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Autore: admin

Il gioco- Nu

Situato al piano terra di un antico palazzo nel cuore del centro storico di Prato, Nu è un laboratorio di gioco dedicato a bambini dai 3 agli 11 anni d’età. È  un centro di servizi ludico-educativi per l’infanzia, uno spazio per bambini e bambine caratterizzato dall’attenzione alla qualità (dei materiali, degli ambienti, delle attività, dei ludo-operatori), dall’utilizzo del gioco come chiave d’accesso privilegiata alla comunicazione coi bambini e tra i bambini e dall’interesse per l’arte e le arti (il colore e le forme, il teatro, la cucina, le storie, la musica e il ritmo). Organizza e gestisce attività sia all’interno della sua sede che all’esterno (in tutta la Toscana, in scuole, piazze, negozi, case, giardini, ecc.), a seconda dei progetti.
Costituito da una sala gioco di più di 50 metri quadri, da una sala-biblioteca e da un grande angolo morbido (oltre ovviamente ad avere uno spazio-ufficio, dei servizi dedicati ai bambini e alle bambine e un piccolo magazzino per riporre i giochi più grandi quando non vengono usati), offre ai bambini attività laboratoriali di teatro, arte, psicomotricità, lettura e cucina. Nu – laboratorio di gioco propone  inoltre numerosi percorsi di formazione su gioco, arte, lettura, scrittura, teatro, musica, rivolti a educatori, genitori e insegnanti.
L’idea che guida il progetto di Nu è che il gioco sia l’ambito più importante e più naturale entro il quale i bambini e le bambine possono crescere armoniosamente, sia come individui, con possibilità e limiti, sia come soggetti di relazioni con altri. Il territorio del gioco, infatti, permette di agire e interagire in uno spazio protetto, senza tensioni o timori, imparando a gestire relazioni ricche e felici e a confrontarsi con le proprie capacità e con le proprie difficoltà.
Per questo al centro delle attività del laboratorio c’è il gioco-Nu: spazi e momenti in cui ai bambini e alle bambine sono proposte attività ludiche coinvolgenti, in cui il ludo-operatore ha un ruolo di contenimento ma non di direzionamento, permettendo contemporaneamente la possibilità di autonomia del singolo ma anche quella di relazioni serene e leggere. L’obiettivo è quello di creare un’esperienza fluida, senza vincoli e senza percorsi obbligati, mantenendo al tempo stesso una forte partecipazione del ludo-operatore. I bambini e le bambine possono quindi scegliere liberamente quale tipo di gioco o attività svolgere e gli spazi e i tempi in cui giocare, senza sentirsi incanalati in attività pre-strutturate ma neppure abbandonati a se stessi.
A questo proposito, lo spazio è suddiviso in tre diverse stanze:

– la stanza-camaleonte: è il cuore di Nu, ed è pensata come una struttura pronta a cambiare, proprio come un camaleonte. Attrezzata con pareti mobili polifunzionali, può ospitare più di trecento giochi piccoli e grandi o trasformarsi in un grande spazio libero, in cui muoversi è facile e divertente; può diventare una vera officina di creatività, con tavoli e materiali o essere trasformata in una città di cartone, con decine di case-scatole sotto cui nascondersi e da cui sbucare; può essere sfruttata per feste di compleanno o per incontri di formazione, può diventare teatro o palestra, aprirsi agli adulti o essere terreno privato dei bambini e delle bambine. Tutti gli elementi con cui è arredata possono essere spostati e riposizionati in modo da creare spazi diversi. Anche il pavimento partecipa a questo gioco di continue metamorfosi, con i suoi Bolli Colorati che possono diventare capanne, pedane guadagna-punti e molto altro, a seconda delle attività che si svolgono;
– l’isola di Nu è la stanza dei laboratori, con un grande angolo morbido destinato ai più piccoli: uno spazio pensato attorno alle esigenze dei bambini e delle bambine tra i 3 e i 5 anni, e dei loro genitori.  È un’isola, con pareti blu e azzurre e un vero mare con cui giocare (pannelli di idro-gel studiati appositamente per asili e ludoteche). È una stanza interna, che non dà sulla strada, in cui ci si sente protetti e caldi. Ospita tappeti in gomma espansa, cuscinoni, poltroncine, animali di peluche, libri in stoffa, dondoli, copertine e tutti i giochi e i materiali dedicati solo ai più piccoli;
 
– l’albero dei libri, è lo spazio-biblioteca, una bella stanza luminosa in cui sono raccolti tutti i libri di  Nu. È una casa su un albero, con grandi foglie verdi sotto cui leggere, accoccolati in un’amaca o sdraiati su una chaise-longue o in mezzo ai cuscini. Il progetto ambisce a non fornire semplicemente volumi, ma una vera e propria selezione dei migliori libri per bambini e bambine in italiano e in altre lingue. L’Albero ospita incontri con gli autori e letture animate.
La musica ha un ruolo fondamentale per il gioco-Nu, sia che sia ascoltata (la musica dello stereo, la musica che accompagna il gioco e ne scandisce i tempi), sia che sia suonata (la musica degli strumenti musicali di Nu, alcuni dei quali possono essere costruiti dagli stessi bambini all’interno dei laboratori creativi).
Anche lo spazio in cui l’attività viene svolta diventa ludico, nel suo aspetto e nella sua struttura: i pannelli polifunzionali, la grande tenda-sipario, le capanne bianche, i contenitori mobili, i Bolli Colorati possono trasformarsi e diventare parte del gioco, in una rincorsa di immaginazione e fantasia.
Il gioco-Nu è festa e scoperta; relazione e sfida; è una possibilità concreta e vicina di interazione felice e di crescita divertita.
Responsabile di questa attività è Francesco Mele, uno psicologo dello sviluppo e dell’educazione, da anni impegnato nell’utilizzo del gioco quale strumento di lavoro psicologico privilegiato; porta in questo progetto e la sua esperienza con i ludobus in tutte le piazze e le scuole di Prato.
Per informazioni
Nu – laboratorio di gioco
Via Cambioni 14
59100 Prato (FI)
Tel. 0574/429.61
Fax 0574/48.41.26
E-mail: info@gioco-nu.it 
Sito: www.gioco-nu.it

I disabili in Brasile: legislazione e iniziative degli ultimi vent’anni

Samba, carnevale, belle spiagge e persone simpatiche. Dall’altra parte violenza, povertà e corruzione. Il Brasile è conosciuto all’estero per molti dei suoi buoni e cattivi aspetti, ma un tema importante è quasi sempre dimenticato dai mezzi d’informazione che vogliono far conoscere questo paese tropicale: i disabili brasiliani. Secondo la più recente ricerca demografica del Brasile, realizzata nel 2000 dall’Istituto Brasiliano di Geografia e Statistica (IBGE), ci sono circa 24,5 milioni di brasiliani disabili, una cifra che corrisponde al 14,5% della popolazione del paese. È un numero significativo, che dimostra la necessità di far attenzione su come vivono questi brasiliani.
Secondo l’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’80% dei disabili di tutto il mondo vive in paesi poveri o in via di sviluppo. Il Brasile rientra in questa statistica, e sicuramente la maggioranza dei disabili brasiliani non ha ancora avuto accesso nemmeno ai diritti primari; tuttavia negli ultimi vent’anni molte azioni e iniziative importanti hanno cominciato a cambiare la situazione.
Il punto di partenza, almeno per quanto riguarda la legislazione, è stata la Costituzione del 1988, la quale, anche se in forma ridotta, ha assicurato regole che riguardano l’integrazione dei disabili nella vita sociale e nel mercato di lavoro. Negli anni successivi, furono stabilite leggi specifiche e più dettagliate per garantire l’accesso ai diritti alla salute, all’educazione, al lavoro e a molti altri. La legislazione brasiliana federale sull’accessibilità è considerata ampia e moderna, ma per arrivare a questo livello è stato necessario molto lavoro e un intenso scambio di idee ed esperienze.
La lotta del movimento dei disabili è stata inoltre la principale responsabile della creazione e della regolamentazione di queste leggi. Come in altri ambiti, ad esempio le lotte contadine dei Sem Terra per una riforma agraria (che deve ancora arrivare) o le lotte sindacali, la società civile in Brasile si è organizzata e continua ancora a lottare per garantire i propri diritti, anche perché ha capito che l’accessibilità è la forma privilegiata per raggiungere l’integrazione sociale. Insieme alle università, ai governi e ai professionisti legati al mondo dei disabili, le associazioni e le ONG hanno contribuito ad arricchire la legislazione, mettendo in evidenza il fatto che l’accessibilità non è ristretta a un insieme di soluzioni per persone disabili o con mobilità ridotta: deve essere intesa anche e soprattutto come un progetto per assistere tutti.
Dal momento che la tematica della disabilità è nuova nel paese, non esiste ancora una sensibilità sull’obbligo di rispettare queste leggi e sulla necessità di farle funzionare nella pratica. E questa situazione si fa presente principalmente nelle migliaia di città piccole sparse nell’immenso territorio brasiliano, dove la circolazione di informazioni è debole e alcuni sindaci deviano le poche risorse disponibili invece di impiegarle in miglioramenti per la popolazione.
Inoltre, la novità della tematica sulla disabilità rende difficile stabilire criteri per valutare il livello di accessibilità in una città o per fare studi comparativi tra il Brasile e altri paesi, anche perché molte nazioni non hanno ancora una ricerca demografica dettagliata. Nonostante queste difficoltà, nel 2004 il Brasile è stato incluso dall’Ong IDRM – International Disability Rights Monitortra i cinque paesi delle Americhe dove il grado di integrazione è maggiore, e uno dei criteri d’analisi è stata la legislazione. Comunque, anche questo tipo di riconoscimento deve servire per riflettere sul lungo cammino che ancora dobbiamo fare verso una situazione veramente favorevole per i milioni di disabili.

Schermo parlante

Il ruolo delle persone disabili in Brasile per lo sviluppo di migliori condizioni di accessibilità si è rivelato essenziale non solo nella lotta per l’attuazione della legislazione esistente, ma anche nella creazione e nel perfezionamento di tecnologie specifiche.

Ne è esempio il caso di Marcelo Pimentel, uno studente cieco di un corso di Informatica dell’Università Federale di Rio di Janeiro che, per superare le sue difficoltà nello studio di discipline legate dirittamente all’uso del computer, ha avviato un importante progetto. Marcelo non voleva più dipendere dal padre e dagli amici per usare il computer e per questo ha iniziato nel 1992, quando ancora frequentava il primo anno di università, una ricerca per svolgere un sistema che facesse interagire il computer con l’utente attraverso la voce. Lui ha ricevuto anche un appoggio strutturale da parte dell’università, ma in breve tempo è stato costretto a interrompere il progetto per la mancanza di persone disponibili ad aiutarlo. Da allora Marcelo ha conosciuto il professore José Antonio dos Santos Borges che, venuto a conoscenza della sua iniziativa, ha deciso di collaborare. Hanno così creato il DosVox, un sistema operativo per disabili visivi e ciechi che può essere usato in ambiente Windows. Il sistema ha un’interfaccia specializzata con l’utente, cioè un lettore di schermi e un programma di sintesi vocale che rendono possibile ai disabili un alto grado di indipendenza nello studio e nel lavoro con il computer. La sintesi vocale è in portoghese, ma la sintesi di testi può essere configurata per altre lingue. La maggioranza dei messaggi trasmessi dal DosVox sono registrazioni di voce umana, un modo molto meno faticoso per un ascolto prolungato.
Dopo avere creato questo sistema, sono stati organizzati dei corsi sul suo funzionamento rivolti agli altri studenti ciechi dell’università, ed è proprio grazie al loro contributo che sono emersi gli aspetti che avrebbero potuto essere migliorati. Inoltre gli stessi studenti hanno suggerito nuovi programmi da aggiungere al DosVox per incrementare le sue possibilità. Il progetto ha cominciato a crescere e per questo è stato creato nel 1993 un gruppo di ricerca sull’accessibilità nel Nucleo di Computazione Elettronica (NCE) dell’Università. Da allora l’NCE continua a perfezionare il sistema DosVox e anche altri sistemi dedicati ai disabili, come il “Teclado Amigo” (Tastiera Amica) per disabili motori, e il Motrix, che ha permesso ai tetraplegici di utilizzare il computer attraverso comandi vocali.
Il DosVox è composto attualmente da più di 80 programmi. Il sistema offre un alto livello di interattività ed è il primo al mondo in cui la sintesi vocale è in portoghese. Questa caratteristica è molto importante, visto che la grande maggioranza dei ciechi brasiliani parla appena la lingua madre. In seguito alla diffusione nazionale raggiunta, il programma è stato richiesto anche in altri paesi della America Latina, e per questa ragione i ricercatori hanno creato una versione ridotta in spagnolo.
Il sistema ha inoltre un carattere sociale: il ricavato delle vendite è usato per continuare a svolgere il sistema stesso, e per quelli che non possono pagare c’è una versione che può essere scaricata gratuitamente da internet sul sito della rete Saci, una rete di comunicazione e diffusione di informazioni sull’handicap. Gli utenti del DosVox hanno a disposizione un servizio di supporto tecnico offerto dal Centro di Appogio Educazionale al Cieco, creato per i ricercatori.
Accessibilità: responsabilità di tutti
Attento a tutte le iniziative promosse dalla società civile e cosciente del proprio ruolo nella promozione e assicurazione dei diritti delle persone disabili, il governo brasiliano ha creato nel 1999 un coordinamento nazionale per l’integrazione delle persone disabili (CORDE), e un consiglio nazionale dei disabili, CONADE.  Il primo è un organo esecutivo, mentre il secondo svolge funzioni deliberative, con rappresentanti nel governo e nella società civile.
Lo scorso maggio il CORDE e il CONADE hanno realizzato la prima conferenza nazionale dei diritti delle persone disabili, nella capitale del paese, Brasilia. L’obiettivo di questo incontro era analizzare le risoluzioni delle conferenze municipali e statali, realizzate prima per tutto il paese, e discutere in una forma più ampia temi quali l’uguaglianza di opportunità, l’inclusione e il rispetto ai diritti. Il tema centrale è stato l’accessibilità, e lo slogan invitava tutti a essere co-responsabili per la promozione dell’accesso generale e illimitato, cosa che in teoria è già stabilita, ma che in pratica ancora è lontana dall’ideale. Circa 1500 rappresentanti del governo e della società hanno partecipato a dibattiti, riunioni e attività artistiche.
La conferenza era dotata di tutte le attrezzature per disabili: vi erano interpreti della lingua brasiliana dei segni, caratteri aumentati per i disabili visivi, braille, cani-guida, aiuto tecnico anche per il pranzo, spazi di circolazione, segnaletica, appartamenti e trasporti adeguati. È stato un bell’esempio di come deve essere attuato il decreto n°  5296 del 2004, che parla dell’accessibilità in tutti gli spazi e i mezzi.
Una delle principali deliberazioni della conferenza è stata la creazione di un organo deputato al controllo e verifica dell’attuazione di questo decreto, e si è suggerito inoltre che il governo federale, assieme ai governi dei singoli stati di cui si compone il Brasile, alle municipalità e alla società civile, stabiliscano azioni per promuovere l’accesso di tutti i beni e i servizi in maniera universale. La conferenza è stata un’opportunità d’incontro e scambio di informazioni e, secondo i partecipanti, è stato un ottimo punto di partenza affinché le cose comincino ad andare bene.
Informazioni
CORDE: www.mj.gov.br/sedh/ct/corde/dpdh/corde/principal.asp
Progetto DosVox: http://intervox.nce.ufrj.br/dosvox/
Rete Saci: www.saci.org.br

“Non l’avevo mai notato…”

Questo pezzo nasce da una chiacchierata spontanea con un’amica (ecco perché non compare il papà), non vuol essere uno stralcio di intervista ad hoc, quanto piuttosto un fotografare una serie di pensieri scaturiti proprio a partire da poche e significative parole scambiate con questa mamma.

