Skip to main content

autore: Autore: (a cura di) Riccardo Morelli

5. Il valore sociale

Con il contributo di:
Clara Colli, Coop. Soc. Solaris-Triuggio (MB)
David Scagliotti, Coop. Soc. Azione Solidale-Milano
Giovanni Vergani, Coop. Soc. Novo Millennio-Monza
Luca Gorlani, Coop. Soc. Il Vomere-Travagliato (BS)
Luciano Bedin, Coop. Soc. Primavera 85-Treviso
Nel paragrafo sono incluse riflessioni tratte dall’intervento di Elena Marta, ordinaria di Psicologia sociale e psicologia di Comunità presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, condivise nell’ambito del Laboratorio Metodologico di Immaginabili Risorse tenutosi a Brescia il 27 aprile 2017.

Quando usiamo l’espressione “valore sociale” ci riferiamo a qualcosa di utile agli altri. Produrre valore sociale significa produrre “beni comuni”, che possono essere condivisi da tutti, contribuendo così a rendere le nostre comunità più giuste e più vivibili. Produrre beni comuni ed esprimere valore sociale significa facilitare l’incontro tra le persone, fra diverse realtà sociali, che elaborano così le proprie parzialità e le proprie fragilità, come elemento di fertilità e crescita.
La relazione con l’altro è alla base del significato profondo del valore sociale, riconoscere dentro se stessi il bisogno di essere in relazione può produrre valore per la vita di ciascuno.
Questo orizzonte di pensiero ci porta a non ridurre il valore sociale a un mero rapporto con la comunità in termini utilitaristici. Il valore sociale pone al centro la questione di essere “nella” e “con la” comunità, qualcosa che certamente ha a che fare con il “fare per”, ma che più profondamente ha a che fare con un’appartenenza, con un “essere con”.
Parlare di valore sociale espresso dalla persona con disabilità riguarda il riconoscimento della sua capacità di giocarsi in un ruolo “vero” nella comunità. Riconoscere che la persona con disabilità non è il suo limite, ma che il suo valore si gioca nella sua esistenza, nella sua storia, in ciò che la abita profondamente e la fa diventare essere in relazione e in cerca di relazioni.
Il fatto che le persone con disabilità possano concorrere a generare valore sociale permette loro di porsi come risorse, di acquisire conoscenze che possono essere messe a disposizione di altri. Si attivano contesti e occasioni in cui la dimensione dell’“io” si connette alla capacità di vivere il “noi” e alla costruzione di esperienze di attenzione nella prossimità della quotidianità.
Le persone con disabilità sono cittadini con peculiari risorse e criticità all’interno di una comunità. In questo senso il loro valore è quello di rinforzare legami e senso di comunità e questo porta a una migliore convivenza, intesa come la capacità di conoscere e trattare la differenza, nonché di rintracciare negli altri le risorse di cui sono portatori.
L’appartenenza a un contesto è connessa alla costruzione di legami e rapporti che si mantengono nel tempo, mettendo ognuno in gioco qualcosa di importante per l’altro, creando così un “debito reciproco” in cui diventa possibile andare verso la logica del dono, verso forme di retribuzione e di ritorno differenti, perché la relazione porta sempre con sé una quota di gratuità. Il “debito” così inteso non viene perciò legato a un “dovere” verso l’altro, ma al desiderio di mantenere una relazione.
Per produrre valore sociale occorre consentire alla persona con disabilità di sentirsi appartenente alla comunità, riconoscendosi come attore attivo, ovvero sentire e riconoscere di essere valore per la comunità, potendo influenzarla ed essere portatore di cambiamento al suo interno.
L’attenzione al valore sociale è un invito a uscire dall’affidarsi alla sola logica dei “diritti”, che rischia di ridursi a una concessione prestazionale di qualcuno verso qualcun altro, per guadagnare quella dell’implicazione reciproca, attivando e affiancando dinamiche co-evolutive, di corresponsabilità della relazione.
Esprimere valore sociale diviene, quindi, occasione anche per le famiglie delle persone con disabilità di rivedere l’immagine e le modalità relazionali messe in atto nei confronti dei loro famigliari, uscendo dalla logica della sola rivendicazione dei diritti. Per un servizio, lavorare alla produzione di valore sociale significa intercettare una domanda esterna, diventare protagonisti attivi della vita del territorio, accompagnare le persone con disabilità nel contesto “esterno” perché si attivi con il “fuori” una relazione importante che risponda a un’autentica domanda di vita.
L’operatore sociale si trova a sviluppare in modo nuovo la sua funzione di costruttore di relazioni e legami, in un modo meno orientato alla gestione della persona all’interno dei servizi e maggiormente aperto alla dimensione di attivazione delle reti territoriali e facilitazione delle relazioni. Un ruolo capace di stimolare l’incontro, di portare verso il territorio, di sviluppare possibilità di legami, di accompagnare processi di appartenenza.
Come detto da Elena Marta, ordinaria di Psicologia sociale e psicologia di Comunità presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, nell’ambito del Laboratorio Metodologico di Immaginabili Risorse, “il lavoro dell’operatore non è in risposta al bisogno di un soggetto – il disabile e la sua famiglia – ma dell’intera comunità entro cui vive il soggetto disabile. Si tratta di diventare citizenprofessional. Essere citizenprofessional è prima di tutto identità: significa vedere se stessi come un cittadino con uno speciale expertise che lavora a fianco di altri cittadini con i loro speciali expertise al fine di risolvere i problemi della comunità che richiedono lo sforzo di tutti. Non si tratta semplicemente di un’immagine idealizzata, ma nasce da una radicata consapevolezza che i problemi realmente rilevanti nella cura della salute, nell’educazione e nel welfare non possono essere risolti dai professionisti da soli e nemmeno da un’azione da parte delle sole istituzioni. I citizenprofessionals sono in possesso di un corpus di conoscenze relativo alle interconnessioni tra la dimensione personale e pubblica della loro pratica professionale. Devono poter contare su una serie di competenze nel facilitare il dibattito pubblico e nel catalizzare l’azione collettiva. Nel contesto del loro normale lavoro di prestatori di servizi, essi devono essere capaci di intrecciare la dimensione individuale e pubblica rispetto alle tematiche che i loro pazienti si trovano ad affrontare e, quando i tempi sono maturi, sono in grado di coinvolgere altri cittadini nel dibattito pubblico e in progetti di azione locale che affrontino i problemi della comunità. L’operatore diviene dunque un catalizzatore di risorse, di reti, accompagnatore di processi che toccano solidarietà, impegno civico, costruzione di cittadinanza. Egli è un facilitatore di costruzione di beni relazionali, una categoria strettamente connessa alla reciprocità, alla fiducia, alla gratuità”.
Ciò conduce a uscire dal presupposto che il lavoro degli operatori sociali debba porre la sola “persona al centro”, ci accompagna dalla centralità delle risorse a quella delle relazioni, che sostanziano la qualità della vita delle persone. Al centro delle attenzioni degli operatori deve esserci la comunità nel suo intreccio di relazioni.
Tale traiettoria di lavoro è possibile solamente dentro una logica di forte sinergia che introduce in un processo di lavoro orientato verso un terzo, il territorio, uscendo dalla relazione duale con la persona con disabilità per aprirsi verso una comunità chiamata a prendersi cura di se stessa e della quale i servizi, gli operatori, le persone con disabilità e le loro famiglie fanno parte.
Il Servizio Pubblico assume la fondamentale funzione di garanzia. Non è chiamato a gestire direttamente i processi, ma a garantire un lavoro di tenuta nella rete dei soggetti del territorio evitando che si producano diseguaglianze.
Rimane aperto il tema della misurabilità dell’impatto sociale del valore sociale prodotto. La sua valutazione è necessaria per comprendere quanto le politiche sociali, le modalità di finanziamento e l’insieme dei sostegni allo sviluppo della cooperazione sociale siano stati efficaci ed efficienti rispetto agli obiettivi. Dal momento in cui si comincia ad applicare un approccio di tipo economico, diventa fondamentale porre l’accento sull’importanza della misurabilità, sapere quanto un’organizzazione è disposta a spendere e per quale risultato. Bisogna cominciare a parlare di valore aggiunto e di valore sociale prodotti, a fianco di un preciso valore economico generato. È fondamentale dimostrare che la cooperazione sociale è un soggetto economico che gestisce risorse in modo efficiente, e congiuntamente è un soggetto sociale che promuove inclusione e benessere in modo efficace.

