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Autore: admin

3. Consulenza D.O.C.

di Lucia Onfiani

Per illustrare l’attività di consulenza sulla documentazione educativa che MeMo, il Multicentro educativo Modena “Sergio Neri”, mette in atto per accompagnare e sostenere gli utenti che la richiedono, prendiamo ad esempio la documentazione dal titolo “Simone mangiava un limone…”.
È una documentazione che risale al 1999 e, in forma narrativa, racconta i cinque anni di permanenza alla scuola elementare di un bambino psicotico con tratti autistici.
Sono proprio le docenti curricolari che hanno accompagnato il bambino per tutta la durata della scuola elementare a rivolgersi al Centro per verificare la possibilità di rielaborare in forma documentaria l’esperienza vissuta. Sono state sollecitate in questo dalla Dirigente Scolastica e dalla Responsabile dell’Ufficio del Provveditorato agli Studi, che si occupava dell’integrazione scolastica degli alunni in situazione di handicap, le quali rilevavano nell’esperienza condotta tratti molto significativi.
È interessante notare che sono solo loro le autrici di questo materiale, non tanto perché non ci sia stata collaborazione con i docenti di sostegno che si sono alternati durante tutto il periodo, quanto perché, proprio a causa di questa alternanza, loro sono state le testimoni di una continuità di lavoro che, per utilizzare una loro metafora, le aveva sollecitate a “costruire e cucire un tessuto che non cedesse. A volte si sono riaperte certe cuciture un po’ lise, ma c’erano la volontà e l’impegno necessari per riaggiustare lo strappo e proseguire, per riaggiustare e proseguire…”.
Ciò che queste insegnanti manifestano durante il primo colloquio con il responsabile del Centro è una forte motivazione personale nel voler produrre, attraverso l’analisi del loro percorso, una documentazione che potesse lasciare una traccia affinché non si ripetesse ciò che a loro era successo durante la ricerca di esperienze simili: “Sicuramente altri hanno vissuto e hanno affrontato situazioni analoghe in modo esemplare, ma non hanno lasciato nulla, come se il loro lavoro non fosse esistito”.
Manifestano, però, anche un bisogno di sostegno, di confronto e di accompagnamento da attuare durante le fasi di lavoro sulla documentazione, sicuramente determinato dalla vastità di materiali grezzi a cui potevano fare riferimento e dalla loro “inesperienza”: infatti, era la prima volta che affrontavano un progetto di documentazione di questo tipo.
Il Centro, quindi, propone loro di usufruire dell’attività di consulenza sulla documentazione che si concretizza su due livelli di lavoro:
– uno che interessa in particolare le competenze specifiche in tema di documentazione educativa, gestito da una persona esperta esterna al Centro e dalle operatrici del centro stesso;
– l’altro che riguarda l’utilizzo delle strutture e delle attrezzature del Centro, gestito sempre da personale interno, al fine di realizzare, come prodotto finito, un fascicolo stampato in più copie che possa prevedere, quindi, un’ampia diffusione.
L’approccio consulenziale che viene attivato dalle operatrici del Centro è simile alla modalità definita “consulenza di processo” in cui l’intervento di accompagnamento rivolto alle docenti/autrici si realizza attraverso forme di supporto sul metodo e sull’analisi delle fasi salienti del lavoro, sulla strutturazione dei contenuti, sull’analisi dei problemi e delle criticità, sull’individuazione di possibili soluzioni.
Fulcro centrale, di tale approccio, è l’ascolto attivo, fatto di domande, di interazione, di reciprocità, di negoziazione, di rispecchiamento. L’ascolto attivo richiede una modalità di osservazione molto più accurata e riflessiva, attenta ai particolari e alle forme, meno soggetta all’urgenza classificatoria e all’influenza del senso comune. Un atteggiamento di questo tipo ha fatto sì che al centro del processo di costruzione della documentazione si siano trovate le autrici con i loro portati di esperienze, saperi, vissuti e problemi. Il rapporto di interazione che si è definito con le consulenti, attraverso funzioni di facilitazione, di accompagnamento e di orientamento, ha posto le condizioni affinché le insegnanti si siano sentite accolte e sollecitate a mettere in gioco tutte le loro risorse e a indirizzarle verso l’obiettivo condiviso del progetto di documentazione.
Cerchiamo ora di analizzare quali fasi di lavoro ci hanno portato alla definizione del progetto. Per rendere questo passaggio più completo ci sembra utile recuperare anche le fasi iniziali di contatto tra le docenti e le operatrici del Centro in quanto, come già espresso sopra, servono per instaurare un clima di interdipendenza reciproca, importante per la collaborazione e il rispetto dei ruoli:
– incontro tra autori e operatori;
– il racconto dell’esperienza;
– l’analisi delle motivazioni – implicite o esplicite – dei bisogni e delle aspettative delle autrici.
Lo spunto per un breve commento a queste prime fasi di lavoro lo recuperiamo dalle conclusioni stesse delle autrici: il voler rendere partecipi anche altre persone di un’esperienza irripetibile, dalla quale però è stato necessario prendere un po’ di distacco, soprattutto emotivo, per poter vedere i segni, le tracce di un lavoro che è stato fatto di pensieri, di ricerche, di scelte, a volte anche “forti”, ma che hanno sempre avuto l’insistente “caratteristica di voler raggiungere un obiettivo”.
Oltre a queste motivazioni, sicuramente ve ne erano anche di più personali. “Far emergere il bisogno di chi scrive può evidenziare per esempio un bisogno di gratificazione, che valorizzi il sapere professionale rendendolo visibile. La fase dell’esplorazione si traduce nell’esplicitazione di questi elementi, ed è utile che alcuni bisogni, alcuni obiettivi interni possano essere detti. Soprattutto nella dimensione del lavoro di gruppo, se più persone lavorano a un progetto è importante che impieghino del tempo per dirsi cosa le spinge, quante risorse pensano di poterci mettere, quali aspettative sono presenti. Esplorare le motivazioni significa porsi domande, andare avanti col pensiero nelle possibilità” :
– chi sono i destinatari della documentazione, coloro cioè a cui si rivolge in modo particolare;
– l’individuazione del tema centrale attorno al quale articolare il resoconto dell’esperienza. Raccontare, in questo caso, cinque anni di vita alla scuola elementare ha, per forza di cose, imposto la scelta di un nucleo tematico particolarmente significativo – la comunicazione – attorno al quale gli episodi, i resoconti potessero però restituire il profilo di quel bambino, di quella classe, di quegli insegnanti che in quel periodo di tempo hanno vissuto quella esperienza insieme;
– l’impostazione delle modalità di documentazione (la scelta della forma narrativa, la scelta dei materiali…);
– la stesura scritta da parte delle autrici;
– la lettura da parte delle operatrici e la discussione su eventuali problemi aperti;
– l’indice e la bibliografia;
– l’introduzione e le conclusioni;
– la premessa a cura delle operatrici del Centro che restituiscono, sotto forma metodologica, il percorso attivato;
– l’editing e la stampa.
Sul finire di queste riflessioni credo che si possa sostenere l’importanza del lavoro di “rifinitura” che operano coloro che si occupano delle azioni che riguardano l’editing e, successivamente, la stampa.
Obiettivo non secondario di un progetto di documentazione di questo tipo è quello di produrre un materiale facilmente leggibile e gradevole alla vista. Per questo la scelta del formato del fascicolo, del carattere di scrittura, della copertina… risultano importanti ed essenziali alla diffusione del materiale stesso. Fondamentale è infatti, soprattutto per un Centro di Documentazione, considerare le documentazioni educative come risorse utili alla diffusione, per creare occasioni di scambio e di confronto, per recuperare strategie di lavoro che spesso rimarrebbero nascoste.

12. Conclusioni a struttura aperta

di Carmen Balsamo

In questa carrellata abbiamo cercato di esporre, nel processo del documentare, alcune buone caratteristiche che si sono rilevate utili ed efficaci nei contesti da noi sperimentati: ne sono uscite tracce, piste di lavoro che possono orientare la produzione di documentazioni di qualità. Per il momento ci sentiamo di offrire alcune “foto istantanee” che mostrano buone pratiche in atto con l’intento di aprire un dibattito su una tematica delicata da approfondire. Alcune delle aree considerate e le relative parole chiave, giocate nel contributo, potranno, se ben analizzate, assumere la definizione di categorie di indicatori e descrittori di azioni. Abbiamo anche tratto dei paralleli con lo studio di indicatori di qualità proposti per vagliare servizi educativi o buone prassi didattiche. Si è così osservato che, nella maggior parte dei casi, gli indicatori sono organizzati sulla base di tre gruppi di criteri: struttura/processo/risultato. Senza nessuna pretesa di sistematicità si è abbozzato un’organizzazione delle “nostre foto” per sezioni.
La Sezione A raccoglie elementi in tre sottocategorie che possono connotare aspetti strutturali: come i servizi e le scuole predispongono le risorse disponibili a sostegno del processo del documentare.

Sezione A
Risorse umane:
– gruppo di lavoro nella scuola a supporto del processo di documentazione;
– collegamento con Centri di documentazione territoriali per usufruire di consulenze o percorsi formativi offerti in queste strutture.
Risorse strumentali: attrezzature.
Risorse finanziarie: canali economici, fondi per la reperibilità di materiali e strumentazioni, pagamento di esperti.
Nella sezione B appaiono gli aspetti di organizzazione che possono permettere una buona realizzazione della documentazione e mantenerne monitorato il processo.
Sezione B
– raccordo programmazione educativa/documentazione (operatori coinvolti, tempi, metodologie);
– progetto di documentazione (operatori coinvolti, tempi, metodologie);
– valutazione (scelta dell’esperienza da documentare, valutazione del prodotto documentario).
Nella Sezione C si descrivono i risultati in relazione alla costruzione del prodotto (le prime sei voci dell’elenco che segue) e in relazione ai soggetti coinvolti.
Sezione C
– leggibilità;
– visibilità;
– trasferibilità;
– coerenza e coesione (connessioni, nella presentazione del progetto documentato, tra contenuti, modalità operative e ragioni teoriche);
– flessibilità del prodotto;
– collaborazioni;
– integrazione delle professionalità;
– interistituzionalità;
– competenze professionali acquisite dai partecipanti al processo documentale.
Gli stessi elementi esposti nella tabella C potrebbero essere considerati anche aspetti di processo. Ad esempio la leggibilità, come risultato di un buon prodotto fruibile, è anche elemento da considerare come processo, così come l’integrazione delle professionalità non è solo elemento di risultato ma anche un elemento importante, e buon punto di partenza, del processo. In ogni modo le varie aree si intersecano e, a volte, aspetti dell’una sono possibile cause di altri. Oltre che in sezioni le “nostre foto estantanee” potrebbero essere raccolte con un’organizzazione circolare, a spirale aperta, per mostrare come le varie azioni si richiamano l’una con l’altra e si connettono tra loro mantenendo così dialogato il processo del documentare. La documentazione comunque non ha esaurito il suo compito e funzione quando viene redatta formalmente ed è quindi capace di dar conto delle esperienze realizzate. Per quanto fino a ora sostenuto una documentazione diviene significativa se permette di consegnare alla memoria un percorso, di monitorare l’evoluzione di un’esperienza e testimoniarne l’efficacia educativo-didattica e presenta quella struttura aperta e vitale da riattivare idee e riflessioni. Non bisogna dimenticare un elemento essenziale della documentazione che è quello della diffusione, della sua circolarità e soprattutto tenendo presente il suo valore di “azione mentale” capace di porre l’attenzione sugli aspetti di interpretazione, rielaborazione e riprogettazione. A sostegno del nostro argomentare ricordiamo alcune parole di autori che hanno riflettuto sul tema della documentazione. Riccardo Massa ci dice che la documentazione “sostiene il protagonismo degli insegnanti e degli alunni e istituisce un campo materiale di esperienza e di rielaborazione culturale”, è “una strategia di riappropriazione di sapere”.Andrea Canevaro afferma che se ci sono realizzazioni concrete documentate “il lettore è chiamato a curiosare, indagare e criticare mettendole in relazione alla propria situazione e al proprio contesto”.Aldo Masullo, parlando di conoscenza, sostiene che “la conoscenza è il risultato di una collaborazione, di un con-correre alla formazione di un’idea, alla sua effettiva incarnazione da parte dei singoli soggetti che insieme si confrontano e vi trasferiscono informazioni arrivando appunto a conoscenze comuni e condivise”. Queste considerazioni ci portano a sottolineare con più forza alcuni passaggi già espressi nel testo: che la documentazione e la successiva diffusione di esperienze e pratiche di lavoro ha lo scopo di aumentare la conoscenza e la ricerca di trasferibilità, nella convinzione che è a partire dalla rielaborazione di esperienze che si creano le premesse per un aumento della partecipazione e della crescita dei soggetti rispetto alla dimensione professionale. Un invito quindi a non perdere di vista la funzione di servizio della documentazione in un orizzonte più ampio di responsabilità educativa. Le parole chiave procedura, prodotto e ricaduta – termini che hanno orientato la nostra esposizione e scandiscono passaggi salienti del processo del documentare – si raccordano a un filo concettuale che trova radici nel valore della cultura della documentazione e delle sue procedure tecniche di costruzione e proietta ancora oltre il prodotto documentario verso un riutilizzo più esteso che oltrepassa i confini dei protagonisti, degli autori e dei destinatari pensati. Questa ulteriore prospettiva mette in luce piani ricomposti in un quadro complesso: rilegge anche le buone pratiche del documentare in relazione alle idee, i significati condivisi, gli elementi sostanziali della relazione educativa didattica collocando anche questa ultima nell’insieme dei legami culturali e sociali che la determinano. L’attivazione di utilizzo della documentazione in contesti diversi è ben visibile nella funzione documentativa che caratterizza proprio l’identità dei Centri di documentazione. Tale funzione è radicata nel mettere a disposizione archivi strutturati di materiali e di esperienze documentate che possono essere così oggetto di ulteriori letture. La logica che sottende l’organizzazione di archivi è quella della ricerca ipertestuale: è come se le biblioteche e le banche dati fossero dei grandi ipertesti, all’interno dei quali è possibile costruire percorsi trasversali di collegamento e di approfondimento personalizzati.Anche le documentazioni qui raccolte vivono di vita propria ma possono trovare anche rimandi, vicinanze con altri materiali raccolti e arricchire il fruitore di spunti. La dotazione documentaria di un Centro può sostenere l’elaborazione dell’esperienza professionale e formativa degli insegnanti. La dotazione documentaria è un modo di capitalizzare le esperienze educative e didattiche e le documentazioni raccolte permettono il superamento dell’autoreferenzialità e stimolano l’interscambio. Per gli insegnanti, confrontarsi e discutere dei propri prodotti di lavoro e delle strategie che a essi sottostanno, porta indubbiamente a creare un senso di condivisione e di appartenenza sia professionale (ci ritroviamo nelle stesse problematiche, ci scambiamo le soluzioni…), sia istituzionale, favorendo uno spirito di prospettiva collegiale.Con questa ottica negli ultimi anni si sono attivati sempre più collaborazioni tra Centri e Istituzioni scolastiche per organizzare percorsi formativi che fanno riferimento a scambio di esperienze, analisi di documentazioni facilitando così la predisposizione di percorsi legati a bisogni che nascono dallo sviluppo concreto del lavoro di sperimentazione degli insegnanti. Altre opportunità di riutilizzo delle documentazioni possono essere pensate in circostanza di iniziative pubbliche: mostre, dibattiti, convegni. La documentazione, che circola, che esce nel territorio e che si fa conoscere da istituzioni, agenzie, associazioni, genitori, apre rapporti e relazioni con tutti questi soggetti e comincia a proporre, con più forza, la sua presenza chiedendo un dialogo sul fare concreto e non soltanto sul sentito dire.Pensiamo pertanto importante l’impegno di creare sempre più occasioni, a carattere costante e duraturo nel tempo, che favoriscano la valorizzazione e un utilizzo delle raccolte documentarie in contesti sempre più ampi.