“Sai cosa vuol dire che io non avevo mai visto un Down prima?”. “Ma no! Impossibile”. “Allora diciamo così: non l’avevo mai notato”.

Proprio così. “Non lo avevo mai notato…” . La dice lunga questa frase. “Io ho vissuto la mia vita tranquilla fino a tre mesi fa: avevo un marito, due bellissimi bambini, il mio lavoro e i miei impegni in parrocchia; e non avevo mai notato un Down. Mai. Non faceva parte della mia vita, quindi, non me ne accorgevo. Eppure ora mi rendo conto che mia figlia, Anita di tre mesi, nata con la sindrome di Down, non è affatto ‘sola’”.

Una presa di coscienza che questa mamma sente addosso come un peso. Non certo avrebbe voluto accorgersi di quanti Down ci siano in giro perché coinvolta così tanto, troppo, da vicino. Parlando con lei mi sono sopraggiunti una serie di pensieri che hanno a che fare proprio con questo “accorgersi” della disabilità. Io non credo che questa mamma non abbia mai incontrato persone come la sua bambina; forse solo non prestava attenzione; forse, invece, non considerava così tanto importante il fatto che fossero Down. Ora invece la diversità che porta sul volto la sua piccola Anita diventa impossibile da non notare e, come la sua, anche quella di tutti gli altri che abitano questo mondo a sua insaputa. Si è messo in moto uno strano meccanismo che ho sempre pensato all’inverso ma che, evidentemente, non lo è affatto. Ho sempre creduto che trovandosi di fronte una persona disabile, la prima cosa da riconoscere fosse proprio la diversità che questa ha in sé. Pensavo anche si trattasse di una caratteristica impossibile da non considerare, anche nel momento in cui ci si mettesse in relazione. Del resto, in ogni relazione esiste il riconoscimento della diversità dell’altro, altrimenti il bello e il piacevole dell’interazione svanirebbe ancor prima di nascere. Così mi sembrava impossibile vivere non notando “diversità” così evidenti. E dico notarle, nel senso più pulito del termine: prenderne atto, considerarla una caratteristica data e innegabile su cui costruire il rapporto, che può essere di qualunque genere. Sappiamo bene come esistano infiniti modi per rapportarsi alla disabilità e alla “troppa diversità” in genere, che dipendono dalla cultura e dal sentire di ogni persona ma anche, evidentemente, dai ruoli che questo rapporto impone.

Questa mamma, ora, sembra non aver mai considerato la disabilità come una componente della sua vita. Certo ora il ritrovarsi una bambina Down implica un bel cambiamento nelle stesse percezioni. Parlando con lei mi sono anche detta che da un lato questo “non accorgersi” fosse più il frutto di una presa di coscienza forse un po’ violenta e invasiva. Probabilmente questi genitori si sono trovati a fare i conti con qualcosa che hanno sempre pensato appartenere ad altri e con il quale non hanno mai nemmeno lontanamente pensato di relazionarsi. Ora la piccola che hanno tra le mani chiede loro di rivoluzionare un sentire che davano ormai per assodato, in una routine di vita che non prevedeva scossoni.
E, per eccesso, sembra quasi che la bambina non sia Anita, dagli occhi azzurri e dai biondi capelli (è veramente una piccola delizia), quanto invece “la bambina Down che nessuno si aspettava e che chiede a noi tante cure”.

“Metterle le mani addosso significa riconoscerle un bisogno che non avevamo messo in conto; significa pensarla come tanto diversa dai suoi due fratelli. Questo è difficile e non è da tutti”.  Ecco quella presa di coscienza forzata che chiama questi genitori, attraverso la loro piccola, ad accorgersi di un mondo fatto di persone che loro semplicemente… non avevano messo in conto.

“Ora che vedo Anita, vedo anche tutti gli altri che vivono i nostri paesi. Mi sono accorta di Edoardo che lavora in comune e che pulisce le strade”. “ Pochi gironi fa, a Messa, lo guardavo sbracciarsi e dirigere il coretto che canta. Ho pensato [e lo dice con gli occhi lucidi] che anche mia figlia tra qualche anno farà cose di cui gli altri sorridono. Questo è molto triste e demotivante”.

Le chiedo se ha guardato bene il volto di Edoardo nel pulire le strade e nel dirigere il coretto della Messa delle 10.00. Dice che no…non ci ha fatto caso. Mentre penso a quante cose dobbiamo imparare a fare caso, quotidianamente, le dico di provare a guardare bene e a pensare che forse quello ottenuto da Edoardo è un bel risultato, compreso il far sorridere i fedeli della Messa.
Questa mamma ancora non riesce a pensare alla bellezza e all’importanza della vita della sua Anita, così come non riesce a cogliere i traguardi della vita di Edoardo, che scopre e conosce solo oggi nonostante i suoi 26 anni in questo paese, in cui anche lei vive. Non sono questi i progetti che lei costruiva per la sua bambina quando ancora non l’aveva conosciuta e la sentiva solo crescere dentro di sé; probabilmente nessun genitore l’avrebbe fatto, nell’attesa. Ora però si trova a dover fare i conti con una doppia, tripla ma forse anche multipla scoperta: la sua bambina sconvolge i suoi progetti, e la sua vita è una grande nebbia, nella quale non sa dove andare e cosa fare.

“Non posso pensare che Anita faccia cose ‘buffe’ come dirigere un coro della Messa facendo sorridere la gente intorno. Mi farebbe male”. E perché mai?… “Si rende ridicola”.
Forse però sono i suoi occhi di mamma, colpita nel vivo, che faticano a vedere quella gioia di Edoardo, in questo caso, ma potrebbero essere molti altri, nell’assumere un ruolo così importante e riconosciuto come il direttore del coretto. La gente sorride, certo. Non credo si tratti di ridicolizzare.
Forse allora pensare alla vita di questa piccola oggi è difficile. Lo è per una serie di motivi, in realtà, non troppo diversi da quelli che rendono difficile pensare alla vita futura di qualunque bambino di tre mesi. Così questa mamma non riesce a pensare a un progetto sulla vita di Anita che non sia quello di “accontentarsi” del far sorridere. Anzi, probabilmente non riesce proprio a immaginare che anche per la sua bambina sarà possibile parlare di “progetto” per la sua vita. Questa mamma sente il vuoto attorno a sé, sente di non avere basi sulle quali crearsi aspettative (e questo forse non è un male per nessun genitore); questa mamma sa per certo, ora che la sua piccola è così tanto piccola, che il futuro non le riserverà nulla che non sia quell’accontentarsi del sorriso della gente che la vede così tanto diversa e così spesso “ridicola”.
Sono tanti i sentire di questa mamma, ma sono ancora di più, credo, i pensieri che ancora non riesce ad avere: non sa quanto quella bambina diventerà adulta così come non sa come, anche per lei, la vita passerà con le sue fasi e i suoi sviluppi; non sa quanto quella vita avrà il suo corso, con le sue gioie, le sue delusioni, i suoi progetti, i suoi risultati e le sue cadute, così come per ogni persona. Certo si tratterà di cogliere e di saper leggere tutti i passi compiuti da Anita e da quanti vivano in contatto con lei. Solo allora, evidentemente, questa mamma riuscirà a cogliere che anche per Anita esiste un progetto: un progetto grande per la sua vita.  

E vinse la tartaruga: elogio della lentezza

“Potrei essere rinchiuso in un guscio di noce e sentirmi re di sconfinati spazi”. (W. Shakespeare, Amleto). Questa citazione è la preferita di Stephen Hawking, scienziato erede della cattedra di matematica applicata che fu di Newton a Cambridge, famoso per i suoi studi sull’universo in espansione e i buchi neri, ma soprattutto per il fatto di compiere questi calcoli complicatissimi e queste ricerche a memoria, essendo da più di 30 anni costretto all’immobilità, ora quasi totale, dalla sclerosi laterale amiotrofica, malattia che, di solito, non concede più di 2 o 3 anni di vita dal momento della sua diagnosi. Questa sua resistenza alla malattia si unisce a capacità intellettuali che fanno sì che venga sovente definito l’erede di Einstein, Newton e, soprattutto, Galileo, il suo scienziato preferito.
Proprio in nome di questa sua stima particolare per Galileo Galilei, Hawking ha accettato l’invito della Città di Padova a tenere una lezione davanti a 4.000 studenti delle scuole superiori, nonostante ormai viaggi pochissimo e, avendo perso del tutto l’uso della voce, si esprima solo attraverso un sintetizzatore vocale che aziona col movimento delle palpebre.
L’aspetto che più colpisce di questo evento, al di là del contenuto scientifico della lezione, è l’attenzione che questo gruppo di adolescenti ha prestato, incantato, alle parole di Hawking. Parole espresse, dicevamo, con immensa fatica, che proprio per questo hanno affascinato i 4.000 studenti che ascoltavano la traduzione in religioso silenzio e protesi nello sforzo di cogliere ogni singola parola dello scienziato.
Gli stessi professori si sono detti estremamente meravigliati di tanto, inaspettato silenzio e disciplina e di una tale attenzione per una lezione, oltretutto particolarmente impegnativa da seguire, considerando non solo l’argomento, ma soprattutto le difficoltà di espressione di Hawking.   
Ciò stupisce ancora di più nell’era della comunicazione rapida e superficiale degli sms e delle e-mail, che rispecchiano ormai gli unici sistemi che i giovani conoscono per comunicare fra loro. Senza il cellulare o il computer, strumenti che imparano a usare fin dalla più tenera età, i giovani non riuscirebbero più a dirsi nulla, a mettersi d’accordo per vedersi, o anche per non vedersi, ma per parlarsi attraverso le chat o il telefono.
Dunque da cosa deriva tutta questa attenzione dedicata a chi, come Stephen Hawking, ha difficoltà a esprimersi rispettando i tempi frenetici imposti dalla comunicazione in società, in televisione, in politica, ecc.? Non può essere solo una questione di buona educazione, anche perché, come ammettono gli stessi professori, questi ragazzi ne sono quasi del tutto privi. Il fatto è che si rimane davvero colpiti da un modo così diverso di comunicare, cui non si è abituati. Si pensi ai tanti che si esprimono con difficoltà e, soprattutto, lentezza, e che non dispongono dei sofisticati mezzi di cui si serve Hawking, ma affidano la propria comunicazione a una tavoletta di plexiglass con le lettere dell’alfabeto, o a un operatore che traduca, o a sintetizzatori vocali e via dicendo. Anche queste persone, spesso, come è nella mia personale esperienza, ottengono grande attenzione e un reale sforzo nell’ascolto di quanto cercano di esprimere.
I giovani soprattutto, ma anche gli adulti capiscono che è questa la vera sfida, una grande sfida umana e della comunicazione. Non c’è nulla di negativo né noioso in questa lentezza, c’è solo una maggiore elaborazione e profondità di concetti, da parte di chi ha tempo di pensare bene prima di parlare, perché non si può permettere (fortunatamente) di dare risposte istintive o precipitose, cosa che la velocità del parlato spesso non consente di fare. La lentezza, che è quasi sempre vista come qualcosa di negativo e penalizzante, può essere dunque una grande risorsa.
Questo elogio della lentezza ricorda il famoso paradosso del filosofo Zenone, secondo il quale Achille piè veloce, gareggiando con una tartaruga, non avrebbe mai potuto raggiungerla, se solo le avesse lasciato qualche metro di vantaggio. Ugualmente, sembrano esistere due tipi di parole: parole-tartaruga e parole-Achille, più veloci le seconde, più lente le prime. Le tartarughe vanno lente perché si portano dietro la loro corazza, che è anche la loro casa, e devono coordinare i movimenti con molta precisione. Le parole-Achille, invece, sono leggere e passano, a volte senza che nessuno se ne accorga, e proprio per questo perdono il confronto con le parole-tartaruga, che vincono sulla lunga distanza.
E a proposito di paradossi, anche la posta elettronica ne ha uno: il suo simbolo è una chiocciola che, al pari della tartaruga, portandosi dietro il guscio, procede lenta, esattamente all’opposto di quello che in realtà avviene per le e-mail.
Anche la citazione iniziale è un paradosso. Questo termine, etimologicamente, indica qualcosa che va contro l’opinione comune: i paradossi mettono in luce le contraddizioni e aiutano a comprendere la realtà al di là delle apparenze. Ciò è molto utile in una società come la nostra, basata proprio sull’immagine. Il paradosso dunque è come l’handicap: rivela proprio ciò che la mentalità comune tende a nascondere o a dimenticare. Per questo io faccio il tifo per la tartaruga.

La ricaduta

Secondo la definizione del vocabolario: cader di nuovo.
A chi serve la documentazione?
Prima di tutto è utile a chi l’ha prodotta. Le prime ricadute sono su gli autori curatori. Si

può parlare di risultati individuali come la gratificazione personale, l’acquisizione/scoperte di nuove competenze, il senso di auto efficacia, l’acquisizione di nuovi stimoli, senso di protagonismo.
Si può parlare anche di risultati collettivi: arricchire il patrimonio di conoscenze, costruire un linguaggio comune tra i diversi soggetti.
Le ricadute sono diverse rispetto anche al tipo di documentazione. Facendo riferimento a quanto sopra esposto se una documentazione è più incentrata sul contesto scuola dove è nata – dove i destinatari sono lo stesso gruppo classe e corpo docente – le ricadute possono attivare modifiche nel medesimo contesto e restituire valore al quotidiano. La documentazione serve in particolare ai soggetti di quell’ambito educativo in quanto protagonisti, autori – curatori e destinatari sono attivi nello stesso ambiente e spesso ci sono ruoli sovrapposti (alcuni dei protagonisti possono essere autori e insieme destinatari della documentazione). La documentazione allora è utile perché con forza mette in moto consapevolezza e confronto. La documentazione dà forma a una storia: risponde alla necessità di tenere, conservare, recuperare quella storia vissuta con quei ragazzi, con quei docenti. Il confronto che permette la documentazione nel suo attraversamento e nella sua ricaduta consente ai vari interlocutori di chiarirsi, valutarsi e autovalutarsi. Proprio in questo tipo di documentazione è più facile cogliere l’anello virtuoso che lega la documentazione e la pratica educativa. Un esempio è proposto con la documentazione: L’incontro con l’altro e lavori di gruppo per promuovere la socializzazione e per sperimentare la reciprocità in classe presentata nel contributo titolato appunto “La circolarità del processo d’insegnamento-apprendimento attraverso la pratica della documentazione educativo-didattica” di Franca Petrucci, CDE di Cesena.

