiamo per alieni?
Per iniziare vediamo qualche definizione.
I vocabolari, per esempio Il grande dizionario Garzanti, di solito la mettono così: “aggettivo 1 contrario, avverso 2 (di registro letterario) che appartiene ad altri, estraneo – sostantivo: nel linguaggio della fantascienza chi appartiene ad altri mondi, extraterrestre”. Tutto qui.
Invece su Wikipedia si legge:
“La parola alieno (dal latino alienus col vario significato di: appartenente ad altri, altrui; straniero; estraneo; avverso”) assume diversi significati in funzione del contesto di riferimento. In generale indica una qualunque cosa o soggetto estraneo all’ambiente di riferimento.

  • Alieno (biologia), una specie alloctona ovvero che abita o colonizza un habitat diverso da quello originario
  • Forma di vita extraterrestre, una forma di vita non originaria del pianeta Terra
  • Extraterrestri nella fantascienza, personaggi delle opere di fantasia e della cultura popolare
  • Alienazione, espropriazione di un bene”. 

Se preferite possiamo fare un bel salto nel tempo, dalle parti del 150 avanti Cristo, e ragionarne con Publio Terenzio Afro: “Sono un uomo: nulla di umano può essermi alieno”. Che molti citino Terenzio o Publio Terenzio omettendo Afro è un caso? A ogni modo “Homo sum, humani a me nihil alienum puto” è esattamente l’opposto della scritta che campeggia sulle t-shirt degli attivisti di Forza Nuova (gruppo neonazista per chi non lo sapesse): “Difendi il tuo simile, distruggi il diverso”.
Anche nella fantascienza (o science fiction o sf, fate voi) le definizioni sono assai varie. In un libro italiano per la scuola – Franco Ferrini, La musa stupefatta o della fantascienza, 1974 – si azzardava questa definizione: “Alien è l’extraterrestre spesso ostile agli umani. L’idea di ostilità era già implicita nell’aggettivo latino alienus”. Diverso, nemico, perciò mostro: deduzioni rapide e conclusive. Elementare Watson.
Anticipiamo un più complesso punto di vista esaminando il ragionare di Guido Ferraro e di Isabella Brugo nel loro Comunque umani (sottotitolo: “Dietro le figure di mostri, alieni, orchi e vampiri”) in particolare nel capitolo quarto centrato proprio sugli alieni nel cinema e, in misura minore, nella letteratura fantastica: “L’alieno vale dunque come un modo tra gli altri – ma forse più forte ed estremo degli altri – per rappresentare il Male. Gli storici della cultura potranno notare che la tematica degli alieni si è sviluppata in concomitanza con il venir meno di altre figure di ‘estranei totali’ che si trattasse di figure metafisiche (i demoni), leggendarie (orchi, vampiri, ecc.) o razziali (i “selvaggi”). Se in tale prospettiva “malvagio” risulta essere chi è diverso da noi [il corsivo è nel testo – Ndr]  l’alieno può ben rappresentare il diverso totale, interamente e incondizionatamente negativo dal punto di vista morale, con un grado di assolutezza che in effetti difficilmente può essere riconosciuto ad altri protagonisti negativi. Se si può sempre entrare nel modo di pensare di un gangster o di un terrorista, la costruzione della figura standard dell’alieno implica proprio questa impossibilità: la definizione stessa del concetto di ‘alieno’ poggia sul fatto che esso non è semplicemente diverso e non umano, ma è del tutto estraneo e illeggibile”.
Verso la fine del libro Ferrario e Brugo ci ricorderanno che “la questione centrale non riguarda più ‘che cosa sono’ i mostri ma ‘come li creiamo’ e come gestiamo il nostro rapporto con loro”. Sostituite pure alieni a mostri; almeno in questo contesto sono intercambiabili.
Un ragionare analogo si trova verso la fine del saggio Mostri di Fabio Giovannini dove si esamina “l’inversione di rotta” al cinema: dall’alieno cattivo a quello buono sino “all’alieno dentro di noi”.
D’altro canto il filosofo Adorno ci aveva già messo in guardia scrivendo: “la cosa più inquietante è scoprire quanto i mostri ci assomiglino”.

Uffa gli Ufo
Per molte persone gli alieni restano però gli Ufo (i non anglomani preferiscono Onvi, Oggetti volanti non identificati). Per capire “come e perché sono giunti tra noi” e dilagati nell’immaginario collettivo proprio in quel particolare periodo storico (gli anni ’40 e ’50 del secolo scorso) consiglio il piacevole quanto dotto Gli alieni di Tommaso Pincio che incrocia Enrico ed Elvis (ovvero Fermi e Presley), l’hula hop e l’atomica, la lascivia e Von Braun, il nazismo ed Epicuro, Voltaire e il complottismo, strane cose che si vedono nel cielo e Jung, Giordano Bruno e i dischi volanti. È bravo Pincio ad allargare un ben ristretto orizzonte – gli Usa della guerra fredda – e qui si tenterà di fare lo stesso con tutti gli altri alieni raccontati dalla fantascienza che è letteratura inquietante (o non compresa) dunque rimossa dalla “gente seria”.
Nel 1983 “Newton” – un bel “mensile di scienza, tecnica e fantasia” che ebbe purtroppo brevissima vita – lanciò un concorso (addirittura con “100 premi”) per chi avesse inventato un alieno o un mondo alieno. Interessantissima la motivazione: “un’ ottima base per un corso scolastico interdisciplinare e comunque un’interessante possibilità di imparare divertendosi anche per chi non va più a scuola”. Senza premi qui su “HP-Accaparlante” vi invitiamo a raccontarci i vostri alieni per il 2013. Qui intanto, prima di scavare a fondo nel tema, vediamo altre connessioni.

Alieni fuori e dentro
Nel presentare il romanzo Il segreto degli Asadi (scritto nel 1979) di Michael Bishop, osserva giustamente Piergiorgio Nicolazzini che “ciò che ci appare ‘alieno’ è forse il riflesso di qualcosa che è anche nostro, ma ormai dimenticato e sepolto”.
Alieni dentro di noi? “Eliminato l’impossibile, qualunque cosa rimanga per improbabile che sia deve essere la verità” raccomandava Sherlock Holmes ma gli si oppone Antony Boucher, buono scrittore di fantascienza (e altro) con puntate sull’ottimo: “Eliminato l’impossibile, se non rimane nulla una parte dell’impossibile deve essere la verità”. In questo caso l’impossibile (per molte persone) è che gli alieni sono da sempre fra noi, anzi possiamo cercarli – avremmo sempre potuto cercarli – anche dentro di noi.
Forse crescono dentro di noi e in questo caso nella fantascienza vengono indicati come “mutanti”; se ne accennerà più avanti. 

Tirar sassate agli sconosciuti
Negli ultimi tempi quasi nessuno in Italia si dice razzista salvo poi precisare: “però sugli ebrei (o sugli zingari) Hitler non aveva del tutto torto”. Già negli anni ’90 il “non sono razzista ma” imperversava e su “Cuore”, una rivista satirica ma spesso serissima, Enzo Costa riassumeva così questa visione del mondo: “Non sono un razzista ma quando sull’autobus un negro mi siede accanto io cambio posto. Non sono un razzista, sono un bianco”. Unendo ironia a rigore il genetista Guido Barbujani e il giornalista Pietro Cheli hanno scritto, nel 2008, Sono razzista ma sto cercando di smettere mentre, nel 2001, l’antropologa Genevieve Makaping aveva proposto in Traiettorie di sguardi l’istruttivo gioco del “io guardo come voi (bianchi) guardate me (nera)”. Solo due libri recenti sull’Italia d’oggi – che è multietnica ma fa finta di non saperlo – per pensarci su.
E torniamo subito alla science fiction e al suo modo di vedere gli stranieri. La dice lunga che perfino la fantascienza – una letteratura all’incrocio fra desideri e paure – abbia di solito invitato a “tirar sassate” agli sconosciuti senza neppure chiedere “chi va là?”.
Lo ha fatto perché storicamente in molte persone prevaleva inconsciamente il timore sul desiderio – un lungo discorso che qui non affronteremo – e ne derivava una precisa scelta di campo, culturale e politica: in particolare gli autori (maschi con qualche femmina di puro complemento e perlopiù celata da pseudonimi) della prima science fiction erano wasp – cioè bianchi, anglosassoni, protestanti – perciò gli alieni venuti dallo spazio non potevano che essere bem (bug eyed monster, cioè mostri dagli occhi d’insetto) dunque peggio delle “scimmie” negre e simili che circolano sulla Terra.