11. La documentazione di un percorso formativo: supporti e ricadute

di Alessandro Venturini

Il Centro documentazione handicap (CDIH) di Ferrara ha curato particolarmente a partire dal 2004 i settori della consulenza alle scuole e la formazione. In particolare il Centro si è specializzato in ambito tecnologico, hardware e software, progettazione didattica con l’ausilio delle tecnologie e nell’ambito della Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA), cioè l’utilizzo di metodi e linguaggi simbolici per aumentare o vicariare eventuali problemi di comunicazione degli alunni.
In questo contesto è nata l’idea di organizzare un percorso formativo di 15 ore sulla CAA, in collaborazione con il Servizio riabilitazione Infanzia e Adolescenza dell’USL di Ferrara a cui hanno partecipato insegnanti, educatori, operatori della cooperazione sociale, operatori sociali e sanitari, famiglie.
Gli obiettivi del Laboratorio Formativo, possono essere così sintetizzati:
– dare un’informativa di base sulla CAA;
– riunire i diversi servizi che potessero utilizzare la CAA nei rispettivi contesti;
– instaurare percorsi di collaborazione scuola/servizi/famiglia;
– presentare le possibilità del CDIH rispetto al lavoro di consulenza;
– formare un gruppo permanente di lavoro, multidisciplinare su queste tematiche.

Nella fase di progettazione del Laboratorio Formativo ci si è posti il problema di come documentare l’esperienza soprattutto per avere una ricaduta positiva rispetto agli obiettivi che ci si era proposti. In questo caso, forse più che in altre situazioni, era infatti fondamentale individuare un tipo di documentazione che permettesse il decollo alla fine dell’esperienza formativa “frontale” di una serie di esperienze.
Progettare la documentazione diventa quindi uno dei fattori fondamentali per dare un senso compiuto al progetto formativo. Abbiamo quindi valutato alcuni fattori, alcuni punti focali da cui partire per definire metodologie di lavoro e contenuti:
– destinatari molto diversi fra loro per formazione competenze interessi coinvolgimento personale;
– necessità di individuare un supporto flessibile, facilmente divulgabile, che permettesse l’inserimento di contenuti diversi;
– trovare modalità documentative che potessero destare l’interesse verso la CAA e soprattutto che facilitassero esperienze di autoformazione e approfondimento nei partecipanti;
– rimanere all’interno del budget non certo molto alto che avevamo a disposizione.

Partendo dalla vocazione “tecnologica” del nostro Centro si è quindi deciso di fornire una documentazione non su materiale cartaceo ma su un cd rom, supporto che risulta decisamente vantaggioso sotto diversi aspetti. Il primo è la flessibilità in quanto nel cd si possono inserire informazioni testuali, immagini, filmati, software di utilizzo gratuito con tantissime possibilità per quello che riguarda le modalità, l’ordine, la forma grafica di presentazione dei contenuti.
Un altro fattore importante è la facilità di divulgazione delle informazioni, ad esempio il contenuto del cd è stato messo a disposizione sul sito del nostro Centro, e non ultimo l’economicità del supporto. Questo punto è stato per noi fondamentale in quanto la scelta di un forte risparmio su eventuali spese tipografiche ci ha permesso di investire in risorse umane per la realizzazione della documentazione, che è stata curata in quasi tutte le sue parti da una collaboratrice esterna al Centro.
Presupposto fondamentale che è alla base dell’intero lavoro è quello che chi frequentava il corso avesse a disposizione un computer cosa che, ormai, vista la diffusione del pc nelle case, nelle scuole e nei servizi, risulta una realtà consolidata, almeno nella nostra realtà territoriale.
Analizziamo il contenuto della documentazione cercando di approfondirne alcuni punti in una chiave di lettura che espliciti soprattutto la ricaduta che ci si aspettava dalla documentazione e la flessibilità del supporto, fondamentale per il progetto formativo che ambiva all’autoformazione.
Vediamo in particolare il sommario della documentazione per approfondirne i contenuti:

  • Introduzione: che cos’è la CAA
  • I principali sistemi simbolici
  • Esempi di tabelle di comunicazione
  • Presentazione di un caso

Possiamo definire questa parte come la più “tradizionale”, vi si esprimono i contenuti del corso, un excursus generale sui principali sistemi di comunicazione simbolica e quindi un’esplicitazione di taglio più pratico rispetto a singole tabelle di comunicazione e a un caso di riferimento.
Vorrei approfondire maggiormente la parte relativa alle appendici e agli allegati in quanto proprio in queste 2 sezioni si apprezza maggiormente il supporto e si focalizza il tema della ricaduta del riuso della documentazione e dell’obiettivo relativo all’autoformazione.

Appendici

  • Siti web italiani e stranieri
  • Ausili e materiali
  • Software
  • Bibliografia italiana e internazionale
  • Pubblicazioni e materiali
  • Informazioni sulla associazione ISAAC Italy
  • Alcuni articoli sulla CCA

Queste appendici sono state progettate e realizzate partendo dagli obiettivi che il corso si proponeva, ma anche ponendo molta attenzione alla composizione eterogenea degli iscritti e cercando quindi di fornire strumenti utili nelle diverse situazioni. Analizziamo di seguito punto per punto l’elenco delle appendici cercando di puntualizzare le ricadute possibili secondo i diversi fruitori.
Elenco siti (sitografia): possibilità di approfondire con facilità argomenti di particolare interesse attraverso internet e quindi a costi praticamente zero. I siti proposti sono sia di tipo prettamente “tecnico” e quindi fruibili in modo particolare da operatori del settore (tecnici AUSL, insegnanti) che più divulgativi, legati ad esempio alle associazioni di settore presenti nel territorio, e quindi di particolare interesse per i famigliari che vi possono trovare notizie, esperienze, forum.
Bibliografia italiana e internazionale: è fondamentale non “farsi prendere la mano” dalla tecnologia rischiando di trascurare canali importantissimi di informazione e approfondimento come appunto le pubblicazioni sull’argomento. Tale strumento è particolarmente indicato per chi ha partecipato al corso durante un percorso di studi (ad esempio insegnanti che stanno svolgendo i corsi SISS) e anche per noi operatori del CDIH che abbiamo uno strumento in più da utilizzare in caso di richieste di informazioni in sede di consulenza.
Immagini e informazioni su materiali, ausili e software (quest’ultimo in buona parte scaricabile gratuitamente dalla rete) in modo tale da fornire direttamente strumenti di lavoro da potere utilizzare nel quotidiano. L’elencazione di software gratuito e le indicazioni su come trovarlo attraverso internet è particolarmente interessante perché amplia in modo notevole le possibilità e i mezzi di lavoro in un’area, quella dei siti dedicati alla didattica che immette in una rete che non è solo software ma è scambio di idee, indicazioni su ulteriori materiali, possibilità di contatto diretto con altri insegnanti o genitori ecc… Bisogna fra l’altro sottolineare come vi sia una competenza informatica di base piuttosto diffusa e come tali strumenti siano ormai fruibili dalla maggior parte delle persone. Esistono certamente ancora difficoltà, soprattutto nelle scuole e in alcuni servizi, nell’utilizzare al meglio questi strumenti, forse perché si è ancora troppo legati al prodotto (software, ausilio) da acquistare attraverso il catalogo e proprio per questo si è cercato di dare strumenti di lavoro un po’ “diversi” dal solito. La promozione e l’informazione sugli strumenti gratuiti presenti in rete è inoltre un punto importante di altri momenti formativi (specifici sull’informatica) proposti dal CDIH ed è anche uno dei punti di approfondimento in diverse consulenze svolte nelle scuole.
Informazioni sull’Associazione ISAAC Italy (Società Internazionale per la Comunicazione Aumentativa Alternativa sezione Italiana) per definire anche un quadro isitituzionale sull’applicazione della CAA e dare indicazioni su ulteriori percorsi di formazione e approfondimento degli argomenti. Questo tipo di informazione è particolarmente utile per le famiglie interessate ad associarsi e per i tecnici che possono trovare in ISAAC una struttura di consulenza e formazione di alto livello tecnico e professionale.

Allegati al cd rom

  • Volantino del seminario sulla CAA
  • Depliant informativo di ISAAC Italy
  • Carta dei diritti alla comunicazione
  • Presentazione di un ragazzo diversamente abile attraverso il software Clicker
  • “Principi e pratica in CAA” articolo di Aurelia Rivarola

Di quest’ultima parte vorrei approfondire la presentazione della persona diversamente abile attraverso il software. Si tratta di una presentazione che utilizza il linguaggio simbolico Bliss che un ragazzo disabile, che non è in grado assolutamente di parlare e con pochissimi movimenti volontari, utilizza sia con l’uso di una tabella nella quale indica i diversi simboli che con l’ausilio di un “voca”, strumento che a ogni simbolo associa un messaggio registrato corrispondente. Questa persona ha partecipato al Laboratorio Formativo presentandosi e interagendo con il pubblico attraverso gli strumenti della CAA, e l’inserimento della sua presentazione negli allegati ha avuto per noi particolari ricadute in quanto dimostra in modo semplice e chiaro, rafforzando così l’esperienza direttamente vissuta, quali possano essere le potenzialità degli strumenti della CAA, e ha quindi stimolato la curiosità e l’interesse che si sono trasformati in richiesta di informazioni da parte di insegnanti ma anche di genitori. È questa una ricaduta molto importante in quanto l’interesse viene stimolato non su una base teorica ma su un risultato già conseguito da una persona, con determinati strumenti.
Per concludere vorrei sottolineare come la ricerca delle buone prassi anche nell’ambito della documentazione debba comunque sempre passare attraverso una progettazione attenta e la piena comprensione degli obiettivi che ci si pone. Se si vuole pensare una documentazione viva, riutilizzabile, che interessi realmente è quindi necessario partire dai fruitori, da coloro che con diversi ruoli e competenze potranno “averci a che fare”, e quindi sforzarsi di mettersi nei panni degli altri mettendo al loro servizio quelle che sono le competenze e gli strumenti che i Centri di Documentazione hanno costruito in tanti anni di lavoro sul territorio. L’esperienza di questa documentazione, che ha avuto come ricaduta ulteriore la nascita di un gruppo di lavoro permanente sulla CAA formato da insegnanti operatori tecnici dei servizi e con la possibilità di partecipare da parte delle famiglie, conferma, inoltre, la ricchezza di competenze che sono presenti sul territorio. Tali competenze sono spesso “sommerse” e forse non sono nemmeno considerate tali da chi le possiede. Individuare i giusti strumenti per farle emergere (e uno di questi è una documentazione “mirata”) diventa uno strumento fondamentale per arricchire i Centri di informazioni, materiali, contatti, nuove idee, e questo rappresenta certamente un’ulteriore ricaduta e forse un passo in avanti nella costruzione delle “buone prassi”.