 

Le ricadute di una documentazione di un progetto istituzionale – come Progetto tutor. Le ragioni del cuore e della mente: l’esperienza di Reggio Emilia documentazione CDI-Reggio Emilia –coinvolgono più soggetti e diversi sono i contesti d’uso. Ancora diverse le ricadute della documentazione di un percorso formativo La CAA come strumento didattico ed educativo del CDIH di Ferrara, dove la documentazione in cd ha incentivato nuove richieste di consulenza, ha stimolato la creazione di gruppi di lavoro permanenti e una riqualificazione dei percorsi.
La ricaduta serve allora agli autori/curatori perché può attivare consapevolezza e restituire senso all’impegno educativo didattico. La ricaduta può essere intesa anche come effetto del messaggio veicolato su i destinatari: in questa accezione è messa in relazione agli obiettivi e alle finalità di intenti del prodotto documentario (fornire informazioni, occasione di riflessione collettiva). La ricaduta può essere anche intesa come “restituzione”: descrive le indicazioni di ritorno di chi fruisce verso chi ha prodotto il documento. La ricaduta /restituzione amplia lo scambio, accosta l’intenzionalità del curatore al punto di vista del fruitore: permette di raccogliere suggerimenti, scoprire elementi trascurati, trovare sintonie, avere conferme dai propri fruitori sull’utilità del prodotto creato. La ricaduta, in tutte le sue forme, dinamizza i legami tra contenuto espresso nella documentazione e i soggetti che li hanno vissuti, i curatori e i destinatari in una prospettiva di rivisitazione, di condivisione, di miglioramento, di riprogettazione/sviluppo di nuovi progetti, di altre iniziative.

Tipologie di documentazione

Usare il termine tipologia di documentazione forse non è del tutto appropriato ma raccogliamo sotto questo termine tutte le riflessioni che sottolineano che le caratteristiche della documentazione mutano rispetto all’universo di racconto che esplorano (micro realtà, macro realtà), ai curatori coinvolti e agli interlocutori a cui si rivolgono.Come si è detto nel gruppo di lavoro ogni operatore di Centro ha portato alcune documentazioni esemplificative in modo da far emergere riflessioni proprio dalle loro analisi.Tra le documentazioni che abbiamo considerato ce ne sono alcune che presentano un forte richiamo al contesto locale in cui sono nate. Sono documentazioni educative /didattiche come: Simone mangiava un limone… e allora diventò un melone e poi si infilò in uno scatolone con il testone (Memo di Modena), L’amica Ranocchia (Laboratorio di Bologna), L’incontro con l’altro presentato dal CDE di Cesena.Queste documentazioni trovano radici nelle proprie realtà di scuole, esplorano situazioni legate a un particolare caso, a un preciso contesto educativo scolastico: ci raccontano progetti educativo-didattici, atmosfere relazionali predisposte per facilitare una buona integrazione. Sono documentazioni curate da educatori e insegnanti e i fruitori espliciti sono gli stessi educatori della scuola o i genitori dei bambini /ragazzi seguiti.Altro tipo di documentazione sono Progetto tutor – Le ragioni del cuore e della mente: l’esperienza di Reggio Emilia, documentazione proposta dal CDI di Reggio Emilia e La CAA come strumento didattico ed educativo presentato dal CDIH di Ferrara.La documentazione di Reggio Emilia è una documentazione di un articolato progetto istituzionale definito con il contributo di istituzioni diverse (comune, provincia…) ed esplora la tematica prescelta – l’esperienza dello “studente tutor” nella scuola superiore – con dovizia di strumenti (focus group, interviste). Il materiale documentario si proietta pertanto al di fuori di una singola realtà scolastica e anche gli interlocutori, a cui si rivolge, sono le famiglie, gli allievi, gli insegnanti, i ragazzi tutor, le scuole di II° grado e gli enti coinvolti.Infine la documentazione portata, all’attenzione del gruppo, dal Centro di Ferrara, è la documentazione di un percorso formativo i cui destinatari sono educatori, insegnanti, operatori di cooperative, famiglie con ragazzi disabili, volontari del servizio civile.Come possiamo notare si passa da documentazioni ben ancorate a un contesto educativo, a prodotti con crescente complessità per la ricchezza dell’intreccio dei temi e di alte correlazioni tra diverse tipologie di autori e destinatari. Chiaramente costruire prodotti complessi richiama un impegno maggiore come sforzo ideativo, collaborativo e nello studio di intenti di chiarezza espositiva.Documentazione e diffusioneUn altro aspetto interessante è il rapporto tra il prodotto documentario e la sua diffusione.A questo riguardo il punto di vista documentalistico offre una peculiarità da tenere presente.Dal punto di vista documentalistico, molte documentazioni educative rientrano nella letteratura grigia. Il termine letteratura grigia indica, nel gergo dei bibliotecari e documentalisti, quella vasta area di documenti non convenzionali che non vengono diffusi attraverso i normali canali costituiti dalle imprese editrici e dalla distribuzione commerciale e perciò difficilmente reperibili. Il riferimento al colore grigio nato negli anni Settanta allude a qualcosa di intermedio tra la normale letteratura bianca dei circuiti commerciali e quella nera completamente inaccessibile. Questa grande categoria di documenti include tesi di laurea, rapporti scientifici e tecnologici, relazioni presentate a convegni, saggi in attesa di accettazione da parte dei periodici, dispense di corsi.Il prodotto documentario può rientrare in questa grossa categoria (poche sono le documentazioni pubblicate) e trova una sua diffusione con canali diversi: le documentazioni possono essere presentate in incontri scolastici, presso Centri di Documentazione. Gli stessi Centri possono farne tirature limitate da diffondere presso scuole, associazioni, istituzioni del proprio territorio, alcuni enti promotori dell’iniziativa/progetto documentato possono farsi carico di divulgarne il prodotto.

In 160 minuti di film 120 secondi di dialogo

160 minuti di bellissime immagini di quotidianità nella grande Abbazia nei pressi di Grenoble, che ospita i monaci certosini: legati al ritmo delle stagioni, i giorni scorrono nel rispetto delle regole

della confraternita, scanditi da preghiere, canti e campane e dove i dialoghi occupano pochissimo spazio. Il riferimento è al film “Il Grande Silenzio” del regista tedesco Philip Groening che ne racconta la vita monacale. La caratteristica peculiare dell’opera cinematografica, alla quale già il titolo fa riferimento, è il silenzio, regola rigorosa dell’organizzazione monastica dei certosini. Il regista invita così lo spettatore a scoprire gesti e sguardi e, trasgressivamente, utilizza prevalentemente un codice visivo per enfatizzare il valore del silenzio: “Solo in completo silenzio si comincia ad ascoltare… solo quando il linguaggio scompare, si comincia a vedere”.Non è nostro scopo approfondire il dibattito di critica che l’uscita della pellicola ha suscitato ma la citazione ci è parsa un pretesto, particolarmente calzante, per cogliere alcuni paralleli e introdurre queste riflessioni oggetto dell’intervento:- l’importanza della presenza di un fuoco tematico, all’interno dell’oggetto della documentazione;- la cura della struttura del messaggio comunicativo.Così, come il film citato, è costruito attorno al valore del silenzio e a un uso della ”fotografia cinematografica” e dispiega la duplice funzione visiva e narrativa delle immagini, anche nell’orientarci al documentare è opportuno individuare un’angolazione educativa-pedagogica-culturale significativa attorno alla quale far ruotare indizi e descrizioni, e curarne poi l’esposizione comunicativa.Importanza del fuoco tematicoCome operatori di Centri un gran aiuto possiamo darlo nella consulenza per la realizzazione di documentazioni fruibili, proprio nel sostenere i curatori a uscire da un’esposizione elencativa delle azioni educative svolte e a incominciare a riflettere sui passaggi significativi, emblematici del proprio intervento, a mettere a fuoco l’oggetto della propria documentazione e scegliere tra strade diverse di racconto. Non è sufficiente, ad esempio, voler raccontare un percorso di psicomotricità svolto nella propria sezione. È importante chiedersi: all’interno di questo territorio semantico, quali possono essere le linee di senso che punteggeranno la presentazione? Tante le possibili scelte: l’esposizione di un particolare approccio teorico, magari sperimentato in un corso formativo, la ricaduta delle attività motorie sui bambini, l’importanza che questa proposta ha avuto per un bambino disabile presente nella sezione… Si parlerà sempre di psicomotricità ma, rispetto al fuoco scelto, alcune figure saranno in primo piano e altre faranno parte dello sfondo. Trovare linee guida dell’esposizione facilita ad articolare il corpo del testo e a prevedere eventuali allegati. Così, se vogliamo raccontare come questo percorso psicomotorio svolto assieme ai compagni ha permesso al bambino disabile di superare alcune impasse, tutte le voci attorno a questo fuoco si intrecceranno nel testo della documentazione mentre potremo collocare, in un allegato, un breve approfondimento sull’approccio psicomotorio utilizzato.Per illustrare meglio queste considerazioni prendiamo ad esempio una documentazione video dal titolo “L’amica Ranocchia”, documentazione appartenente alla dotazione documentaria del Laboratorio. La documentazione è nata in un asilo nido bolognese in una sezione di medi dove era presente anche un bambino in difficoltà.Il video ci illustra come attraverso il personaggio mediatore della ranocchietta i bambini sono stati accompagnati alla scoperta di percorsi sensoriali con uso di materiali diversi, toccandoli, annusandoli, assaggiandoli. Le educatrici hanno proposto le attività a piccolo gruppo per creare un ambiente più rilassante e seguire con maggiore attenzione ciascun bambino.Il supporto scelto dalle educatrici per documentare è stato il video in quanto una documentazione audiovisiva si presta meglio a una fruizione collettiva: voleva essere proposta, in un momento allargato, a tutti i genitori. Scelta del supporto e il fuoco tematico tengono presente che la documentazione sarà offerta alla visione di tutti i genitori di sezione e anche ai genitori del bambino con deficit. Il fuoco tematico che le operatrici hanno scelto infatti è quello di mostrare come tutti abbiano partecipato all’attività e come anche il bambino con deficit, attraverso il percorso, abbia rafforzato l’appartenenza al gruppo dei pari. Le sequenze del video sono pertanto focalizzate su momenti di scambio, di condivisione, di spunti di lavoro che i bambini si offrono scambievolmente. Anche l’individuazione del titolo, “L’amica Ranocchia”, risottolinea l’opzione del punto di vista: chiama in campo il termine amica per sottolineare la relazione creata tra i bimbi e il personaggio della rana che accompagna tutti a scoprire il proprio ecosistema attraverso percorsi sensoriali.Strutturazione del messaggio comunicativoPer sottolineare l’importanza di questo aspetto estrapoliamo un esempio dal libro “Dai fatti alle parole”, pubblicazione realizzata all’interno del Laboratorio dove alcune documentazioni sono divenute oggetto di analisi strutturale e formale grazie anche all’apporto di studiosi della comunicazione e dei linguaggi (sono stati coinvolti un linguista, un grafico, un esperto di educazione all’immagine) che ne hanno evidenziato le diverse grammatiche linguistiche e hanno offerto riflessioni specialistiche .Il linguista ha messo in risalto come la lingua ha tante risorse, per dare presenza a tratti del discorso, far emergere nel testo tratti peculiari e modulare e “colorare” la struttura del messaggio da veicolare.Scegliamo, a tale proposito, alcuni passaggi dalla costruzione della documentazione cartacea “Tra il vedere e il non vedere”.La documentazione mostra, in una classe terza di scuola primaria, tracce, segni, ritmi di Diego, un bambino con grave lesione cerebrale nel tentativo di renderli visibili.Le stesse insegnanti curatrici ci spiegano: “Di fronte a un handicap grave ci possono essere tentativi di non vedere, tentativi di fuga da questa realtà che rimanda dentro di noi sensazioni di impotenza, d’incapacità a proporre qualcosa di adeguato. Il nostro primo tentativo è stato quello di conoscere le tracce di Diego, di renderle percepibili agli altri /altre. Il nostro lavoro non poteva basarsi sugli apprendimenti su obiettivi didattici da perseguire e si è così strutturato sulla necessità di cercare, costruire, accogliere punti di contatto perché Diego non restasse in un mondo a parte, distante”.Due le parti in cui si sviluppa la documentazione: una prima incentrata sulle modalità per conoscere Diego, all’interno del contesto educativo che hanno orientato poi la scelta di alcune attività; una seconda raccoglie i percorsi per incentivare relazioni di scambio tra il bambino disabile e i compagni. Dalla prima parte riportiamo alcune citazioni: “Le osservazioni e le ipotesi ci hanno indirizzato nell’individuare attività tendenti alla tonicità, ricche di stimoli e altre che tendono al rilassamento, nel tentativo di costruire una sorta di continuità, senso di equilibrio tra i due momenti una specie di onda che ritmi il tempo della giornata scolastica di Diego alternando attività e riposo”. L’Onda del tempo è anche il nome del grafico che sintetizza appunto le diverse modalità e permette una lettura del ritmo della giornata e della settimana del bambino, scoprendo somiglianze negli andamenti, momenti di piacere o di malessere.Nell’ultima parte della documentazione, invece, le parole dei compagni, affiancate a disegni, così mostrano il loro compagno in difficoltà: “Diego è come un riccio” oppure “Diego è come una tartaruga”, ”Diego è come un motore che piano piano si accende”.Diverso è quindi il contenuto, ma anche la forma espositiva delle parti: nella prima prevale un linguaggio descrittivo con osservazioni, riflessioni e ipotesi di interventi e la lingua ricorre all’evidenziazione per isolare passaggi sintetizzandoli in tabelle, schemi, diagrammi; nella seconda prepondera un linguaggio iconico e l’uso di figure retoriche. Sono procedure linguistiche, quelle del paragone o della metafora che attribuiscono presenza ponendo in scena altre presenze, spostando analogicamente proprietà e caratteristiche su ciò di cui si vuol parlare. Il lettore stesso tocca con mano l’energia affettiva che è fluita nel lavoro di questa classe: la vicinanza, l’osservazione del compagno in difficoltà, il cogliere il suo modo di proteggersi da momenti di confusione vissuti in classe con momentanee chiusure a riccio, il rifugiarsi nel sonno, i suoi movimenti lenti che, affettuosamente, sono messi in relazione con l’incedere della tartaruga.La lingua, con l’uso di queste figure retoriche, carica il proprio messaggio di intensità emotiva.Va anche precisato che i disegni e le brevi composizioni dei compagni di Diego non sono artifici espositivi per aumentare l’appeal della documentazione ma fanno parte del contenuto profondo del documento stesso: sono specchio/testimonianza di un ricco lavoro svolto tra e con i coetanei di Diego, rivelano la volontà di dare visibilità alle sue tracce che sono, lette e riconosciute, all’interno del gruppo di adulti e bambini. Le stesse insegnanti sottolineano che l’intera documentazione è stata un tentativo di mantenere memoria e dare valore alla relazione.Con queste modalità le insegnanti hanno evidenziato le loro competenze di analisi e sintesi nell’individuare passi peculiari e significativi del percorso svolto; dall’altro mostrano anche una capacità di mettersi nei panni dei propri fruitori per far partecipare il lettore delle sensazioni, dei punti di vista condivisi con chi ha vissuto con loro l’esperienza. Si colgono nella documentazione citata allora modalità razionali (sintesi, tabelle), momenti di riflessione (i curatori si impegnano a discutere il senso, il valore, i risultati del proprio lavoro) e parti di grande partecipazione emotiva. Lo stesso grafico dell’onda del tempo è metafora linguistica che rende l’idea della fluidità necessaria nell’accogliere i ritmi fisiologici del bambino e, attorno a questi, modulare gli stimoli adeguati.In questa documentazione il filo della lingua lega i documenti menzionati con una punteggiatura emozionale.Come la presenza di solo 120 secondi di dialogo connota una tessitura visiva del film “Il Grande Silenzio”, così nella documentazione “Tra il vedere e non vedere” il prevalere del linguaggio analogico, ampiamente utilizzato, è stato comunque valutato come più consono a trasmettere l’atmosfera emotiva vissuta.Le indicazioni fino a ora esposte ci portano a voler sottolineare, in generale, un aspetto peculiare del prodotto documentario: “La documentazione è vista come intreccio argomentativo che lega, raccorda, mette a confronto i dati di testimonianza. […] Tali intrecci di testimonianze ed eventi possono essere raccordati da una lingua che informa, descrive, sintetizza, fa vivere i vissuti” .Ogni documentazione, pertanto, non coincide con un racconto. C’è sempre un dosaggio della mente e del cuore. Quando si dice raccontiamo l’esperienza si fa riferimento a un uso esteso del termine narratività (possibilità di un avvenimento di entrare a far parte di un codice destinato a produrre storie) e non come modo in cui, attraverso un dato linguaggio, viene raccontato un avvenimento (testo narrativo in opposizione a testo poetico, argomentativo).Nelle esperienze documentate gli avvenimenti sono raccontati, mostrati dove le azioni sono “nuclei uniti da una relazione di solidarietà”, dove si può inserire la prospettiva discorsiva con evoluzioni verso un’opzione metalinguistica.