1818, l’anno zero
Bianchi, anglosassoni, protestanti… In realtà la fantascienza moderna pur anglo non era stata concepita maschia visto che il suo atto di nascita coincide con la pubblicazione – nel 1818 – del Frankenstein di Mary Shelley. Ma è nel passaggio fra ’800 e ’900 prima (con Verne, Welss più qualche comprimario) e poi nel pieno del XX secolo che, soprattutto grazie alle pubblicazioni popolari, diviene una letteratura di massa; in questo passaggio a scriverla – e a leggerla – sono inizialmente ometti del tipo babbuino aggressivo. Con qualche interessante eccezione.
Per fare qualche esempio della “regola” ecco uno dei padri – H. G. Wells – che per instillarci antipatia verso il cattivo di turno (L’uomo invisibile) ce lo descrive come albino. Presentando i marziani – in La guerra dei mondi – ne dà una visione talmente terrificante da concludere: “Sin da quel primo incontro fui sopraffatto dal disgusto e dall’orrore”. Combinazione: La guerra dei mondi è del 1897, stesso anno dell’inquietante Dracula. Torniamo a Wells: quando un normale finisce Nel paese dei ciechi constata che quei diversi sono stupidi e cattivi. E ancora lui nel suo libro più famoso, La macchina del tempo, prevede che i proletari si abbrutiranno, un’evoluzione a rovescia. Era un uomo del suo tempo: pur dicendosi sostenitore del pacifismo e del socialismo era al fondo piuttosto reazionario.
Se vi interessano altri esempi di fantascienza razzista consiglio Sei morto! (con due lunghi e intriganti sottotitoli: “Il secolo delle bombe” e “Labirinto con 22 ingressi e nessuna uscita”) di Sven Lindqvist che racconta benissimo i legami fra le guerre vere e quelle immaginarie.
A parte le solite interessanti eccezioni (quasi invisibili nel diffuso andazzo) occorrono decenni perché nella sf  inizi a essere ben visibile l’idea di un alieno che non è ostile e/o di una concezione del mondo (meglio: dei mondi) non bipedo-centrico. C’è qualche eccezione ovviamente (nel 1934 Odissea marziana di Stanley Winbaum o Il costruttore di mondi di Olaf Stapledon, nel 1937, tanto per citare due testi abbastanza famosi) ma la regola appunto è l’altra, ovvero l’alieno inevitabilmente resta il nemico nella science fiction di massa, quella cioè che conquista il pubblico poco dopo il 100 dF (dopo Frankenstein).
Prendiamo John Campbell, uno dei padri della science fiction moderna. Secondo lo scrittore Philip Farmer: “Alcuni suoi difensori sostengono oggi che Campbell non era razzista e che non considerava i neri africani come esseri umani inferiori; purtroppo i suoi scritti e le conversazioni private che ho avuto con lui dimostrano il contrario”. A conferma anche un suo editoriale sulla rivista “Analog” nell’agosto 1968 dopo l’assassinio di Martin Luther King. Da un lato Campbell esalta la figura di King come apostolo della non-violenza ma dall’altro offre una conclusione in linea con il dominio dei bianchi: “Naturalmente il Nero vuole risultati definitivi oggi, e magari ieri. Quest’impazienza è vecchia come l’uomo… e come i bambini. Purtroppo, non è possibile che le cose vadano così. Non si può fare così”. Siete troppo alieni, la colpa è vostra.
Anche altri scrittori che hanno giocato un ruolo importante nell’evoluzione della fantascienza – in particolare Robert Heinlein – hanno esaltato la superiorità del terrestre wasp su chiunque altro.
Lentamente alcuni scrittori (e solo dopo scrittrici perché all’epoca erano emarginate) pongono il dubbio: se sotto quella pelle strana – azzurra o verde, i colori che sulla Terra mancano nella gamma delle epidermidi – vi fosse un’intelligenza, persino un’anima? All’inizio vengono accettati alcuni Hilf (Humanoid intelligent life forms) talmente simili a noi da suggerire che sforzo di accettazione sia misurabile in decimi di millimetro. Poi ci si fa più audaci.

E se io fossi lui o lei?
Ovviamente assumere il punto di vista dello straniero (dell’alieno totale) fra noi può essere interessante, come già avevano dimostrato Le lettere persiane di Montesquieu e pochi anni dopo Micromégas (con gli extraterrestri al posto dei persiani) di Voltaire e, nel secolo scorso, Papalagi di Tuiavii di Tiavea. Prima che Fredric Brown re-inventasse questo genere per la fantascienza – lo vedremo fra poco – qualcuno (per citarne uno solo, l’allora quasi esordiente Isaac Asimov nel racconto Homo Sol del 1940) aveva già assunto il punto di vista degli et invece che dei terrestri; ma erano le classiche mosche bianche.
Nel 1954 arriva Fredric Brown con il breve, squassante racconto Sentinella che, anche se è abbastanza noto, vale riproporre per intero.
“Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo ed era lontano cinquantamila anni-luce da casa.
Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità, doppia di quella cui era abituato, faceva d’ogni movimento un’agonia di fatica.
Ma dopo decine di migliaia di anni quest’angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quelli dell’aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro super-armi; ma quando si arrivava al dunque, toccava ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo. Come questo maledetto pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce lo avevano sbarcato. E adesso era suolo sacro perché c’era arrivato anche il nemico. Il nemico, l’unica altra razza intelligente della galassia… crudeli, schifosi, ripugnanti mostri.
Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata la guerra, subito: quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica.
E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, con i denti e con le unghie.
Era bagnato fradicio e coperto di fango, aveva fame e freddo e il giorno era livido, spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni posizione era vitale. Stava all’erta, il fucile pronto. Lontano cinquantamila anni-luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l’avrebbe mai fatta a riportar a casa la pelle.
E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più.
Il verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire”.
Avviso per chi legge: Sentinella non è finito qui, mancano tre righe. Invito chi non lo conosce a cercare una soluzione.
Fermatevi un attimo a riflettere. Per non indurvi in tentazione (intendo a sbirciare) le tre righe finali sono alla fine del dossier.
Brown è tornato spesso, in forma più ironica, sul tema. Uno dei suoi racconti più famosi è Il vecchio, il mostro spaziale e l’asino del 1962. In uno sperduto paesino arriva un allampanato extraterrestre a dorso di un asino. Vagamente umanoide ma è alto quasi 3 metri, sottilissimo e ha la pelle che sembra scuoiata. Dichiara di essere venuto lì per verificare se i terrestri sono maturi per entrare nella Confederazione galattica. C’è un doppio colpo di scena che sarebbe un delitto rivelare. Purtroppo Brown fa intravedere come questa “maturità” sia ancora tutta da verificare visto che i terrestri giudicano in base alle apparenze fisiche.
Decisamente umoristico il suo romanzo Marziani, andate a casa del 1955. Per quel che qui ci interessa la storia di Brown concerne un’invasione pacifica ma assai seccante. Infatti gli alieni più che cattivi o incomprensibili sono… no, lasciamolo dire all’autore con tutte le precisazioni necessarie: “erano tutti insultanti, esasperanti, fastidiosi, sfacciati, brutali, insopportabili, caustici, sfrontati, odiosi, scortesi, esecrabili, diabolici, spudorati, irritanti, ostili, dispettosi, bruschi, insolenti, impudenti, ciarlieri, irridenti, guastafeste, maligni, pestiferi, malevoli, perfidi, nauseanti, perversi, stizzosi, litigiosi, sgarbati, maleducati, sarcastici, biliosi, bisbetici, infidi, truculenti, incivili, pungenti, xenofobi, sbraitanti e zelantissimi nel rendersi insopportabili e nel causare guai a tutti coloro con cui venivano a contatto”.
E non si può far nulla contro di loro; perché in un batter d’occhio spariscono (in gergo: si teletrasportano altrove). Anche in questa geniale presa in giro Brown infila discorsi seri. E comunque anche trasformare i “mostri” in discoli è già una bella provocazione.
Anche chi è digiuno di fantascienza ma ama il cinema (o il rock) avrà forse incrociato il film L’uomo che cadde sulla terra di Nicholas Roeg, del 1976, con un bravo David Bowie, tratto dal romanzo omonimo – ancor più inquietante e struggente della riduzione cinematografica – scritto nel 1963 da Walter Tevis. Come in Sentinella il narratore assume il punto di vista dell’alieno che è sulla Terra per cercare un aiuto da parte dell’umanità per la sua razza morente. L’alieno rimarrà bloccato fra indifferenza e sospetti. Impietrito nella sua maschera umana, incapace di staccarsi dalla Terra per lui aliena. Morirà per alcolismo. La scena finale mostra il suo pianeta ridotto a un cumulo di asteroidi vaganti. Qualche esperto di cinema ha notato che il punto di vista dell’alieno è rappresentato anche in uno stile e in un montaggio di tipo surrealista; per quanto sia strano alcuni passaggi del film ricordano L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov, uno dei padri del cinema.