10. La documentazione del progetto Tutor nell’esperienza di Reggio Emilia

di Maria Ferrrari

Raccontare e documentare le esperienze che i soggetti istituzionali propongono a soggetti altri per fare capire il senso e gli obiettivi del proprio lavoro, richiedono impegno, costanza e rigore metodologico.
Il report “Progetto Tutor – Le ragioni del cuore e della mente: l’esperienza di Reggio Emilia” rappresenta la documentazione redatta a più mani tra le istituzioni che hanno collaborato all’attuazione del progetto svolto nelle scuole superiori della provincia in questi anni a Reggio Emilia e raccoglie nel tempo la storia del progetto, le riflessioni sul percorso svolto, i pensieri, le percezioni, i vissuti dei tutor, dei docenti e dei diversi soggetti coinvolti.
Questa documentazione rappresenta inoltre un modo per restituire ai disabili, alle loro famiglie, alla scuola e agli stessi giovani protagonisti vari spunti di riflessione.
Il ProgettoTutor è uno degli interventi, che nella provincia di Reggio Emilia, concorrono a qualificare l’integrazione scolastica e della vita degli allievi disabili, ed è sostenuto da Provincia, Comune, C.s.a., Centro di Documentazione per l’Integrazione di Reggio E., per promuovere e diffondere l’esperienza dei tutor nella scuola secondaria di II° grado.
La documentazione raccoglie:
– una parte descrittiva sulla storia del progetto e sulla figura del tutor nel tempo;
– la narrazione dalle testimonianze dirette dei tutor e una riflessione rispetto al loro contributo all’integrazione dei disabili;
– gli interventi raccolti durante la formazione dei tutor.
Un elemento da rilevare rispetto alla documentazione, curata in particolare dal Centro di Documentazione e dal Centro Servizi Amministrativi di Reggio Emilia, è il coinvolgimento dei diversi soggetti coinvolti nel progetto. Si tratta di un coinvolgimento interistituzionale previsto dal progetto stesso nel momento della definizione degli obiettivi, delle metodologie, dei tempi e delle verifiche. Questa documentazione è partita da una connotazione istituzionale “burocratica” che ha saputo mettere a contatto i diversi piani: il piano politico con quello amministrativo, tecnico educativo e progettuale. C’è quindi un tipo di documentazione istituzionale capace anche di promuovere una riflessione e un confronto tra i diversi soggetti coinvolti.
La documentazione in oggetto raccoglie i diversi punti di vista degli enti che hanno collaborato: c’è quindi un aspetto di descrizione e archiviazione di un’esperienza, ma c’è anche il vissuto di un’esperienza felicemente vissuta dai protagonisti, i tutor, che in prima persona raccontano le conquiste, i sentimenti, i vissuti quotidiani. C’è il linguaggio della descrizione del resoconto, anche burocratico, e c’è la narrazione. Anche la narrazione ci permette di organizzare le nostre conoscenze ordinandole in una struttura, in una sequenza che dà un nuovo significato all’esperienza.
La raccolta del “materiale grezzo”, fino alla stesura della documentazione finale, ha previsto un percorso operativo che si è articolata in itinere, in diverse tappe attraverso:
– il momento della raccolta delle testimonianze dirette con un monitoraggio mirato (relazioni, disegni, interviste…);
– il momento della lettura e rielaborazione dei diversi materiali raccolti per renderli leggibili a tutti i soggetti interessati;
– il momento della restituzione.
Il primo momento legato alla raccolta di materiali personali non elaborati che possiamo definire “grezzi” direttamente dai protagonisti (tutor, allievi, genitori, docenti, dirigenti) attraverso un monitoraggio che ha utilizzato una molteplicità di strumenti (questionari, interviste, focus group, relazioni, disegni…). Il secondo momento è stato incentrato sulla lettura e rielaborazione dei materiali raccolti per renderli trasmissibili e fruibili anche dalle persone esterne all’esperienza descritta.
L’ultimo momento è quello della restituzione a chi lo ha prodotto in una nuova veste come strumento capace di far nascere nuove ipotesi di lavoro, nuove possibilità e ha permesso di riprogettare gli aspetti critici o problematici del progetto.
In conclusione, la documentazione del progetto ha rappresentato un’occasione di riflessione collettiva tra i diversi soggetti istituzionali che hanno preso parte all’esperienza: ha favorito un’analisi concettuale dell’esperienza che ha consentito di capitalizzare i successi e di mettere a fuoco gli elementi di criticità.
Il senso e la ricaduta di questa documentazione istituzionale ha permesso di esplicitare, di “oggettivare” le scelte compiute attraverso un linguaggio comune condiviso che ha confermato la progettazione iniziale ma che ha nel tempo richiesto anche inevitabili modifiche, mettendo in luce lo scarto tra le previsioni e la realtà, i risultati raggiunti, i punti di forza e di debolezza. La documentazione ha permesso inoltre di realizzare un confronto per costruire significati condivisi tra tutti i soggetti coinvolti, riqualificare il percorso formativo dei tutor e non disperdere il patrimonio di conoscenze prodotto.
La documentazione ha infatti portato nel tempo a diverse ricadute istituzionali e organizzative:
– per gli allievi disabili un’anticipazione nell’assegnazione dei tutor. Sappiamo infatti che i tempi burocratici delle istituzioni non coincidono con i tempi dei ragazzi che spesse volte hanno dovuto aspettare alcuni mesi prima di incontrare il tutor;
– per i tutor l’anticipazione della formazione richiesta nella fase iniziale dell’incarico per essere più preparati ad affrontare i diversi compiti loro assegnati;
– per le scuole l’attribuzione ai tutor di un ruolo sempre più definito nell’ambito dell’integrazione degli allievi individuando compiti e attività rispettosi della loro preparazione.
La documentazione è stata consegnata in formato cartaceo ai ragazzi, alle famiglie e alle scuole coinvolte, ma una versione digitale è stata pubblicata in internet sul sito del Centro di Documentazione di Reggio Emilia all’indirizzo www.integrazionereggio.it/ sotto la voce “Le nostre pubblicazioni”.

Chi è il tutor: Il tutor risorsa per l’integrazione
Il tutor, quindi, rappresenta una figura di mediazione e raccordo tra docenti e alunno e favorisce il rapporto di amicizia e collaborazione con i coetanei disabili che spesso vivono situazioni di solitudine, affiancando i ragazzi nel lavoro pomeridiano e cercando di coinvolgerli nelle attività extrascolastiche.
La presenza dello studente tutor come figura tesa ad arricchire la rete dei sostegni, per studenti disabili si è andata consolidando negli Anni Novanta nelle province di Modena, Reggio Emilia e Bologna.
L’idea sostenuta dall’ispettore Sergio Neri era quella di “lavorare su una sfera delicata, complessa ma fondamentale per la crescita dell’individuo: quella della comunicazione e dell’integrazione con le diverse situazioni progressivamente affrontate, in particolare con il gruppo dei pari”. (Mussini, 2003).
“La peculiarità del tutor è quella di essere una figura quasi coetanea allo studente disabile, in modo tale da poterne comprendere e condividere con facilità, sia i successi che l’appartenenza a un determinato contesto. Rappresenta insomma un compagno di studi”. (CDH di BO e MO, 2003).
Nell’esperienza reggiana, il tutor è in genere uno studente di età non superiore ai 25-26 anni, che svolge a scuola, a casa e nel tempo libero un ruolo di sostegno “amicale” nei confronti di un coetaneo disabile di qualche anno più giovane. Il tutor costituisce inoltre anche un riferimento affettivo, un elemento di rassicurazione rispetto alle ansie e ai dubbi che sorgono quando ci si deve misurare con un contesto non ancora conosciuto.

Da altre interviste e questionari è emerso il seguente quadro:
Punti di forza
L’esperienza è valutata particolarmente positiva, in quanto consente ai ragazzi con disabilità di avere nuove figure di riferimento (rapporto con un ragazzo/a di pari età ) al fine di:
-affrontare situazioni non strettamente didattiche in ambiti di tipo sociale;
-uscire dall’isolamento nel quale spesso i ragazzi disabili di questa età rischiano di rimanere relegati;
-attivare nuovi progetti per facilitare l’autonomia personale e sociale (muoversi autonomamente con i mezzi di trasporto pubblici, utilizzare servizi comunali, imparare a utilizzare le nuove tecnologie…);
-stabilire più significativi legami anche con le famiglie degli studenti disabili;
-contribuire, tramite il supporto individualizzato al raggiungimento del successo formativo degli studenti (miglioramento in alcune discipline, superamento dell’esame di qualifica e raggiungimento del diploma).
Il tutor, quindi, rappresenta una figura di mediazione e raccordo tra docenti e alunno e favorisce il rapporto di amicizia e collaborazione con i coetanei disabili che spesso vivono situazioni di solitudine, affiancando i ragazzi nel lavoro pomeridiano, cercando di coinvolgerli nelle attività extrascolastiche.

Punti di debolezza
Per quanto riguarda gli aspetti critici, gli elementi che vengono sottolineati con maggiore ricorrenza riguardano la difficoltà di trovare giovani disponibili e dotati delle caratteristiche necessarie allo svolgimento delle attività di tutoraggio (non solo disponibilità di tempo, ma anche flessibilità d’intervento e professionalità d’azione). Nell’ambito delle difficoltà che caratterizzano l’organizzazione dell’intervento di tutoraggio, emerge il ritardo nella fase iniziale, il rischio di interruzione in itinere del rapporto di tutoraggio, la mancanza di un numero di ore adeguato per un approfondimento delle relazioni che intercorrono tra i diversi soggetti coinvolti nel progetto (docente di sostegno, tutor, famigliari).

I tutor hanno detto:

-“Sono soddisfatta, felice di aver osato. Mi sono sentita accolta e proprio ‘amica’ di questi ragazzi”.
-“Sento veramente di essermi avvicinata alla disabilità in modo diverso, o solo riesco a capire negli altri le difficoltà che vivono quando si trovano in una situazione per loro particolare”.
-“La mia figura le è servita soprattutto come punto di riferimento, di sfogo e come qualcuno a cui raccontare le piccole cose, ciò che le succede in classe e fuori, come qualcuno che la ascolta, con cui può socializzare.
-“Sono comunque soddisfatto perché sono riuscito a essere un punto di riferimento senza trasmettere il timore reverenziale che può trasmettere un insegnante”.
-“Ho potuto affinare le mie capacità d’ascolto e comprensione. È’ stato un esercizio che mi ha aiutata a riflettere anche su me stessa. E’ stato una sfida ad andare oltre gli stereotipi e i pregiudizi, un andare incontro a diversità, che possono far paura solo quando sono viste dall’esterno e non sono capite”.
-“Si vorrebbe fare di più o si sente di fare poco. A volte ho sentito un senso di impotenza perché il tutor per me è una figura un po’ vaga e poco definita e quindi non ho potuto impormi più di tanto per modificare certe situazioni”.

9. La circolarità del processo d’insegnamento-apprendimento attraverso la pratica della documentazione educativo-didattica

di Franca Petrucci 

“Questa sorte di inevitabile manipolazione ci conferma
che la vita delle cose della mente, e di conseguenza la
vita rappresentata con un codice qualsiasi, è un’altra vita”
(D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina Editore, 1995)

Gli attori coinvolti nella documentazione del Progetto “L’incontro con l’altro” sono gli studenti della I A del Liceo Scientifico “Marie Curie” di Savignano sul Rubicone (a.s. 2003/2004), l’insegnante di italiano e chi documenta è l’insegnante di sostegno.
Il contenuto della documentazione attiene a un progetto nato in risposta a una situazione problematica relativa all’integrazione di F., uno studente disabile, e che poi si è sviluppato come percorso educativo e formativo per l’intera classe passando attraverso lo smascheramento degli stereotipi sul “diverso”. Come spesso capita la necessità di risolvere una situazione “bloccata”, in cui le persone sperimentano un senso di impotenza e di frustrazione, impone ai docenti e in genere a chi lavora e vive in contesti educativi, di trovare delle soluzioni alternative andando a scoprire le risorse umane e materiali, le strategie e gli strumenti, utili a fronteggiare tali situazioni.
“L’incontro con l’altro” è una risposta creativa a una situazione di disagio e il processo-percorso di documentazione che ne illustra le fasi è il filo di Arianna che consente ai protagonisti del Progetto di ripercorrere, con maturata consapevolezza le tappe della crescita personale scaturita attraverso l’“altro”, e che permette di ricostruire le tracce di ciò che è stato fatto insieme e che insieme è stato sofferto, vissuto, condiviso.
La prima parte della documentazione, in forma cartacea, attesta le reazioni degli studenti e le attività scaturite dalla lettura della versione ridotta del racconto Il Paese dei ciechi di H. G. Wells effettuata dall’insegnante di sostegno. La finalità era quella di sensibilizzare i ragazzi alla comprensione e accettazione del deficit del loro compagno di classe. Bisognava creare un’occasione di incontro e, perché no, di crisi, che mettesse in moto qualcosa. Quel racconto è stato il primo di una lunga serie di “oggetti mediatori” (in gran parte brani di narrativa, ma anche schede esplicative e film), il primo importante filtro fra insegnanti e studenti, fra loro e F.
D’altronde la letteratura, con il suo linguaggio metaforico ed evocativo, che cosa è se non un filtro interpretativo della realtà? Il linguaggio metaforico della narrativa ci permette di entrare in un altro mondo e di prendere le distanze da quello in cui siamo inseriti ogni giorno, che rischia di essere l’unico possibile; la narrativa serve per riuscire a comprendere meglio una realtà che troppo spesso diamo per scontata e che crediamo regolata da leggi assolute e immodificabili.
L’utilizzo del racconto fantastico Il Paese dei ciechi ha permesso agli studenti di entrare in una dimensione in cui le strutture logiche vengono sovvertite, le prospettive vengono ribaltate e le aspettative tradite: il normale diventa diverso, la devianza diventa regola. Nel paese dei ciechi colui che vede si trova nelle stesse condizioni di un cieco nel “Paese dei vedenti”.  La cecità, una volta divenuta norma, è il valore, la vista è invece il difetto, l’handicap che determina l’inferiorità e l’emarginazione.
Da quel momento, su sollecitazione dell’insegnante di sostegno, gli studenti attraverso un brainstorming hanno individuato con quali forme di diversità misurarsi: “diverso” come colui che non rientra nella “norma” sociale, “diverso” come colui che è escluso da un gruppo sociale, “diverso” come un disabile, “diverso” come l’altra faccia della medaglia, come ognuno di noi allo specchio. Le insegnanti e gli studenti hanno fissato tre incontri con l’“altro” a cadenza mensile definendo come spazio di lavoro l’aula. Ogni incontro iniziava con la visione di un film-stimolo, a cui seguiva un questionario e/o il dibattito, poi seguivano altre attività (lavori di gruppo, scrittura creativa, ecc.) con tempi e modi diversi.
Con il passare dei mesi le attività si sono arricchite di un valore aggiunto: F. è diventato l’occasione, l’imprevisto, la risorsa che ha aiutato gli altri ad aprire gli occhi sulla complessità e la varietà del reale. La documentazione attesta la partecipazione di tutti gli studenti, attraverso i loro elaborati e le loro riflessioni, e soprattutto attesta il protagonismo di F. che ha scritto la sua autobiografia grazie all’“incontro” con una compagna.
La documentazione, quindi, ripercorre le tappe di questa esperienza educativa e formativa che ha permesso a chi ha documentato e ai ragazzi di rielaborare il proprio concetto di “diversità”, di riconoscere che tutti siamo vittime inconsapevoli di stereotipi e pregiudizi, e infine di concepire la diversità come un aspetto naturale della realtà.
Documentare non è stato assemblare del materiale o mettere insieme delle cose, ma è il prodotto di una rielaborazione di materiali raccolti nelle varie fasi del percorso, e soprattutto è il risultato di una forma di meta-riflessione sui processi educativi e relazionali che si sono attivati in classe, di valutazione sul lavoro svolto dall’insegnante e sugli apprendimenti degli alunni.
In questa prospettiva documentare vuol dire capitalizzare la cultura elaborata all’interno delle pareti scolastiche dandole una forma compiuta ma non finita, capace di arricchirsi e di produrre ulteriori stimoli anche attraverso la diffusione e, di conseguenza, le ricadute.
In particolare proprio questo tipo di documentazione, che nasce in un preciso contesto scolastico in cui i protagonisti, gli autori e i fruitori primari stanno dentro allo stesso scenario, attesta come il“fare cultura” a scuola comporti il ripensare alla relazione insegnamento-apprendimento come processo aperto, reciproco e circolare dove gli studenti sono al tempo stesso destinatari e promotori del processo educativo. Pertanto il “fare significato” diventa da un lato espressione individuale, perché vengono attribuiti significati alle cose in situazioni diverse e in occasioni concrete, dall’altro anche espressione collettiva perché si apprende sempre in un contesto comunicativo i cui significati vengono condivisi e negoziati in modo partecipato. “La missione di questo insegnamento è di trasmettere non del puro sapere, ma una cultura che permetta di comprendere la nostra condizione e di aiutarci a vivere; essa è nello stesso tempo una maniera di pensare in modo aperto e libero” .
La documentazione di questa esperienza educativa ha infatti permesso a insegnanti e studenti di trovare direzioni di senso alla propria pratica quotidiana dell’insegnamento-apprendimento: di tradurre i significati che nascevano nella relazione attraverso l’ascolto e la rielaborazione delle storie degli “altri” e, parallelamente, la narrazione di sé. Documentare ha consentito quindi di collocare le esperienze educative e didattiche in una storia dove si è costruita una circolarità fra chi narra e chi ascolta, fra gli autori e i destinatari; di pensare e ripensare a quello che si è fatto e attribuire valore ai contenuti e alle esperienze partecipate.
La documentazione, infatti, non viene dopo l’azione educativa e didattica, essa è il cuore stesso del processo didattico e formativo nel momento in cui avviene, perché essa è l’espressione della reciprocità del processo d’insegnamento-apprendimento.
Le ricadute di questo tipo di documentazione, che nasce in una precisa situazione scolastica, riattiva movimenti riflessivi che ricadono principalmente nello stesso contesto: gli insegnanti e gli studenti hanno potuto rivedersi nella documentazione e aumentare la consapevolezza di sé, del saper fare e del saper essere. Partecipare e copartecipare al processo della documentazione ha restituito senso di autogratificazione, di benessere e auto-efficacia. Significativa poi la ricaduta soprattutto sugli studenti che si sono riconosciuti in essa con i loro elaborati, con le loro reazioni emotive e hanno potuto constatare che si è verificata una crescita personale.
Questa documentazione ritorna ai ragazzi anche in una dimensione valutativa perché ha permesso di ricontestualizzare gli apprendimenti e i saperi raggiunti, sia quelli disciplinari sia quelli attinenti alla sfera individuale.
Pertanto documentare è ripensare la storia educativa, è un modo di restituire alla mente quello che pensa per permetterle di pensarlo diversamente. La documentazione svolge una funzione trasformatrice e rigeneratrice, è una via al cambiamento in quanto coglie, nel suo passaggio fra evento e traduzione dell’evento, nuovi significati.
Documentare è diffondere i processi che portano all’interiorizzazione di significati, alla scoperta di sé e del saper fare e all’assunzione di una prospettiva di indagine alternativa sulla realtà che ci circonda, vuol dire partecipare altri significati, acquisire altre idee di sé, costruire un’altra realtà.