Il prodotto

Il vocabolario definisce il prodotto come risultato ottenuto. Nel nostro caso il prodotto documentario è il frutto delle operazioni procedurali sopra descritte.
Che caratteristiche ha la documentazione prodotta? Quale la sua peculiarità? Con quale “veste” si presenta.
Sotto questa angolazione sono emersi diversi aspetti:
– la documentazione come oggetto informativo;
– la peculiarità informativa veicolata in un prodotto documentario;
– la necessità di curare la leggibilità del prodotto;
– le tipologie di documentazione;
– il rapporto del prodotto documentario con la sua diffusione.

Documentazione come particolare oggetto informativo
Un importante autore sottolinea che ogni documentazione prodotta è fedele all’obiettivo di “fare conoscere ciò che è stato fatto per poter fare” . Possiamo dire che la documentazione “è dare nuovo senso e significato a ciò che si è fatto, è produrre un testo da offrire all’interpretazione propria e altrui”.
La documentazione è quindi un oggetto informativo.
Nella documentazione circola però un tipo di informazione particolare: si crea nel processo didattico e consente, ai soggetti che vi partecipano, di aumentare una conoscenza comune. La comunicazione che mette in circolo si sposa con le valenze educative della mediazione didattica: le documentazioni ci parlano di strategie, entrano nel vivo della prassi, possono evidenziare battute d’arresto e piccole conquiste del gruppo classe o di un singolo alunno, sottolineano facilitazioni che hanno funzionato in quel particolare contesto. Le unità informative così costruite alimentano quel “processo di circolarità delle conoscenze” trasformandole in risorse utili per altri insegnanti. Dato che – qualsiasi informazione, per essere veicolata, si appoggia a un supporto – rispetto al supporto possiamo avere documentazioni cartacee e video prodotti, cd (possiamo cioè privilegiare un supporto cartaceo o supporto informatico).
Si può descrivere il prodotto parlando allora di adeguatezza del supporto informativo in termini di funzionalità, fruibilità e diffusione.
Il prodotto documentario come oggetto informativo deve infatti fare i conti con aspetti di forma, struttura, funzione: come sono veicolati i contenuti, quali le scelte compositive rispetto all’oggetto della documentazione e alle diverse identità dell’utenza.
Le letture che si possono fare di un prodotto sono tante così anche l’analisi delle sue caratteristiche.
Nel gruppo ci si è soffermati sulla leggibilità del prodotto.

Leggibilità del prodotto
Ogni prodotto documentario mostra una sua prima identità attraverso i suoi dati identificativi di copertina: chi l’ha prodotto, gli autori/curatori e gli enti di riferimento, l’anno in cui è stato realizzato, il titolo di copertina come sua dominazione. Questi dati permettono ai fruitori di capirne la provenienza, di datarne la realizzazione e cogliere i temi portanti. Il titolo stesso del prodotto spesso orienta il lettore sull’argomento trattato. Tutti questi sono indizi di cornice che rendono visibile il documento e ne permettono un primo chiaro accesso.
Per leggibilità si è poi intesa la facile consultazione e lettura. La leggibilità di una documentazione apre il discorso sulla sua efficacia di scambio, sulla sua capacità di veicolare i messaggi contenuti. Vuole dire porre l’attenzione su come i contenuti sono proposti.
Si può parlare allora di adeguatezza della strutturazione del prodotto: cogliendone la sua tessitura logica, il linguaggio utilizzato, lo stile espositivo rispetto agli ipotetici destinatari.

All’interno di questo ambito si sono individuate diverse riflessioni, ne elenchiamo alcune:
– la necessità di studiare la struttura complessiva del prodotto;
– la presenza di un fuoco tematico all’interno del cosa documentare;
– la strutturazione del messaggio comunicativo.

È importante, per il gruppo che si accinge a documentare, valutare la struttura complessiva che si vuole dare al prodotto finito. Ad esempio costruire un indice, quando ci si accinge a dare forma e ordine alla materiale memoria raccolta, diviene filo conduttore per l’esposizione. L’indice scandisce la struttura del prodotto: ne individua le parti espositive; darsi un indice chiama a riflettere sull’articolazione delle parti informative, come queste stanno in equilibrio tra loro, quali i legami logici e di rimando. La struttura dell’indice è da considerarsi nel suo duplice aspetto: è di ausilio a chi costruisce la documentazione in quanto individua i nuclei narrativi portanti ma orienta anche il lettore nella fruizione del prodotto. Un esempio in questa direzione è fornito dalla documentazione messa a disposizione del gruppo dal Centro Memo di Modena nell’articolo dal titolo “Indice: il gioco delle parti”.
Se dalla struttura dell’indice passiamo al testo di una documentazione verifichiamo che nei prodotti documentari più riusciti è possibile rintracciare un filo conduttore, più o meno esplicito, che attraversa tutta la composizione e guida il lettore verso un particolare punto di vista espositivo. Possiamo parlare di fuoco tematico all’interno dell’oggetto da documentare.
La presenza del fuoco tematico indica l’angolazione con la quale il curatore ha organizzato i materiali testimonianza. All’interno del cosa documentare, possono esserci infatti tante prospettive che esplorano sentieri informativi diversi all’interno dello stesso tema. È quindi utile, anche in fase di progettazione della documentazione, porsi questa domanda per aiutare il gruppo che si fa carico del processo di documentazione, a orientare sempre più le scelte dei materiali più pertinenti. Questo aspetto è indagato più a fondo nel contributo “In 160 minuti di film 120 secondi di dialogo”
curato dal Laboratorio di Documentazione e Formazione del Comune di Bologna che nel medesimo intervento propone anche una riflessione sul tema della strutturazione del messaggio comunicativo.
Infatti la leggibilità e la comprensione del prodotto documentario passa anche attraverso la presenza di un linguaggio e uno stile espositivo consono alla peculiarità del tema trattato e del destinatario individuato, capace di offrire una regia compositiva mettendo in equilibrio parti di racconto, di descrizione di eventi, di riflessione degli autori, armonizzando scelte di testo e immagini.
Lo studio della struttura complessiva del prodotto, il tener conto di un fuoco tematico, come filo conduttore della composizione, e la cura della predisposizione del messaggio, che si vuole veicolare, sono tutti aspetti che possono concorrere a rendere più fruibile ed efficace un prodotto documentario

Consulenza D.O.C.

Per illustrare l’attività di consulenza sulla documentazione educativa che MeMo, il Multicentro educativo Modena “Sergio Neri”, mette in atto per accompagnare e sostenere gli utenti che la richiedono,

 

prendiamo ad esempio la documentazione dal titolo “Simone mangiava un limone…”.
È una documentazione che risale al 1999 e, in forma narrativa, racconta i cinque anni di permanenza alla scuola elementare di un bambino psicotico con tratti autistici.
Sono proprio le docenti curricolari che hanno accompagnato il bambino per tutta la durata della scuola elementare a rivolgersi al Centro per verificare la possibilità di rielaborare in forma documentaria l’esperienza vissuta. Sono state sollecitate in questo dalla Dirigente Scolastica e dalla Responsabile dell’Ufficio del Provveditorato agli Studi, che si occupava dell’integrazione scolastica degli alunni in situazione di handicap, le quali rilevavano nell’esperienza condotta tratti molto significativi.
È interessante notare che sono solo loro le autrici di questo materiale, non tanto perché non ci sia stata collaborazione con i docenti di sostegno che si sono alternati durante tutto il periodo, quanto perché, proprio a causa di questa alternanza, loro sono state le testimoni di una continuità di lavoro che, per utilizzare una loro metafora, le aveva sollecitate a “costruire e cucire un tessuto che non cedesse. A volte si sono riaperte certe cuciture un po’ lise, ma c’erano la volontà e l’impegno necessari per riaggiustare lo strappo e proseguire, per riaggiustare e proseguire…”.
Ciò che queste insegnanti manifestano durante il primo colloquio con il responsabile del Centro è una forte motivazione personale nel voler produrre, attraverso l’analisi del loro percorso, una documentazione che potesse lasciare una traccia affinché non si ripetesse ciò che a loro era successo durante la ricerca di esperienze simili: “Sicuramente altri hanno vissuto e hanno affrontato situazioni analoghe in modo esemplare, ma non hanno lasciato nulla, come se il loro lavoro non fosse esistito”.
Manifestano, però, anche un bisogno di sostegno, di confronto e di accompagnamento da attuare durante le fasi di lavoro sulla documentazione, sicuramente determinato dalla vastità di materiali grezzi a cui potevano fare riferimento e dalla loro “inesperienza”: infatti, era la prima volta che affrontavano un progetto di documentazione di questo tipo.
Il Centro, quindi, propone loro di usufruire dell’attività di consulenza sulla documentazione che si concretizza su due livelli di lavoro:
– uno che interessa in particolare le competenze specifiche in tema di documentazione educativa, gestito da una persona esperta esterna al Centro e dalle operatrici del centro stesso;
– l’altro che riguarda l’utilizzo delle strutture e delle attrezzature del Centro, gestito sempre da personale interno, al fine di realizzare, come prodotto finito, un fascicolo stampato in più copie che possa prevedere, quindi, un’ampia diffusione.
L’approccio consulenziale che viene attivato dalle operatrici del Centro è simile alla modalità definita “consulenza di processo” in cui l’intervento di accompagnamento rivolto alle docenti/autrici si realizza attraverso forme di supporto sul metodo e sull’analisi delle fasi salienti del lavoro, sulla strutturazione dei contenuti, sull’analisi dei problemi e delle criticità, sull’individuazione di possibili soluzioni.
Fulcro centrale, di tale approccio, è l’ascolto attivo, fatto di domande, di interazione, di reciprocità, di negoziazione, di rispecchiamento. L’ascolto attivo richiede una modalità di osservazione molto più accurata e riflessiva, attenta ai particolari e alle forme, meno soggetta all’urgenza classificatoria e all’influenza del senso comune. Un atteggiamento di questo tipo ha fatto sì che al centro del processo di costruzione della documentazione si siano trovate le autrici con i loro portati di esperienze, saperi, vissuti e problemi. Il rapporto di interazione che si è definito con le consulenti, attraverso funzioni di facilitazione, di accompagnamento e di orientamento, ha posto le condizioni affinché le insegnanti si siano sentite accolte e sollecitate a mettere in gioco tutte le loro risorse e a indirizzarle verso l’obiettivo condiviso del progetto di documentazione.
Cerchiamo ora di analizzare quali fasi di lavoro ci hanno portato alla definizione del progetto. Per rendere questo passaggio più completo ci sembra utile recuperare anche le fasi iniziali di contatto tra le docenti e le operatrici del Centro in quanto, come già espresso sopra, servono per instaurare un clima di interdipendenza reciproca, importante per la collaborazione e il rispetto dei ruoli:
– incontro tra autori e operatori;
– il racconto dell’esperienza;
– l’analisi delle motivazioni – implicite o esplicite – dei bisogni e delle aspettative delle autrici.

 

Lo spunto per un breve commento a queste prime fasi di lavoro lo recuperiamo dalle conclusioni stesse delle autrici: il voler rendere partecipi anche altre persone di un’esperienza irripetibile, dalla quale però è stato necessario prendere un po’ di distacco, soprattutto emotivo, per poter vedere i segni, le tracce di un lavoro che è stato fatto di pensieri, di ricerche, di scelte, a volte anche “forti”, ma che hanno sempre avuto l’insistente “caratteristica di voler raggiungere un obiettivo”.
Oltre a queste motivazioni, sicuramente ve ne erano anche di più personali. “Far emergere il bisogno di chi scrive può evidenziare per esempio un bisogno di gratificazione, che valorizzi il sapere professionale rendendolo visibile. La fase dell’esplorazione si traduce nell’esplicitazione di questi elementi, ed è utile che alcuni bisogni, alcuni obiettivi interni possano essere detti. Soprattutto nella dimensione del lavoro di gruppo, se più persone lavorano a un progetto è importante che impieghino del tempo per dirsi cosa le spinge, quante risorse pensano di poterci mettere, quali aspettative sono presenti. Esplorare le motivazioni significa porsi domande, andare avanti col pensiero nelle possibilità” :

– chi sono i destinatari della documentazione, coloro cioè a cui si rivolge in modo particolare;
– l’individuazione del tema centrale attorno al quale articolare il resoconto dell’esperienza. Raccontare, in questo caso, cinque anni di vita alla scuola elementare ha, per forza di cose, imposto la scelta di un nucleo tematico particolarmente significativo – la comunicazione – attorno al quale gli episodi, i resoconti potessero però restituire il profilo di quel bambino, di quella classe, di quegli insegnanti che in quel periodo di tempo hanno vissuto quella esperienza insieme;
– l’impostazione delle modalità di documentazione (la scelta della forma narrativa, la scelta dei materiali…);
– la stesura scritta da parte delle autrici;
– la lettura da parte delle operatrici e la discussione su eventuali problemi aperti;
– l’indice e la bibliografia;
– l’introduzione e le conclusioni;
– la premessa a cura delle operatrici del Centro che restituiscono, sotto forma metodologica, il percorso attivato;
– l’editing e la stampa.

Sul finire di queste riflessioni credo che si possa sostenere l’importanza del lavoro di “rifinitura” che operano coloro che si occupano delle azioni che riguardano l’editing e, successivamente, la stampa.
Obiettivo non secondario di un progetto di documentazione di questo tipo è quello di produrre un materiale facilmente leggibile e gradevole alla vista. Per questo la scelta del formato del fascicolo, del carattere di scrittura, della copertina… risultano importanti ed essenziali alla diffusione del materiale stesso. Fondamentale è infatti, soprattutto per un Centro di Documentazione, considerare le documentazioni educative come risorse utili alla diffusione, per creare occasioni di scambio e di confronto, per recuperare strategie di lavoro che spesso rimarrebbero nascoste.