 Centro Polivalente di utilità sociale “Atlantis”
Castelfranco Veneto (TV)
Direttrice dott.ssa Raffaella Munaretto
tel. 0423706704
r.munaretto@lincontro.it

Progetto
Seminar libri

Esperienza
“Libero scambio” di libri, all’interno di una “libera biblioteca”, presso il supermercato Coop del Centro Commerciale “Giorgione” di Castelfranco Veneto (TV). L’iniziativa ha permesso ai clienti della Coop e alla cittadinanza tutta di prendere in prestito uno o più libri in spazi di bookcrossing nei negozi Coop, senza alcuna registrazione, e di riportarli indietro dopo qualche tempo.
Il contributo delle persone con disabilità coinvolte a rotazione, affiancate da Oss ed educatori, si è concretizzato in: catalogare i libri, etichettandoli e riparandoli se rovinati; posizionarli sugli scaffali; relazionarsi con i fruitori della biblioteca. Il progetto si è sviluppato anche dopo l’orario di chiusura del nostro Centro, attraverso tre iniziative: laboratorio di letture animate per bambini; incontro di formazione sui prodotti certificati Fairtrade (prodotti equosolidali); cash mob ossia promozione dei prodotti Fairtrade tra i clienti del supermercato, azioni alle quali hanno partecipato pure le famiglie.

Elementi innovativi
Aver realizzato un’esperienza pre-lavorativa, non retribuita, dove le persone con disabilità hanno appreso il significato di impegno e di rispetto dei tempi e di esecuzione dei compiti assegnati; essersi sentiti parte di un territorio, nel riscoprirlo come opportunità, nell’“utilizzarlo” per co-costruire percorsi sociali, per generare relazioni, per sensibilizzare la cittadinanza, nell’ottica dell’inclusione; aver generato capitale sociale, valorizzando il capitale umano disponibile; aver creato l’occasione per un “laboratorio di Vita” e aver fornito una risposta di servizio alla domanda “chi viene oggi alla Coop?”.

 Cooperativa Piano Infinito – Montecchio Maggiore (VI)
Valentina Castagna, Luca Borinato
tel. 0444492415
cdpapicchio@pianoinfinitocoop.it

Progetto
Fermi tutti: siete circo…dati

Esperienza
Circo sociale adattato: laboratorio rivolto alle scuole primarie del territorio che coinvolge cinque persone con disabilità in qualità di insegnanti esperti di circo, supportati da due adulti. Le classi coinvolte sono state 12 per un totale di circa 200 alunni.

Elementi innovativi
Il circo adattato è uno strumento utile a favorire la comunicazione con gli altri, consente la riscoperta del corpo come strumento di relazione, migliora l’autostima e l’immagine di sé. Le persone coinvolte hanno perciò la possibilità di accedere a ruoli sociali ben definiti e hanno la possibilità di confrontarsi con ruoli autentici. In un contesto culturale dove la normalità è dominante e le differenze non sono riconosciute come valore, i bambini diventano parte attiva di un cambiamento e l’inclusione sociale della persona disabile diventa valore sociale.

4.La co-progettazione

Con il contributo di:
Guido Bodda, Coop. Soc. Il sogno di una cosa-Collegno (TO)
Paola Ricchiuti e Caterina Boria, Coop. Soc. Itaca-Pordenone
Lucia Cavallin, Coop. Soc. Solidarietà-Treviso
Roberto Guzzi, Coop. Soc. Il Germoglio-Cassina de’ Pecchi (MI)
Nel paragrafo sono incluse riflessioni tratte dall’intervento di Gino Mazzoli, psicologo sociale, condivise nell’ambito del Laboratorio Metodologico di Immaginabili Risorse tenutosi a Brescia il 13 giugno 2017.

Co-progettare rende possibili processi di lavoro più efficaci rispetto alla persona con disabilità e alla sua relazione con il contesto.
La co-progettazione è un percorso e la cogestione il suo naturale proseguo. Il lavoro di co-progettazione consente lo sviluppo di azioni condivise che non dipendono solo da noi stessi.
Co-progettare e co-gestire significa superare la semplice offerta progettuale proposta in modo univoco, andando oltre il raggio di azione del singolo soggetto e alla logica della negoziazione spartitoria (come ad esempio accade nella dinamica degli appalti).
Si possono agire processi di co-progettazione e cogestione su tre livelli distinti:

  • con le persone con disabilità, nella logica dell’autodeterminazione e del riconoscimento dei “saperi” e dei “poteri”;
  • con il territorio (associazioni, enti, istituti scolastici, cittadini…), funzionale allo sviluppo di comunità;
  • tra istituzione pubbliche e Terzo Settore, con la finalità di una configurazione condivisa dell’architettura dei servizi.

I processi di co-progettazione e cogestione attivano dinamiche inclusive e generative in vari modi:

  • favoriscono la riconnessione delle risposte ai bisogni, attivando modelli che non si fondano unicamente su percorsi procedurali, bensì trovano il loro fondamento anche sulla fiducia e il riconoscimento dell’altro;
  • rompono il processo di delega ai Servizi nella gestione dei progetti di vita delle persone con disabilità. I nostri servizi finora hanno spesso generato dinamiche di autoreferenzialità, incastrando sempre più le persone con disabilità nel ruolo di dipendenza. Grazie a questi percorsi le persone con disabilità possono agire ruoli sociali reali, accrescere le proprie relazioni con i territori e la capacità di starci in autonomia;
  • permettono ai diversi soggetti coinvolti di crescere ed evolvere spingendoli ad affrontare domande insolite. Ogni organizzazione, infatti, tende al mantenimento della propria identità e omeostasi: l’altra faccia della medaglia di questo processo è la routine (abbiamo sempre fatto così perché dobbiamo cambiare?). La necessità del cambiamento diventa evidente nel momento in cui la co-progettazione permette alle realtà di intercettare energie potenziali interne ed esterne all’organizzazione;
  • forzano la logica dei titoli formali (ad esempio “famigliare”, “dirigente”, “operatore”…): nei processi di co-progettazione c’è maggior circolarità e simmetria nei ruoli. Possono essere portati più facilmente competenze e punti di vista diversi, arricchenti e preziosi al di là dei ruoli formali;
  • ci si attesta su un paradigma di Welfare Generativo, allontanandosi dalle logiche classiche del Welfare State e stimolando nelle persone fruitrici di servizi partecipazione e messa in campo di risorse proprie che possono essere “ridistribuite” a favore di tutta la Comunità.

Le principali difficoltà che possiamo incontrare nei processi di co-progettazione sono di diverso tipo:

  • la rinegoziazione dell’identità della persona con disabilità e di tutti i soggetti in gioco: il soggetto disabile non è più solo destinatario di cura, ma assume anche un ruolo attivo, avendo maggiore voce in capitolo;
  • una perdita del potere di tutti i soggetti che operano con la persona con disabilità e una sua redistribuzione più equa e dinamica;
  • tra i diversi soggetti ci sono differenze di linguaggi, di obiettivi, di approcci, di intenti e di significati per le quali è necessario un lavoro di sintesi e mediazione;
  • l’incertezza sugli esiti: il prodotto finale della co-progettazione è incerto e bisogna avere la capacità di accettare che il risultato sia qualcosa di inaspettato. Deve esserci una certa tolleranza dell’incertezza a fronte dell’assenza di risposte immediate;
  • la necessità di una metodologia efficace e di una leadership ibrida che mantenga la neutralità.

In questa logica per gli operatori è difficile:

  • rompere le routine, lasciare il primato delle competenze tecniche e uscire dai confini di un’identità professionale definita in modo statico;
  • aprirsi a variabili non controllabili e a relazioni che mettono nelle condizioni di reinventarsi con flessibilità, di prendere decisioni, di assumersi responsabilità e rischi lasciando la confort zone rappresentata dal servizio;
  • esporsi a maggiore visibilità rispetto al contesto: gli operatori sono molto più “visibili” poiché entrano in un campo di interazione con più e nuovi soggetti e si trovano a gestire più piani di lavoro contemporaneamente.