Tbilisi-Oslo, biblioteche a confronto. Tra Georgia e Norvegia, un parallelo sulla documentazione sociale

di Massimiliano Rubbi

Cosa accomuna chi fa documentazione sull’handicap in due contesti europei diversi come un paese ex-comunista e una delle realtà sociali più avanzate al mondo? In questa “intervista doppia” rispondono Nana Gegelishvili, responsabile del Centro Culturale Tanadgoma di Tbilisi (Georgia), e Rudolph Brynn, consigliere del Centro Nazionale di Documentazione sulla Disabilità di Oslo. Al di là delle differenze di contesto e di impianto organizzativo, sembra condivisa un’impostazione in cui la documentazione, sfuggendo a ogni tentazione “archivistica”, è solo parte di uno sforzo più complessivo per migliorare le condizioni di vita delle persone con disabilità.

Come descrivereste il vostro centro di documentazione?
NANA: La “Biblioteca – Centro Culturale per persone disabili Tanadgoma” ha come scopo il supporto socio-psicologico a persone disabili e la loro integrazione nella vita sociale. L’organizzazione svolge la sua attività implementando programmi culturali-educativi per bambini disabili, conducendo ampie campagne di sensibilizzazione dell’educazione inclusiva dei bambini disabili in scuole ordinarie, proteggendo i diritti delle persone con disabilità e conducendo corsi di formazione ed educazione.
La nostra organizzazione è gestita da un Consiglio, eletto dai membri dell’assemblea generale ogni cinque anni. I membri del Centro sono genitori di bambini con disabilità, persone impegnate nel sociale e volontari dell’organizzazione.
Lo staff a tempo pieno del progetto è di 5 persone; il personale per lo svolgimento dei progetti specifici è invece part-time. L’organizzazione ha inoltre partner permanenti che partecipano ai progetti; in caso di bisogno, istruttori di altre organizzazioni sono invitati su base di contratti individuali.
La nostra organizzazione è membro del comitato “Coalizione per la Vita Indipendente”, che riunisce 42 organizzazioni e ONG che lavorano nella sfera della disabilità, e si concentra sulla protezione dei diritti di persone disabili.
“Tanadgoma” (che significa “Assistenza”) è partner del Ministero dell’Educazione e della Scienza nella realizzazione di progetti diretti allo sviluppo dell’educazione inclusiva.
RUDOLPH: Il Centro Nazionale di Documentazione sulla Disabilità è stato formalmente fondato nell’aprile 2006 a Oslo, come agenzia indipendente subordinata al Ministero per l’Impiego e l’Integrazione. L’antefatto è stato un consenso trasversale ai partiti in Norvegia sulla piena partecipazione e uguaglianza per le persone con disabilità, e il Centro Documentazione deve avere un’influenza indiretta per raggiungere questo obiettivo. La base per le nostre attività è la convinzione che per raggiungere sviluppo si ha bisogno di conoscenza, informazione e presa di coscienza. Così abbiamo la nostra visione: la conoscenza mostra la strada.
Il Centro Documentazione documenta quali barriere costruite dalla società e pratiche discriminatorie, che escludono le persone disabili da vari campi della società, esistano. Il Centro Documentazione riunisce e sviluppa inoltre nuove informazioni entro e attraverso settori della società, ambienti di ricerca e scientifici e differenti arene dove vengono fatte esperienze importanti nel campo. L’obiettivo è fornire alle autorità pubbliche norvegesi una migliore base di conoscenza prima dei processi di decision-making.
Un altro compito prioritario del Centro Documentazione è analizzare l’effetto di varie misure avviate, in particolare, da autorità pubbliche, e di sviluppare metodi per monitorare lo sviluppo sociale in Norvegia come in altre nazioni. Il Centro avvia inoltre ricerche e indagini su campi in cui conoscenza e informazione mancano, e valuta lo sviluppo in Norvegia in relazione alle regole standard dell’ONU per le pari opportunità per le persone con disabilità. Il Centro diffonde anche informazioni e trend di sviluppo a proposito della situazione delle persone con disabilità.
Molto importante è anche il nostro sito web dove presentiamo informazioni sulla situazione delle persone disabili, incluso un servizio di notiziario quotidiano. Il sito si propone di essere una base per ricerca e conoscenza riguardanti la situazione delle persone disabili e quali barriere affrontano nella società. Qui pubblichiamo rapporti scientifici, così come notizie e altre informazioni. Sarà un portale nazionale e internazionale per ricerca e documentazione sulla situazione per le persone disabili in Norvegia e in altri Paesi. Di certo gradiremmo una cooperazione con altre istituzioni internazionali.

Quando e come è sorta l’iniziativa di fondare una biblioteca sulla disabilità?
NANA: La biblioteca Tanadgoma è stata fondata nel 1999. Il 15 febbraio 2001 è stata registrata come organizzazione non governativa e non commerciale.
RUDOLPH: L’idea iniziale di fondare un Centro Documentazione sulla disabilità in Norvegia è giunta come parte di una più importante indagine e rapporto sulle condizioni di vita per le persone con disabilità in Norvegia, il Rapporto Ufficiale Norvegese “Da utente a cittadino”, nel 2001. Questa idea è stata anche fortemente sostenuta dalle organizzazioni di persone disabili in questo Paese. Nel 2005 è stato nominato un comitato che rappresenta il governo così come le organizzazioni di persone disabili, ed è stata incaricata come direttrice la signora Britta Nilsson. Infine, nel gennaio 2006 è stato reclutato uno staff che oggi consiste di cinque persone.

Quale è la condizione delle persone con disabilità nella vostra regione geografica? E come agisce la vostra associazione?
NANA: In molti aspetti, la Georgia sta ancora seguendo il modello medico della disabilità di era sovietica, trattando e dipingendo le persone con disabilità come membri “invalidi” della società. In questo modello, le persone con disabilità non possono vivere o prendere decisioni indipendentemente, ma sono necessariamente sempre dipendenti dal supporto di qualcuno – spesso in speciali istituzioni statali isolate. Nonostante i positivi cambiamenti politici che hanno avuto luogo in Georgia dalla Rivoluzione delle Rose [la rimozione dal potere di Eduard Shevardnadze nel novembre 2003, ndr], ancora molto deve essere fatto per assicurare il coinvolgimento delle persone con disabilità nella vita quotidiana. Le strutture governative speciali che in precedenza trattavano le questioni della disabilità hanno cessato di esistere, anche se se ne avverte ancora molto il bisogno. Un ambiente fisicamente discriminatorio, stereotipi sociali negativi sulla disabilità e sui disabili, così come una legislazione e meccanismi di attuazione inadeguati costituiscono alcuni dei maggiori ostacoli alla piena partecipazione delle persone disabili alla vita sociale, politica, economica e culturale. Le persone con disabilità rimangono ancora “invisibili” e sono tra i gruppi sociali più marginalizzati. Solo poche persone con disabilità ricevono educazione scolastica o universitaria, così le loro possibilità di impiego sono minime.
Dal lato positivo, numerose organizzazioni di persone disabili sono state fondate nell’ultimo decennio, e alcune persone con disabilità sono riunite e lavorano in tali organizzazioni. Molte associazioni in Georgia, inclusa l’Associazione dei Giovani Disabili Georgiani, sono unificate nella Coalizione Georgiana per la Vita Indipendente. Fino a ora, il principale obiettivo della Coalizione è stato la protezione dei diritti delle persone con disabilità. Tuttavia, i bisogni sono molto più grandi delle capacità delle associazioni. Le risorse istituzionali del settore delle ONG, così come le capacità di creare rete e ulteriore sviluppo, richiedono un sostegno e un miglioramento significativi.
RUDOLPH: È difficile fornire una risposta breve a questa domanda, comunque alcuni punti possono dare una certa visione d’insieme. In Norvegia si stima che circa il 15-20% della popolazione abbiano menomazioni, oltre a un crescente numero di persone anziane con menomazioni legate all’età. L’aspettativa di vita è cresciuta in modo significativo in Norvegia come nei paesi scandinavi durante gli ultimi 50 anni, e la crescita più grande è nel gruppo di età di 80 anni e oltre. Questo ha portato a un accresciuto bisogno di servizi di salute e cura. Tutte queste tendenze demografiche portano a una maggiore pressione sui bilanci governativi per i servizi sociali e sanitari.
In generale è pertinente dire che la situazione per le persone disabili ha caratteristiche buone e cattive. Sul lato positivo, è abbastanza facile ottenere quello che ti serve quanto a tecnologia assistiva – carrozzine, equipaggiamento ICT, auto adattate, ecc., che sono fornite dai Centri di Ausili Tecnici, e ci sono servizi di trasporto speciale porta a porta nei paesi scandinavi per coloro che non possono usare il trasporto pubblico. Sono anche disponibili adeguate pensioni di disabilità per tutti coloro che ne hanno bisogno, e c’è stato un efficace processo di de-istituzionalizzazione, così che per esempio le persone con disabilità mentale ora vivono nelle proprie case.
Sul lato negativo, la discriminazione è ancora una realtà in Norvegia. La disoccupazione è alta tra le persone disabili – circa il 44% sono occupate, in confronto al 78% tra i norvegesi non disabili – e questo è dovuto ad atteggiamenti negativi tra i datori di lavoro, mancanza di postazioni di lavoro accessibili e una infrastruttura inaccessibile nella società in generale. Ci sono ancora molte barriere da affrontare, a cui ci riferiamo oltre.
Una delle più importanti descrizioni generali delle condizioni di vita per le persone disabili in Norvegia è stata prodotta nel 2001, nel rapporto pubblico chiamato “Da utente a cittadino – Una strategia per lo smantellamento delle barriere disabilizzanti”. Il rapporto ha svolto una minuziosa investigazione riguardante quali barriere contro la partecipazione esistano nella società. Esso si basa sulla definizione di “disabilità” che non è una caratteristica dell’individuo, ma un risultato di barriere create dalla società affrontate da persone che hanno qualche menomazione, e che le rendono disabili. Il rapporto ha dato un contributo vitale perché il pubblico accettasse questa nozione di disabilità. Oggi viene fatta una valutazione dello status attuale delle condizioni di vita delle persone disabili cinque anni dopo, al fine di monitorare quale progresso sia stato fatto, e quali iniziative politiche siano state prese, in base alle raccomandazioni del rapporto del 2001. Il risultato, curato anche dal Centro Documentazione, è stato pubblicato nello scorso agosto e sarà una guida importante per coloro che prendono decisioni politiche così come per le organizzazioni di persone disabili.
Ad esempio, in tema di accesso universale, la maggior parte delle iniziative viene presa per persone con menomazioni alla mobilità; si pensa anche alle persone con allergie e agli asmatici negli ultimi anni, ma meno si fa per i ciechi e le persone con difficoltà visive, le persone sorde e con difficoltà uditive e le persone con menomazioni cognitive. Per quanto riguarda la casa, le statistiche del 2004, che purtroppo sono limitate alle sole persone con menomazioni motorie, mostrano che solo il 7% di chi ha risposto aveva una casa pienamente accessibile, definita come accessibile a chi usa una carrozzina; in più ci sono sistemazioni abitative in cui parte della casa è accessibile.
In materia di trasporti, dal momento che molte persone hanno problemi a usare il trasporto pubblico, ci sono parecchi servizi di compensazione per persone disabili, che possono essere richiesti in base a certificati medici. Questi includono servizi porta a porta che usano taxi, in cui il cliente paga una tariffa bus ordinaria, ma il numero di viaggi è limitato (per esempio, a Oslo sono 150 viaggi all’anno). Ci sono servizi di trasporto simili per portare le persone a istituzioni educative e per viaggi di lavoro. In alternativa, si può fare richiesta per auto finanziate pubblicamente, sia ordinarie che adattate.