Conclusioni a struttura aperta

In questa carrellata abbiamo cercato di esporre, nel processo del documentare, alcune buone caratteristiche che si sono rilevate utili ed efficaci nei contesti da noi sperimentati: ne sono uscite tracce, piste di lavoro che possono orientare la produzione di documentazioni di qualità. Per il momento ci sentiamo di offrire alcune “foto istantanee” che mostrano buone pratiche in atto con l’intento di aprire un dibattito su una tematica delicata da approfondire. Alcune delle aree considerate e le relative parole chiave, giocate nel contributo, potranno, se ben analizzate, assumere la definizione di categorie di indicatori e descrittori di azioni. Abbiamo anche tratto dei paralleli con lo studio di indicatori di qualità proposti per vagliare servizi educativi o buone prassi didattiche. Si è così osservato che, nella maggior parte dei casi, gli indicatori sono organizzati sulla base di tre gruppi di criteri: struttura/processo/risultato.Senza nessuna pretesa di sistematicità si è abbozzato un’organizzazione delle “nostre foto” per sezioni.La Sezione A raccoglie elementi in tre sottocategorie che possono connotare aspetti strutturali: come i servizi e le scuole predispongono le risorse disponibili a sostegno del processo del documentare.Sezione ARisorse umane: – gruppo di lavoro nella scuola a supporto del processo di documentazione;- collegamento con Centri di documentazione territoriali per usufruire di consulenze o percorsi formativi offerti in queste strutture.Risorse strumentali: attrezzature.Risorse finanziarie: canali economici, fondi per la reperibilità di materiali e strumentazioni, pagamento di esperti.Nella sezione B appaiono gli aspetti di organizzazione che possono permettere una buona realizzazione della documentazione e mantenerne monitorato il processo.Sezione B- raccordo programmazione educativa/documentazione (operatori coinvolti, tempi, metodologie);- progetto di documentazione (operatori coinvolti, tempi, metodologie);- valutazione (scelta dell’esperienza da documentare, valutazione del prodotto documentario).Nella Sezione C si descrivono i risultati in relazione alla costruzione del prodotto (le prime sei voci dell’elenco che segue) e in relazione ai soggetti coinvolti. Sezione C- leggibilità;- visibilità;- trasferibilità;- coerenza e coesione (connessioni, nella presentazione del progetto documentato, tra contenuti, modalità operative e ragioni teoriche);- flessibilità del prodotto;- collaborazioni;- integrazione delle professionalità;- interistituzionalità;- competenze professionali acquisite dai partecipanti al processo documentale. Gli stessi elementi esposti nella tabella C potrebbero essere considerati anche aspetti di processo. Ad esempio la leggibilità, come risultato di un buon prodotto fruibile, è anche elemento da considerare come processo, così come l’integrazione delle professionalità non è solo elemento di risultato ma anche un elemento importante, e buon punto di partenza, del processo.In ogni modo le varie aree si intersecano e, a volte, aspetti dell’una sono possibile cause di altri.Oltre che in sezioni le “nostre foto estantanee” potrebbero essere raccolte con un’organizzazione circolare, a spirale aperta, per mostrare come le varie azioni si richiamano l’una con l’altra e si connettono tra loro mantenendo così dialogato il processo del documentare. La documentazione comunque non ha esaurito il suo compito e funzione quando viene redatta formalmente ed è quindi capace di dar conto delle esperienze realizzate.Per quanto fino a ora sostenuto una documentazione diviene significativa se permette di consegnare alla memoria un percorso, di monitorare l’evoluzione di un’esperienza e testimoniarne l’efficacia educativo-didattica e presenta quella struttura aperta e vitale da riattivare idee e riflessioni.Non bisogna dimenticare un elemento essenziale della documentazione che è quello della diffusione, della sua circolarità e soprattutto tenendo presente il suo valore di “azione mentale” capace di porre l’attenzione sugli aspetti di interpretazione, rielaborazione e riprogettazione.A sostegno del nostro argomentare ricordiamo alcune parole di autori che hanno riflettuto sul tema della documentazione.Riccardo Massa ci dice che la documentazione “sostiene il protagonismo degli insegnanti e degli alunni e istituisce un campo materiale di esperienza e di rielaborazione culturale”, è “una strategia di riappropriazione di sapere”.Andrea Canevaro afferma che se ci sono realizzazioni concrete documentate “il lettore è chiamato a curiosare, indagare e criticare mettendole in relazione alla propria situazione e al proprio contesto”.Aldo Masullo, parlando di conoscenza, sostiene che “la conoscenza è il risultato di una collaborazione, di un con-correre alla formazione di un’idea, alla sua effettiva incarnazione da parte dei singoli soggetti che insieme si confrontano e vi trasferiscono informazioni arrivando appunto a conoscenze comuni e condivise”.Queste considerazioni ci portano a sottolineare con più forza alcuni passaggi già espressi nel testo: che la documentazione e la successiva diffusione di esperienze e pratiche di lavoro ha lo scopo di aumentare la conoscenza e la ricerca di trasferibilità, nella convinzione che è a partire dalla rielaborazione di esperienze che si creano le premesse per un aumento della partecipazione e della crescita dei soggetti rispetto alla dimensione professionale. Un invito quindi a non perdere di vista la funzione di servizio della documentazione in un orizzonte più ampio di responsabilità educativa. Le parole chiave procedura, prodotto e ricaduta – termini che hanno orientato la nostra esposizione e scandiscono passaggi salienti del processo del documentare – si raccordano a un filo concettuale che trova radici nel valore della cultura della documentazione e delle sue procedure tecniche di costruzione e proietta ancora oltre il prodotto documentario verso un riutilizzo più esteso che oltrepassa i confini dei protagonisti, degli autori e dei destinatari pensati. Questa ulteriore prospettiva mette in luce piani ricomposti in un quadro complesso: rilegge anche le buone pratiche del documentare in relazione alle idee, i significati condivisi, gli elementi sostanziali della relazione educativa didattica collocando anche questa ultima nell’insieme dei legami culturali e sociali che la determinano.L’attivazione di utilizzo della documentazione in contesti diversi è ben visibile nella funzione documentativa che caratterizza proprio l’identità dei Centri di documentazione. Tale funzione è radicata nel mettere a disposizione archivi strutturati di materiali e di esperienze documentate che possono essere così oggetto di ulteriori letture. La logica che sottende l’organizzazione di archivi è quella della ricerca ipertestuale: è come se le biblioteche e le banche dati fossero dei grandi ipertesti, all’interno dei quali è possibile costruire percorsi trasversali di collegamento e di approfondimento personalizzati.Anche le documentazioni qui raccolte vivono di vita propria ma possono trovare anche rimandi, vicinanze con altri materiali raccolti e arricchire il fruitore di spunti. La dotazione documentaria di un Centro può sostenere l’elaborazione dell’esperienza professionale e formativa degli insegnanti. La dotazione documentaria è un modo di capitalizzare le esperienze educative e didattiche e le documentazioni raccolte permettono il superamento dell’autoreferenzialità e stimolano l’interscambio. Per gli insegnanti, confrontarsi e discutere dei propri prodotti di lavoro e delle strategie che a essi sottostanno, porta indubbiamente a creare un senso di condivisione e di appartenenza sia professionale (ci ritroviamo nelle stesse problematiche, ci scambiamo le soluzioni…), sia istituzionale, favorendo uno spirito di prospettiva collegiale.Con questa ottica negli ultimi anni si sono attivati sempre più collaborazioni tra Centri e Istituzioni scolastiche per organizzare percorsi formativi che fanno riferimento a scambio di esperienze, analisi di documentazioni facilitando così la predisposizione di percorsi legati a bisogni che nascono dallo sviluppo concreto del lavoro di sperimentazione degli insegnanti.Altre opportunità di riutilizzo delle documentazioni possono essere pensate in circostanza di iniziative pubbliche: mostre, dibattiti, convegni.La documentazione, che circola, che esce nel territorio e che si fa conoscere da istituzioni, agenzie, associazioni, genitori, apre rapporti e relazioni con tutti questi soggetti e comincia a proporre, con più forza, la sua presenza chiedendo un dialogo sul fare concreto e non soltanto sul sentito dire.Pensiamo pertanto importante l’impegno di creare sempre più occasioni, a carattere costante e duraturo nel tempo, che favoriscano la valorizzazione e un utilizzo delle raccolte documentarie in contesti sempre più ampi.

La documentazione di un percorso formativo: supporti e ricadute

Il Centro documentazione handicap (CDIH) di Ferrara ha curato particolarmente a partire dal 2004 i settori della consulenza alle scuole e la formazione. In particolare il Centro si è specializzato in ambito tecnologico, hardware e software, progettazione didattica con l’ausilio delle tecnologie e nell’ambito della Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA), cioè l’utilizzo di metodi e linguaggi simbolici per aumentare o vicariare eventuali problemi di comunicazione degli alunni.
In questo contesto è nata l’idea di organizzare un percorso formativo di 15 ore sulla CAA, in collaborazione con il Servizio riabilitazione Infanzia e Adolescenza dell’USL di Ferrara a cui hanno partecipato insegnanti, educatori, operatori della cooperazione sociale, operatori sociali e sanitari, famiglie.
Gli obiettivi del Laboratorio Formativo, possono essere così sintetizzati:
– dare un’informativa di base sulla CAA;
– riunire i diversi servizi che potessero utilizzare la CAA nei rispettivi contesti;
– instaurare percorsi di collaborazione scuola/servizi/famiglia;
– presentare le possibilità del CDIH rispetto al lavoro di consulenza;
– formare un gruppo permanente di lavoro, multidisciplinare su queste tematiche.

Nella fase di progettazione del Laboratorio Formativo ci si è posti il problema di come documentare l’esperienza soprattutto per avere una ricaduta positiva rispetto agli obiettivi che ci si era proposti. In questo caso, forse più che in altre situazioni, era infatti fondamentale individuare un tipo di documentazione che permettesse il decollo alla fine dell’esperienza formativa “frontale” di una serie di esperienze.
Progettare la documentazione diventa quindi uno dei fattori fondamentali per dare un senso compiuto al progetto formativo. Abbiamo quindi valutato alcuni fattori, alcuni punti focali da cui partire per definire metodologie di lavoro e contenuti:
– destinatari molto diversi fra loro per formazione competenze interessi coinvolgimento personale;
– necessità di individuare un supporto flessibile, facilmente divulgabile, che permettesse l’inserimento di contenuti diversi;
– trovare modalità documentative che potessero destare l’interesse verso la CAA e soprattutto che facilitassero esperienze di autoformazione e approfondimento nei partecipanti;
– rimanere all’interno del budget non certo molto alto che avevamo a disposizione.

Partendo dalla vocazione “tecnologica” del nostro Centro si è quindi deciso di fornire una documentazione non su materiale cartaceo ma su un cd rom, supporto che risulta decisamente vantaggioso sotto diversi aspetti. Il primo è la flessibilità in quanto nel cd si possono inserire informazioni testuali, immagini, filmati, software di utilizzo gratuito con tantissime possibilità per quello che riguarda le modalità, l’ordine, la forma grafica di presentazione dei contenuti. 
Un altro fattore importante è la facilità di divulgazione delle informazioni, ad esempio il contenuto del cd è stato messo a disposizione sul sito del nostro Centro, e non ultimo l’economicità del supporto. Questo punto è stato per noi fondamentale in quanto la scelta di un forte risparmio su eventuali spese tipografiche ci ha permesso di investire in risorse umane per la realizzazione della documentazione, che è stata curata in quasi tutte le sue parti da una collaboratrice esterna al Centro.
Presupposto fondamentale che è alla base dell’intero lavoro è quello che chi frequentava il corso avesse a disposizione un computer cosa che, ormai, vista la diffusione del pc nelle case, nelle scuole e nei servizi, risulta una realtà consolidata, almeno nella nostra realtà territoriale.
Analizziamo il contenuto della documentazione cercando di approfondirne alcuni punti in una chiave di lettura che espliciti soprattutto la ricaduta che ci si aspettava dalla documentazione e la flessibilità del supporto, fondamentale per il progetto formativo che ambiva all’autoformazione.

Vediamo in particolare il sommario della documentazione per approfondirne i contenuti:

  • Introduzione: che cos’è la CAA
  • I principali sistemi simbolici
  • Esempi di tabelle di comunicazione
  • Presentazione di un caso

 

Possiamo definire questa parte come la più “tradizionale”, vi si esprimono i contenuti del corso, un excursus generale sui principali sistemi di comunicazione simbolica e quindi un’esplicitazione di taglio più pratico rispetto a singole tabelle di comunicazione e a un caso di riferimento.
Vorrei approfondire maggiormente la parte relativa alle appendici e agli allegati in quanto proprio in queste 2 sezioni si apprezza maggiormente il supporto e si focalizza il tema della ricaduta del riuso della documentazione e dell’obiettivo relativo all’autoformazione.

Appendici

  • Siti web italiani e stranieri
  • Ausili e materiali
  • Software
  • Bibliografia italiana e internazionale
  • Pubblicazioni e materiali
  • Informazioni sulla associazione ISAAC Italy
  • Alcuni articoli sulla CCA

Queste appendici sono state progettate e realizzate partendo dagli obiettivi che il corso si proponeva, ma anche ponendo molta attenzione alla composizione eterogenea degli iscritti e cercando quindi di fornire strumenti utili nelle diverse situazioni. Analizziamo di seguito punto per punto l’elenco delle appendici cercando di puntualizzare le ricadute possibili secondo i diversi fruitori.
Elenco siti (sitografia): possibilità di approfondire con facilità argomenti di particolare interesse attraverso internet e quindi a costi praticamente zero. I siti proposti sono sia di tipo prettamente “tecnico” e quindi fruibili in modo particolare da operatori del settore (tecnici AUSL, insegnanti) che più divulgativi, legati ad esempio alle associazioni di settore presenti nel territorio, e quindi di particolare interesse per i famigliari che vi possono trovare notizie, esperienze, forum.
Bibliografia italiana e internazionale: è fondamentale non “farsi prendere la mano” dalla tecnologia rischiando di trascurare canali importantissimi di informazione e approfondimento come appunto le pubblicazioni sull’argomento. Tale strumento è particolarmente indicato per chi ha partecipato al corso durante un percorso di studi (ad esempio insegnanti che stanno svolgendo i corsi SISS) e anche per noi operatori del CDIH che abbiamo uno strumento in più da utilizzare in caso di richieste di informazioni in sede di consulenza.
Immagini e informazioni su materiali, ausili e software (quest’ultimo in buona parte scaricabile gratuitamente dalla rete) in modo tale da fornire direttamente strumenti di lavoro da potere utilizzare nel quotidiano. L’elencazione di software gratuito e le indicazioni su come trovarlo attraverso internet è particolarmente interessante perché amplia in modo notevole le possibilità e i mezzi di lavoro in un’area, quella dei siti dedicati alla didattica che immette in una rete che non è solo software ma è scambio di idee, indicazioni su ulteriori materiali, possibilità di contatto diretto con altri insegnanti o genitori ecc… Bisogna fra l’altro sottolineare come vi sia una competenza informatica di base piuttosto diffusa e come tali strumenti siano ormai fruibili dalla maggior parte delle persone. Esistono certamente ancora difficoltà, soprattutto nelle scuole e in alcuni servizi, nell’utilizzare al meglio questi strumenti, forse perché si è ancora troppo legati al prodotto (software, ausilio) da acquistare attraverso il catalogo e proprio per questo si è cercato di dare strumenti di lavoro un po’ “diversi” dal solito. La promozione e l’informazione sugli strumenti gratuiti presenti in rete è inoltre un punto importante di altri momenti formativi (specifici sull’informatica) proposti dal CDIH ed è anche uno dei punti di approfondimento in diverse consulenze svolte nelle scuole.
Informazioni sull’Associazione ISAAC Italy (Società Internazionale per la Comunicazione Aumentativa Alternativa sezione Italiana) per definire anche un quadro isitituzionale sull’applicazione della CAA e dare indicazioni su ulteriori percorsi di formazione e approfondimento degli argomenti. Questo tipo di informazione è particolarmente utile per le famiglie interessate ad associarsi e per i tecnici che possono trovare in ISAAC una struttura di consulenza e formazione di alto livello tecnico e professionale.