A fronte delle difficoltà a cui la logica della co-progettazione espone gli operatori, è utile nominare quali gli aspetti che possano, invece, motivarli.
La posizione classica dell’operatore è quella del custode della persona con disabilità. Questa posizione limita molto la possibilità di accorgersi che nei territori in cui i servizi vivono ci sono bisogni che generano domande a cui anche i servizi per le persone con disabilità possono contribuire a dare risposte. In una logica di co-progettazione i servizi per le persone con disabilità possono contribuire al processo di rilevazione del bisogno, di co-costruzione della domanda e di co-progettazione delle risposte al bisogno stesso. Questa dinamica è ostacolata dal fatto che servizi e operatori tendono a muoversi dietro alla spinta di un mandato, immaginandosi principalmente come esecutori. Con difficoltà ci si immagina parte attiva rispetto a una domanda del territorio.
Lavorare secondo una logica di co-progettazione significa anche aprirsi a un lavoro incrementale nel quale, come detto, in modo un po’ spiazzante, non si definisce tutto all’inizio. Questa caratteristica può implicare anche una certa instabilità dei progetti.
Attivare processi nella logica della co-progettazione significa cercare di essere percepiti come risorsa integrativa e non alternativa/oppositiva all’esistente. Per farlo, se i servizi vogliono essere risorsa per il territorio e creare inclusione sociale, devono attingere a competenze che vanno oltre la pedagogia. Occorrono saperi mirati in relazione all’area produttiva di cui ci si intende occupare. Ricercarli, coltivarli, può anche permettere di riscoprire e rivalutare le passioni degli operatori, spesso celate nel lavoro quotidiano.
Essere disponibile a confrontarsi, scontrarsi, scambiarsi, ad essere in moto verso l’altro è la condizione necessaria per poter usare la co-progettazione, uno strumento, un mezzo per creare valore e inclusione sociale.
Questo strumento può facilitare soggetti che hanno necessità, storie, esperienze, domande, bisogni, interessi diversi e che devono lavorare insieme per un unico obiettivo. Il tener vivo e chiaro l’obiettivo rende fattibile e costruttiva la co-progettazione. Soprattutto quando siamo di fronte a situazioni complesse e articolate.
Co-progettare significa trovarsi in situazione orizzontale e paritaria, quindi spostarsi dall’idea che vi sia un unico modello di funzionamento di tipo gerarchico o piramidale.
Per l’avvio di esperienze di co-progettazione occorrono setting in cui gli attori in gioco possano avviare delle trattative e nei quali la centralità sia sul fare. Occorre considerare la complessità delle organizzazioni, nelle quali la parte formale è sempre meno rilevante di quella informale. Il problema delle esperienze di co-progettazione non è la partenza, ma la loro tenuta nel tempo.
Utilizzare questo strumento per progettare mette nella condizione di “dover rinunciare a qualcosa”. Il risultato finale di un percorso di co-progettazione sarà sicuramente diverso dal pensiero iniziale di ogni soggetto.
Lo strumento della co-progettazione ha bisogno di cura, ascolto e delicatezza da parte di tutti i soggetti coinvolti, ma chiede anch’esso di essere curato; è necessario definire in modo esplicito la figura che si occupa di tessere le relazioni, di seguire i processi, di gestire le informazioni e le comunicazioni tra tutti i componenti. Questo lavoro di cura deve essere affidato in modo chiaro e concordato a un soggetto (facilitatore, network management) a cui è riconosciuta questa funzione, funzione che può anche essere gestita a turno.
I limiti diventano la parte del gioco da affrontare e superare con la partecipazione e con le differenti risorse dei soggetti coinvolti nella ricerca di soluzioni possibili.
La fiducia che può instaurarsi permette di raggiungere un grado di partecipazione e consapevolezza che porta a risultati non previsti.
Questo strumento può essere applicato a una problematica che un soggetto pone, ma anche a un percorso in cui l’insieme dei soggetti si trova per cercare un obiettivo comune, all’interno delle organizzazioni, tra organizzazioni paritarie, tra entità diverse e miste.
È uno strumento per creare partecipazione e legami con i contesti che ruotano attorno ai soggetti di una rete e che può muovere in modo attivo il territorio.
La co-progettazione può anche finire quando l’obiettivo è stato raggiunto.

3. Il partenariato con le famiglie

Con il contributo di:
Clara Colli, Coop. Soc. Solaris-Triuggio (MB)
Daniele Ferraresso, Associazione La Luna-Padova
Giovanna di Pasquale e Sandra Negri, Coop. Soc. Accaparlante-Bologna
Lisa Gollino, Azienda Assistenza Sanitaria 5 “Friuli Occidentale”-Pordenone
Luca Borinato, Coop. Soc. Piano Infinito-Montecchio Maggiore (VI)
Natalino Filippin, Paola Schiavetto e Lucia Mantesso della ULSS8 Asolo-Treviso
Roberta Geria e Costanza Rashmi, Coop. Soc. Domus Laetitia-Sagliano Micca (BI)
Nel paragrafo sono incluse riflessioni tratte dall’intervento di Valter Tarchini, psicologo sociale dello Studio APS di Milano, condivise nell’ambito del Laboratorio Metodologico di Immaginabili Risorse tenutosi a Brescia il 14 settembre 2017.

La disabilità è un “viaggiatore inatteso, è sempre qualcosa di inaspettato per il suo presentarsi come rottura traumatica all’interno del viaggio esistenziale”, scrive Carlo Lepri in Viaggiatori inattesi: appunti sull’integrazione sociale delle persone disabili.
L’esperienza ci insegna che le persone adulte con disabilità adulte raramente escono dal nucleo familiare: crescono, diventano uomini e donne, ma la relazione che le contraddistingue le riporta sempre a un legame di dipendenza che le riposiziona in una dimensione senza età. L’impatto della disabilità può perturbare il ciclo vitale, congelandone spesso il naturale evolversi.
Costruire una storia familiare equilibrata, se è presente una disabilità, è difficile. Per renderlo possibile servono processi di accettazione profondi, dolorosi, lenti. Infatti, nella maggioranza dei casi, è più facile passare ad atteggiamenti di protezione eccessiva o di allontanamento, oppure a una specializzazione dei ruoli con la parte femminile che cura e la parte maschile che costruisce o rivendica.
Per molti anni la disabilità è stata gestita in proprio, nel cortile di casa, con le famiglie allargate e solo quando le famiglie “non ce la facevano più”, i genitori lasciavano i figli agli istituti.
C’è stata poi una fase in cui le famiglie si sono organizzate in associazioni, diventando gestori diretti, dando avvio a sperimentazioni che poi si sono trasformate in servizi stabili.
All’intensa fase di costruzione di servizi, di delega e specializzazione di questi è seguita una critica profonda delle famiglie. I servizi, cresciuti negli anni in quantità e in qualità, per molte famiglie non sembrano comunque essere mai sufficienti.
La strutturazione dei servizi ha dato libertà agli operatori di costruire, ha dato speranza e sollievo ai genitori, ma ha anche tenuto fuori i famigliari dai processi di cura e di scelta.
In questi ultimi anni assistiamo a una maggior partecipazione, competenza e capacità contrattuale da parte dei genitori che tendono a essere sempre meno dipendenti dai servizi.
Inoltre, il ridursi delle risorse pubbliche ha portato a un ulteriore periodo di ripensamento e riorganizzazione. Quindi i ruoli e le relazioni tra i tre grandi sistemi, famiglia, terzo settore e pubblico, stanno nuovamente cambiando.
Il cambiamento è all’insegna dell’inclusione e innesca processi che hanno bisogno dell’impegno di ciascuno e di una legittimazione reciproca. Tutte le parti in gioco hanno bisogno di essere confermate dalle altre.
La co-progettazione diventa quindi fondamentale.
“L’inclusione della disabilità è immaginabile come un percorso di reciproca interazione tra potenzialità e limiti, messi in campo tra persone e gruppi diversi tra loro che accrescono le proprie possibilità identitarie proprio grazie alla reciprocità che si genera e alle evoluzioni che questa condizione rende possibile”.
Sta emergendo il passaggio dalla cultura dei servizi che danno risposte ai bisogni, ai servizi che si basano sui desideri delle persone con disabilità e delle loro famiglie.
Occorre quindi formare gli operatori in maniera diversa. Siamo di fronte alla necessità di costruire modelli che aiutino le famiglie ad avere sempre più potere contrattuale, risorse e strumenti. In questo senso è interessante creare occasioni di incontro per le famiglie e di co-costruzione e co-progettazione tra operatori e famiglie: questo può portare, tra le altre cose, ad ampliare il range delle competenze disponibili nei gruppi di lavoro. Naturalmente è necessario un tempo interno ai servizi in cui si programma, ma lo è altrettanto un tempo in cui si dialoga sul senso delle cose tra operatori e famiglie.
Certo, non è possibile coinvolgere tutte le famiglie, poiché molte di esse non hanno i mezzi, non sono formate o pronte, hanno bisogno di essere accompagnate. È però certamente possibile coinvolgerne una parte, che potrà poi assumere una funzione di volano.
Le famiglie e le persone con disabilità vengono messe nella condizione di committenti che esprimono domande oppure di utenti che ricevono servizi, dimenticando che essi sono cittadini e persone.
È importante che il progetto di vita della persona con disabilità venga definito in un’ottica di mutualità e che si ingaggino le famiglie come persone e cittadini del territorio.
Le alleanze che si andranno a costruire saranno sofisticate e richiederanno da parte degli operatori la disponibilità ad assumersi il rischio di abbandonare i setting professionali classici, poiché i setting espellono gli elementi della qualità della vita e poiché la vita è più larga del setting: purtroppo persiste il pensiero che un dialogo diverso con la persona con disabilità, la sua famiglia e il contesto delegittimi l’operatore.
Quando parliamo di relazione dei servizi per persone con disabilità con le famiglie, ci muoviamo spesso fra poli opposti ovvero tra autonomia e dipendenza. Il concetto di autonomia è generalmente legato al “saper fare delle cose”, a un aspetto prettamente quantitativo, “più cose so fare, più sono autonomo”. Quello di dipendenza ci riporta al già evocato strettissimo rapporto di cura afferente al mondo familiare.
Quando si lavora con la disabilità sarebbe opportuno lavorare sull’interdipendenza. La progettualità non è mai per l’autonomia, ma per l’articolazione delle dipendenze, perché siano più ricche e qualificanti.
Lavorare sulle interdipendenze significa principalmente lavorare sul rapporto con il contesto, con l’esterno, perché è lì che esistono le risorse, le possibilità e le soggettività. La progettualità deve essere sulla relazione tra persone con disabilità e ambiente, persone con disabilità e famiglia, famiglia e contesto.
Nel coltivare e accrescere le interdipendenze gli operatori si trovano esposti allo sguardo dell’altro e devono imparare a reggerlo. Riuscire a guardare la persona nelle sue interdipendenze fa sì che il servizio non sia qualcosa di alternativo, ma di sostegno alle famiglie e al contesto.
Al fine di rendere l’interdipendenza qualitativa ed evolutiva è fondamentale conoscere la famiglia. L’altro, per diventare partner, ha bisogno di essere conosciuto e riconosciuto. L’ingaggio delle famiglie nella progettualità permette di restituire loro il ruolo di soggetti e risorse.
Spesso non c’è continuità nella conoscenza delle famiglie, che passano da un servizio all’altro seguendo la crescita del proprio figlio. È fondamentale conoscerle, invece, perché possano essere realmente partner nella progettazione del percorso di vita della persona con disabilità e possano diventare una risorsa, insieme agli operatori, per i propri congiunti e per il territorio. La conoscenza può permettere di creare un’alleanza con le famiglie per leggere e affrontare insieme le difficoltà e tentare di superarle.
Per favorire la costruzione delle alleanze tra operatori e famiglie alcuni strumenti utili possono essere:

  • la ricostruzione delle biografie e delle storie familiari;
  • il Manuale di vita: strumento che permette alla famiglia di raccogliere e condividere sia informazioni e aspetti importanti della biografia della persona con disabilità, sia informazioni più particolareggiate e apparentemente meno rilevanti, ma che possono essere molto utili nel momento della fuoriuscita dal nucleo familiare. Facilita un vero e proprio passaggio del testimone;
  • i gruppi trasversali con operatori e famigliari;
  • i gruppi di auto-mutuo-aiuto per famigliari delle persone con disabilità.

Lavorare sulle interdipendenze, sul loro accrescimento e sviluppo, permette di in- contrare e costruire relazioni dove l’altro può esprimere delle richieste a cui dare risposte e/o, cosa assai preziosa, produrre dei pensieri che generano delle domande, uscendo così dal tema del dialogo come domanda-risposta e producendo un meccanismo di pensiero che genera conoscenze e risorse.
Resta aperto il tema del potere: qual è il ruolo dell’ente pubblico, quale quello del terzo settore, come sostenere le famiglie?
Occorre tenere bene in considerazione, e non è per niente scontato farlo, che ogni attore all’interno delle relazioni di aiuto gioca delle ambivalenze dalle quali si può uscire trovando dei contesti dove si dia parola alle cose, dove l’ambivalenza possa essere riconosciuta diversamente, uscendo così dalla dicotomia potere/conflitto.
Le ambivalenze richiedono che nelle dinamiche gerarchiche tra operatori e utenti si esca dalla logica delle asimmetrie fisse e si accolga quella delle asimmetrie variabili per la quale, poiché si sanno cose diverse, il potere è distribuito più uniformemente tra i soggetti in relazione. Fintanto che la relazione si svolge intorno a una domanda specifica, è difficile aprirsi al dialogo e la tensione è verso la costruzione di ruoli definiti.
Adottando questo approccio si genera fiducia, che però non è data una volta per sempre. Diventa interessante riflettere su quale contenitore possa sostenerla. I due estremi sui quali possiamo muoverci sono quelli dell’istituzione e dell’impresa. Occorre ricercare un contenitore che abbia la dimensione della persistenza propria dell’istituzione e quella dell’innovazione propria dell’impresa.
Serve un lavoro continuo per creare legami di fiducia e mantenerli nel tempo attraverso la relazione. È necessario tendere a uno scambio di energie, di diverse letture dello stesso tema, a un continuo rimodulare, ri-immaginare, rimettere in discussione. Gli operatori se la sentono davvero di mettersi a progettare con le famiglie?
Famiglie, operatori e servizio pubblico sono chiamati in questa logica a cedere un po’ del proprio potere. Operatore e servizio pubblico non devono porsi come gli unici in grado di dare le risposte ai bisogni delle persone con disabilità in nome del fatto che hanno dalla loro parte la tecnica, la professionalità e le risorse economiche; la famiglia deve uscire dalla convinzione di essere la sola a saper gestire al meglio la persona con disabilità.
Solo se tutti cedono una parte del proprio potere si possono creare alleanze e pensare a un futuro assieme.

2. Costruire e regolare organizzazioni congruenti all’approccio inclusivo e generativo

Con il contributo di:
Eleonora Gastaldello e Francesca Dal Bosco, Coop. Soc. Giovani e Amici-Terrassa Padovana (PD)
Guido Bodda, Coop. Soc. Il sogno di una cosa-Collegno (TO)
Mauro Tommasini, Coop. Soc. La Rete-Trento
Roberta Geria e Costanza Rashmi, Coop. Soc. Domus Laetitia-Sagliano Micca (BI)
Nel paragrafo sono incluse riflessioni tratte dall’intervento di Franca Olivetti Manoukian, psicologa sociale e fondatrice dello Studio APS, nell’ambito del Laboratorio Metodologico di Immaginabili Risorse tenutosi a Brescia il 19 ottobre 2017.

Per lavorare in un’ottica inclusiva, capace di generare valore sociale, è centrale considerare il contesto in cui si è inseriti. Conoscere e capire il contesto in cui si è immersi ci consente di promuovere e sviluppare un’organizzazione che si muova davvero come un sistema il più possibile in sintonia con esso.
È necessario delineare spazi d’azione e individuare interlocutori al di fuori dei servizi, nella comunità. Aprire lo sguardo avrà ricadute anche sulla cultura del lavoro nelle organizzazioni stesse. I tempi e le regole del lavoro si modificheranno poiché l’organizzazione diverrà partecipe e co-costruttrice di processi nel territorio.
La strutturazione interna dell’organizzazione, il suo clima e l’approccio nei confronti delle persone con disabilità e degli operatori stessi devono essere coerenti con la filosofia di valorizzazione delle diversità promossa all’esterno. Rispetto alla costruzione di organizzazioni congruenti all’approccio inclusivo e generativo, è di centrale importanza la coerenza tra la comunità che le organizzazioni vogliono costruire all’esterno e la comunità che vivono al loro interno, tra tutti coloro che la compongono.
Così come i servizi fungono da fattore di coesione tra il centro e le periferie delle nostre comunità, così, poiché spesso nella periferia delle organizzazioni stesse emergono stimoli interessanti, questi devono essere comunicati e condivisi con il centro. Spesso i servizi hanno un’elevata componente di artificialità, governati come sono dal bisogno di protezione nei confronti delle persone con disabilità. L’esigenza di aprirsi all’esterno per ricercare qualcosa di nuovo e di vero nella realtà nasce dalla necessità di disordinare i servizi, disordinare, cioè, qualcosa che non risponde più, o risponde solo in parte, alla realtà. Lo iato tra mondo interno ai servizi e domanda di vita delle persone con disabilità e delle loro famiglie è una spinta potente al cambiamento delle organizzazioni. Un importante propellente per questo cambiamento può essere l’interazione tra i soggetti destinatari dei servizi e i soggetti promotori poiché in questa interazione si generano interessanti possibilità di sviluppo.
Aprirsi all’esterno significa anche lavorare per e con la comunità per costruire linguaggi comuni e condivisi tra servizi e cittadinanza affinché si possa percepire la disabilità come una risorsa.
Destrutturarsi creativamente, guardare al territorio andando oltre meccanismi organizzativi statici, disordinare, significa ragionare nell’ottica di azioni concrete parzialmente prevedibili e non completamente certe, significa andare verso una titolarità condivisa del processo tra istituito e istituente, significa che la tecnica apre spazi dove costruire cambiamenti e non diviene un fattore di irrigidimento delle relazioni, di segregazione motivata da esigenze di protezione, di ulteriore strutturazione di realtà artificiali.
Un irrigidimento delle organizzazioni non consente di vivere costruttivamente nella realtà, non permette naturalità e facilità nelle relazioni e un riconoscimento delle diverse competenze ovvero una valorizzazione delle differenze.
In questo processo di apertura e dinamizzazione, il ruolo della leadership nelle organizzazioni non scompare, anzi, diventa funzionale a far convergere l’organizzazione nel suo complesso verso un processo comune condiviso.
Si delinea un’organizzazione decentrata e policentrica la cui leadership ne coordina l’identità e ne diviene fattore coesivo.
Tutti gli attori coinvolti devono imparare ad assumere micro decisioni riconducibili a un senso comune del quale chi esercita la leadership è custode.
L’apertura al territorio pone le organizzazioni in una prospettiva di permanente Ricerca-Azione. Si tratta di un cambiamento importante rispetto alla logica della gestione e dell’erogazione di prestazioni. È però una prospettiva che richiede vigilanza di fronte ad alcuni rischi, primo fra tutti la percezione di essere gli unici detentori della conoscenza e per questo di sapere sempre quale sia la miglior risposta per le persone con disabilità.
Tra le maggiori difficoltà, da un punto di vista organizzativo, troviamo anche quelle connesse alla formazione degli operatori, che deve essere costante e porsi l’obiettivo di portare tutto il gruppo di lavoro a operare per raggiungere un’identità di azione condivisa.
Pensiamo impegnativo anche gestire i processi, che in un sistema di rete in movimento diventano molto dinamici e flessibili. Teniamo conto anche della varietà dei soggetti con cui ci si relaziona, dei vincoli normativi spesso in contrasto proprio con la progressiva dinamizzazione dell’azione e della necessità di individuare una domanda esterna che sia reale.
Dobbiamo, quindi, riuscire a cambiare il nostro linguaggio, imparare a percepirci come un gruppo in cammino, capace di creare reciprocità, mantenendo però la nostra identità poiché il primo obiettivo delle organizzazioni è e deve rimanere quello di migliorare la qualità della vita delle persone con disabilità.
In questa prospettiva il ruolo dell’operatore non può più essere quello di una mera figura educativa e le alleanze diventano centrali. Alleanze tra servizi e mondo profit, tra pubblico e privato, da cui possono nascere delle possibilità inattese, poiché la pluralità di approcci e visioni arricchisce e valorizza un’organizzazione.