Quali problemi e quali soddisfazioni vi ha dato la specifica attività di ricerca e di gestione di una biblioteca specializzata?
NANA: La nostra attività non include soltanto servizi di biblioteca. Una delle direzioni più importanti della nostra attività è la riabilitazione psico-sociale delle persone con disabilità e la promozione dell’educazione inclusiva in Georgia. Noi dividiamo i problemi in due categorie:
-Assenza a livello nazionale di politica sulla disabilità (adottata dal governo)
-Qualità dei progetti delle ONG
L’educazione inclusiva non può essere sviluppata in maniera separata. Sappiamo che, per la realizzazione con successo e l’ulteriore sviluppo dell’educazione inclusiva, è necessario produrre una politica nazionale complessiva sulla disabilità e una strategia e programmi efficaci per la sua realizzazione. Non avendo meccanismi per offrire pari opportunità alle persone con disabilità, si può dire che il governo è in posizione “invalida”, poiché ancora oggi le persone con disabilità affrontano problemi come protezione legale, informazione, trasporto, impiego, servizi sociali e riabilitativi, sport e presa di coscienza culturale.
Per quanto riguarda i progetti, dopo una valutazione abbiamo scoperto che tutti i progetti avevano le stesse debolezze: non-sostenibilità, mancanza di coordinamento tra organizzazioni locali e internazionali, assenza di una missione definita di lungo termine, mancato coinvolgimento come controparte dei Ministeri dell’Educazione, del Lavoro, della Salute e degli Affari sociali. Ecco perché non abbiamo finora risultati significativi.
Tuttavia, oggi abbiamo una situazione più favorevole per lo sviluppo dell’educazione inclusiva. La collaborazione delle ONG con il Ministero dell’Educazione ha portato quest’ultimo a rendere l’educazione inclusiva parte dell’attuale riforma dell’istruzione; abbiamo ottenuto il supporto finanziario del Ministero del Lavoro, della Salute e del Welfare e di amministrazioni locali; ci sono progetti pilota in numerose scuole, e programmi di formazione e scambio con partner stranieri; infine, è stata cancellata la commissione medico-psicologica, che a dispetto della volontà dei genitori in molti casi rifiutava le domande dei bambini di frequentare scuole ordinarie.
RUDOLPH: Dal momento che è solo poco tempo che siamo stati istituiti, e siamo ancora in una fase in cui costruiamo la nostra banca dati, è troppo presto per rispondere a questa domanda. Comunque, una lezione importante già appresa è che dobbiamo identificare quali conoscenze siano carenti sulle barriere sociali e le persone disabili. Per esempio, molte buone statistiche devono essere prodotte al fine di ottenere un miglior panorama scientifico di vari aspetti delle condizioni di vita per le persone disabili in diversi gruppi di età.

Pensate che sia (ancora) importante un’azione culturale nel campo della disabilità? E da quali “idee forti” dovrebbe essere diretta?
NANA: Siamo sicuri che le azioni culturali contribuiranno fortemente all’integrazione delle persone con disabilità nella vita sociale. È risaputo che la cultura non ha bisogno di speciali spiegazioni e traduzioni. Così speriamo di poter unire le nostre forze ed elaborare progetti congiunti sullo scambio culturale con la partecipazione di persone con disabilità.
RUDOLPH: Lo sviluppo di consapevolezza basata su informazioni affidabili e oggettive sarà una questione importante sia per noi che per altri coinvolti nel campo della disabilità.

Che cosa è in programma per la vostra associazione, e in particolare per la biblioteca sulla disabilità, nel futuro?
NANA: Stiamo progettando la creazione di programmi software esaurienti ed economici accessibili a bambini con difficoltà di apprendimento, per rendere più semplice il processo di insegnamento per loro. Inoltre, svolgeremo il nuovo progetto di coalizione “educazione inclusiva e integrata” in 10 scuole-modello con il Ministero dell’Educazione.
È chiaro che ci si prospettano nuove questioni, connesse con cambiamenti globali e con molte difficoltà. Ma la soluzione dei problemi l’abbiamo trovata in un proverbio africano: “Come possiamo mangiare un grande elefante? Basta tagliarlo in piccoli pezzi!”. Se tagliamo il problema dell’inclusione e distribuiamo le sue piccole parti tra organizzazioni governative, non governative, associazioni di genitori, educatori professionali, e concretizziamo il coordinamento delle loro attività, la prospettiva delle scuole inclusive diventerà realtà.
RUDOLPH: Verrà sviluppata una banca dati. Un importante prodotto del Centro Documentazione sarà anche il nostro rapporto annuale sullo sviluppo sociale per le persone disabili in Norvegia, che fornirà informazioni affidabili e oggettive come base per il processo decisionale da parte del Governo.

Lettere al direttore

Ripsponde Claudio Imprudente

Caro Claudio,
sono un ragazzo  di 25 anni di Napoli del Movimento Eucaristico Giovanile. Ti volevo semplicemente ringraziare per la tua importantissima testimonianza che hai tenuto a Frascati davanti a tantissimi ragazzi, grandi e piccoli, che sono rimasti meravigliosamente affascinati dalla tua grande persona.
Dopo il tuo discorso ho iniziato a girare un po’ tra i ragazzi e tutti parlavano di te, delle tue parole e di come li avessi colpiti nel cuore.
Non dimenticherò mai la tua grande forza, la tua simpatia (tu e Massimo potreste fare concorrenza a tanti comici di Zelig!) e soprattutto i tuoi occhi che mi hanno dolcemente scavato a fondo. Tutto qui. Ti saluto con grande affetto e ti porterò sempre nel cuore.
Roberto

Caro Roberto,
anzi, come si dice a Bologna: “ Bella Véz!” (che per gli addetti ai lavori vuol dire “Bella vecchio”), sono stato veramente contento della tua lettera! Sai in questo periodo ho un problema che mi assale ogni volta che salgo in macchina… Si chiama TANGENZIALE. Ti spiego: la stanno allargando da due corsie a tre… Un bel casino! Tu mi dirai: “Grazie della notizia… E cosa c’entra?”. Invece c’entra. Infatti è piena di scavatori che mettono a posto la strada, sembrano dei giganteschi robot intenti a lavorare a un diabolico piano d’attacco alla terra che solo King Kong è in grado di affrontare, anzi sembrano dei mostri che sollevano enormi polveroni radioattivi: armi micidiali e sofisticate ingestibili per noi, anzi dei dinosauri migratori che cercano la salvezza fuggendo dal surriscaldamento terrestre ma già mentre fuggono si squagliano all’insostenibile calore e all’improvviso cambiamento del clima e urlano e si lamentano ruggendo tanto furiosamente che fanno invidia a Steven Spielberg… Va beh, è meglio che smetta di farmi delle birre…
Vengo subito al punto: tu hai paragonato i miei occhi a degli scavatori. Quando l’ho letto mi sono domandato due cose: perché gli occhi di un diversabile scavano? E soprattutto: cosa scavano?
Beh, scavano le nostre paure, i nostri preconcetti, scavano le false immagini che abbiamo di noi. Ovviamente sollevano un grande polverone ma, vedi, sollevare polveroni non serve se dopo la polvere ritorna nella stessa posizione, bisogna che tu la spazzi via, altrimenti è inutile. Per spazzare via la polvere occorrono degli strumenti adatti: una scopa, un’aspirapolvere, una vaporella, uno straccio, uno spruzzino, un pennacchio, un deragnatore… Tutti strumenti necessari affinché la polvere non si depositi ancora nella stessa posizione e anzi creano uno strato “anti-polvere”. Dove voglio andare a parare? (disse Buffon a Zidane). Non basta essere colpiti nell’emotività dello sguardo di un diversabile ma bisogna avere strumenti per decodificare le sensazioni più profonde per crescere culturalmente. In parole povere la buona volontà è necessaria ma non basta, ci vuole una formazione adeguata. Ciao dal tuo trivellone, TRRR!

Buonasera signor  Claudio,
sono Mariella una ragazza… proprio ragazza non lo sono più ho 34 anni 2 figlie e un marito, sono iscritta  al corso di laurea in Educatore Professionale a CZ, sono in fase preparativa per la tesi che spero di dare il 31 ottobre prossimo. Questa sarà centrata sui soggetti disabili le grandi qualità che posseggono e sulla riabilitazione sociale. Ho già citato lei nel mio primo capitolo e vorrei rifarlo più in là. Mi sono trovata per caso sul  suo sito e posso dire di essermi innamorata di ciò che lei racconta soprattutto di: SALVE sono un geranio… ecco perché come oggetto ho messo geranio, dire che mi piacerebbe conoscerla è pretendere troppo forse un sogno per me, le chiedo almeno se lei può indirizzarmi su qualcosa di interessante per la mia tesi tanto quanto lo è lei, le lascio i miei più cordiali saluti, so che questo sarà forse come un messaggio in una bottiglia, non avrò mai risposta, ma io spererò ogni sera di ricevere una sua email e il pensiero prioritario ogni giorno sarà di controllare la posta a presto… MARIELLA

Buonasera,
sono Jack Sparrow detto anche Trinciasquali sto solcando i mari del sud verso l’isola del tesoro… Il mare è piatto come l’olio di merluzzo che il mio cuoco di bordo mette nella sbobba, il sole scalda tutto e il vento è a favore: ottima giornata per far pulire il ponte al mozzo! In queste condizioni navigare è più facile che bere un bicchiere di rhum. Prendo il cannocchiale e scruto l’orizzonte per controllare la rotta… Corpo di mille balene, ma cos’è quell’affare che galleggia sull’acqua? Per tutti gli spiedini di pesce! È un messaggio nella bottiglia! Il modo più veloce ed efficace per comunicare oggi! Qualcuno mi scrive! Evviva! Butto il mozzo a mare affinché recuperi la mia posta… È la lettera di una educatrice… educatrice? Ma che razza di pesce è? Leggo voracemente, mi chiede dei consigli per la sua tesina… Io conosco solo il mare, ma ci provo lo stesso, in fondo il mare può essere una bella immagine sull’educazione. Nel mare dell’educazione si nascondono molte insidie, rappresentate per esempio dai corsari e dai pirati come me. I corsari (i combattenti regolari) altro non sono che le nostre sovrastrutture, i preconcetti e i pregiudizi sedimentatisi nella nostra cultura e nelle nostre menti. Quelle visioni della realtà che noi assumiamo come date per scontate, inevitabili… e come tali difficili da intaccare. I pirati invece? Essendo storicamente dei “free lance”, rappresentano le nostre “chiusure” individuali, le nostre paure, il nostro imbarazzo di fronte a realtà che ci spaventano e ci turbano. I corsari e pirati ci ostacolano nel raggiungimento del tesoro, ci attaccano e ci minacciano, rallentano il nostro cammino in modo spesso subdolo, nascondendo la bandiera nera che li identifica. Come le nostre paure che possono paralizzarci improvvisamente o restare latenti dentro di noi. Sai qual è il vero significato della bandiera nera dei pirati? Restare in balia delle paure vuol dire rinnegare la vita, annichilirsi, produrre morte: ecco a cosa fa riferimento il teschio! Quindi i pirati vorrebbero issare la loro bandiera nera con il teschio sulla nostra nave e dichiararci sconfitti. Che fare allora? Come arrivare indenni al tesoro? Esiste un solo modo: chiamare i pirati e i corsari con il loro nome, il che significa fronteggiarli e prenderne conoscenza.
Se scopriamo che un pirata si chiama Jack Sparrow detto Trinciasquali, immediatamente la paura che nutriamo nei suoi confronti comincia a scemare… Fuor di metafora: se qualcuno mi guarda e prova imbarazzo senza riuscire a dare un nome a questa sensazione, il suo disagio diventa invincibile. Se un insegnante non trova il modo di valorizzare le abilità di un alunno, questa situazione diventa insostenibile per entrambi. L’educatore è colui che chiama e insegna agli altri a chiamare le cose con il loro nome.
Sai come faccio a sapere tutte queste cose? Proprio qualche giorno fa ho ricevuto via “bottiglia celere” il nuovo libro di Claudio Imprudente, un pesce sgusciante che naviga nelle acque della diversabilità… Il libro si chiama “C’è ancora inchiostro nel Calamaio!”. Ti consiglio di leggerlo, io l’ho divorato come un piatto di pesce fresco appena pescato. Mozzo dammi del rhum buono!
Buona rotta

Il progetto di documentazione educativa regionale per i servizi 0-6

La sempre crescente attenzione alla pratica e allo sviluppo di una cultura della documentazione trovano una concreta e significativa testimonianza nello sviluppo di progetti fortemente voluti e sostenuti

 

dalla regione Emilia Romagna che si è sempre dimostrata sensibile a questo tema, ritenendo che il consolidamento delle pratiche di documentazione rappresenti un investimento prezioso per la valorizzazione della progettualità dei servizi e per un più complessivo innalzamento della qualità del sistema.
È a partire da queste premesse che ha preso vita nel 2002 il progetto sperimentale di sistematizzazione e implementazione della documentazione educativa su scala regionale, promosso dall’Assessorato alla Promozione delle Politiche Sociali e di quelle Educative per l’infanzia e l’Adolescenza.
L’obiettivo del progetto è quello di dare diffusione alle esperienze più significative realizzate nei servizi per la prima infanzia della regione relativamente all’area della progettazione educativa.
Per la realizzazione del progetto ci si avvale di una gamma di risorse:
a) il Laboratorio di Documentazione e Formazione del Comune di Bologna, a cui è affidato il compito di raccordare i flussi informativi, materiali e progetti realizzati nelle varie realtà della regione e di alimentare l’archivio di documentazione educativa regionale, presso cui confluiscono le documentazioni inviate dalle varie province, la cui consultazione è possibile accedendo al sito
www.comune.bologna.it/istruzione/laboratorio/documentazione-educativa-archivio.php.
b) I coordinamenti pedagogici provinciali, in collaborazione con i Centri di Documentazione, relativamente alla conoscenza e alla partecipazione attiva nella progettazione che caratterizza il proprio territorio, oltre che alla valorizzazione, diffusione e scambio di esperienze.