Allegati al cd rom

  • Volantino del seminario sulla CAA
  • Depliant informativo di ISAAC Italy
  • Carta dei diritti alla comunicazione
  • Presentazione di un ragazzo diversamente abile attraverso il software Clicker
  • “Principi e pratica in CAA” articolo di Aurelia Rivarola

Di quest’ultima parte vorrei approfondire la presentazione della persona diversamente abile attraverso il software. Si tratta di una presentazione che utilizza il linguaggio simbolico Bliss che un ragazzo disabile, che non è in grado assolutamente di parlare e con pochissimi movimenti volontari, utilizza sia con l’uso di una tabella nella quale indica i diversi simboli che con l’ausilio di un “voca”, strumento che a ogni simbolo associa un messaggio registrato corrispondente. Questa persona ha partecipato al Laboratorio Formativo presentandosi e interagendo con il pubblico attraverso gli strumenti della CAA, e l’inserimento della sua presentazione negli allegati ha avuto per noi particolari ricadute in quanto dimostra in modo semplice e chiaro, rafforzando così l’esperienza direttamente vissuta, quali possano essere le potenzialità degli strumenti della CAA, e ha quindi stimolato la curiosità e l’interesse che si sono trasformati in richiesta di informazioni da parte di insegnanti ma anche di genitori. È questa una ricaduta molto importante in quanto l’interesse viene stimolato non su una base teorica ma su un risultato già conseguito da una persona, con determinati strumenti.

Per concludere vorrei sottolineare come la ricerca delle buone prassi anche nell’ambito della documentazione debba comunque sempre passare attraverso una progettazione attenta e la piena comprensione degli obiettivi che ci si pone. Se si vuole pensare una documentazione viva, riutilizzabile, che interessi realmente è quindi necessario partire dai fruitori, da coloro che con diversi ruoli e competenze potranno “averci a che fare”, e quindi sforzarsi di mettersi nei panni degli altri mettendo al loro servizio quelle che sono le competenze e gli strumenti che i Centri di Documentazione hanno costruito in tanti anni di lavoro sul territorio. L’esperienza di questa documentazione, che ha avuto come ricaduta ulteriore la nascita di un gruppo di lavoro permanente sulla CAA formato da insegnanti operatori tecnici dei servizi e con la possibilità di partecipare da parte delle famiglie, conferma, inoltre, la ricchezza di competenze che sono presenti sul territorio. Tali competenze sono spesso “sommerse” e forse non sono nemmeno considerate tali da chi le possiede. Individuare i giusti strumenti per farle emergere (e uno di questi è una documentazione “mirata”) diventa uno strumento fondamentale per arricchire i Centri di informazioni, materiali, contatti, nuove idee, e questo rappresenta certamente un’ulteriore ricaduta e forse un passo in avanti nella costruzione delle “buone prassi”.

La documentazione del progetto Tutor nell’esperienza di Reggio Emilia

Raccontare e documentare le esperienze che i soggetti istituzionali propongono a soggetti altri per fare capire il senso e gli obiettivi del proprio lavoro, richiedono impegno, costanza e rigore metodologico.

 

Il report “Progetto Tutor – Le ragioni del cuore e della mente: l’esperienza di Reggio Emilia” rappresenta la documentazione redatta a più mani tra le istituzioni che hanno collaborato all’attuazione del progetto svolto nelle scuole superiori della provincia in questi anni a Reggio Emilia e raccoglie nel tempo la storia del progetto, le riflessioni sul percorso svolto, i pensieri, le percezioni, i vissuti dei tutor, dei docenti e dei diversi soggetti coinvolti.
Questa documentazione rappresenta inoltre un modo per restituire ai disabili, alle loro famiglie, alla scuola e agli stessi giovani protagonisti vari spunti di riflessione.

 

Il ProgettoTutor è uno degli interventi, che nella provincia di Reggio Emilia, concorrono a qualificare l’integrazione scolastica e della vita degli allievi disabili, ed è sostenuto da Provincia, Comune, C.s.a., Centro di Documentazione per l’Integrazione di Reggio E., per promuovere e diffondere l’esperienza dei tutor nella scuola secondaria di II° grado.

La documentazione raccoglie:

– una parte descrittiva sulla storia del progetto e sulla figura del tutor nel tempo;
– la narrazione dalle testimonianze dirette dei tutor e una riflessione rispetto al loro contributo all’integrazione dei disabili;
– gli interventi raccolti durante la formazione dei tutor.

Un elemento da rilevare rispetto alla documentazione, curata in particolare dal Centro di Documentazione e dal Centro Servizi Amministrativi di Reggio Emilia, è il coinvolgimento dei diversi soggetti coinvolti nel progetto. Si tratta di un coinvolgimento interistituzionale previsto dal progetto stesso nel momento della definizione degli obiettivi, delle metodologie, dei tempi e delle verifiche. Questa documentazione è partita da una connotazione istituzionale “burocratica” che ha saputo mettere a contatto i diversi piani: il piano politico con quello amministrativo, tecnico educativo e progettuale. C’è quindi un tipo di documentazione istituzionale capace anche di promuovere una riflessione e un confronto tra i diversi soggetti coinvolti.

La documentazione in oggetto raccoglie i diversi punti di vista degli enti che hanno collaborato: c’è quindi un aspetto di descrizione e archiviazione di un’esperienza, ma c’è anche il vissuto di un’esperienza felicemente vissuta dai protagonisti, i tutor, che in prima persona raccontano le conquiste, i sentimenti, i vissuti quotidiani. C’è il linguaggio della descrizione del resoconto, anche burocratico, e c’è la narrazione. Anche la narrazione ci permette di organizzare le nostre conoscenze ordinandole in una struttura, in una sequenza che dà un nuovo significato all’esperienza.
La raccolta del “materiale grezzo”, fino alla stesura della documentazione finale, ha previsto un percorso operativo che si è articolata in itinere, in diverse tappe attraverso:

– il momento della raccolta delle testimonianze dirette con un monitoraggio mirato (relazioni, disegni, interviste…);
– il momento della lettura e rielaborazione dei diversi materiali raccolti per renderli leggibili a tutti i soggetti interessati;
– il momento della restituzione.

Il primo momento legato alla raccolta di materiali personali non elaborati che possiamo definire “grezzi” direttamente dai protagonisti (tutor, allievi, genitori, docenti, dirigenti) attraverso un monitoraggio che ha utilizzato una molteplicità di strumenti (questionari, interviste, focus group, relazioni, disegni…). Il secondo momento è stato incentrato sulla lettura e rielaborazione dei materiali raccolti per renderli trasmissibili e fruibili anche dalle persone esterne all’esperienza descritta.
L’ultimo momento è quello della restituzione a chi lo ha prodotto in una nuova veste come strumento capace di far nascere nuove ipotesi di lavoro, nuove possibilità e ha permesso di riprogettare gli aspetti critici o problematici del progetto.

In conclusione, la documentazione del progetto ha rappresentato un’occasione di riflessione collettiva tra i diversi soggetti istituzionali che hanno preso parte all’esperienza: ha favorito un’analisi concettuale dell’esperienza che ha consentito di capitalizzare i successi e di mettere a fuoco gli elementi di criticità.

Il senso e la ricaduta di questa documentazione istituzionale ha permesso di esplicitare, di “oggettivare” le scelte compiute attraverso un linguaggio comune condiviso che ha confermato la progettazione iniziale ma che ha nel tempo richiesto anche inevitabili modifiche, mettendo in luce lo scarto tra le previsioni e la realtà, i risultati raggiunti, i punti di forza e di debolezza. La documentazione ha permesso inoltre di realizzare un confronto per costruire significati condivisi tra tutti i soggetti coinvolti, riqualificare il percorso formativo dei tutor e non disperdere il patrimonio di conoscenze prodotto.

La documentazione ha infatti portato nel tempo a diverse ricadute istituzionali e organizzative:
– per gli allievi disabili un’anticipazione nell’assegnazione dei tutor. Sappiamo infatti che i tempi burocratici delle istituzioni non coincidono con i tempi dei ragazzi che spesse volte hanno dovuto aspettare alcuni mesi prima di incontrare il tutor;
– per i tutor l’anticipazione della formazione richiesta nella fase iniziale dell’incarico per essere più preparati ad affrontare i diversi compiti loro assegnati;
– per le scuole l’attribuzione ai tutor di un ruolo sempre più definito nell’ambito dell’integrazione degli allievi individuando compiti e attività rispettosi della loro preparazione.

La documentazione è stata consegnata in formato cartaceo ai ragazzi, alle famiglie e alle scuole coinvolte, ma una versione digitale è stata pubblicata in internet sul sito del Centro di Documentazione di Reggio Emilia all’indirizzo www.integrazionereggio.it/ sotto la voce “Le nostre pubblicazioni”.

Chi è il tutor: Il tutor risorsa per l’integrazione

Il tutor, quindi, rappresenta una figura di mediazione e raccordo tra docenti e alunno e favorisce il rapporto di amicizia e collaborazione con i coetanei disabili che spesso vivono situazioni di solitudine, affiancando i ragazzi nel lavoro pomeridiano e cercando di coinvolgerli nelle attività extrascolastiche.

La presenza dello studente tutor come figura tesa ad arricchire la rete dei sostegni, per studenti disabili si è andata consolidando negli Anni Novanta nelle province di Modena, Reggio Emilia e Bologna.

L’idea sostenuta dall’ispettore Sergio Neri era quella di “lavorare su una sfera delicata, complessa ma fondamentale per la crescita dell’individuo: quella della comunicazione e dell’integrazione con le diverse situazioni progressivamente affrontate, in particolare con il gruppo dei pari”. (Mussini, 2003).

“La peculiarità del tutor è quella di essere una figura quasi coetanea allo studente disabile, in modo tale da poterne comprendere e condividere con facilità, sia i successi che l’appartenenza a un determinato contesto. Rappresenta insomma un compagno di studi”. (CDH di BO e MO, 2003).

Nell’esperienza reggiana, il tutor è in genere uno studente di età non superiore ai 25-26 anni, che svolge a scuola, a casa e nel tempo libero un ruolo di sostegno “amicale” nei confronti di un coetaneo disabile di qualche anno più giovane. Il tutor costituisce inoltre anche un riferimento affettivo, un elemento di rassicurazione rispetto alle ansie e ai dubbi che sorgono quando ci si deve misurare con un contesto non ancora conosciuto.

 

Da altre interviste e questionari è emerso il seguente quadro:

Punti di forza
L’esperienza è valutata particolarmente positiva, in quanto consente ai ragazzi con disabilità di avere nuove figure di riferimento (rapporto con un ragazzo/a di pari età ) al fine di:
? affrontare situazioni non strettamente didattiche in ambiti di tipo sociale;
? uscire dall’isolamento nel quale spesso i ragazzi disabili di questa età rischiano di rimanere relegati;
? attivare nuovi progetti per facilitare l’autonomia personale e sociale (muoversi autonomamente con i mezzi di trasporto pubblici, utilizzare servizi comunali, imparare a utilizzare le nuove tecnologie…);
? stabilire più significativi legami anche con le famiglie degli studenti disabili;
? contribuire, tramite il supporto individualizzato al raggiungimento del successo formativo degli studenti (miglioramento in alcune discipline, superamento dell’esame di qualifica e raggiungimento del diploma).

Il tutor, quindi, rappresenta una figura di mediazione e raccordo tra docenti e alunno e favorisce il rapporto di amicizia e collaborazione con i coetanei disabili che spesso vivono situazioni di solitudine, affiancando i ragazzi nel lavoro pomeridiano, cercando di coinvolgerli nelle attività extrascolastiche.

Punti di debolezza
Per quanto riguarda gli aspetti critici, gli elementi che vengono sottolineati con maggiore ricorrenza riguardano la difficoltà di trovare giovani disponibili e dotati delle caratteristiche necessarie allo svolgimento delle attività di tutoraggio (non solo disponibilità di tempo, ma anche flessibilità d’intervento e professionalità d’azione). Nell’ambito delle difficoltà che caratterizzano l’organizzazione dell’intervento di tutoraggio, emerge il ritardo nella fase iniziale, il rischio di interruzione in itinere del rapporto di tutoraggio, la mancanza di un numero di ore adeguato per un approfondimento delle relazioni che intercorrono tra i diversi soggetti coinvolti nel progetto (docente di sostegno, tutor, famigliari).

I tutor hanno detto:

– “Sono soddisfatta, felice di aver osato. Mi sono sentita accolta e proprio ‘amica’ di questi ragazzi”.
– “Sento veramente di essermi avvicinata alla disabilità in modo diverso, o solo riesco a capire negli altri le difficoltà che vivono quando si trovano in una situazione per loro particolare”.
– “La mia figura le è servita soprattutto come punto di riferimento, di sfogo e come qualcuno a cui raccontare le piccole cose, ciò che le succede in classe e fuori, come qualcuno che la ascolta, con cui può socializzare.
– “Sono comunque soddisfatto perché sono riuscito a essere un punto di riferimento senza trasmettere il timore reverenziale che può trasmettere un insegnante”.
– “Ho potuto affinare le mie capacità d’ascolto e comprensione. È’ stato un esercizio che mi ha aiutata a riflettere anche su me stessa. E’ stato una sfida ad andare oltre gli stereotipi e i pregiudizi, un andare incontro a diversità, che possono far paura solo quando sono viste dall’esterno e non sono capite”.
– “Si vorrebbe fare di più o si sente di fare poco. A volte ho sentito un senso di impotenza perché il tutor per me è una figura un po’ vaga e poco definita e quindi non ho potuto impormi più di tanto per modificare certe situazioni”.

La circolarità del processo d’insegnamento-apprendimento

La circolarità del processo d’insegnamento-apprendimento attraverso la pratica della documentazione educativo-didattica

“Questa sorte di inevitabile manipolazione ci conferma
 che la vita delle cose della mente, e di conseguenza la
vita rappresentata con un codice qualsiasi, è un’altra vita”
(D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina Editore, 1995)

Gli attori coinvolti nella documentazione del Progetto “L’incontro con l’altro” sono gli studenti della I A del Liceo Scientifico “Marie Curie” di Savignano sul Rubicone (a.s. 2003/2004), l’insegnante di italiano e chi documenta è l’insegnante di sostegno.
Il contenuto della documentazione attiene a un progetto nato in risposta a una situazione problematica relativa all’integrazione di F., uno studente disabile, e che poi si è sviluppato come percorso educativo e formativo per l’intera classe passando attraverso lo smascheramento degli stereotipi sul “diverso”. Come spesso capita la necessità di risolvere una situazione “bloccata”, in cui le persone sperimentano un senso di impotenza e di frustrazione, impone ai docenti e in genere a chi lavora e vive in contesti educativi, di trovare delle soluzioni alternative andando a scoprire le risorse umane e materiali, le strategie e gli strumenti, utili a fronteggiare tali situazioni.
“L’incontro con l’altro” è una risposta creativa a una situazione di disagio e il processo-percorso di documentazione che ne illustra le fasi è il filo di Arianna che consente ai protagonisti del Progetto di ripercorrere, con maturata consapevolezza le tappe della crescita personale scaturita attraverso l’“altro”, e che permette di ricostruire le tracce di ciò che è stato fatto insieme e che insieme è stato sofferto, vissuto, condiviso.