Cooperativa Itaca Cooperativa Sociale Onlus – Pordenone
Caterina Boria Responsabile Area Disabilità
tel. 3482653567
c.boria@itaca.coopsoc.it

Progetto
“Casa Mander” – Comune di Sequals (PN)

Esperienza
La Cooperativa Itaca sostiene nel suo operato l’approccio di rete, collabora in co-progettazioni e co-gestioni di servizi alla Persona sia con enti pubblici sia con associazioni del privato sociale.
“Casa Mander” è nata dalla creazione di azioni di Sviluppo di Comunità e Cittadinanza Attiva attraverso la collaborazione con l’Ambito socio-assistenziale 6.4, Azienda Sanitaria, Comune e Terzo settore.
Il progetto, in alternativa al centro diurno, promuove un luogo/spazio fisico e relazionale dal quale si sviluppano azioni tese alla prosocialità, all’inclusione sociale, alla valutazione e valorizzazione delle competenze, all’aggregazione e all’autonomia anche abitativa. La cornice progettuale ha promosso lo sviluppo sociale dal punto di vista dell’accoglienza ma anche delle economie, connotandosi dunque come progetto orientato ad accrescere processi innovativi in una forma di presa in carico comunitaria, in cui la parte economica e il welfare si intrecciano in un’ottica generativa.

Elementi innovativi
Ulteriori peculiarità sono rappresentate dall’avvio, “a seguito di” e “a sostegno di” altre progettualità affini e complementari come:

  • Progetto Tempo Libero all’interno del quale un gruppo di persone con disabilità si incontra settimanalmente in maniera strutturata e guidata al fine di pianificare azioni a sostegno del proprio tempo libero.
  • Gruppo Appartamento: i partecipanti al Progetto “Casa Mander” possono sperimentare la gestione della quotidianità, delle relazioni, della cura del sé in un contesto abitativo a bassa soglia.
  • Aiuto alla Comunità: palestra di civismo dove il gruppo educatori/utenti si mette a disposizione dei cittadini o delle situazioni che richiedono un aiuto concreto.

Cooperativa Sociale Il Sogno di una Cosa Onlus – Collegno (TO)
Guido Bodda
tel. 3929639971
guidoele@hotmail.com

Progetto
Training delle tre A: Adultità, Autonomia, Autodeterminazione

Esperienza
L’idea di fondo è sviluppare un nuovo tipo di servizio, un servizio di sostegno e accompagnamento alla vita adulta, inserito nella filiera dei servizi per la disabilità (che prevede quindi step successivi), che sostenga e accompagni le persone con disabilità intellettiva nel percorso verso l’adultità, verso il massimo della autodeterminazione e indipendenza possibile in funzione del loro progetto di vita.

Elementi innovativi
Creazione di un servizio “leggero”, con una prospettiva di “accompagnamento” più che di presa in carico, un servizio in cui i giovani con disabilità sono inseriti per un periodo limitato, 2/3 anni. Strutturato in modo “integrato” rispetto ai diversi ambiti della vita adulta: occupazione, affettività/identità/relazione, autonomia abitativa.
Obbiettivi: garantire una migliore qualità della vita alle persone disabili stesse, in sintonia con la Convenzione Onu; promuovere la visione della disabilità come risorsa per tutti; favorire al contempo un risparmio nel medio lungo periodo.

Azienda per l’Assistenza Sanitaria 5 – Pordenone
Servizi territoriali residenziali e semiresidenziali
Pamela Franceschetto
tel. 0434369896
pamela.franceschetto@aas5.sanita.fvg.it
Lisa Gollino
tel. 0434369733
lisa.gollino@aas5.sanita.fvg.it

Progetto
Le Unità Educative Territoriali (UET) nell’area vasta pordenonese

Esperienza
Ogni UET, promuovendo relazioni con il territorio, ha costruito una sua area di interesse prevalente (es. cura del verde, sostegno alimentare alle persone economicamente fragili…), utile a favorire percorsi di integrazione, aumento del benessere e presa in carico comunitaria per la persona con disabilità.

Elementi innovativi
La specificità di questo servizio è la finalità ultima della presa in carico comunitaria, ovvero la costruzione di percorsi in cui la persona con disabilità diventa capace di agire all’interno di un contesto senza la presenza dell’operatore. Ciò diventa possibile grazie alla costruzione di legami inediti con i soggetti della comunità. Il servizio classicamente inteso, viene meno: le UET hanno per lo più sede presso realtà private del territorio (es. parrocchia, associazione sportiva, casa del volontariato, case civili…), al fine di favorire l’incontro con l’altro dal servizio e di contaminarsi con la vita e gli attori della comunità, laddove questi si trovano quotidianamente.

1. Le ragioni per una Rete: l’inclusione delle persone con disabilità come risorsa per la crescita dei contesti

Con il contributo di: Cristian Paindelli, Coop. Soc. Lambro-Monza
Giovanna di Pasquale e Sandra Negri, Coop. Soc. Accaparlante-Bologna
Giovanni Vergani, Coop. Soc. Novo Millennio-Monza
Laura Deviardi e Costanza Lanzanova della Coop. Soc. La Nuvola-Orzinuovi (BS)
Leonardo Peracchi della Coop. Soc. Animazione Valdocco-Torino
Luca Borinato, Coop. Soc. Piano Infinito-Montecchio Maggiore (VI)
Luca Gorlani, Coop. Soc. Il Vomere-Travagliato (BS)
Lucia Cavallin, Coop. Soc. Solidarietà-Treviso
Natalino Filippin, Paola Schiavetto e Lucia Mantesso della ULSS8 Asolo-Treviso
Nel paragrafo sono incluse le riflessioni tratte dai contributi di Marco Brunod, professore a contratto presso la facoltà di psicologia dell’Università di Milano Bicocca e Ivo Lizzola, professore di pedagogia sociale presso l’Università di Bergamo, condivise nell’ambito dei Laboratori Metodologici di Immaginabili Risorse rispettivamente del 12 dicembre 17 e del 14 marzo 17.