 

L’Amministrazione regionale ha inoltre rafforzato l’attenzione alla documentazione aprendo una riflessione sul tema della documentazione con:
– l’istituzione di un gruppo di lavoro ristretto (GreD, Gruppo regionale di Documentazione) rappresentativo dei nove coordinamenti pedagogici provinciali, tramite i referenti da loro indicati;
– la realizzazione di seminari regionali (Teoria e pratica della documentazione nella progettazione educativa, La documentazione educativa come risorsa nella costruzione della rete regionale, Le occasioni per la documentazione: incontro, confronto, raccordo e scambio) e momenti confronto e scambio sul percorso realizzato aperti a tutto il territorio regionale nelle sedi provinciali;
– le pubblicazioni “Documentare per documentare” già pubblicata, “ Le occasioni per la documentazione: incontro, confronto, raccordo e scambio” in corso di realizzazione.

Allo scopo di sostenere i servizi nella produzione di una documentazione in itinere relativa ai progetti educativi è stato costruito, dal gruppo di lavoro ristretto, uno strumento “Scheda per la documentazione regionale” che ha già visto una sperimentazione nelle varie province.

Per chi fosse interessato a conoscere lo strumento e l’evoluzione complessiva del progetto, può accedere al sito regionale: www.regione.emilia romagna.it/wcm/infanzia/sezioni/coordinamenti/docum_educativa/documentazione/gruppi_lavoro.htm o prendere direttamente contatti con il Laboratorio di Documentazione e Formazione del Comune di Bologna al recapito telefonico: 051/644.33.12 chiedendo di Carmen Balsamo e Marina Maselli, consulente per il progetto regionale.

“Ma chi me lo fa fare?”

di Alessandra Pederzoli

“Una palla di cannone che ha diviso la città in due!”. Questo è stato l’ospedale psichiatrico, o manicomio che dir si voglia; così lo racconta con una provocazione Ennio Sergio, psicologo del Dipartimento di Salute Mentale di Imola, in apertura di Mai più fuori dai giochi, giornata di lancio della due mesi di iniziative Oltre la siepe, la salute mentale è un diritto di tutti anche il tuo avviatosi il 10 ottobre, giornata mondiale della salute mentale.
Una giornata di gioco, appunto, e di tanto sport che ha coinvolto diciotto squadre nella palestra Cavina di Imola, organizzata dalla polisportiva locale Eppur si muove, associata Anpis (Associazione nazionale polisportive per l’integrazione sociale). In campo le squadre Anpis della regione Emilia Romagna e diversi gruppi di studenti degli istituti superiori di Imola, con un coinvolgimento allargato della cittadinanza e di molti referenti istituzionali che hanno aderito con entusiasmo all’iniziativa e alla due mesi di appuntamenti.
Oltre la siepe prende il via con questa giornata del 10 ottobre, giornata mondiale della salute mentale e chiude il 10 dicembre, anniversario della proclamazione universale dei diritti dell’uomo per rimarcare lo stretto legame tra il tema della salute e quello dei diritti; da qui infatti il sottotitolo della due mesi: la salute mentale è un diritto di tutti, anche il tuo.
La manifestazione è stata aperta da una lettura di alcuni brani tratti dal racconto “Il visconte dimezzato” di Italo Calvino, che hanno fornito l’interessante spunto di paragone, al dott. Ennio Sergio, tra gli ospedali psichiatrici imolesi (dei quali ricorre il decennale della chiusura) e la palla di cannone che ha diviso la città in due. Un luogo di sofferenza e disagio che ha separato la follia dalla normalità sancendo chi fosse “malato”, quindi da ricoverare, da chi fosse “sano”. La chiusura di questi luoghi ha posto la questione dell’inclusione sociale di molti soggetti rimasti fino a quel momento esclusi dalla normale vita collettiva. Ponendosi dalla parte di costoro risulta la difficoltà di tutte quelle dinamiche quotidiane di confronto e di reinserimento in un tessuto sociale e scaturisce la domanda, filo conduttore degli interventi dei referenti istituzionali che hanno dato il lancio alla giornata: “Ma chi me lo fa fare?”.
A partire da qui gli interventi dei molti rappresentanti istituzionali che, in tal modo, hanno dato l’avvio all’iniziativa e il benvenuto ai molti presenti alla mattinata di sport. Così, a turno, tanti tentativi di risposta, che hanno spaziato ampiamente andando a toccare i diversi settori della vita collettiva. Perché, in fondo di questo si sta parlando: di una dimensione personale sollecitata a mettersi in un gioco di relazioni collettive. Non casuale infatti il titolo della due mesi: Oltre la siepe: la salute mentale è un diritto di tutti, anche il tuo. Sono due piani, per loro natura profondamente intrecciati e sovrapposti, chiamati per questo a un costante confronto e interscambio. Da qui gli interventi che hanno dato un taglio all’iniziativa, fotografando anche un’idea ben precisa che ha sotteso la giornata del 10 ottobre e un più complesso lavoro di inclusione sociale della salute mentale.
Alla sollecitazione il vicesindaco Castellari, infatti, risponde sostenendo che i diritti degli altri cominciano dove cominciano i miei diritti: questo significa riconoscere la libertà di ciascuno e il diritto di cittadinanza attiva per tutti. Visani, assessore alla qualità sociale, rilancia e va oltre, per ricordare come la giornata Mai più fuori dai giochi, e iniziative simili, contribuiscano a creare una comunità accogliente, capace di contrastare il riaffiorare di tutte quelle strutture mentali, ostacolo alla reale inclusione. In questa direzione vanno le parole di Poli, presidente del consorzio dei servizi sociali, che sottolinea come l’azione congiunta dei servizi sociali e sanitari valorizzi le reali potenzialità di ogni cittadino. La testimonianza di una mamma poi riporta tutti i presenti a fare i conti con una realtà di fatica e sofferenza vissuta da molte persone, attorno alle quali si crea un vuoto di solitudine; le sue parole indicano come irrinunciabile lo “stare meglio” e come sia importante il contributo agito dalla comunità nel suo complesso. Ecco perché Ravani, direttore della Unità Operativa territoriale del Centro di Salute Mentale, non parla di psichiatria ma di salute mentale, nell’ottica di spostare l’attenzione da una categoria ristretta di individui alla collettività nel suo insieme.
Tutti questi interventi, seguiti da una mattinata di sport vissuto con entusiasmo, partecipazione e grande tifo, hanno inevitabilmente innescato alcune riflessioni che quella domanda, posta a inizio giornata evidentemente ha sollecitato con forza.
Forse il chiedersi “chi me lo fa fare” non riguarda solo coloro che direttamente, in prima persona lottano ogni momento, per trovare un ruolo e una collocazione nel tessuto sociale dal quale si sentono, e talvolta lo sono realmente, esclusi. Probabilmente è stato vincente seppur nella sua natura provocatoria, l’aver lanciato il quesito ai soggetti che in diversa misura hanno partecipato alla giornata. Provocazione che non si ferma a quegli interventi di apertura e di benvenuto, ma che ognuno è chiamato a portare con sé nella propria vita che continua fuori da quella palestra che rappresenta, evidentemente, un momento e un luogo privilegiato al cui interno si vogliono ritrovare tante risposte. E spesso ci si riesce. Ecco perché è una domanda che si pone sul fondo di ciascuno di noi, chiamato con forza a dover mettere in discussione molto del “dato per scontato” nella costruzione della persona, nell’instaurarsi delle tante e diverse relazioni di cui questa vive. Fa parte della vita di tutti e proprio per questo si tratta di una base di appoggio, un trampolino di lancio anche per la costruzione di questa vita fatta di persone, fatta di una dimensione collettiva della quale nessuno può e deve sentirsi escluso.
Il percepirsi tassello di questa rete di rapporti porta a rivedere costantemente la propria posizione e la posizione degli altri, di tutti gli altri. Domanda e risposta che sì, fanno parte a pieno titolo anche del nostro progetto di vita al cui interno esistono le relazioni e le persone.
Chi me lo fa fare di continuare a lottare se sento premere dentro di me questo male che è il male di vivere. Chi me lo fa fare di spendermi nell’organizzazione di eventi come questi che aprono le porte su un mondo tenuto distante, perché temuto. Chi me lo fa fare di lavorare ogni giorno a stretto contatto con il malessere, la sofferenza, l’indifferenza. Chi me lo fa fare di pormi così tanti interrogativi che mettono costantemente in discussione le mie facili certezze e sicurezze, quelle che l’agio e il benessere ci pongono come primarie per il “quieto vivere”.
Probabilmente il sentire questa vita come una preziosità fatta di tante dimensioni, tanti bisogni, tante e diverse persone con cui condividerla fa sì che a molte domande si possa trovare una risposta. E allora la sollecitazione di quella mamma che nel portare la sua testimonianza chiede e sottolinea con forza il diritto del suo ragazzo “allo stare bene” diventa una risposta efficace: una base per la costruzione della sua ma anche della nostra vita. Un tassello di quel progetto sulla sua e sulla nostra vita che da “lui” non può prescindere.

Il Codice Da Vinci della solitudine

di Stefano Toschi

Dal Trattato della pittura di Leonardo da Vinci: “E se tu sarai solo, tu sarai tutto tuo, e se sarai accompagnato da un solo compagno, sarai mezzo tuo”.
Leonardo è da considerarsi fra i capostipiti dell’epoca moderna sia per le sue invenzioni, sia per il suo pensiero che si contrappone a quello medioevale.
In particolare, in questa sua frase è evidente l’anelito dell’uomo moderno e contemporaneo a non dipendere da nessuno, a essere l’unico protagonista del suo destino e a vivere in completa autonomia per essere “tutto suo”.
Questa è anche l’ambizione delle persone con deficit, o almeno di quelle con difficoltà fisiche. È un desiderio che, anche se è naturale, viene ingrandito molto dai modelli di vita proposti dalla società di oggi. Bisogna fare una distinzione tra la solitudine dell’artista o del letterato e quella di vita. Ad esempio io, per “creare i miei capolavori”, ho bisogno anche di stare un po’ da solo, ma nella vita quotidiana mi piace stare in compagnia e questa per me non è soltanto una necessità dovuta ai miei bisogni concreti, ma rappresenta un piacere.
Scrive Steiner nelle sue Grammatiche della Creazione: “Nelle arti, nella musica, nella filosofia e in quasi tutta la letteratura seria, la solitudine e la singolarità sono essenziali. Affermano che soltanto nella solitudine austera si può percepire la pulsazione della vita nella sua vibrazione più intensa”. E Bichsel: “Scrivere è un lavoro solitario, leggere è un lavoro solitario. La letteratura è una forma di solidarietà fra solitari”.
Queste affermazioni sono vere, se si tiene conto della distinzione fatta prima. In questo caso si fa riferimento a ciò che si potrebbe definire un luogo comune, quello della solitudine e dell’esclusione sociale di animi sensibili e introversi quali quelli degli artisti, dei poeti e dei geni. Tuttavia, nel mio caso, la lettura e la scrittura non sono lavori solitari: anche se l’idea per scrivere o per leggere è solo mia, nella pratica io scrivo e leggo sempre con qualcuno e questa non è per me soltanto una questione di necessità concreta, ma il confronto con chi scrive e legge per me mi arricchisce. Questo dialogo mi aiuta a trovare nuove fonti di ispirazione o ad approfondire le mie argomentazioni, grazie al confronto diretto e immediato con chi scrive per me e, magari, intanto commenta le mie parole.
Anche la psicologia clinica riconosce che, nella solitudine, esistono moltissime sfaccettature: talvolta essa è forzata, imposta dalle circostanze della vita. Altre volte la solitudine è cercata, come fuga dagli affanni della quotidianità o, come dicevamo prima, come fonte di ispirazione creativa. Vi sono anche solitudini imposte dalla società. I mezzi di comunicazione, spesso, invitano a isolarsi, a distinguersi, accentuando l’individualismo. Ma, come dice Aristotele, l’uomo è animale sociale. Per sua stessa natura non è fatto per vivere isolato, non è autarchico, ma ha bisogno dei suoi simili non solo per vivere meglio la propria vita sociale, ma ne ha necessità proprio per sopravvivere. Anche l’artista, lo scrittore, il creativo si ispirano alla vita quotidiana, che è fatta di relazioni di tutti i tipi. Quindi senza queste relazioni anche la solitudine creativa non porterebbe risultati. Inoltre, l’arte è creata perché tutti ne possano fruire: nessun artista dipinge per se stesso, nessuno scrittore si aspetta di essere l’unico a leggere i propri scritti.
L’isolamento volontario diventa una forma di egoismo: il non voler ricevere nulla dallo scambio col prossimo implica necessariamente il non mettersi a disposizione a propria volta, a non condividere con la società tutta i propri carismi, le proprie abilità. La solitudine può essere un momento utile per la meditazione, per elaborare i pensieri e le emozioni, ma solo se questo porta frutti che siano condivisibili con gli altri, e arricchiscano non solo noi stessi ma anche chi ci sta vicino. La solitudine feconda non può prescindere dalla relazione con l’altro senza scadere in isolamento, poiché condurrebbe al rifiuto dell’altro come diverso da sé.
Vivere autonomamente è di certo una grande conquista per la persona con qualche difficoltà e, grazie ai progressi della tecnica, oggi non è più un’utopia. Ma l’autonomia non significa isolamento. Si può essere autonomi anche se si vive in compagnia di qualcuno. Per essere “tutto tuo” è necessario confrontarsi con gli altri, perché solo grazie al confronto con chi ci sta vicino si forma e si prende coscienza della propria individualità e personalità
La frase di Leonardo è come il Codice Da Vinci: bisogna interpretare bene le parole del grande maestro. D’altra parte i suoi capolavori non sono mai soli!