Futuro, filosofia e sensi di colpa
Visti i precedenti storici, qualche senso di colpa inevitabilmente affiora anche nella science fiction. Significativa la quarta di copertina del romanzo Chi è intelligente? (del 1972; il titolo originario era Conscience Interplanetary) di Joseph Green: “Il Corpo dei Filosofi Ambientali deve proteggere i mondi abitabili della Galassia dall’ingordigia umana e impedire che si ripetano a danno delle razze extraterrestri le violenze e le stragi patite dagli indios, dai pellirosse, dai negri”.
Perfetto sin qui, ecco però la trappola: “Ma ci sono moltissimi casi dubbi: certe strane foche tirano sassi contro gli scienziati di un osservatorio, certe farfalle di 40 chili sembrano telepatiche, certe piante di cristallo emettono voci nella notte, certe scimmiesche creature hanno forse modellato un dio di argilla. Come decidere dove finisce l’istinto e dove comincia l’intelligenza?”.
La domanda può essere dunque riformulata così: chi sono gli alieni e agli occhi di chi?
Rischiamo però di entrare in un corto circuito logico e/o filosofico. Possiamo capire un pensiero alieno? Ho un amico – Fabrizio Melodia – grande studioso di filosofia che leggendo la prima versione di questo saggio (o saggetto, chissà) mi ha suggerito qualche dotta citazione ad hoc. Per esempio questa: “La logica riempie il mondo; i limiti del mondo sono anche i suoi limiti. Non possiamo dunque dire nella logica: ‘Questo e quest’altro v’è nel mondo, quello no’. Ciò parrebbe infatti presupporre che noi escludiamo certe possibilità, e questo non può essere, poiché altrimenti la logica dovrebbe trascendere i limiti del mondo; solo così potrebbe considerare questi limiti anche dall’altro lato. Ciò, che non possiamo pensare, non possiamo pensare; né dunque possiamo dire ciò che non possiamo pensare”: è il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein.
Al quale però provo – timidamente e con qualche consapevole forzatura – a contrapporre Eraclito: “Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché l’avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada”.
Nel senso che se tentiamo di capire l’incomprensibile forse ce la faremo.
Qualche annetto dopo Eraclito, irrompe sulla scena Albert Einstein e, dandoci speranze almeno sul versante più scientifico, aggiunge: “Tutti sanno che quella cosa è impossibile, finché arriva uno sprovveduto che non lo sa e la inventa”.
Con queste due citazioni nel bagaglio proviamo a vedere se la fantascienza e il desiderio riescono a forzare la logica wittgensteiniana secondo la quale non arriveremo mai al “non pensabile”.
Tenendo anche conto che nel nostro immaginario lavorano – o meglio si confrontano e scontrano incessantemente – paure e desideri ben più profondi che nel conscio: così non è indifferente che la fiction di massa oggi proponga in bella vista uno Spock (sto parlando ovviamente della serie di Star Trek) cioè un alieno ben accetto piuttosto che i perfidi carciofoni marziani i quali, grazie allo strano duo Welles-Wells, in passato terrorizzarono lettori e soprattutto ingenui radioascoltatori.
Sulla strada della progressiva presa di coscienza della fantascienza si potrebbero riportare molti esempi. Nessuno forse è letterariamente efficace come il brevissimo Sentinella ma molti – e alcuni li vedremo nelle varie sezioni – restano efficaci e/o inquietanti ancor oggi.
Ovviamente ci sono almeno altrettanti romanzi o racconti che continuano a immaginare lo scontro fra i terrestri e “gli altri”. Vediamo brevemente uno dei più interessanti, Il gioco di Ender scritto nel 1985 da Orson Scott Card.
Per quel che qui ci interessa, è la storia di un ragazzino “speciale” che viene addestrato in una scuola militare a verificare strategie contro gli “Scorpioni”, cioè i nemici spaziali che sono una sorta di entità unica con un cervello collettivo. Ender va in crisi perché per vincere le battaglie deve identificarsi con il nemico al punto da amarlo, e in questo modo lavora a distruggere… chi ama; sull’altro piatto della bilancia (o della schizofrenia) però c’è l’obiettivo del suo addestramento: salvare la razza umana da un avversario che sembra molto più potente. Alla fine del romanzo, Ender si troverà a vincere nell’ennesimo difficile gioco ma scoprirà che è stato ingannato: non stava affatto “combattendo” contro un simulatore ma comandava una vera flotta. Ender ha distrutto il mondo di origine degli Scorpioni, sterminando per sempre la loro razza.
Fra i tanti temi sollevati da questo romanzo c’è anche quello del nemico invisibile; uccidere in un videogame (o nella sua versione montata a bordo di un aereo) crea una rassicurante distanza “psicologica”. Niente fastidiosi schizzi di sangue, niente volti delle vittime (soldati ma anche vecchi o neonati) dunque nessun dubbio. Per evitare che il soldato moderno cada nel vecchio difetto – così Brecht nella celebre poesia – ovvero pensare, oggi il nemico (o l’alieno) va reso immateriale.
Anche se la guerra con gli alieni in Il gioco di Ender si trasforma addirittura in xenocidio, comunque il romanzo di Scott Card è tutt’altro che manicheo: non ci racconta di “tutti noi buoni” contro i cattivi, i tempi sono cambiati. Anche se gli assassini di massa coprono d’oro i cantori delle “guerre umanitarie” ben pochi credono alle loro ragioni.
Ma torniamo al discorso principale o meglio a una delle sue diramazioni.

L’handicap in TV

 

A un’inchiesta sui rapporti fra handicap e televisione è difficile trovare un titolo più tristemente azzeccato di quello della ricerca che Serenella Besio e Franca
 

Roncarolo hanno pubblicato nel marzo ‘96: L’handicap dei media. L’handicap è veramente dei media (tutti, non solo la tv) che non sanno – e soprattutto non vogliono? – affrontare il tema; l’handicap è soprattutto e/o solo nelle teste dei giornalisti che su molti temi (tutti?) ancora, come ai tempi in cui G. B. Shaw coniò questa battuta, "confondono uno scontro automobilistico con la fine del mondo". La nostra stessa inchiesta potrebbe intitolarsi La TV che scambiò un disabile per un cappello riallacciandosi al bel libro di Oliver Sacks (nota 1), sperando/sognando che di caso clinico – non di volontà, inconscia o meno – si tratti e dunque che le illustri malate (tv pubbliche e private) possano "guarire".

 

 

Rispetto al quadro delineato in L’handicap dei media nulla (o per essere più pignoli: quasi nulla di sostanziale) si è mosso. Lo confermano gli intervistati ma soprattutto ognuno lo può vedere da sé. Verifichiamolo insieme anche scrutando/interpretando 4 fra le poche notizie/commenti interessanti apparse sui massmedia (nota 2) successivamente alla stesura della ricerca.