Immaginabili Risorse è una rete informale di soggetti di varia natura (enti pubblici, fondazioni, cooperative sociali, associazioni, persone con disabilità) che, sul territorio del centro-nord Italia, si sono connessi intorno all’idea di promuovere l’inclusione sociale delle persone con disabilità.
Accomuna i soggetti della rete l’idea che, per promuovere tale obiettivo, sia necessario favorire in primo luogo un cambiamento culturale, centrato sulla modalità con la quale le nostre comunità si rapportano alle persone con disabilità e, per esteso, alla diversità in genere.
Quando parliamo di inclusione sociale e di progetti inclusivi che la promuovano, ci riferiamo alla relazione tra persona con disabilità e contesto nel quale vive.
La Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità afferma che la disabilità è il frutto della relazione tra persone con menomazioni e il loro contesto di vita. Per questo motivo ha senso parlare di lavoro con la disabilità se ci si rivolge anche alla comunità nella quale le persone con disabilità vivono: i progetti inclusivi non si limitano a prendersi cura delle persone con disabilità ma, in qualche misura, si rivolgono anche alle comunità nelle quali queste persone vivono. L’inclusione è necessaria per favorire un reale miglioramento della qualità della vita di questi cittadini e delle nostre comunità.
Il modo attraverso il quale questo dialogo tra comunità e persone con disabilità si sviluppa passa attraverso l’idea di reciprocità, ovvero una modalità di porsi in relazione nella quale il rapporto tra servizi, persone con disabilità e comunità non sia qualificato dal solo “prendere” dei primi. Non si tratta di progetti nei quali viene promosso un atteggiamento caritatevole (nel senso deteriore del termine) o progetti rivendicativi (nel senso dell’ottenimento di diritti). Si tratta, invece, di opportunità costruite per rivelare alla comunità il valore aggiunto rappresentato dalla presenza della diversità contenuta nella disabilità. Ciò è possibile se le persone con disabilità, grazie alla mediazione/facilitazione dei servizi, si dispongono ad assumersi responsabilità adeguate nei confronti della loro comunità.
Dunque l’inclusione sociale è promuovibile in un’ottica di reciprocità e la reciprocità è attivabile in una dimensione generativa nella quale i servizi producano valore sociale anche per le comunità nelle quali esistono.
I tre concetti di inclusione, reciprocità e generatività sono tra loro connessi, solo dal primo al terzo, in una logica progressiva: se c’è generatività ci sono reciprocità e inclusione, ma un’intenzionalità inclusiva non è detto si apra alla reciprocità e alla generatività.
La rete di Immaginabili Risorse ha dunque una funzione di aggregazione, connessione, diffusione di buone prassi. Una funzione di enzima che possa permettere alle comunità e ai servizi di assimilare il valore sociale contenuto nella diversità di cui sono portatrici le persone con disabilità, facilitando la relazione tra servizi e contesto e accompagnando il contesto a strutturare risposte adulte, non dominate dalla paura dell’esistenza delle persone con disabilità.
La rete di Immaginabili Risorse ha alcune caratteristiche peculiari che la rendono strettamente coerente con le idee che intende promuovere.
I soggetti interessati si aggregano alla rete sulla base della condivisione di alcune ipotesi di fondo.
Tra i membri della rete, quelli disponibili (anche in considerazione della vicinanza territoriale) partecipano a un gruppo di coordinamento che si confronta periodicamente e formula proposte alla rete allargata.
La scelta di mantenere una natura informale, pur con le evidenti difficoltà gestionali connesse, è una discreta garanzia a che il sistema non lavori per il proprio mantenimento e la propria autoconservazione.
La tenuta del coordinamento e della rete si regge su un gentlemen’s agreement, caratterizzato dal fatto che tutti coloro che sono parte della rete lo sono in forza della loro disponibilità a portare il loro contributo al suo funzionamento.
L’approccio di Immaginabili Risorse è centrato sull’idea di inclusione sociale e di generatività, ma noi ci domandiamo: è davvero necessario un nuovo approccio? C’è bisogno di Immaginabili Risorse? Il percorso che la rete ha intrapreso dal 2011 serve a qualcuno?
Riteniamo necessario puntualizzare che l’approccio che proponiamo è francamente discontinuo rispetto al quadro complessivo e prevalente nelle politiche sociali in generale e in particolare in quelle rivolte alle persone con disabilità.
Non abbiamo pretese di esaustività relativamente alle progettualità già esistenti e caratterizzate dall’attenzione all’inclusione e alla generatività, e non vogliamo risultare indirettamente squalificanti rispetto a tanti che quotidianamente si impegnano onestamente nel servizio alla vita delle persone con disabilità e delle loro famiglie, ma riteniamo necessario suggerire un cambio di rotta indispensabile anche e proprio a vantaggio delle stesse persone con disabilità, delle loro famiglie e degli operatori impegnati nei servizi.
È chiaramente presente nei codici deontologici di assistenti sociali, psicologi ed educatori professionali, il richiamo al tema dell’autodeterminazione e dell’autonomia delle persone di cui sono chiamati a prendersi cura.
Eppure, nonostante questo presupposto sia fondante per queste professionalità così centrali nella costruzione dei progetti di vita delle persone con disabilità, è pur vero che il legislatore sente la necessità di richiamare continuamente nei dispositivi normativi (si pensi alla legge 328/2000 o, più recentemente, alla legge 112/2016) al rispetto dell’autonoma, all’individualizzazione dei progetti e all’autodeterminazione delle persone con disabilità.
Questo suggerisce che esista, a fronte di una coerenza formale tra la cornice deontologica che racchiude l’operatività e il quadro normativo di riferimento, una incoerenza sostanziale.
Tale incoerenza sostanziale fa emergere la necessità di pensare a un cambio di rotta che riconduca a un effettivo rispetto dell’autonomia e dell’autodeterminazione delle persone con disabilità.
Porre attenzione all’agire inclusivo significa dare rilievo alla relazionalità quale elemento centrale che orienta l’incontro con l’alterità. Costruire relazioni sane, costruire comunità e, in ultima analisi, salute, è il fine dell’operatore sociale; parlare di inclusione sociale nell’ambito dei servizi è però cosa impegnativa, perché esprimerne anche le sole premesse attiva reazioni difensive negli operatori. Il vero fine dell’operatore sociale mal si concilia con ciò che, in ossequio alla cultura prevalente nel mondo dei servizi, ci conduce verso l’erogazione di prestazioni definite dall’alto e non co-costruite con chi ne beneficia direttamente.
Pertanto, affermare che l’operatività si distanzia da questo approccio significa smascherare un sostanziale tradimento del mandato professionale che si è ricevuto come operatori.
Per questo tutti gli operatori affermano ovviamente di lavorare in modo inclusivo.
La scelta di imboccare la strada dell’inclusione sociale non è semplice né presa una volta per tutte. L’operatività, immersa nelle organizzazioni, ci richiama a scegliere e riscegliere quotidianamente lo sguardo inclusivo e ci rammenta quanto sia facile abbandonarlo.
Passare dal primato della prestazione a quello della relazione è possibile, determinante e decisivo. Costruire e lavorare in un servizio di taglio “relazionale” significa essere disposti a lavorare sul piano della prossimità. Osando, si può dire, dell’affetto.
In una prospettiva inclusiva la considerazione della complessità come paradigma fondante è di vitale importanza e si associa all’invito che emerge dalla rete di Immaginabili Risorse a orientarsi all’accettazione della dinamicità della persona, del servizio, del contesto. Si può osservare come, al contrario, l’inerzia della quotidianità del lavoro nei servizi prema per una staticizzazione, una cronicizzazione della visione della persona con disabilità, della sua famiglia, delle comunità e, non ultimo, delle stesse identità professionali degli operatori.
Per tenere vivo uno sguardo dinamizzante è necessario dotarsi di modalità partecipative e inclusive che favoriscano dei processi di emersione dei reali desideri, l’espressione delle potenzialità e l’attivazione delle risorse delle persone direttamente interessate e presenti nei territori di appartenenza.
Occorre, cioè, favorire processi partecipativi, in cui le persone con disabilità e i loro familiari, insieme agli operatori, possano co-progettare e co-costruire gli interventi e le proposte che li riguardano. Si intende in tal modo uscire dalla logica assistenziale per abbracciare una logica di sviluppo di comunità e progettazione partecipata degli interventi. La chiave di volta sta nel passare da un modello di intervento basato sulla mancanza, che spinge a creare attorno a questa una risposta preconfezionata, a modelli centrati sulla competenza (community developement) che considerino il territorio come fonte di soluzioni collettive autodeterminate, che aprano spazi a orizzonti creativi inaspettati.
L’ottica di riferimento è quella dei diritti di cittadinanza costituzionalmente riconosciuti, a cui corrispondono livelli uniformi ed essenziali di assistenza. Si fa riferimento anche alla valorizzazione della persona, della famiglia, delle formazioni sociali secondo il principio di sussidiarietà sociale o orizzontale. In base a tale principio lo Stato riconosce e sostiene l’iniziativa delle formazioni sociali e dei corpi intermedi nelle loro azioni finalizzate al bene comune, alla solidarietà, alla corresponsabilità in un’ottica di politiche sociali di community care.
La persona con disabilità richiede non solo cura, ma competenza e attitudine alla capacità di “prendersi cura”, contrastando ogni forma che tenda a concentrare l’attenzione sulla medicalizzazione e sulla sanitizzazione.