La prima parte della documentazione, in forma cartacea, attesta le reazioni degli studenti e le attività scaturite dalla lettura della versione ridotta del racconto Il Paese dei ciechi di H. G. Wells effettuata dall’insegnante di sostegno. La finalità era quella di sensibilizzare i ragazzi alla comprensione e accettazione del deficit del loro compagno di classe. Bisognava creare un’occasione di incontro e, perché no, di crisi, che mettesse in moto qualcosa. Quel racconto è stato il primo di una lunga serie di “oggetti mediatori” (in gran parte brani di narrativa, ma anche schede esplicative e film), il primo importante filtro fra insegnanti e studenti, fra loro e F.
D’altronde la letteratura, con il suo linguaggio metaforico ed evocativo, che cosa è se non un filtro interpretativo della realtà? Il linguaggio metaforico della narrativa ci permette di entrare in un altro mondo e di prendere le distanze da quello in cui siamo inseriti ogni giorno, che rischia di essere l’unico possibile; la narrativa serve per riuscire a comprendere meglio una realtà che troppo spesso diamo per scontata e che crediamo regolata da leggi assolute e immodificabili.
L’utilizzo del racconto fantastico Il Paese dei ciechi ha permesso agli studenti di entrare in una dimensione in cui le strutture logiche vengono sovvertite, le prospettive vengono ribaltate e le aspettative tradite: il normale diventa diverso, la devianza diventa regola. Nel paese dei ciechi colui che vede si trova nelle stesse condizioni di un cieco nel “Paese dei vedenti”.  La cecità, una volta divenuta norma, è il valore, la vista è invece il difetto, l’handicap che determina l’inferiorità e l’emarginazione.
Da quel momento, su sollecitazione dell’insegnante di sostegno, gli studenti attraverso un brainstorming hanno individuato con quali forme di diversità misurarsi: “diverso” come colui che non rientra nella “norma” sociale, “diverso” come colui che è escluso da un gruppo sociale, “diverso” come un disabile, “diverso” come l’altra faccia della medaglia, come ognuno di noi allo specchio. Le insegnanti e gli studenti hanno fissato tre incontri con l’“altro” a cadenza mensile definendo come spazio di lavoro l’aula. Ogni incontro iniziava con la visione di un film-stimolo, a cui seguiva un questionario e/o il dibattito, poi seguivano altre attività (lavori di gruppo, scrittura creativa, ecc.) con tempi e modi diversi.
Con il passare dei mesi le attività si sono arricchite di un valore aggiunto: F. è diventato l’occasione, l’imprevisto, la risorsa che ha aiutato gli altri ad aprire gli occhi sulla complessità e la varietà del reale. La documentazione attesta la partecipazione di tutti gli studenti, attraverso i loro elaborati e le loro riflessioni, e soprattutto attesta il protagonismo di F. che ha scritto la sua autobiografia grazie all’“incontro” con una compagna.

La documentazione, quindi, ripercorre le tappe di questa esperienza educativa e formativa che ha permesso a chi ha documentato e ai ragazzi di rielaborare il proprio concetto di “diversità”, di riconoscere che tutti siamo vittime inconsapevoli di stereotipi e pregiudizi, e infine di concepire la diversità come un aspetto naturale della realtà.
Documentare non è stato assemblare del materiale o mettere insieme delle cose, ma è il prodotto di una rielaborazione di materiali raccolti nelle varie fasi del percorso, e soprattutto è il risultato di una forma di meta-riflessione sui processi educativi e relazionali che si sono attivati in classe, di valutazione sul lavoro svolto dall’insegnante e sugli apprendimenti degli alunni.
In questa prospettiva documentare vuol dire capitalizzare la cultura elaborata all’interno delle pareti scolastiche dandole una forma compiuta ma non finita, capace di arricchirsi e di produrre ulteriori stimoli anche attraverso la diffusione e, di conseguenza, le ricadute.
In particolare proprio questo tipo di documentazione, che nasce in un preciso contesto scolastico in cui i protagonisti, gli autori e i fruitori primari stanno dentro allo stesso scenario, attesta come il“fare cultura” a scuola comporti il ripensare alla relazione insegnamento-apprendimento come processo aperto, reciproco e circolare dove gli studenti sono al tempo stesso destinatari e promotori del processo educativo. Pertanto il “fare significato” diventa da un lato espressione individuale, perché vengono attribuiti significati alle cose in situazioni diverse e in occasioni concrete, dall’altro anche espressione collettiva perché si apprende sempre in un contesto comunicativo i cui significati vengono condivisi e negoziati in modo partecipato. “La missione di questo insegnamento è di trasmettere non del puro sapere, ma una cultura che permetta di comprendere la nostra condizione e di aiutarci a vivere; essa è nello stesso tempo una maniera di pensare in modo aperto e libero” .
La documentazione di questa esperienza educativa ha infatti permesso a insegnanti e studenti di trovare direzioni di senso alla propria pratica quotidiana dell’insegnamento-apprendimento: di tradurre i significati che nascevano nella relazione attraverso l’ascolto e la rielaborazione delle storie degli “altri” e, parallelamente, la narrazione di sé. Documentare ha consentito quindi di collocare le esperienze educative e didattiche in una storia dove si è costruita una circolarità fra chi narra e chi ascolta, fra gli autori e i destinatari; di pensare e ripensare a quello che si è fatto e attribuire valore ai contenuti e alle esperienze partecipate.
La documentazione, infatti, non viene dopo l’azione educativa e didattica, essa è il cuore stesso del processo didattico e formativo nel momento in cui avviene, perché essa è l’espressione della reciprocità del processo d’insegnamento-apprendimento.
Le ricadute di questo tipo di documentazione, che nasce in una precisa situazione scolastica, riattiva movimenti riflessivi che ricadono principalmente nello stesso contesto: gli insegnanti e gli studenti hanno potuto rivedersi nella documentazione e aumentare la consapevolezza di sé, del saper fare e del saper essere. Partecipare e copartecipare al processo della documentazione ha restituito senso di autogratificazione, di benessere e auto-efficacia. Significativa poi la ricaduta soprattutto sugli studenti che si sono riconosciuti in essa con i loro elaborati, con le loro reazioni emotive e hanno potuto constatare che si è verificata una crescita personale.
Questa documentazione ritorna ai ragazzi anche in una dimensione valutativa perché ha permesso di ricontestualizzare gli apprendimenti e i saperi raggiunti, sia quelli disciplinari sia quelli attinenti alla sfera individuale.
Pertanto documentare è ripensare la storia educativa, è un modo di restituire alla mente quello che pensa per permetterle di pensarlo diversamente. La documentazione svolge una funzione trasformatrice e rigeneratrice, è una via al cambiamento in quanto coglie, nel suo passaggio fra evento e traduzione dell’evento, nuovi significati.
Documentare è diffondere i processi che portano all’interiorizzazione di significati, alla scoperta di sé e del saper fare e all’assunzione di una prospettiva di indagine alternativa sulla realtà che ci circonda, vuol dire partecipare altri significati, acquisire altre idee di sé, costruire un’altra realtà.

Tbilisi-Oslo, biblioteche a confronto.

Tra Georgia e Norvegia, un parallelo sulla documentazione sociale

Cosa accomuna chi fa documentazione sull’handicap in due contesti europei diversi come un paese ex-comunista e una delle realtà sociali più avanzate al mondo? In questa “intervista doppia” rispondono Nana Gegelishvili, responsabile del Centro Culturale Tanadgoma di Tbilisi (Georgia), e Rudolph Brynn, consigliere del Centro Nazionale di Documentazione sulla Disabilità di Oslo. Al di là delle differenze di contesto e di impianto organizzativo, sembra condivisa un’impostazione in cui la documentazione, sfuggendo a ogni tentazione “archivistica”, è solo parte di uno sforzo più complessivo per migliorare le condizioni di vita delle persone con disabilità.

  • Come descrivereste il vostro centro di documentazione?

NANA: La “Biblioteca – Centro Culturale per persone disabili Tanadgoma” ha come scopo il supporto socio-psicologico a persone disabili e la loro integrazione nella vita sociale. L’organizzazione svolge la sua attività implementando programmi culturali-educativi per bambini disabili, conducendo ampie campagne di sensibilizzazione dell’educazione inclusiva dei bambini disabili in scuole ordinarie, proteggendo i diritti delle persone con disabilità e conducendo corsi di formazione ed educazione.
La nostra organizzazione è gestita da un Consiglio, eletto dai membri dell’assemblea generale ogni cinque anni. I membri del Centro sono genitori di bambini con disabilità, persone impegnate nel sociale e volontari dell’organizzazione.
Lo staff a tempo pieno del progetto è di 5 persone; il personale per lo svolgimento dei progetti specifici è invece part-time. L’organizzazione ha inoltre partner permanenti che partecipano ai progetti; in caso di bisogno, istruttori di altre organizzazioni sono invitati su base di contratti individuali.
La nostra organizzazione è membro del comitato “Coalizione per la Vita Indipendente”, che riunisce 42 organizzazioni e ONG che lavorano nella sfera della disabilità, e si concentra sulla protezione dei diritti di persone disabili.
“Tanadgoma” (che significa “Assistenza”) è partner del Ministero dell’Educazione e della Scienza nella realizzazione di progetti diretti allo sviluppo dell’educazione inclusiva.
RUDOLPH: Il Centro Nazionale di Documentazione sulla Disabilità è stato formalmente fondato nell’aprile 2006 a Oslo, come agenzia indipendente subordinata al Ministero per l’Impiego e l’Integrazione. L’antefatto è stato un consenso trasversale ai partiti in Norvegia sulla piena partecipazione e uguaglianza per le persone con disabilità, e il Centro Documentazione deve avere un’influenza indiretta per raggiungere questo obiettivo. La base per le nostre attività è la convinzione che per raggiungere sviluppo si ha bisogno di conoscenza, informazione e presa di coscienza. Così abbiamo la nostra visione: la conoscenza mostra la strada.
Il Centro Documentazione documenta quali barriere costruite dalla società e pratiche discriminatorie, che escludono le persone disabili da vari campi della società, esistano. Il Centro Documentazione riunisce e sviluppa inoltre nuove informazioni entro e attraverso settori della società, ambienti di ricerca e scientifici e differenti arene dove vengono fatte esperienze importanti nel campo. L’obiettivo è fornire alle autorità pubbliche norvegesi una migliore base di conoscenza prima dei processi di decision-making.
Un altro compito prioritario del Centro Documentazione è analizzare l’effetto di varie misure avviate, in particolare, da autorità pubbliche, e di sviluppare metodi per monitorare lo sviluppo sociale in Norvegia come in altre nazioni. Il Centro avvia inoltre ricerche e indagini su campi in cui conoscenza e informazione mancano, e valuta lo sviluppo in Norvegia in relazione alle regole standard dell’ONU per le pari opportunità per le persone con disabilità. Il Centro diffonde anche informazioni e trend di sviluppo a proposito della situazione delle persone con disabilità.
Molto importante è anche il nostro sito web, www.dok.no, dove presentiamo informazioni sulla situazione delle persone disabili, incluso un servizio di notiziario quotidiano. Il sito si propone di essere una base per ricerca e conoscenza riguardanti la situazione delle persone disabili e quali barriere affrontano nella società. Qui pubblichiamo rapporti scientifici, così come notizie e altre informazioni. Sarà un portale nazionale e internazionale per ricerca e documentazione sulla situazione per le persone disabili in Norvegia e in altri Paesi. Di certo gradiremmo una cooperazione con altre istituzioni internazionali.

  • Quando e come è sorta l’iniziativa di fondare una biblioteca sulla disabilità?

NANA: La biblioteca Tanadgoma è stata fondata nel 1999. Il 15 febbraio 2001 è stata registrata come organizzazione non governativa e non commerciale.
RUDOLPH: L’idea iniziale di fondare un Centro Documentazione sulla disabilità in Norvegia è giunta come parte di una più importante indagine e rapporto sulle condizioni di vita per le persone con disabilità in Norvegia, il Rapporto Ufficiale Norvegese “Da utente a cittadino”, nel 2001. Questa idea è stata anche fortemente sostenuta dalle organizzazioni di persone disabili in questo Paese. Nel 2005 è stato nominato un comitato che rappresenta il governo così come le organizzazioni di persone disabili, ed è stata incaricata come direttrice la signora Britta Nilsson. Infine, nel gennaio 2006 è stato reclutato uno staff che oggi consiste di cinque persone.

  • Quale è la condizione delle persone con disabilità nella vostra regione geografica? E come agisce la vostra associazione?