Una giornata speciale

di Giovanni Preiti

Vi confesso che ero un po’ scettico, quando in maggio mi hanno chiesto di organizzare per venerdì 13 ottobre, la Prima giornata paralimpica Nazionale, e ora vi spiego il perché. Innanzitutto il giorno, un venerdì, una giornata lavorativa, nella mattinata, quando i bolognesi, oltre che dalla routine del lavoro, sono attratti dal mercato della Montagnola. In più mi chiedevo: come possiamo far venire i nostri atleti, se anche loro sono impegnati a scuola o al lavoro? Ci avevano chiesto di fare le dimostrazioni sportive nelle piazze principali, visto che lo scopo principale era la visibilità, e pensavo quanto fosse complicato ottenere Piazza Maggiore da parte dell’Intendenza dei Beni Culturali, per sistemare tutte le nostre attrezzature. E poi c’era l’incognita del tempo, il 13 ottobre poteva già essere pieno inverno e la pioggia avrebbe spento tutta la nostra passione sportiva, relegandoci in qualche struttura periferica, dentro un palazzetto. Questa iniziativa fa parte di un programma nazionale, che comprende altre sei città italiane: Roma, Torino, Palermo, Bari, Assisi e Padova, nell’ambito di un progetto più ampio dal nome “Il cuore che illumina lo sport”, una collaborazione tra CIP (Comitato Italiano Paralimpico) e l’associazione Enel Cuore Onlus. Visto che la manifestazione si svolgeva nella mattina di venerdì, sarebbe stato fondamentale la partecipazione delle scuole bolognesi, e visto che l’organizzazione era a carattere regionale, di tutte le scuole dell’Emilia Romagna. Bocciata l’idea di svolgere le gare in Piazza Maggiore, una persona dell’organizzazione mi ha suggerito di fare comunque un corteo in sfilata dalla Piazza con i nostri atleti e gli alunni delle scuole, per raggiungere i Giardini Margherita, luogo della manifestazione. Erano quasi le nove, quando mi sono affacciato sul “Crescentone”, accompagnato da un pulmino dell’Esercito, utilissimo partner della manifestazione, un timido sole incoraggiava la nostra manifestazione, si intravedevano le prime classi; ecco stava per iniziare una giornata speciale. I volontari della Protezione Civile distribuivano magliette con la scritta “Il cuore illumina lo sport”, e io iniziavo a pensare a come organizzare la sfilata che ci avrebbe condotto ai Giardini per l’inizio della manifestazione. Il nostro corteo vedeva gli atleti in testa, alcuni in carrozzina, altri indossavano già il proprio kimono, in mezzo a loro gli atleti professionisti della Zinella, con le loro tute arancione a guidarci, dietro le scuole con in testa lo striscione dell’ITC Salvemini di Casalecchio e dietro le altre scuole e poi gli altri. C’erano anche la RAI e i giornalisti, la Banda, i vigili in testa, tutti intorno si chiedevano cosa stava succedendo e io l’onore di far partire il corteo. Stavo attraversando le vie principali della mia città, non mi rendevo bene conto, ma le persone ci guardavano, ci ammiravano, non so se capivano bene chi eravamo e perché eravamo lì. Il sole diventava sempre più alto e più forte, il tempo mi sembrava fermo, era strano stare al centro della strada a volte fermo, per l’incedere lento del corteo, fermo dove di solito bisogna correre per evitare di essere travolto dalle macchine e Bologna lì testimone del nostro passaggio. Quando siamo arrivati ai Giardini il sole splendeva sui nostri campi di gara: il tatami per gli atleti del judo, la pedana della scherma, il circuito del tandem, il campo del tiro con l’arco e i campi da tennis, basket, pallavolo e hockey e le autorità ci aspettavano sul palco per dare il via ufficiale alla manifestazione. L’inno di Mameli ufficializzava l’inizio delle gare, ora era solo questione di fatica, sudore e divertimento, toccava ai nostri campioni e ai ragazzi delle scuole. Tutto è andato benissimo, è stata una grande festa e io forse per la prima volta ho sentito che eravamo sportivi come gli altri e con gli altri! Ecco cosa mi ha detto Fabrizio che ha partecipato con me a questa Prima Giornata Paralimpica:
“L’idea di invitare le scuole a questa prima giornata paralimpica è stata significativa da parte del CIP, perché la scuola può essere un serbatoio importante al quale attingere affinché sempre più ragazzi disabili si avvicinino alla pratica sportiva. Tra le varie discipline convenute alla manifestazione, era presente anche il wheelchair hockey (hockey su carrozzina elettrica) con alcuni atleti della squadra di Bologna, fra cui il sottoscritto, uno della squadra di Ancona e uno di Milano, che hanno dato vita a una esibizione mista tre contro tre. Il match, risultato molto combattuto ed equilibrato, è terminato con un pareggio: 4 a 4. Purtroppo, non essendo al completo né la squadra di Bologna né una squadra sfidante, non è stato possibile svolgere una regolare partita, che avrebbe previsto cinque giocatori per ogni formazione.
Le esibizioni dell’hockey e del basket in carrozzina si sono svolte nel Playground dei Giardini Margherita. La maggior parte del pubblico era composta dagli studenti di alcune scuole medie inferiori e superiori di Bologna, che hanno attivamente partecipato col loro tifo. È stato molto bello sia essere presente a questa manifestazione come uno dei protagonisti della dimostrazione di wheelchair hockey, che aver visto il pubblico partecipare con interesse ed entusiasmo a questa particolare iniziativa, dimostrando così un apprezzamento francamente inaspettato”.
Non sono riuscito a sentire tutti, ma molti sono rimasti contenti e ci saranno cose da migliorare, quello che so è che con questa giornata si è aggiunto qualcosa per essere nel mondo dello sport, che non siano solo i riflettori delle Paralimpiadi… la meta è sempre più vicina!

La foresta furbastra: un cd rom educativo

A cura della redazione

Studi e ricerche pedagogiche hanno dimostrato come, nei secoli, la fiaba sia diventata genere letterario universale e patrimonio comune dell’umanità. Volta a cogliere le differenze di coloro che stanno ai margini, metafora iniziatica per “non iniziati”, essa avvicina i propri fruitori a tematiche quotidiane e comuni.
Situata nei luoghi dell’Altrove, affronta temi complessi quali l’amore, il dolore, la nostalgia, la morte, la vita, il distacco, la gioia e si insinua all’interno delle dinamiche personali interiori di ciascun individuo sfiorando le corde dei sentimenti, delle paure e delle attese. Servendosi di un linguaggio semplice e al tempo stesso sottilmente pungente, la fiaba parla di diversità gettando non solo un ponte tra infanzia ed età adulta bensì tra culture e popoli lontani. Essa prende per mano il lettore e lo conduce attraverso i luoghi dell’immaginario alla scoperta intima di sé e dell’altro.
Ma esiste un altro elemento che, così come la narrazione fiabica, ha il potere di condurre l’uomo verso l’altro ed è il gioco. Esso crea un tempo e un universo temporanei, fatti di regole, rumori, ruoli e sensazioni nuovi e diverse.
Sulla base di queste premesse nasce nel 2004, all’interno del progetto Scuolabile ideato da Disabili.com e realizzato grazie alla collaborazione della Regione Veneto e del Comune di Padova, una storia accattivante nell’ambito della quale i bambini, con la supervisione degli insegnanti a scuola e dei genitori a casa, si confrontano in modo divertente ed educativo con situazioni che normalmente non appartengono alla loro quotidianità. Un vero e proprio videogioco, insomma, i cui protagonisti sono dei fumetti: bambini e bambine, alcuni normodotati, altri disabili.
Inoltre, schede esplicative e carte da “gioco” didattiche allegate, consentono agli insegnanti e ai genitori di proseguire nel percorso istruttivo e culturale obiettivo del progetto.
Il racconto intitolato “La foresta furbastra” e i testi del gioco interattivo sono stati ideati dallo scrittore per ragazzi Luigi Dal Cin.
I personaggi della fiaba hanno caratteri buoni, forti e vincenti: principesse del buio (che non vedono), principi del silenzio (che non sentono e non parlano) o della forza (con braccia fortissime perché seduti su una sedie a rotelle. Sono state realizzate inoltre apposite carte da gioco per continuare, anche al termine della fiaba, il percorso educativo e culturale promosso da Scuolabile. Le carte possono essere utilizzate come traccia per inventare una storia nuova, oppure distribuite per completare con una sequenza nuova il racconto e costituiscono un aiuto concreto nella distinzione di ambienti reali e fantastici, protagonisti, antagonisti e sfidanti… stimolando il bambino a rielaborare le esperienze vissute nel gioco.

La foresta furbastra (breve riassunto)
In un castello (non molto lontano da noi), vive una bambina, Luna, buona e sensibile, insieme alla matrigna, vanitosa e antipatica, e alla sorellina, costretta su una sedia a rotelle, tenuta nascosta perché nel castello, essendoci troppe scale, non può muoversi. Un giorno arrivano al castello la principessa del buio, il principe del silenzio e il principe della forza: vogliono offrire i loro servizi e le loro capacità alla matrigna, ma vengono cacciati perché “diversi”. La matrigna decide di cacciare dal castello anche la figliastra, perché più bella di lei: è troppo vanitosa, non può accettarlo! Ma grazie all’aiuto dei suoi tre amici – la principessa del buio, il principe del silenzio e il principe della forza – la protagonista riuscirà a superare una serie di prove. La matrigna sarà eliminata, e Luna tornerà con i suoi tre amici al castello, dal quale, nel frattempo, la sorellina ha eliminato ogni barriera architettonica. E vivranno insieme, felici e contenti.

Per richiedere il cd rom del gioco rivolgersi a Disabili.com

Sulle note del benessere: la danzaterapia di Maria Fux

di Alessandra Onnis, danzaterapista

La ricerca di un benessere psicofisico e la consapevolezza unita al cambiamento o miglioramento di alcuni aspetti della personalità che influenzano la vita quotidiana e la relazione con gli altri è punto di arrivo fondamentale e cammino di ricerca per ogni persona umana.
Numerose sono, a partire dalla psicoanalisi classica fino ad arrivare alle pratiche new age più moderne, le tecniche verbali ed espressive atte a raggiungere tale obiettivo.
Tutte le discipline che utilizzano il movimento corporeo mirano al benessere della persona utilizzando diversi strumenti, quali, ad esempio, la musica e la relazione con le persone, per perseguire tale obiettivo.
Ogni metodologia di questo tipo è fondata, generalmente, sui meccanismi riguardanti la relazione (ormai piuttosto dimostrata) che intercorre fra il corpo e la mente.
Maria Fux nasce in Argentina come ballerina e coreografa sperimentando però da subito che una tecnica corporea fine a se stessa rimane spesso sterile e usufruibile soltanto da un’élite di persone.
Si specializza in danza moderna a New York, nella scuola di Martha Graham e in seguito a diverse esperienze personali, talvolta difficili, e all’incontro con le “diversità”, giunge a creare il suo metodo di danzaterapia e ad aprire la sua scuola, dove lavora tuttora (a 83 anni), a Buenos Aires.
Punti cardine della metodologia sono lo sviluppo e il potenziamento della creatività e dell’espressività della persona attraverso la danza libera e l’utilizzo di stimoli, primo fra tutti la musica ma anche oggetti di uso quotidiano (come la stoffa o il giornale) che, grazie alle loro caratteristiche e alla loro simbologia, non si fermano a una semplice finalità ludica o di rilassamento (comunque presenti), ma creano uno spazio di con-tatto con parti profonde del proprio corpo e con le emozioni a esse correlate.
Nella metodologia di Maria Fux non esiste interpretazione in quanto essa cerca di far emergere alcuni aspetti della personalità dell’individuo aiutandolo nel valutarli, senza la presunzione di analizzarne le cause primitive, ma offrendosi come punto e spunto di partenza per un miglioramento, un benessere globale e un eventuale cambiamento.
È in questo senso che il metodo di danzaterapia di Maria Fux può definirsi terapeutico.
Per Maria Fux dunque, il corpo, nella danza, è comunicazione di stati interiori che, riconosciuti e utilizzati a livello corporeo, possono diventare strumento per il ben-essere della persona.
Ogni persona ha al suo interno potenzialità creative e comunicative che, attraverso un lavoro su di sé, possono essere attivate e utilizzate.
Questa è la grande intuizione di Maria Fux: tutte le persone, anche quelle con disabilità e difficoltà molto grosse, possono esprimere nella danza libera, attraverso gli stimoli e la relazione con l’altro, le proprie emozioni e sensazioni dandosi la possibilità di potenziare le proprie qualità e di mettere in atto eventuali percorsi di consapevolezza e cambiamento.
È proprio in queste peculiarità che la danzaterapia di Maria Fux si può porre come strumento generale di benessere e scoperta ma anche come prevenzione ai diversi tipi di disagio o strumento di riabilitazione laddove tale disagio già sussiste.
Essa (come le artiterapie in genere), in questi ultimi casi, può porsi non come sostitutiva delle terapie analitiche tradizionali ma come supporto, integrazione e potenziamento di esse.
La danzaterapia di Maria Fux parla al corpo e col corpo, offrendo delle opportunità.
Essa promuove lo sviluppo interiore indipendentemente dai limiti esistenti nella persona, cercando anzi, di lavorare su questi per poterne prendere consapevolezza e trasformarli in possibilità di creazione ed espressione personale e gratificante.
Danzare in libertà, per vivere in armonia.