“Il soggetto pulsionale”
Pensare la persona nel cuore del sistema dei servizi significa che essa non è oggetto di prestazioni e risposte, ma è il “soggetto pulsionale” (cuore) che sceglie, decide e partecipa allo sviluppo del proprio progetto di vita e al processo di partecipazione sociale.
È certo che mettere al centro la persona complessifica le cose, espone l’operatore a un rischio maggiore, ma apre anche a possibilità inaspettate.
Esistono indubbiamente difficoltà e resistenze di vario tipo.
Resistenze culturali da parte degli stessi operatori, che sono invitati ad accettare la propria “decrescita”, il farsi da parte per lasciare uno spazio, con la consapevolezza che questo potrebbe anche restare “vuoto” e farli così percepire inefficienti; resistenze delle famiglie, resistenze della persona con disabilità al cambiamento, limiti e vincoli organizzativi.
È quindi necessario pensare a:

  1. un progetto di vita: non basta offrire “soluzioni” esterne organizzate che spesso risultano statiche, frammentate, limitate, chiuse. Bisogna cogliere i bisogni di una persona nel suo arco di vita (e quindi che si modificano) attraverso una lettura che parta dall’oggi, individuando prospettive per il domani e ricordando e valorizzando i percorsi già intrapresi ieri;
  2. una vita di relazione: spesso si è più attenti all’aspetto funzionale della collocazione delle persone con disabilità e degli stessi operatori nei servizi che non alla significatività della relazione e ai processi di partecipazione;
  3. luoghi e spazi di vita: bisogna promuovere la vivibilità del contesto nel quale la persona è inserita, vi è la necessità che il soggetto sviluppi processi di partecipazione e appartenenza che diano valore all’esistenza, bisogna porre attenzione agli spazi dei servizi al fine di dare dignità anche alla più grave disabilità;
  4. porre attenzione alle situazioni di vita in quanto nelle persone e nelle famiglie possono avvenire rapidi cambiamenti, dovuti all’evolversi della persona o a eventi familiari e sociali;
  5. uno spostamento di potere dall’operatore alla persona con disabilità che consenta a quest’ultima di prendersi delle responsabilità e cominciare a rispondere di quanto le è possibile;
  6. co-costruire un senso del progetto di vita che sia in continua evoluzione con la persona e con il suo personale e quotidiano percorso di crescita.

 La reciprocità è un concetto che richiama l’idea di scambio con il contesto, di osmosi tra servizi, persone con disabilità e comunità. Riferita al mondo della disabilità, essa suggerisce un cambiamento culturale importante, che invita a superare la concezione secondo la quale le persone con disabilità siano solo destinatarie di risorse e di cure. Perché si attivino dinamiche di reciprocità occorre che, a fronte di una situazione statica dove la collettività fornisce le risorse e i servizi si prendono cura delle persone con disabilità, i servizi, per il tramite degli operatori, si propongano quali produttori di valore sociale, si candidino cioè a restituire, ove possibile, alla collettività il valore connesso all’esistenza stessa delle persone con disabilità.
È necessario che l’operatore ponga se stesso insieme alla persona con disabilità in una condizione di rischio, di partecipazione e messa in gioco di sé in una dimensione più ampia e offra se stesso come accompagnatore di un’altra persona maggiormente (forse) fragile, in un terreno neutro, al servizio di un altro (la comunità) molteplice, sconosciuto e vasto. Bisogna, dunque, uscire dalla dinamica di dipendenza dell’approccio assistenziale e di potere, dalla relazione duale operatore-utente, per costruire un rapporto che conferisca potere e autodeterminazione alla persona con disabilità e ai suoi caregivers. Il ruolo dell’operatore diventa, quindi, quello di mediatore nei contesti di vita della persona, aiutando i contesti a maturare una visione, modalità e strumenti relazionali diversi e affiancando la persona con disabilità nell’interazione. In questa dinamica l’operatore lavora affinché la persona metta in campo le proprie competenze e abilità, affrontando e imparando a riconoscere e a gestire i propri limiti.
All’interno di questa dimensione si ridefiniscono e possono crescere relazioni di maggiore intensità, alimentate dal principio del piacere, dell’interesse, della curiosità, di un senso di utilità spendibile, di responsabilità.
Risulta fondamentale a tal fine l’esperienza del “gruppo educativo” come palestra di vita, come assaggio delle dinamiche di altri gruppi, come micro-comunità, dove operatori e persone con disabilità possano usare la prossimità come strumento di lavoro, cercando di aumentare le capacità di tutte le persone di esprimere una responsabilità sociale verso gli altri, cominciando da chi è parte del gruppo stesso.
Processi reali di crescita e cambiamento avvengono solo se accompagnati da analoghi processi di crescita e cambiamento a cui si dispone l’operatore stesso insieme alla persona con disabilità, dove potenzialità, fragilità e vulnerabilità vengono messe in gioco da parte di entrambi in un ambiente da scoprire e attraversare insieme.
In questo senso sapere di agire per migliorare il proprio territorio permette di scoprire che il lavoro può essere più gratificante, consentendo di fare delle cose piacevoli, mettendo in campo competenze trasversali, rompendo in questo modo alcuni pregiudizi che appesantiscono il lavoro quotidiano.
La destrutturazione, la disponibilità a correre il rischio della confusione, l’apertura al contesto, derivanti da un approccio inclusivo e generativo, sono una questione di stile, organizzativo e personale anche del singolo operatore.
Infatti, affinché si inneschino dinamiche di reciprocità, è utile considerare un aspetto forse troppo spesso trascurato, ovvero il benessere degli operatori. Gli operatori, co- me l’organizzazione, hanno bisogno di cure. Oltre a valorizzare le competenze nel contesto organizzativo è funzionale, cioè, creare occasioni di crescita degli operatori anche e proprio partendo dal loro benessere sul luogo di lavoro. La cura dell’operatore da parte delle organizzazioni diviene, quindi, un elemento interessante e funzionale alla costruzione di connessioni tra il servizio e quelle competenze degli operatori che difficilmente troverebbero punti di contatto con la vita lavorativa.
Affermare che lo stile organizzativo, il benessere dell’operatore e la sua cura da parte dell’organizzazione sono importanti al fine di facilitare l’avvio di dinamiche di reciprocità è anche un invito a prendere consapevolezza del fatto che quello che vogliamo per il fuori, per le nostre comunità, dobbiamo praticarlo anche per il dentro, per le nostre organizzazioni. È utile essere portatori di coerenza tra ciò che desideriamo costruire per la vita delle persone con disabilità e ciò che costruiamo nelle nostre organizzazioni.
Questa strada ci porta a immaginare un nuovo profilo di competenze, un nuovo senso professionale, che comprende anche elementi quali la spontaneità e la naturalezza, il piacere e il benessere. Un profilo che chiede flessibilità, capacità di mediare linguaggi nell’approccio alla disabilità, capacità di gestire e cedere il potere, capacità di comunicare e rendere appetibile ciò che si è e ciò che si fa, capacità progettuali e di management. Un profilo che chiede di uscire dall’autoreferenzialità e aprirsi ad altri ambiti di competenza non tradizionali, di imparare a lavorare in rete, a co-progettare e a co-costruire.
Provando a osare e delineando addirittura una nuova definizione di “operatore inclusivo”, lo potremmo denominare “enzima creattivo” oppure “attivatore appassionato di relazioni connesso al piacere di vivere” o, secondo la definizione di Andrea Marchesi, “addetto al generatore di energia sociale” (cf. “Animazione Sociale”, 9/ 2017).
In questa prospettiva l’operatore, più che occuparsi dei bisogni, è orientato a cogliere i desideri delle persone con disabilità. Solo partendo dai desideri è possibile accettare di percorrere insieme strade più rischiose. Se ci si occupa dei desideri è importante riuscire ad ascoltarli, accoglierli e rilanciarli all’inizio e durante i percorsi che vengono costruiti insieme. Ciò implica importanti responsabilità, ma è anche un’opportunità di maggior autenticità nelle relazioni.
Se, come detto, si palesa la necessità di un cambiamento di rotta dal punto di vista culturale, possiamo a questo punto definire le conseguenze organizzative di tale cambiamento e le implicazioni per l’operatore (ma non solo).

 Il Germoglio Cooperativa Sociale – Cassina de’ Pecchi (MI)
Roberto Guzzi amministrazione.germoglio@gmail.com

Progetto
Ti ospito a casa mia

Esperienza
Co-housing: progettazione, sistemazione e avvio di un appartamento a bassa protezione che accoglie tre persone con disabilità lieve.
L’appartamento è inserito in un condominio di circa dieci famiglie.

Elementi innovativi
Sperimentazione di una soluzione abitativa in cui una persona con disabilità proprietaria di un appartamento accoglie altre due persone con disabilità di pari o simile livello.
Le persone sono seguite da due assistenti familiari (dopo il rientro dal lavoro o dal centro diurno e durante i fine settimana) e da una coordinatrice per dieci ore settimanali.
L’idea è co-progettata tra Cooperativa, Amministrazione Comunale, un Comitato a cui partecipano gli Amministratori di Sostegno, i volontari e altri familiari della rete della Cooperativa.

Laluna Onlus Impresa Sociale – Casarsa della Delizia (PN)
Direttrice dott.ssa Erika Biasutti
tel. 3288179044
associazione.laluna@gmail.com
Coordinatore educativo Daniele Ferraresso
tel. 3288197522
daniele.cjasaluna@gmail.com

Progetto
Laluna Nuova 2.0

Esperienza
Progetti di Vita Indipendente e Progetti di Autonomia.