NANA: In molti aspetti, la Georgia sta ancora seguendo il modello medico della disabilità di era sovietica, trattando e dipingendo le persone con disabilità come membri “invalidi” della società. In questo modello, le persone con disabilità non possono vivere o prendere decisioni indipendentemente, ma sono necessariamente sempre dipendenti dal supporto di qualcuno – spesso in speciali istituzioni statali isolate. Nonostante i positivi cambiamenti politici che hanno avuto luogo in Georgia dalla Rivoluzione delle Rose [la rimozione dal potere di Eduard Shevardnadze nel novembre 2003, ndr], ancora molto deve essere fatto per assicurare il coinvolgimento delle persone con disabilità nella vita quotidiana. Le strutture governative speciali che in precedenza trattavano le questioni della disabilità hanno cessato di esistere, anche se se ne avverte ancora molto il bisogno. Un ambiente fisicamente discriminatorio, stereotipi sociali negativi sulla disabilità e sui disabili, così come una legislazione e meccanismi di attuazione inadeguati costituiscono alcuni dei maggiori ostacoli alla piena partecipazione delle persone disabili alla vita sociale, politica, economica e culturale. Le persone con disabilità rimangono ancora “invisibili” e sono tra i gruppi sociali più marginalizzati. Solo poche persone con disabilità ricevono educazione scolastica o universitaria, così le loro possibilità di impiego sono minime.
Dal lato positivo, numerose organizzazioni di persone disabili sono state fondate nell’ultimo decennio, e alcune persone con disabilità sono riunite e lavorano in tali organizzazioni. Molte associazioni in Georgia, inclusa l’Associazione dei Giovani Disabili Georgiani, sono unificate nella Coalizione Georgiana per la Vita Indipendente. Fino a ora, il principale obiettivo della Coalizione è stato la protezione dei diritti delle persone con disabilità. Tuttavia, i bisogni sono molto più grandi delle capacità delle associazioni. Le risorse istituzionali del settore delle ONG, così come le capacità di creare rete e ulteriore sviluppo, richiedono un sostegno e un miglioramento significativi.
RUDOLPH: È difficile fornire una risposta breve a questa domanda, comunque alcuni punti possono dare una certa visione d’insieme. In Norvegia si stima che circa il 15-20% della popolazione abbiano menomazioni, oltre a un crescente numero di persone anziane con menomazioni legate all’età. L’aspettativa di vita è cresciuta in modo significativo in Norvegia come nei paesi scandinavi durante gli ultimi 50 anni, e la crescita più grande è nel gruppo di età di 80 anni e oltre. Questo ha portato a un accresciuto bisogno di servizi di salute e cura. Tutte queste tendenze demografiche portano a una maggiore pressione sui bilanci governativi per i servizi sociali e sanitari.
In generale è pertinente dire che la situazione per le persone disabili ha caratteristiche buone e cattive. Sul lato positivo, è abbastanza facile ottenere quello che ti serve quanto a tecnologia assistiva – carrozzine, equipaggiamento ICT, auto adattate, ecc., che sono fornite dai Centri di Ausili Tecnici, e ci sono servizi di trasporto speciale porta a porta nei paesi scandinavi per coloro che non possono usare il trasporto pubblico. Sono anche disponibili adeguate pensioni di disabilità per tutti coloro che ne hanno bisogno, e c’è stato un efficace processo di de-istituzionalizzazione, così che per esempio le persone con disabilità mentale ora vivono nelle proprie case.
Sul lato negativo, la discriminazione è ancora una realtà in Norvegia. La disoccupazione è alta tra le persone disabili – circa il 44% sono occupate, in confronto al 78% tra i norvegesi non disabili – e questo è dovuto ad atteggiamenti negativi tra i datori di lavoro, mancanza di postazioni di lavoro accessibili e una infrastruttura inaccessibile nella società in generale. Ci sono ancora molte barriere da affrontare, a cui ci riferiamo oltre.
Una delle più importanti descrizioni generali delle condizioni di vita per le persone disabili in Norvegia è stata prodotta nel 2001, nel rapporto pubblico chiamato “Da utente a cittadino – Una strategia per lo smantellamento delle barriere disabilizzanti”. Il rapporto ha svolto una minuziosa investigazione riguardante quali barriere contro la partecipazione esistano nella società. Esso si basa sulla definizione di “disabilità” che non è una caratteristica dell’individuo, ma un risultato di barriere create dalla società affrontate da persone che hanno qualche menomazione, e che le rendono disabili. Il rapporto ha dato un contributo vitale perché il pubblico accettasse questa nozione di disabilità. Oggi viene fatta una valutazione dello status attuale delle condizioni di vita delle persone disabili cinque anni dopo, al fine di monitorare quale progresso sia stato fatto, e quali iniziative politiche siano state prese, in base alle raccomandazioni del rapporto del 2001. Il risultato, curato anche dal Centro Documentazione, è stato pubblicato nello scorso agosto e sarà una guida importante per coloro che prendono decisioni politiche così come per le organizzazioni di persone disabili.
Ad esempio, in tema di accesso universale, la maggior parte delle iniziative viene presa per persone con menomazioni alla mobilità; si pensa anche alle persone con allergie e agli asmatici negli ultimi anni, ma meno si fa per i ciechi e le persone con difficoltà visive, le persone sorde e con difficoltà uditive e le persone con menomazioni cognitive. Per quanto riguarda la casa, le statistiche del 2004, che purtroppo sono limitate alle sole persone con menomazioni motorie, mostrano che solo il 7% di chi ha risposto aveva una casa pienamente accessibile, definita come accessibile a chi usa una carrozzina; in più ci sono sistemazioni abitative in cui parte della casa è accessibile.
In materia di trasporti, dal momento che molte persone hanno problemi a usare il trasporto pubblico, ci sono parecchi servizi di compensazione per persone disabili, che possono essere richiesti in base a certificati medici. Questi includono servizi porta a porta che usano taxi, in cui il cliente paga una tariffa bus ordinaria, ma il numero di viaggi è limitato (per esempio, a Oslo sono 150 viaggi all’anno). Ci sono servizi di trasporto simili per portare le persone a istituzioni educative e per viaggi di lavoro. In alternativa, si può fare richiesta per auto finanziate pubblicamente, sia ordinarie che adattate.

  • Quali problemi e quali soddisfazioni vi ha dato la specifica attività di ricerca e di gestione di una biblioteca specializzata?

NANA: La nostra attività non include soltanto servizi di biblioteca. Una delle direzioni più importanti della nostra attività è la riabilitazione psico-sociale delle persone con disabilità e la promozione dell’educazione inclusiva in Georgia. Noi dividiamo i problemi in due categorie:

  • Assenza a livello nazionale di politica sulla disabilità (adottata dal governo)
  • Qualità dei progetti delle ONG

L’educazione inclusiva non può essere sviluppata in maniera separata. Sappiamo che, per la realizzazione con successo e l’ulteriore sviluppo dell’educazione inclusiva, è necessario produrre una politica nazionale complessiva sulla disabilità e una strategia e programmi efficaci per la sua realizzazione. Non avendo meccanismi per offrire pari opportunità alle persone con disabilità, si può dire che il governo è in posizione “invalida”, poiché ancora oggi le persone con disabilità affrontano problemi come protezione legale, informazione, trasporto, impiego, servizi sociali e riabilitativi, sport e presa di coscienza culturale.
Per quanto riguarda i progetti, dopo una valutazione abbiamo scoperto che tutti i progetti avevano le stesse debolezze: non-sostenibilità, mancanza di coordinamento tra organizzazioni locali e internazionali, assenza di una missione definita di lungo termine, mancato coinvolgimento come controparte dei Ministeri dell’Educazione, del Lavoro, della Salute e degli Affari sociali. Ecco perché non abbiamo finora risultati significativi.
Tuttavia, oggi abbiamo una situazione più favorevole per lo sviluppo dell’educazione inclusiva. La collaborazione delle ONG con il Ministero dell’Educazione ha portato quest’ultimo a rendere l’educazione inclusiva parte dell’attuale riforma dell’istruzione; abbiamo ottenuto il supporto finanziario del Ministero del Lavoro, della Salute e del Welfare e di amministrazioni locali; ci sono progetti pilota in numerose scuole, e programmi di formazione e scambio con partner stranieri; infine, è stata cancellata la commissione medico-psicologica, che a dispetto della volontà dei genitori in molti casi rifiutava le domande dei bambini di frequentare scuole ordinarie.
RUDOLPH: Dal momento che è solo poco tempo che siamo stati istituiti, e siamo ancora in una fase in cui costruiamo la nostra banca dati, è troppo presto per rispondere a questa domanda. Comunque, una lezione importante già appresa è che dobbiamo identificare quali conoscenze siano carenti sulle barriere sociali e le persone disabili. Per esempio, molte buone statistiche devono essere prodotte al fine di ottenere un miglior panorama scientifico di vari aspetti delle condizioni di vita per le persone disabili in diversi gruppi di età.

  • Pensate che sia (ancora) importante un’azione culturale nel campo della disabilità? E da quali “idee forti” dovrebbe essere diretta?

NANA: Siamo sicuri che le azioni culturali contribuiranno fortemente all’integrazione delle persone con disabilità nella vita sociale. È risaputo che la cultura non ha bisogno di speciali spiegazioni e traduzioni. Così speriamo di poter unire le nostre forze ed elaborare progetti congiunti sullo scambio culturale con la partecipazione di persone con disabilità.
RUDOLPH: Lo sviluppo di consapevolezza basata su informazioni affidabili e oggettive sarà una questione importante sia per noi che per altri coinvolti nel campo della disabilità.

  • Che cosa è in programma per la vostra associazione, e in particolare per la biblioteca sulla disabilità, nel futuro?

NANA: Stiamo progettando la creazione di programmi software esaurienti ed economici accessibili a bambini con difficoltà di apprendimento, per rendere più semplice il processo di insegnamento per loro. Inoltre, svolgeremo il nuovo progetto di coalizione “educazione inclusiva e integrata” in 10 scuole-modello con il Ministero dell’Educazione.
È chiaro che ci si prospettano nuove questioni, connesse con cambiamenti globali e con molte difficoltà. Ma la soluzione dei problemi l’abbiamo trovata in un proverbio africano: “Come possiamo mangiare un grande elefante? Basta tagliarlo in piccoli pezzi!”. Se tagliamo il problema dell’inclusione e distribuiamo le sue piccole parti tra organizzazioni governative, non governative, associazioni di genitori, educatori professionali, e concretizziamo il coordinamento delle loro attività, la prospettiva delle scuole inclusive diventerà realtà.
RUDOLPH: Verrà sviluppata una banca dati. Un importante prodotto del Centro Documentazione sarà anche il nostro rapporto annuale sullo sviluppo sociale per le persone disabili in Norvegia, che fornirà informazioni affidabili e oggettive come base per il processo decisionale da parte del Governo.

Lettere al direttore

Caro Claudio
sono un ragazzo Caro Claudio,
di 25 anni di Napoli del Movimento Eucaristico Giovanile. Ti volevo semplicemente ringraziare per la tua importantissima testimonianza che hai tenuto a Frascati davanti a tantissimi ragazzi, grandi e piccoli, che sono rimasti meravigliosamente affascinati dalla tua grande persona.
Dopo il tuo discorso ho iniziato a girare un po’ tra i ragazzi e tutti parlavano di te, delle tue parole e di come li avessi colpiti nel cuore.
Non dimenticherò mai la tua grande forza, la tua simpatia (tu e Massimo potreste
fare concorrenza a tanti comici di Zelig!) e soprattutto i tuoi occhi che mi hanno dolcemente scavato a fondo. Tutto qui. Ti saluto con grande affetto e ti porterò sempre nel cuore.
Roberto

Caro Roberto,
anzi, come si dice a Bologna: “ Bella Véz!” (che per gli addetti ai lavori vuol dire “Bella vecchio”), sono stato veramente contento della tua lettera! Sai in questo periodo ho un problema che mi assale ogni volta che salgo in macchina… Si chiama TANGENZIALE. Ti spiego: la stanno allargando da due corsie a tre… Un bel casino! Tu mi dirai: “Grazie della notizia… E cosa c’entra?”. Invece c’entra. Infatti è piena di scavatori che mettono a posto la strada, sembrano dei giganteschi robot intenti a lavorare a un diabolico piano d’attacco alla terra che solo King Kong è in grado di affrontare, anzi sembrano dei mostri che sollevano enormi polveroni radioattivi: armi micidiali e sofisticate ingestibili per noi, anzi dei dinosauri migratori che cercano la salvezza fuggendo dal surriscaldamento terrestre ma già mentre fuggono si squagliano all’insostenibile calore e all’improvviso cambiamento del clima e urlano e si lamentano ruggendo tanto furiosamente che fanno invidia a Steven Spielberg… Va beh, è meglio che smetta di farmi delle birre…
Vengo subito al punto: tu hai paragonato i miei occhi a degli scavatori. Quando l’ho letto mi sono domandato due cose: perché gli occhi di un diversabile scavano? E soprattutto: cosa scavano?  
Beh, scavano le nostre paure, i nostri preconcetti, scavano le false immagini che abbiamo di noi. Ovviamente sollevano un grande polverone ma, vedi, sollevare polveroni non serve se dopo la polvere ritorna nella stessa posizione, bisogna che tu la spazzi via, altrimenti è inutile. Per spazzare via la polvere occorrono degli strumenti adatti: una scopa, un’aspirapolvere, una vaporella, uno straccio, uno spruzzino, un pennacchio, un deragnatore… Tutti strumenti necessari affinché la polvere non si depositi ancora nella stessa posizione e anzi creano uno strato “anti-polvere”. Dove voglio andare a parare? (disse Buffon a Zidane). Non basta essere colpiti nell’emotività dello sguardo di un diversabile ma bisogna avere strumenti per decodificare le sensazioni più profonde per crescere culturalmente. In parole povere la buona volontà è necessaria ma non basta, ci vuole una formazione adeguata. Ciao dal tuo trivellone, TRRR!

 

Buonasera signor  Claudio, sono Mariella una ragazza… proprio ragazza non lo sono più ho 34 anni 2 figlie e un marito, sono iscritta  al corso di laurea in Educatore Professionale a CZ, sono in fase preparativa per la tesi che spero di dare il 31 ottobre prossimo. Questa sarà centrata sui soggetti disabili le grandi qualità che posseggono e sulla riabilitazione sociale. Ho già citato lei nel mio primo capitolo e vorrei rifarlo più in là. Mi sono trovata per caso sul  suo sito e posso dire di essermi innamorata di ciò che lei racconta soprattutto di: SALVE sono un geranio… ecco perché come oggetto ho messo geranio, dire che mi piacerebbe conoscerla è pretendere troppo forse un sogno per me, le chiedo almeno se lei può indirizzarmi su qualcosa di interessante per la mia tesi tanto quanto lo è lei, le lascio i miei più cordiali saluti, so che questo sarà forse come un messaggio in una bottiglia, non avrò mai risposta, ma io spererò ogni sera di ricevere una sua email e il pensiero prioritario ogni giorno sarà di controllare la posta a presto… MARIELLA

Buonasera, sono Jack Sparrow detto anche Trinciasquali sto solcando i mari del sud verso l’isola del tesoro… Il mare è piatto come l’olio di merluzzo che il mio cuoco di bordo mette nella sbobba, il sole scalda tutto e il vento è a favore: ottima giornata per far pulire il ponte al mozzo! In queste condizioni navigare è più facile che bere un bicchiere di rhum. Prendo il cannocchiale e scruto l’orizzonte per controllare la rotta… Corpo di mille balene, ma cos’è quell’affare che galleggia sull’acqua? Per tutti gli spiedini di pesce! È un messaggio nella bottiglia! Il modo più veloce ed efficace per comunicare oggi! Qualcuno mi scrive! Evviva! Butto il mozzo a mare affinché recuperi la mia posta… È la lettera di una educatrice… educatrice? Ma che razza di pesce è? Leggo voracemente, mi chiede dei consigli per la sua tesina… Io conosco solo il mare, ma ci provo lo stesso, in fondo il mare può essere una bella immagine sull’educazione. Nel mare dell’educazione si nascondono molte insidie, rappresentate per esempio dai corsari e dai pirati come me. I corsari (i combattenti regolari) altro non sono che le nostre sovrastrutture, i preconcetti e i pregiudizi sedimentatisi nella nostra cultura e nelle nostre menti. Quelle visioni della realtà che noi assumiamo come date per scontate, inevitabili… e come tali difficili da intaccare. I pirati invece? Essendo storicamente dei “free lance”, rappresentano le nostre “chiusure” individuali, le nostre paure, il nostro imbarazzo di fronte a realtà che ci spaventano e ci turbano. I corsari e pirati ci ostacolano nel raggiungimento del tesoro, ci attaccano e ci minacciano, rallentano il nostro cammino in modo spesso subdolo, nascondendo la bandiera nera che li identifica. Come le nostre paure che possono paralizzarci improvvisamente o restare latenti dentro di noi. Sai qual è il vero significato della bandiera nera dei pirati? Restare in balia delle paure vuol dire rinnegare la vita, annichilirsi, produrre morte: ecco a cosa fa riferimento il teschio! Quindi i pirati vorrebbero issare la loro bandiera nera con il teschio sulla nostra nave e dichiararci sconfitti. Che fare allora? Come arrivare indenni al tesoro? Esiste un solo modo: chiamare i pirati e i corsari con il loro nome, il che significa fronteggiarli e prenderne conoscenza.
Se scopriamo che un pirata si chiama Jack Sparrow detto Trinciasquali, immediatamente la paura che nutriamo nei suoi confronti comincia a scemare… Fuor di metafora: se qualcuno mi guarda e prova imbarazzo senza riuscire a dare un nome a questa sensazione, il suo disagio diventa invincibile. Se un insegnante non trova il modo di valorizzare le abilità di un alunno, questa situazione diventa insostenibile per entrambi. L’educatore è colui che chiama e insegna agli altri a chiamare le cose con il loro nome.
Sai come faccio a sapere tutte queste cose? Proprio qualche giorno fa ho ricevuto via “bottiglia celere” il nuovo libro di Claudio Imprudente, un pesce sgusciante che naviga nelle acque della diversabilità… Il libro si chiama “C’è ancora inchiostro nel Calamaio!”. Ti consiglio di leggerlo, io l’ho divorato come un piatto di pesce fresco appena pescato. Mozzo dammi del rhum buono!
Buona rotta