Handicappati in TV solo se telegenici

La prima. "Handicappati in tv, solo se telegenici": così un quotidiano (nota 3) parlava della trasmissione che Mixer giovani aveva dedicato all’integrazione scolastica "ma in studio non c’erano disabili". L’articolo era partecipe ma anche informato, dunque un buon (e raro) esempio: dopo avere correttamente raccontato i fatti e avere inserito alcune osservazioni puntuali – della giornalista o delle persone da lei intervistate – le conclusioni sono affidate a una dichiarazione di Dina Roggi e a un lapidario commento. Vale la pena leggerli entrambi. "Ma se possono andare a scuola perché non possono partecipare a una trasmissione tv? " Dina Roggi, vicepresidente della "Consulta romana per l’handicap" che raggruppa 44 associazioni, sempre più spesso si sente chiamare dai vari programmi d’informazione e talkshow per portare alla ribalta questo o quel caso di vita da handicappato. Domenica In le ha fatto questo tipo di richiesta: "Una persona con l’handicap non troppo vecchia non troppo giovane, non brutta, che sapesse raccontare se stessa, che avesse problemi irrisolti ma che si potessero risolvere. Meglio se in diretta". La seconda. Nella pagina spettacoli di un quotidiano (nota 4) spiccava questo paradossale titolo: "La tv per i ciechi utile per i vedenti". Purtroppo l’articolo si riferiva alla Francia (che l’Italia purtroppo non si è affrettata ad imitare). Vale la pena riassumere la notizia. Il programma A vous de voir – Vedete voi – esordisce sul canale Cinquième, che trasmette di giorno (lasciando la serata alle frequenze di Arte) e la puntata d’apertura mostra alcune apparenti banalità: un uomo che sparecchia, lava i piatti, fuma, va in salotto, accende la tv e si affloscia in poltrona. Tutto "normale" salvo che… quell’uomo è cieco. Sorride o s’arrabbia alle battute ma ascolta perché guardare non può. Da queste scene iniziali parte un programma che vuole aprire gli occhi sul visibile e sull’invisibile. Difficile giudicarlo senza averlo visto ma stando alle intenzioni e anche al giudizio di Evgen Bavcar (nota 5) ci troviamo di fronte a uno di quei pochi programmi per cui si può spendere la doppia "i", ovvero interessante/intelligente. Conclusione dell’articolo: "Perché ci sono vari modi di avere gli occhi inutilmente aperti ed è una delle cose che il programma vorrebbe spiegare. Senza offendere nessuno, beninteso".

Da Film vero a Telethon

Terza notizia. Su "Vespri-tv" (nota 6) vi è un lungo, articolato e intelligente commento a "Film-vero", 10 puntate su Raitre, e agli spot della Presidenza del Consiglio che hanno persone down per protagonisti. "L’idea di "Film-vero" è ben congegnata. Una prima parte occupata da un film. poi si torna in studio (….) Questo sistema modulare, intrecciando vari generi (fiction, reportage, talk-show) evita i vizi di ciascuno esaltandone le qualità" commenta Norma Rangeri (nota 7) che conclude: "Si può parlare di affetti, di questioni private, di problemi sociali evitando il guardonismo, il pettegolezzo, l’urlo o la lacrima? Si può. Anna Scalfati e Sveva Sagramola compongono un tandem ben sincronizzato, sono due facce serie, con un trucco discreto, non recitano troppo, non cedono spazio alla retorica, pur sempre in agguato quando si affrontano questioni confinanti con il dolore". Quarta notizia. Con il titolo "Mio fratello tradito da Telethon" (nota 8) Alessandra Lombardi ricostruisce la vicenda di Mimmo Ferrante, "disabile 38enne, morto a Milano di ritorno da Roma". L’accusa a Telethon – che smentisce – è di avergli negato la parola ("umiliandolo"). I fratelli di Mimmo raccontano che "voleva 60 secondi (…) per parlare del diritto al lavoro (…) lo stesso messaggio che lo scorso anno era riuscito a lanciare proprio dalla ribalta di Telethon dove "non invitato, ma con un coraggio e una costanza da far paura", si era ritagliato "di prepotenza" un minuto di udienza, con la promessa (non mantenuta) di essere invitato anche quest’anno". Ci sarebbe da aggiungere una quinta notizia che però concerne "le omissioni" e le reticenze (tante) anziché le presenze massmediatiche. Negli ultimi anni più volte Umberto Bossi e altri esponenti della Lega Nord hanno attribuito a nemici politici epiteti come "handicappato", "sciancato", "mongoloide": un insulto gratuito o la derisione di chi (un giudice in questo caso) è effettivamente affetto da una lieve zoppia. Queste frasi sono state riferite da giornali e tv, senza alcun commento; lo stesso è accaduto per l’editoriale dell’aprile ‘97 di Vittorio Feltri che definiva il governo "un esecutivo down" (nota 9). La vera notizia è in questa clamorosa omissione di commento. Esistono giudizi molto diversificati sul "politically correct" – e sui suoi limiti, pregi, ipocrisie – ma sembra difficile ignorare la gravità del suo opposto, cioè che in Italia un handicap compaia (o ricompaia?) come insulto nel linguaggio "politico", dunque in quello pubblico per eccellenza (nota 10).

La parola agli esperti

Su questo quadro – di desolante staticità o di impercettibili mutamenti? – ragionano due esperti e una "parte in causa": Carlo Canetta della mediateca-Ledha (02-65.70.425) che organizza la bella rassegna "Lo sguardo degli altri" e che si occupa di programmi tv; mentre Serenella Besio, che della ricerca Eri è coautrice (e che oggi è consulente presso il Siva-Don Gnocchi per software didattico) prova, dopo due anni, a riprendere il filo del discorso; infine Stefano Borgato della Uildm che ha lavorato alla nascita dei vari Telethon. Secondo Canetta, "nella non-fiction resta dominante il talk-show, dunque il parlare". Così passa solo ciò che può essere verbalizzato; col risultato che al centro c’è quasi sempre l’handicap fisico mentre quello psichico scompare. "Anche a noi le tv chiedono "l’ospite che funziona", si può anche stare al gioco ma così diventa difficile uscire da questi binari troppo obbligati, dal binomio eccezionale/pietistico" sottolinea Canetta. All’estero si vedono programmi più interessanti che provano a raccontare i problemi anche attraverso gesti o sguardi. "E’ una questione di scelte e tempo, non di talenti" prosegue Canetta: "Già questo approccio amplierebbe la sfera del raccontare, come hanno mostrato alcune puntate del programma Storie vere che hanno richiesto tempo, intelligenza e fatica" tre "doti" che forse non abbondano fra i giornalisti. "Se io chiamo una tv, anche pubblica, per dire: "provate a venire con noi a vedere là, dove sta accadendo qualcosa" quasi mi ridono in faccia" esemplifica Canetta. Un aspetto importante della ricerca di Besio-Roncarolo è, secondo Canetta, anche la "platea" ovvero che nei talk-show o nei programmi per ragazzi si scelga o no di invitare anche disabili, sottolineando che la loro presenza è appunto normale e non legata a un tema particolare. Forse – suggerisce ancora Canetta – una strada utile da percorrere è l’auto-rappresentazione. Un discorso delicato ovviamente e che si presta anche a equivoci, populismi, dilettantismi, "spesso superabili attraverso la formazione". Canetta cita "molte esperienze positive in Europa (Belgio e Inghilterra soprattutto) mentre l’Italia, che già era indietro, resta immobile e chiusa a ogni esperimento. La BBC ha un’unità specifica (tutti i collaboratori e tecnici sono disabili) che realizza due trasmissioni in onda ogni settimana sulla rete culturale (una si chiama "Fuori dal bordo" e l’altra "Dentro il bordo"), con un taglio molto disinvolto. Le presenta un giovane in sedia a rotelle che però è un punk, dunque fuori da ogni stereotipo. Si utilizza molto la candid-camera – cioè la telecamera nascosta – per mostrare ad esempio che in discoteca non gradiscono i disabili". Di conseguenza Canetta sente "l’esigenza di spazi sperimentali, anche di mattina o notte, per fare alla tv italiana trasmissioni diverse da quelle consuete e vedere cosa succede". Oggi la situazione è troppo bloccata: "trasmissioni come Il coraggio di vivere sono animate da buone intenzioni ma la struttura è vecchio stile". E in più il palinsesto le propone in partenza come ghettizzate e/o ghettizzanti. Quanto alla fiction, Canetta intravede una tendenza, che rompe un po’ le due "gabbie" dell’handicappato/a da compatire o di quello/a da ammirare per il suo eroismo (e relative varianti di questi due schemi): "Pensando ad alcuni protagonisti down o autistici (Forrest Gump, oppure L’ottavo giorno) vedo un personaggio prodigioso – non necessariamente vincitore o sconfitto, anche se spesso risulta positivo – pur se è debole, affascinante senza essere necessariamente un super-eroe". Due anni dopo la ricerca, Serenella Besio si occupa d’altro e confessa una certa "indigestione" di tv. Pur con questa premessa accetta però volentieri di riflettere – "senza pretesa di sistematicità" – sui segnali negativi o positivi che le sembra di intravedere nel piccolo schermo. "Non mi pare che i "formati" siano mutati o diventati più elastici e questa rigidità condiziona molto tutti i protagonisti (autori e ospiti, disabili o no) delle trasmissioni". Secondo Besio è invece interessante notare che di recente "alcune fiction straniere ci ripropongono il disabile come cattivo e questo è paradossalmente un bene (se ovviamente non c’è alcuna connessione fra handicap e cattiveria) rispetto a certi stereotipi". Qualcosa di positivo però Serenella Besio se lo aspetta da un programma che parte in questi giorni, quello di Giovanna Milella: "mi sembra una conduttrice garbata e precisa e anche il "formato" prescelto appare rispettoso". Le piacerebbe anche la possibilità di intercalare i programmi con brevi flash sulla disabilità, un modo di rompere i palinsesti mummificati. "Di positivo, negli ultimi tempi, ricordo una pubblicità progresso per l’Anffas che mostrava mamme anziane (e non solo) suggerendo un messaggio d’affetto e non pietistico. Nell’informazione televisiva il vero problema irrisolto è quello della disabilità cognitive" appunta. Di sfuggita, Besio accenna a una ricerca del CNR – "che purtroppo non è stata pubblicata, ma chi fosse interessato a leggerla può contattarmi al Siva (02/40308340)" – sul ruolo che la tv potrebbe avere per persone con difficoltà cognitive; "e anche questo è un campo in cui all’estero si registrano esperienze veramente interessanti, con programmi che accompagnano un’idea di autonomia molto marcata all’auto-ironia.