Le esperienze riguardano le persone con disabilità, anche con difficoltà, e mirano al recupero delle autonomie e a una ri-abilitazione sociale che miri a una inclusione reale.

Elementi innovativi
Progettazioni di partecipazione alla Vita Indipendente in forma di comunità, piccolo gruppo e co-housing. Le progettazioni si sostengono attraverso forme di convenzione con l’Azienda Sanitaria e la compartecipazione familiare. Le forme di indipendenza più avanzata prevedono una responsabilità di spesa che comprende tutto eccetto eventuali presenze educative. Le persone con disabilità sono supportate nei processi di svincolo dalla famiglia, favorendo il reinserimento sociale in tutti i suoi aspetti (tempo libero, amicizie, lavorativo…).
La sensibilizzazione del territorio mira alla costruzione di una rete che permetta la realizzazione delle progettazioni e la continuità delle stesse.
Il risultato mira a uno spostamento di potere educativo alla persona che diventa, nella misura in cui è possibile, responsabile della propria vita, esercitando la propria autodeterminazione.
Concorrono a questi risultati la persona che è la protagonista, la famiglia, i parenti significativi, gli amici, il territorio.

L’operatore sociale come Network Management
Nell’ambito di Immaginabili Risorse è sempre più presente e richiamata l’importanza di destrutturare i servizi, poiché la destrutturazione e la rottura della linearità aiutano a innescare dinamiche inclusive e generative.
Lo “spacchettamento” dei servizi può consentire di passare da una loro gestione tradizionale a una organizzazione per progetti rispondenti all’approccio inclusivo.
L’operatore sociale assume quindi, nei confronti della rete, la funzione di Network Management, che mette in evidenza l’importanza della gerarchia funzionale al fine di consentire alle reti di vivere.
Le reti sono strumenti sofisticati che non funzionano per inerzia, autoregolandosi, ma vanno manutenute continuamente. Il Network Management, particolarmente coerente con il posizionamento dell’operatore sociale nella logica di Immaginabili Risorse, assolve proprio a questa specifica attività funzionale.
Occorre specificare che, se si parla di Network Management si parla di una funzione e non di un ruolo. Le funzioni di Network Management sono dedicate a far funzionare la rete.
Parlando di network, parliamo di reti attivate per produrre qualcosa. Parlando di management ci riferiamo a un complesso di azioni gestionali, a un lavoro di cura dello spazio e delle relazioni che permette a un sistema complesso di funzionare. Prendersi cura di sistemi complessi, farlo con riguardo, attenzione, delicatezza, è un esercizio non legato al posizionamento di potere formale, ma all’assunzione di responsabilità funzionale. Tratteggia un agire diverso dal consueto. Le reti sono luoghi dove l’uso della gerarchia non è utile al funzionamento.
In un approccio tradizionale i servizi sono orientati a lavorare cercando di soddisfare i bisogni delle persone con disabilità.
Nella nuova prospettiva proposta da Immaginabili Risorse è strategico considerare, quale materia prima del lavoro delle reti, i problemi, intesi come i fenomeni percepiti con sofferenza dalla persona con disabilità.
Le reti sono, quindi, dedicate a trattare al meglio e trasformare problemi complessi. Si aggregano in funzione del problema da trattare e non in base a logiche di rappresentanza.
Nell’esercizio della funzione di Network Management occorre tenere presente che, nelle reti, esistono sempre due tensioni: quella cooperativa e quella competitiva. Occorre che ci sia qualcuno in grado di regolarle e favorire la coesione della rete in ragione della trasformazione del problema complesso per cui è nata.
Le funzioni di Network Management sono:

  • Facilitare comunicazioni e cooperazione.
  • Curare la ricomposizione e l’integrazione dei diversi contributi.
  • Gestire la cooperazione e agire la competitività in una logica negoziale evitando prevaricazioni di posizioni dominanti.
  • Rinforzare una metodologia di intervento multi-prospettica per incrementare la comprensione dei problemi e sviluppare azioni innovative.
  • Utilizzare strumenti che permettano di non disperdere dati e informazioni relativi alle attività svolte.
  • Valorizzare uno sguardo valutativo sui processi e sui risultati. Per valutazione si intende il rendere esplicito e condivisibile il processo di trasformazione fatto al fine di ri-orientare costantemente le azioni progettuali messe in atto.

Alla condivisione dei concetti cardine dell’approccio di Immaginabili Risorse seguirà la loro articolazione nelle dimensioni vitali per una loro concreta implementazione.

 Comune di Trento Servizio
Attività Sociali
tel. 0461884477

Progetto
I progetti personalizzati di sostegno all’abitare autonomo

Esperienza
Sostenere percorsi di autonomia abitativa e di vita a favore di persone con disabilità attraverso l’affiancamento di un’accogliente persona, anche richiedente protezione internazionale, capace di aiutare la persona disabile in alcune attività quotidiane.

Elementi innovativi
Il diritto della persona con disabilità a determinare la propria condizione alloggiativa, in un’ottica di autonomia e di inclusione, trova concretezza nella disponibilità empatica e resiliente di volontari/accoglienti che si affiancano e la sostengono in alcune attività quotidiane, nel trascorrere del tempo assieme, nel condividere una relazione autentica d’aiuto. L’accogliente può anche convivere con la persona con disabilità, è formato e sostenuto da una dedicata équipe di operatori sociali, non assume compiti né prettamente assistenziali né educativi.

 Azione Solidale società cooperativa sociale Onlus – Milano
David Scagliotti
tel. 0248304931
david.scagliotti@azionesolidale.com

Progetto
Azione Solidale in un Housing Sociale

Esperienza
Un CAD (Centro Aggregazione Disabili), uno SFA (Servizio Formazione all’Autonomia), un CSE (Centro Socio Educativo) e un appartamento di sperimentazione hanno sede nel progetto di Housing Sociale “Cenni di cambiamento” di Milano, con attività di utilità sociale rivolte ad abitanti, associazioni e commercianti dell’Housing Sociale e del quartiere.

Elementi innovativi
Lavorare in un tale contesto richiama all’esplorazione e alla costruzione di nuove competenze. Un lavoro quotidiano con l’imprevisto, con condizioni che possono cambiare repentinamente. L’imprevisto non riguarda più solo la relazione che connette l’educatore a utenti e famiglie, la rete si allarga nelle interazioni con i commercianti e gli abitanti, con maggiore flessibilità e creatività. Fare un passo indietro è un ulteriore apprendimento sperimentato: saper stare in silenzio, lasciare che le cose accadano e osservare le situazioni educative, permettere la sperimentazione di spazi di libertà e non solo di autonomia.

Immaginabili risorse: Le nuove sfide dell’operatore sociale

a cura di Riccardo Morelli, assistente sociale dell’UnitàZonale Disabilità dell’Ambito delPiano Sociale di Zona di Garbagnate Milanese

“La collaborazione è un modo speciale per lavorare insieme. Richiede tre distinti tipi di sforzo concertati: cooperazione (agire in modo finalizzato a un obiettivo comune), coordinazione (sincronizzazione degli sforzi e condivisione delle risorse) e co-creazione(produzione insieme di un nuovo risultato). Questo terzo elemento, la co-creazione, è quello che distingue la collaborazione da altre imprese collettive: è un atto fondamentalmente generativo. La collaborazione non ha a che fare con il raggiungimento di un obiettivo o con l’unione delle forze; è creare qualcosa insieme che sarebbe impossibile creare da soli”. Così scrive J. McGonigal nel suo libro La realtà in gioco (Casa Editrice Apogeo, 2011).
Leggerete il frutto della collaborazione tra un numero ampio di soggetti afferenti alla rete di Immaginabili Risorse. La bellezza delle pagine che seguono sta proprio nel fatto che da esse traspare la forza dell’incontro. Da esse emerge come il tutto non sia la semplice somma delle singole parti.
La complessità e l’ampiezza che la Rete ha assunto ci ha richiamato a fare uno sforzo di sintesi, che ha come obiettivo quello di sistematizzare e rendere maggiormente organico il pensiero attorno ai temi dell’inclusione sociale e della generatività.
Quanto segue è frutto del lavoro di molte persone e chi scrive ha avuto il solo compito di provare a tessere e cucire tra loro le parti di un discorso, cercando di renderlo il più organico e funzionale possibile allo sviluppo e alla comunicazione del pensiero della Rete.
Le pagine che verranno sono, in effetti, il prodotto del prezioso lavoro di un collettivo di operatori.
Si ringraziano per il prezioso supporto la dott.ssa Paola Bavagnoli della Scuola Maria Consolatrice S.c. sociale di Milano e la dott.ssa Donata Scannavini presidente dell’associazione AMALO-auto-mutuo-aiuto Lombardia di Milano.