Per saperne di più:
A.S.P.R.U. RISVEGLI Onlus
Via Vittadini 3 – 20136 Milano
Tel. 02/58.31.78.83
Fax 02/58.43.97.21
E-mail: risvegli@fastwebnet.it, scuoladanza@risvegli.it, scuolaarte@risvegli.it

Cultura, accoglienza e condivisione in Madagascar

di Jean François Ratsimbazafy, psicologo malgascio, esperto in progetti di sviluppo e adozione a distanza

Per i malgasci sono importanti il sorriso, il saluto e lo sguardo. Quando passi per le strade e i bambini ti gridano: “Vazaha!”, cioè “Straniero!” lo fanno sempre con un sorriso e ti manifestano la loro gioia e voglia di entrare in contatto con te, di comunicarti qualcosa. Ti rispettano e non sono indifferenti al tuo sguardo. Ti chiedi come mai questi bambini senza scarpe, impolverati, con i capelli spettinati manifestano questa serenità che si vede nel loro sorriso. È un altro popolo che ti sta di fronte, che ti fa capire tutta la sua dignità pur nella fatica del vivere quotidiano. Ma dentro di te forse possono aprirsi delle domande, può allargarsi il tuo orizzonte. Ad esempio scoprendo con sorpresa che alcuni bambini, pur possedendo le scarpe, spesso vanno in giro a piedi nudi come abitudine dei malgasci. Capita che arrivando a scuola gli alunni preferiscano togliersi le scarpe per stare più comodi e sentirsi più a proprio agio.
È una sfida andare in un paese così lontano e così diverso. Ci vogliono più di 10 ore di volo. Il tuo sistema immunitario è in prova. Ti può accogliere un comitato di anofele, diverse dalle zanzare tigre di Bologna (che pure hanno fatto il loro dovere e mi hanno punto), e il tuo sistema neurovegetativo è in prova. Se in Italia raramente si vedono mosche, laggiù è una realtà molto più presente, come anche vedere formiche o altri insetti. Mentre vedere un camaleonte è una cosa comune per i bambini malgasci, per te sarà un’attrazione. Forse qualche volta ci vorrebbe più umiltà nel “leggere” le situazioni, nell’interpretare i fatti. Mi è capitato una volta in aereo di sentire alcuni francesi che criticavano la “pazzia” dei malgasci che pur nella povertà fanno di tutto per avere un telefonino cellulare. Non si rendevano conto che in Madagascar è molto difficile avere il telefono di casa, a causa delle distanze e della carenza di infrastrutture e che l’unico altro modo di avere notizie della propria famiglia quando si abita lontani è affrontare un estenuante viaggio in taxi-brousse per molte ore. Per i malgasci la vita di relazione è fondamentale e anche quando si è ricoverati in ospedale spesso si è attorniati almeno da tre o quattro persone della famiglia, che stanno tutto il giorno con te.
Tutto in Madagascar a cominciare dalla natura ti invita a cambiare il tuo modo di percepire, il tuo modo di pensare. Malgrado la mancanza di tante cose, la dignità del popolo ti arriva al cuore e ti chiama a un passo avanti, a un atto concreto di presenza e di esperienza.

Sviluppo e adozione a distanza
Prima di tutto l’adozione a distanza nasce dall’idea di una solidarietà con il mondo. I genitori hanno il dovere di educare e mandare a scuola i figli. La nazione ha il dovere di educare i suoi cittadini. L’adozione a distanza è una partecipazione al cambiamento di questo mondo. Infatti il tasso di analfabetizzazione in Madagascar supera ancora il 40%. Aiutare un bambino ad andare a scuola è un passo in avanti verso lo sviluppo del paese.
Tutti i paesi africani hanno scelto l’educazione come punto di partenza verso lo sviluppo, a partire dagli anni Sessanta, una volta usciti dalla colonizzazione. La polemica verteva sullo scegliere tra insegnamento generale o insegnamento tecnico, per avviare il più presto possibile lo sviluppo. Il governo del Madagascar sta incoraggiando i genitori a mandare i bambini a scuola. È da quattro anni infatti che avviene la distribuzione gratuita di zaini, matite e penne ai bambini delle elementari per alleviare i genitori dal peso delle spese dei materiali scolastici.
In alcuni tribù dedite alla pastorizia, non si mandano i bambini a scuola per il rischio di non avere più nessuno che possa badare gli zebù. Alcuni altri genitori non mandano i bambini a scuola perché il lavoro del campo possa continuare.
L’adozione a distanza quindi è veramente una spinta per lo sviluppo del Sud del mondo. Eppure è rara l’adozione a distanza per un giovane dopo il liceo. Tanti giovani non possono più finire la scuola superiore e l’università perché i genitori non riescono a pagare lo studio. Dato che c’è un grande tasso di dispersione scolastica bisognerebbe far sì che questi giovani a due passi del mondo del lavoro non vengano abbandonati. Per il momento il mio lavoro come referente della associazione MAIS (Movimento per l’Autosviluppo Internazionale nella Solidarietà) di Roma riguarda l’adozione a distanza di più di 85 bambini ad Antsirabe, 23 ad Antananarivo e un’altra ventina a Fianarantsoa.

La casa di accoglienza
Ci sono delle differenze enormi nella vita di un contadino e di un cittadino in Madagascar.  Nella città si trovano le scuole, gli ospedali, gli uffici e i mezzi pubblici come i bus e i taxi-brousse. Invece nelle campagne tutti camminano, mancano gli ospedali, le scuole e i servizi sono quasi inesistenti. I contadini vivono alla giornata. Non conoscono l’elettricità né l’acqua del rubinetto. Devono spostarsi a piedi e fare dei chilometri per trovare un pugno di sale, un litro di olio, e così via. Dunque i bambini che abitano nelle campagne sono svantaggiati, non hanno le scuole e se le scuole ci sono non ci sono i professori, dato che lo stipendio spesso è ricavato da una autotassazione dei genitori che però non arriva nemmeno ai 19 euro mensili minimi.
Appena diventato direttore di una scuola elementare ad Antsirabe, un genitore dalla campagna è venuto per iscrivere i suoi figli. Ero dall’altra parte della scrivania dell’ufficio, seduto accanto agli altri professori, mentre questo genitore era in piedi davanti a me e mi chiedeva un posto per suoi figli. Una professoressa ha chiesto subito al genitore da dove venivano i suoi bambini e sentendo che venivano da un paesino lontano mi ha detto subito che non si poteva iscriverli a scuola, che non sarebbero stati all’altezza del livello di insegnamento che dispensavamo. Preso alla sprovvista, mentre non sapevo ancora cosa rispondere il genitore “dalla campagna” disperato se ne andava. Questa vicenda mi ha lasciato un segno e mi ha fatto comprendere quanto siano svantaggiati i bambini di origine contadina.  Mi sono convinto che dovevamo fare qualcosa per cambiare questa situazione.
Con l’aiuto e l’accordo del MAIS, una associazione Onlus che ha la sua sede a Roma, ho aperto nella città di Antsirabe una casa di accoglienza per i bambini provenienti dalla campagna. Questa casa di accoglienza si chiama “Tsinjo Lavitra”, cioè “Sguardo Oltre”, e ha lo scopo di mandare i bambini dei villaggi contadini nelle migliori scuole di Antsirabe, così che anche loro possano avere gli stessi diritti dei bambini della città.
Abbiamo affittato una casa con 4 camere principali per servire da alloggio ai 18 bambini dalla campagna. Cerchiamo di dar loro un’educazione secondo i valori della cultura malgascia. Nella casa di accoglienza Tsinjo Lavitra, lo stare insieme è basato sulla pulizia, l’ordine, la relazione interpersonale e lo studio e ciò implica un buon uso del tempo messo a disposizione dei bambini. Si cerca di responsabilizzare ognuno di loro attraverso i piccoli lavori di ogni giorno. La sveglia, come d’abitudine nella famiglia malgascia, è alla cinque della mattina, un’ora prima del sorgere del sole, per iniziare a cucinare (che inizia con la raccolta della legna e dell’acqua) e a pulire la casa prima di andare a scuola. La trasmissione dei valori in Madagascar passa proprio nel dare il senso di responsabilità ai giovani. Si costruisce una abitudine alla pulizia, al lavoro che scandisce il ritmo della vita. Alla fine i giovani ospiti della casa Tsinjo Lavitra sono abituati a lavorare da soli senza che un adulto gli stia accanto. Ma il cambiamento non si ferma alla vita dei bambini. Perché il cerchio si chiuda dobbiamo anche toccare la vita dei genitori.

Il progetto agricolo con i genitori
La prima ricchezza del Madagascar è la terra. Il nostro obiettivo è di poter raggruppare i genitori per coltivare dei cereali. Li abbiamo incoraggiati a coltivare la soia, il mais e i fagioli. Cerchiamo insieme un mercato per vendere i nostri prodotti, e il guadagno va condiviso con i genitori che hanno partecipato alla coltivazione. È da due anni che stiamo cercando di aumentare le superfici coltivate. Il nostro sito è Ambohimasina lì dove i genitori sono più determinati a lavorare insieme. Quest’anno abbiamo vangato a mano quasi 15 ettari di terreno pronto per la stagione agricola 2006-2007. Questa settimana abbiamo seminato il mais su 2 ettari di terreno. Un altro progetto è dedicato al miglioramento del nutrimento dei malgasci. Abbiamo scelto la zona di Miandrivazo dove il pesce di acqua dolce abbonda. Ci stiamo organizzando per acquistare il pesce dai pescatori che successivamente andrà depositato in una cella frigorifera. In questo stesso posto verrà costruito un affumicatore e una camera di essicazione del pesce. I prodotti andranno ad Antsirabe, Ambositra e Fandriana. Attorno a questo progetto ci sono una quindicina di persone (pescatori, intermediari, autisti, guardiano, venditori, addetti all’affumicatore). Il comune di Miandrivazo ci ha dato il suo benestare per la costruzione della cella, dato che è molto contento di questa iniziativa, dato che lì serve proprio la cella per depositare anche la carne di zebù che esce dal mattatoio. Il pesce che rimane dal mercato andrà anche conservato nella cella.
Quest’anno abbiamo realizzato un allevamento di pesce in una risaia di Ambohimasina. Nel mese di novembre 2005, abbiamo messo in una risaia 5000 pesciolini. Li abbiamo lasciati crescere con il riso e nel mese di settembre scorso, abbiamo raccolto 150 chili di pesce che abbiamo portato al mercato di Antsirabe. Ciò ha permesso di dimostrare ai contadini che dalla risaia si può ricavare anche del pesce migliorando così la produzione della loro terra.
Una ventina di mamme sono venute alla casa Tsinjo Lavitra per chiedere degli aiuti finanziari. Abbiamo proposto loro di seguire una formazione per trasformare la soia. Hanno seguito 4 pomeriggi domenicali di formazione, poi le abbiamo inviate in un centro di formazione professionale per la trasformazione della soia. Delle 24 che si erano presentate solo 12 hanno avuto la costanza e la motivazione per rimanere. Il progetto sfocerà nella costruzione di un negozio dove la soia verrà trasformata e i derivati saranno venduti al pubblico. I genitori gestiranno i guadagni e la casa Tsinjo Lavitra controllerà l’andamento del negozio. Questo progetto darà un lavoro a 12 mamme che si sono impegnate fino alla fine a imparare come trasformare la soia.

Conclusione
Il proverbio franco-malgascio “piano piano l’uccello fa il suo nido”, è il nostro motto. Lo sviluppo è un cambiamento che nasce da tutti. Dall’adozione a distanza che parte dalle famiglie italiane oltre ovviamente ai bambini sono stati coinvolti i loro genitori, gli altri fratelli e sorelle. Spesso la sponsorizzazione di una famiglia italiana verso un bambino malgascio non si ferma a questo unico bambino arrivando a tutti i membri della famiglia. È
tutta la famiglia che trae sostentamento, sono tutti i bambini della stessa famiglia che beneficiano dei quaderni. Ma l’adozione a distanza deve puntare anche all’educazione e formazione della popolazione locale tramite il lavoro di un referente. È solo tramite la continua formazione locale che si raggiunge lo stadio dell’autosviluppo.
L’adozione a distanza deve essere un aiuto al ragazzo che diventerà un giovane autonomo. Certo il bambino dopo lo studio diventa autonomo quando trova un lavoro. Ma la scelta di sponsorizzare anche una famiglia o un gruppo di contandini, o una scuola intera per valorizzare le potenzialità presenti, è l’idea vincente. Si cerca di creare un lavoro. Potrebbe essere questo il nuovo volto dell’adozione a distanza: un sostegno alla famiglia intera per creare un lavoro durevole che diventi una fonte di guadagno per tutta la famiglia.

Per una spiegazione ampia dell’adozione a distanza, contattare:
Signora Anna Bartoloni, Responsabile del progetto Madagascar o il Signor Flaviano Pinna del MAIS (Movimento per l’Autosviluppo Internazionale nella Solidarietà)
Via Ciccotti 10
00179 Roma
Tel: 06/7886163

Association Tsinjo Lavitra MAIS Madagascar
Lot 04 D 180 C Ambohimena
Antsirabe 110
E-mail: jfrty@hotmail.com