La trasmissione più amata e odiata

Oltre al discorso in generale su media/handicap, a Stefano Borgato tocca ovviamente di entrare anche nello specifico di Telethon, trasmissione amata/odiata quant’altre mai. "L’unico fatto nuovo di un certo rilievo è la scelta degli spot proposti dalla Presidenza del Consiglio" riflette Borgato: "qualcuno li ha contestati però a me pare che il disabile diventato protagonista e non scenario (pur se la sindrome di Down è certo un caso particolare) sia un fatto positivo, pur se lo slogan finale ("metteteli alla prova") non era dei più felici. L’insieme di quegli spot testimonia comunque di un cambiamento culturali, come del resto accadde per quello di Bertoli (nota 11) che, per l’epoca, era molto avanzato, quasi dirompente". Anche Borgato condivide che sia molto grave la prassi di non far passare determinati problemi e persone in certe fasce orarie (prime time e domenica pomeriggio). Quanto alla contestata-Telethon, questo è il suo punto di vista: "Bisogna anzitutto tener conto del fatto che questa è appunto pensata come una maratona (32 ore di fila) e che serve a raccogliere soldi per la ricerca" premette: "Anche noi che l’abbiamo voluta siamo consapevoli dei suoi limiti, eppure raccogliere in 8 anni 200 miliardi da devolvere alla ricerca pura è un risultato straordinario>. All’inizio la contestazione principale era "sprecare 32 ore senza costruire comunicazione reale su trasporti, barriere, integrazione" ricorda Borgato: "con il passare del tempo il quadro d’insieme è mutato, sia perché Telethon, dal ‘92, ha allargato il discorso alle malattie genetiche ma anche perché negli ultimi 3 anni si è consolidata una struttura fissa e dunque persone che ormai qualcosa hanno "capito". Mi è parso che, pur con le solite cadute, quest’anno vi sia stata una comunicazione più ampia". Quanto alle accuse di usare i bambini in una logica pietistica, Borgato – "disapprovo anch’io questi metodi" – suggerisce però che il vero limite è nel "mezzo" usato, cioè nella tv stessa. "La finalità di questo programma è il contatore dei soldi. O il programma lo fai per raccogliere fondi o no. Ma se decidi di farlo per quello scopo, io temo che sia impossibile ottenere qualcosa di più che piccoli miglioramenti all’attuale formula. Naturalmente dovrebbero esserci molti altri spazi, per altre questioni; vi sono proposte (anche da disabili) sia radiofoniche che tv ma non vengono accolte". Tornando a un discorso d’insieme, secondo Borgato "rispetto a 15/20 anni fa, certi temi (penso alle questioni legate alle barriere architettoniche) sono ormai conosciuti anche al grosso pubblico". Che la tv sia però un Moloch difficile da smuovere trapela dalle sue conclusioni: "Secondo me i meccanismi esasperati (dell’audience, e non solo) delle televisioni rendono la comunicazione grossolana per natura: nessun privato o pubblico oggi affiderebbe due ore "serie" su questi temi. Bisogna realisticamente utilizzare gli spazi che ci sono, se possibile togliendo le questioni dal "ghetto" come nel caso delle para-olimpiadi che devono essere argomento di notiziario sportivo e non relegate in spazi specialistici". Infine Borgato richiama i giornalisti a un maggiore impegno: "bisogna uscire dal corto circuito dei giornalisti che si trincerano dietro il "noi diamo quello che il pubblico vuole", senza rendersi conto che questo è il classico cane che si morde la coda". Per la verità l’alibi del pubblico nasconde molte questioni delicate (pigrizia, conformismi, lottizzazione e asservimento ai Poteri forti, formazione e aggiornamento di qualità bassa e decrescente, ecc.) che la categoria dei giornalisti sempre più rimuove: ma questo è ovviamente un discorso che esula dai limiti di questa inchiesta.

 

La televisione e i giornali possano scambiare un disabile con un cappello perché purtroppo è una prassi diffusa (fatte salve le solite, ovvie eccezioni) ad ogni settore: se abitualmente si tace che le mine assassine sono italiane, o se s’inventano stragi mai avvenute (il riferimento è a Timisoara), se si fa diventare notizia il pettegolezzo, e se la "marchetta" domina indisturbata… è ben difficile capire come e perché persone/associazioni sostanzialmente prive di "potere" potrebbero avere dignità di notizia, o addirittura di… esistenza.
 

 

 

Sguardi partecipi e arrabbiati

“La televisione dovrebbe offrire la possibilità ai minorati sensoriali di poterla seguire”; “l’informazione televisiva non prende in considerazione il pianeta handicap”; “i programmi display, quelli che raccolgono i fondi, sono vincenti ma non convincenti”. La parola ai disabili

Intorno al binomio handicap-tv ecco alcune opinioni di chi vive il problemain prima persona.. Se il quadro di giudizi è sostanzialmente omogeneo a quelloche è uscito dalla ricerca di Besio-Roncarolo, è interessante notare alcunedissonanze, provocazioni (come quella di Miotto) o semplicemente diversi giudizisu trasmissioni come il Costanzo Show o Telethon (ciò non deve stupire: anchele reazioni a un film come L’ottavo giorno hanno oscillato fra l’incondizionatoplauso e l’accusa di grave ambiguità). Ecco – in ordine alfabetico – leopinioni.

Roberto Mancin: la tv multisensoriale
( webmaster del sito Commissione Disabilità e Handicap-Università diPadova)
Una volta guardare la tv era un rito. Le famiglie si radunavano intorno altotem-televisore: fintanto che il film o la puntata di Lascia o raddoppia nonera terminata nessuno osava disturbare. Oggi invece guardare la tv è diventataun’attività come le altre: la guardiamo e ascoltiamo distrattamente in camerada letto, mentre telefoniamo, mangiamo. Ma è anche diventato il modo attraversocui ci giungono la maggior parte delle informazioni. La tv è un mezzo dicomunicazione multimediale, utilizza cioè il suono, l’immagine e a volte anchei testi scritti, ma la maggior parte delle volte noi possiamo cogliere nella suacompletezza il messaggio inviato solo se siamo in grado di accedere a tuttiquesti veicoli. A volte invece dobbiamo togliere il volume per non disturbareuna telefonata o per non svegliare il coniuge che dorme; altre volte nonpossiamo guardare lo schermo perché siamo di spalle: in questi casi possiamocomprendere le difficoltà di chi è sordo o cieco e provare il disagio prodottodal non poter accedere a tutte le informazioni. Infatti se è vero che talvoltale immagini o il sonoro sono sufficientemente descrittivi, è possibile seguireun film anche vedendo le immagini senza audio o viceversa, è soprattutto veroche nella maggior parte dei casi la trasmissione ci diventa del tuttoincomprensibile. Questo problema è grave nel caso di film o trasmissioni diintrattenimento ma lo è ancor più quando si pensa ai programmi culturali o diinformazione, che sono il mezzo privilegiato attraverso cui noi capiamo cosa stasuccedendo nel mondo che ci circonda. Purtroppo le poche trasmissioni checercano di svolgere un ruolo educativo o informativo, come i documentari e i tg,nella stragrande maggioranza dei casi neppure tentano di essere più accessibilia chi ha una disabilità sensoriale. La soluzione per rendere accessibili leinformazioni multi-mediali (sonore e visive) della tv consiste nella ridondanza:far sì che la stessa informazione venga trasmessa contemporaneamente attraversotutti i diversi canali sensoriali. Le trasmissioni dovrebbero essere quindiarricchite con descrizioni sonore delle immagini trasmesse (magari attraverso uncanale radiofonico) e con le trascrizioni visive dei suoni e delle parolepronunciate (sottotitoli). In Canada e negli Usa già la gran parte delletrasmissioni tv vengono sottotitolate o descritte alla radio (indirizzointernet:http://www.boston.com/wgbh/pages/ncam/tvvideo/northamerica .htlm#amount).In Europa la situazione è peggiore e anche se l’Italia non è fra le ultime -come si può vedere anche dalla tabella – il numero di ore di trasmissionedisponibili nella forma "ridondante" è estremamente basso esostanzialmente limitato a film e programmi di intrattenimento. E’ quindiurgente un maggior sforzo da parte delle tv per modificare la situazione attualeche impedisce a una grossa quantità di persone di servirsi del mezzo dicomunicazione più comune: è un dovere di giustizia e di civiltà masicuramente, come spesso accade quando un servizio viene reso più accessibile,ne potremo trarre tutti un beneficio. A tal proposito si veda anche un altroindirizzo internet, http://www.boston.com/wgbh/pages/ncam/currentprojects/dvsscience.htlm (Adding Audio Descriptions To Television Science Programs).

Miriam Massari: Di Pietro, le colf, i tg e noi
(giornalista e membro dell’ENIL Italia)
Partendo da un qualunque tg Rai o Fininvest si può capire quale sia il pesodella tv sulla disabilità, sia in positivo che in negativo. E’ stata diffusa lanotizia del primo provvedimento legislativo presentato dal neo-senatore AntonioDi Pietro, appoggiato da altre/i (compresa Ersilia Salvato del Prc). Ilprovvedimento è in favore dei diritti delle colf – collaboratrici familiari -per i giorni di malattia regolarmente pagati. Fine della notizia. Che c’entra ladisabilità? I tg e in genere la tv parlano quasi esclusivamente a chi abita ilPianeta Terra, trascurando il Pianeta parallelo detto Handicap. E’ l’omissioneinfatti la colpa più grave di chi fa tv. A volte si omette non sottolineando ilbuio totale in cui il Pianeta Handicap viene lasciato da chi fa politica. Chiintervista dovrebbe costringere a scoprirsi; ma come, se non si guarda mai alPianeta H? Gli inglesi dicono che mentre si fa o si pensa bisogna avere "disabledperson in mind", in mente la persona con disabilità. Nel caso delle colf,una persona che non può far niente da sé e che fa vita indipendente ha bisognodi almeno 1-2 assistenti e una colf. Ora nel provvedere le colf d’un diritto, unParlamento che non voglia agire alla cieca dovrebbe non far sparire il capitolodi spesa dedicato alla "vita indipendente" ma aumentarlo inproporzione; altrimenti le persone con notevoli disabilità saranno costrette -prima o poi, perché dall’idea dell’indipendenza non si torna indietro – apagare la giusta rivendicazione delle colf con ore d’assistenza in meno. C’Š unaltro particolare che i tg volendo potrebbero dare fra parentesi: il denaro – dadestinare a chi, avendone i requisiti, ne farà richiesta – è già statostanziato, solo che adesso è consegnato nelle mani di coloro (cooperative,istituti, ecc.) che gestiscono la vita delle persone definite con troppadisinvoltura "utenti". Ecco perché i tg danno notizie incomplete:perché incompleto è il progetto economico, politico e sociale che noncomprende le persone con notevoli disabilità se non come ingombro da sistemare.Se tutto fosse chiaro alle coscienze (pari opportunità, diritti, vitaindipendente, assistenza diretta) come accade da decenni in altri Paesi, allorai tg potrebbero dare una notizia completa e persino corretta nel linguaggiosessuato, che suonerebbe più o meno così: "Antonio Di Pietro, appoggiatoda deputatesse e deputati, ha messo all’ordine del giorno un provvedimento chericonosce alle colf il pagamento dei giorni di malattia; e di conseguenza saràaumentato il budget assegnato a persone con disabilità notevoli che fanno vitaindipendente". Nei tg molte notizie muoiono per mancanza d’ossigeno,perché si pensa che non facciano audience, che non siano d’interesse generale:non si divulga la notizia che in Toscana già da qualche anno le persone condisabilità, le quali fanno la scelta di vivere in libertà, dispongono d’unacifra mensile, anche se minima; o che Roma darà inizio a questo civilissimoprogetto agli inizi del ’98; o che Sicilia, Piemonte e Lombardia (grazie a donnee uomini di Enil, cui si vanno aggiungendo altre associazioni) cominciano acapire che questo è il futuro: la libertà di scegliere dove, con chi e comevivere.

Francesco Miotto: il mio teorema
(consigliere comunale di Schio)

E’ una questione statistica. Siamo un popolo pacifico? Avremo pace. Siamo unpopolo di "lecchini"? Avremo pane per le nostre lingue. Ed ecco ilFrancesco’s teorema. Tutto quello che con la nostra energia non cerchiamo dicambiare, quindi che accettiamo, dall’informazione alla politica, è esattamenteciò che ci meritiamo. Accettato il "teorema", si può affermare checiò che "succede-vediamo" in tv (in ogni campo) è il"meglio" che i nostri possono produrre. E probabilmente/forse è anchequello che vogliamo e quindi meritiamo. Ovviamente come gruppo, mediamente. E indemocrazia dovrebbe essere la media, magari dei mediocri, a contare.Conclusione? Non disperiamoci: un’evoluzione culturale, inevitabile come ilpassare del tempo, porterà mutamenti. In meglio? In peggio? Staremo a vedere.Discorso troppo semplice? Troppo generico? Forse un po’ provocatorio. Vi pregocomunque di prendere tutto con le pinze, dato che queste mie strampalate ideesono ovviamente personali. Che poi io abbia, nei riguardi della stampaspecializzata sull’handicap, un’avversione incondizionata e totale, con qualcheraro momento di affetto, è altro argomento.

Ignazio Onnis
(del coordinamento handicap Cgil-Cisl-Uil di Cagliari)
L’attenzione dei media su questo problema è molto frammentata. Di solito le tvsi interessano solo a casi che emotivamente suscitano compassione o pietà, o alcontrario quando qualcuno si trova a fare qualcosa di eccezionale. Con ilrisultato di minimizzare i problemi della maggior parte delle persone. Ecomunque occuparsi di uno per non occuparsi di tutti. Sempre con pacchettipre-confezionati sui quali è difficile incidere. Un esempio: nel luglio ’97 ilnostro coordinamento presenta ai media un progetto sulla "liberacircolazione". Però la giornalista locale di Raitre voleva forzarci lamano su racconti e affermazioni non proprio vere, tipo far dire a me "sonopraticamente isolato a casa, posso a mala pena andare a lavorare, non hoamici". Mi sono rifiutato. Avvilente, a dir poco. Lo stesso avviene sullereti nazionali. Chi forse se ne occupa maggiormente è il Costanzo show,invitando persone con le storie più incredibili di pietismo ed esaltazione, chemuovono sentimenti forti, insieme ad altrettanti casi disperati. Mi chiedo comesi possa approfondire problemi così complessi e delicati in una girandola disituazioni tanto diverse (con attori, scrittori, miss, ecc.). Ricordo anche una"campagna" di 3 anni fa sulle barriere architettoniche che andòavanti per circa 4 ore su varie tv nazionali. A parte alcune contestazioniall’allora ministro Guidi, ricordo che la Rai si prese l’impegno di riprenderequel dialogo entro 6 mesi; ne sono passati 40 e non s’è visto nulla. Semprepuntuale invece la scadenza di Telethon, una maratona che offende la dignitàdegli handicappati che per due giorni diventano merce da spettacolo, premiandola società dei buoni sentimenti per poi dimenticare il problema negli altri 363giorni dell’anno. Mi spiace invece che sia stata chiusa Radiorai Sardegna cheaveva un’eccellente e puntuale (120 puntate) trasmissione, Lo dice la radio. Equalcosa di buono s’è visto anche nella trasmissione della RAI, Storie vere.Infine credo che sarebbe utile varare un "Osservatorio" nazionale perverificare la quantità e qualità delle notizie che passano in tv.

Dionisio Pinna: dalla beneficenza alla beneficenza
(della Comunità di Sestu)

Ricordo che a Cagliari, quando la sede locale della Rai organizzò latrasmissione di supporto a Telethon, invitando decine e decine di organizzazioniimpegnate nel campo dei disabili, alcune di esse declinarono l’invito con undocumento che non venne neanche preso in considerazione. Era il 1992 e da allorasono passati anni-luce. Oggi queste maratone televisive sono diventate unconcentrato assoluto di spettacolo, pubblicità, buoni sentimenti. E in molticercano di imitarle. Perché la raccolta di fondi per questa o quella campagnanon può fare a meno del mezzo televisivo e della sua potenza. Il finegiustifica tutto. Persino le banche diventano "solidali" e ci sidimentica così della loro fondamentale anti-eticità. Non per nulla si cerca didare vita a una banca etica che aiuti il terzo settore, la cooperazione socialee il no-profit a svilupparsi mantenendo fede a certi principi definiti appuntoetici. Il mondo dell’handicap rischia grosso allorché diviene merce espettacolo. Rischia soprattutto di buttare a mare decenni di battaglie peraffermare il diritto alla salute, alla riabilitazione, al reinserimento, allanormalità insomma. La beneficenza, tanto bistrattata negli anni ’70 ma cheserve a far capire i meccanismi attraverso i quali veniva esercitato il dominio,torna a essere la grande protagonista di questo fine millennio. E lo Statodelega sempre più ai buoni di turno il compito della giustizia sociale. E ipoveri, che crescono a vista d’occhio, devono anche dire grazie ai loro grandielemosinieri. In questo modo si rafforza il concetto che se non ci fossero loro(i ricchi generosi) le cose andrebbero ancora peggio. Una società che si affidaal buon cuore dei telespettatori per fare ricerca o combattere l’emarginazioneè una società con uno Stato debole, fondato sui privilegi e sulle ingiustiziesociali, Crediamo che l’associazionismo più serio abbia di che esserepreoccupato.

01-A cinquantamila anni-luce da casa

Umano è. Come la fantascienza racconta l’universo-handicap

Al termine di questa frase "piomberete" in Sentinella, un breve racconto di Fredric Brown: siete pregati di seguire le istruzioni perché altrimenti avrete qualche difficoltà a passare da quel racconto al successivo "sentiero di lettura"…

"Era bagnato fradicio e coperto di fango, aveva fame e freddo ed era lontano cinquantamila anni-luce da casa.
Un sole straniero gettava una gelida luce azzurra e la gravità, doppia di quella cui era abituato, faceva d’ogni movimento un’agonia di fatica.
Dopo decine di migliaia di anni, quell’angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quelli dell’aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro super-armi, ma quando si arrivava al dunque, toccava ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la posizione e tenerla, con il sangue, palmo a palmo. Come questo maledetto pianeta di una stella mai sentita nominare, finché non ci eravamo sbarcati. E adesso era suolo sacro perché c’era arrivato anche il nemico. Il nemico, l’unica altra razza intelligente della GalassiaŠ crudeli, schifosi, ripugnanti mostri.
Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della Galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era
stata la guerra, subito: quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica.

E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie.

Era bagnato fradicio e coperto di fango, aveva fame e freddo e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano d’infiltrarsi e ogni posizione era vitale.
Stava all’erta, il fucile pronto. Lontano cinquantamila anni-luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l’avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle.
Allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più.
Il verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire".

Attenzione! Mancano 3 righe alla fine del racconto di Brown.
Pur se Sentinella è famoso(1) fra gli appassionati di fantascienza, può darsi che molti di voi lo leggano ora per la prima volta. Bene, ai "novellini" si chiede di interagire con Brown (e con Daniele Barbieri, vostra guida nel sentiero) provando a immaginare come il racconto potrebbe finire. Dunque pensateci un po’, magari discutetene con chi avete vicino, abbozzate almeno un paio di ipotesi (banali? geniali? boh) prima di girare pagina.
Ed ecco le 3 righe finali.

"Molti, col passare del tempo, s’erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d’un bianco nauseante, e senza squame".

Lo avevate immaginato? Dopo una cinquantina d’anni Sentinella è ancora squassante. È solo una paginetta, scritta bene ma… quel finale (un tipico colpo di reni alla Fredric Brown) cambia tutto. Nelle ultime 3 righe c’è un rovesciamento di prospettiva del tutto imprevisto: l’orrore dell’alieno esplode sì -come in tanti stereotipi della letteratura fantastica e non – ma davanti a noi d’improvviso appare uno specchio. E lo sgomento è giustificato non dalla bruttezza fisica (noi ovviamente ci vediamo belli, proprio come "o scarafone a mamma sua") ma dallo scoprirci a essere quei mostri sanguinari, vera razza dannata dell’universo, che hanno causato guerre crudeli e interminabili perché – Brown ben ci conosce – "avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica".

02-Con gli occhi degli altri

Umano è. Come la fantascienza racconta l’universo-handicap

Grazie a Sentinella siamo portati dunque (senza preavviso)a guardare il mondo da un’altra parte; anzi, con gli occhi degli altri. E a scoprirci alieni, prima che crudeli.
Cosa significa alieno? Nella fantascienza – d’ora in poi abbreviata in sfi(2)- indica un extra-terrestre, quasi sempre ostile (o considerato tale) spesso immaginato come un essere mostruoso. L’idea di ostilità era all’origine, cioè nella parola latina alienus che può essere usata nei significati di estraneo, straniero ma anche di contrario, avverso, ostile (nella disposizione d’animo, cioè nel sentire).
"Sin dal primo incontro fui sopraffatto dal disgusto e dal terrore": così H. G. Wells presenta i marziani nel famoso La guerra dei mondi. Se gli alieni sono cattivi devono essere brutti; e viceversa (pregiudizi resistenti, come sappiamo … anche perché continuamente alimentati)(3). Nella sfi classica essi somigliano a qualche animale repellente. Per questo negli Usa vennero ribattezzati Bem, ovvero Bug Eyed Monster, i mostri dagli occhi d’insetto. Quella difformità fisica ne fa dei lontani cugini di altri diversi, alieni, barbari che i "terrestri dominanti" hanno incontrato sul loro cammino, cominciando "a combattere senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica". È capitato a indios, pellerossa, "musi gialli", zingari, ebrei, "sporchi negri", omosessuali, pazzi, streghe, "infedeli"… Persino agli albini, cioè coloro che nascono con capelli e pelle molto "schiariti", e in certi luoghi è capitato anche ai mancini. Ancora Wells, considerato più o meno a ragione fra i papà della fantascienza, nel romanzo L’uomo invisibile per scatenarci un senso d’antipatia verso "il cattivo" di turno ci spiega che era un albino.
La diversità in tutte le sue forme, l’incontro con l’incomprensibile e/o con ciò che ci turba (ma sconvolge il nostro profondo o solo gli stereotipi e le abitudini superficiali?) è uno dei temi portanti della sfi. Esiste ovviamente una fantascienza superficiale e reazionaria che affronta l’alieno e/o lo straniero in termini militareschi (prima sparare e poi chiedere chi è), di capro espiatorio su cui scaricare le ansie o i mali della collettività o di bersaglio per riti e divertimenti crudeli.
"È uno straniero, prendiamolo a sassate" diceva, oltre 100 anni fa, una vignetta del Punch (rivista inglese), rimasta celebre. L’intreccio base per migliaia di romanzi, film, telefilm di sfi è tutta lì: ai sassi del Punch sono subentrate armi laser e gli stranieri vengono da Betelgeuse 16 invece che da un villaggio scozzese, si tratta di "xenocidio stellare" invece che di roghi, ma al fondo lo schema è immutato. Lassù, nelle galassie, ci comportiamo proprio come sulla Terra: stupidi, espansionisti, razzisti.

03-Gli stereotipi razzisti nella fantascienza

Umano è. Come la fantascienza racconta l’universo-handicap

La dice lunga sulla povertà del nostro immaginario collettivo che in una letteratura nata all’incrocio fra desiderio e paura sia quasi sempre la seconda a prevalere(4). Anche quando i nemici sulla Terra erano molti (ora ne sono rimasti pochi ma qualcuno se ne può sempre inventare anche dopo che il muro di Berlino è crollato) si poteva giocare, con metafore più o meno rozze, a spostare lo scontro, la paura più in là. Una statistica mostrerebbe che, almeno sino a una certa epoca, di fronte a una miriade di alieni (i citati Bem ma anche "cose", entità incomprensibili e talvolta neppure descrivibili con i nostri criteri) la fantascienza 99 volte su 100 ci propone un solo tipo di terrestre: gli eroici Wasp, cioè la sigla inglese che indica bianchi, anglo-sassoni, protestanti e ovviamente maschi, lo statunitense idealizzato (e inventato).
Occorrono decenni perché nella letteratura avveniristica cresca, circoli, germogli l’idea di un diverso non ostile e dunque una concezione del mondo – per meglio dire dei molti universi possibili (qui e altrove) – non a misura di Wasp o addirittura non bipedo-centrica.
Fino a una certa data (fra poco cercheremo di capire quale) questa tipica "letteratura di genere", o secondo taluni di "serie B", che nasce nel secolo della scienza e della tecnica trionfanti adotta gli stessi stereotipi razzisti tipici della letteratura che pretende la L maiuscola. Anche nella sfi le stimmate del guercio, del gobbo o dello storpio, persino sguardi sfuggenti, fronti basse, unghie sporche, ci indicano dove trovare il nemico… che talora è così indecente da tradire non l’amico o la patria ma l’intera razza umana, alleandosi ai "mostri venuti dallo spazio". Se infido è l’uomo senza una gamba o quello con la pelle marrone, figuriamoci il simil-polipo o un peloso essere bluastro.

05-Un filo di bava

Umano è. Come la fantascienza racconta l’universo-handicap

Chi diavolo è questo "diverso"? Da chi o cosa, e secondo chi, sarebbe differente? Ecco come riassume la faccenda Ursula Le Guin(10). "Il problema sollevato è quello dell’Altro, dell’essere che è diverso da te stesso. Può differire nel sesso; o nel suo reddito annuale; o nel modo di parlare, di vestire o di agire; o nel colore della pelle; o nella quantità di gambe e di teste che ha". O negli spasimi che scuotono il suo corpo, si potrebbe aggiungere; o nell’infinito desiderio di comunicare ostacolato da un handicap o – è forse la stessa persona ma vista con gli occhi della paura altrui – in un "vergognoso" (per chi?) filo di bava che gli scorre sempre vicino alla bocca.
La non vastissima comunità che in Italia legge abitualmente la buona fantascienza(11) sa probabilmente indicare all’istante alcuni titoli-chiave sull’Alieno sessuale o razziale; con qualche riflessione in più potrebbe individuare anche alcuni Alieni culturali e sociali. Ma esistono differenze che, direttamente o in maniera metaforica, rimandano alle disabilità, all’handicap? Dunque scrittori-scrittrici di sfi hanno affrontato la questione di petto? Sì, ci sono. Forse non moltissimi ma quasi sempre di
eccezionale impatto emotivo. Perché molti appassionati di fantascienza faticano a ricordare questi titoli? Opera qui forse una doppia censura o rimozione. La prima è probabilmente ancora numerica: se esistono meno autori/autrici che sanno confrontarsi con questo Alieno, beh deve essere una questione meno importante. La seconda è nella testa di chi legge: spesso è turbato/a ma, con un meccanismo ben noto, preferisce allontanare da sé (in modo più o meno inconscio) l’oggetto dell’imbarazzo e la domanda "cosa davvero mi inquieta?".
Da qui in poi cerco dunque(12) di costruire uno specifico percorso di lettura per individuare come la sfi – o almeno quella tradotta in Italia – abbia affrontato i problemi (o sarebbe più giusto usare un neutrale "fenomeni"?) posti da Handicap City o da "Handicap Haven", come si chiama appunto "il ghetto spaziale" di un romanzo-simbolo che racconteremo in dettaglio.

"Lei stava cercando di raggiungere la coperta con le mani malferme. Considerato che non era nemmeno capace di alzarsi dal letto, non era uno spettacolo. Cooper le porse il bordo della coperta.
-No – disse lei in tono reciso – Regola numero uno. Non aiutare mai un handicappato se non è lui a chiederlo espressamente. Non importa se fa fatica. Deve imparare a chiedere e deve sforzarsi di fare tutto ciò che gli è possibile fare.
-Mi dispiace, non ho mai conosciuto un handicappato.
-Regola numero due. Un negro può chiamare se stesso negro e un handicappato può riferire questo nome a se stesso, ma Dio abbia misericordia dei bianchi sani che usano una o l’altra di queste parole".

Così in un lungo, denso racconto di John Varley(13), scrittore che in un’altra occasione, lo vedremo più avanti, metterà la cecità al centro d’un suo romanzo. Quel che lo sferzante dialogo, riportato qui sopra, suggerisce è che il modo "giusto" per scrivere di handicap non sia nascondere (in nome della retorica "buonista" tanto alla moda?) che problemi possano esistere da una parte o da entrambe. Oppure negare (come la politically correct la quale trincera i fatti dietro i nomi) che le differenze fisiche e psico-fisiche talora suscitino mix di curiosità (prevalentemente positivo) e di paura… E che naturalmente prevarrà il primo o il secondo di questi
sentimenti a seconda dei contesti – storici, culturali, sociali – e delle vicende/esperienze individuali. Come sempre, nella buona letteratura e nel pensiero "ricco", c’interessa il punto d’arrivo ma soprattutto quei viaggi (faticosi, istruttivi, pieni di scorie) che cambiano in profondità i viaggiatori, il loro sguardo e la meta stessa.

Ancora un protagonista con handicap. "I piloti erano completamente sordi per necessità (…) Una persona dotata di udito normale non poteva pilotare un’astronave in mezzo ai punti di sfasamento e uscirne con la mente intatta"(14). Al contrario di Ulisse che rischia, ma solo per un po’, la sanità mentale per ascoltare le Sirene (o dei suoi compagni che possono evitare del tutto ogni pericolo tappandosi temporaneamente le orecchie) qui il volo spaziale è praticabile solo da chi rinuncia – per sempre – ai suoni ma anche alla musica (tanto amata dal personaggio di questo romanzo). Sentire, non poterlo fare, ascoltare "cose diverse" è uno dei temi sotterranei di questa bella storia che non narra l’handicap come menomazione ma come una chiave per entrare in una vita diversa (dove ci sarà meno di qualcosa e più di qualcos’altro). E la dedica iniziale è divisa fra un "a Joje, che sente la musica" e un "ai miei amici sordi che mi hanno insegnato tante cose sulla vita e l’amore. La loro è una musica diversa, scritta nell’aria. Sono persone speciali. Grazie". Non stupisce a questo punto apprendere che l’autore, Jack Caroll Haldeman (secondo, perché fratello del più famoso Joe, anch’egli scrittore di fantascienza) è sordo dalla nascita.

Come era già accaduto a proposito della pelle di alcuni alieni-razziali, anche l’handicap è giudicato talmente poco importante da Loren Mac Gregor che nel suo romanzo d’esordio (15) solamente a pagina 40 il lettore scopre – da una frase gettata lì per inciso – che una delle protagoniste è senza gambe. Non è un effetto choc, all’opposto: la notizia è scritta in modo che possa sfuggire, come per far capire che davvero non interessa in questa storia il grado di "normale" abilità. L’opposto dello stereotipo pietistico che sottolinea un handicap con frasi che in apparenza vorrebbero indicare come sia lieve, e dunque vicino alla norma, ma così facendo svelano la loro perversa concezione per cui anche un solo dito in meno (o in più) sminuirebbe l’essenza umana. Quel nero insomma è quasi un bianco: un altro sforzo, magari un po’ di creme o un piccolo trapianto della pelle e può farcela… a uscire dalla giungla. E a quel disabile si può dedicare (in letteratura o nei mass-media) un po’ di spazio perché ha saltato 2 metri con una gamba sola o perché ha compiuto un’altra impresa insolita e dunque… riceverà il patentino ad honorem della normalità. Razzismi mascherati, come in tanto "voyerismo" televisivo; è la totale incapacità di confrontarsi con la diversità che oltretutto si bea della propria presunta bontà nel rilasciare visti d’ingresso nel Paradiso di quelli che hanno tutto a posto.