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3. Il partenariato con le famiglie

Con il contributo di:
Clara Colli, Coop. Soc. Solaris-Triuggio (MB)
Daniele Ferraresso, Associazione La Luna-Padova
Giovanna di Pasquale e Sandra Negri, Coop. Soc. Accaparlante-Bologna
Lisa Gollino, Azienda Assistenza Sanitaria 5 “Friuli Occidentale”-Pordenone
Luca Borinato, Coop. Soc. Piano Infinito-Montecchio Maggiore (VI)
Natalino Filippin, Paola Schiavetto e Lucia Mantesso della ULSS8 Asolo-Treviso
Roberta Geria e Costanza Rashmi, Coop. Soc. Domus Laetitia-Sagliano Micca (BI)
Nel paragrafo sono incluse riflessioni tratte dall’intervento di Valter Tarchini, psicologo sociale dello Studio APS di Milano, condivise nell’ambito del Laboratorio Metodologico di Immaginabili Risorse tenutosi a Brescia il 14 settembre 2017.

La disabilità è un “viaggiatore inatteso, è sempre qualcosa di inaspettato per il suo presentarsi come rottura traumatica all’interno del viaggio esistenziale”, scrive Carlo Lepri in Viaggiatori inattesi: appunti sull’integrazione sociale delle persone disabili.
L’esperienza ci insegna che le persone adulte con disabilità adulte raramente escono dal nucleo familiare: crescono, diventano uomini e donne, ma la relazione che le contraddistingue le riporta sempre a un legame di dipendenza che le riposiziona in una dimensione senza età. L’impatto della disabilità può perturbare il ciclo vitale, congelandone spesso il naturale evolversi.
Costruire una storia familiare equilibrata, se è presente una disabilità, è difficile. Per renderlo possibile servono processi di accettazione profondi, dolorosi, lenti. Infatti, nella maggioranza dei casi, è più facile passare ad atteggiamenti di protezione eccessiva o di allontanamento, oppure a una specializzazione dei ruoli con la parte femminile che cura e la parte maschile che costruisce o rivendica.
Per molti anni la disabilità è stata gestita in proprio, nel cortile di casa, con le famiglie allargate e solo quando le famiglie “non ce la facevano più”, i genitori lasciavano i figli agli istituti.
C’è stata poi una fase in cui le famiglie si sono organizzate in associazioni, diventando gestori diretti, dando avvio a sperimentazioni che poi si sono trasformate in servizi stabili.
All’intensa fase di costruzione di servizi, di delega e specializzazione di questi è seguita una critica profonda delle famiglie. I servizi, cresciuti negli anni in quantità e in qualità, per molte famiglie non sembrano comunque essere mai sufficienti.
La strutturazione dei servizi ha dato libertà agli operatori di costruire, ha dato speranza e sollievo ai genitori, ma ha anche tenuto fuori i famigliari dai processi di cura e di scelta.
In questi ultimi anni assistiamo a una maggior partecipazione, competenza e capacità contrattuale da parte dei genitori che tendono a essere sempre meno dipendenti dai servizi.
Inoltre, il ridursi delle risorse pubbliche ha portato a un ulteriore periodo di ripensamento e riorganizzazione. Quindi i ruoli e le relazioni tra i tre grandi sistemi, famiglia, terzo settore e pubblico, stanno nuovamente cambiando.
Il cambiamento è all’insegna dell’inclusione e innesca processi che hanno bisogno dell’impegno di ciascuno e di una legittimazione reciproca. Tutte le parti in gioco hanno bisogno di essere confermate dalle altre.
La co-progettazione diventa quindi fondamentale.
“L’inclusione della disabilità è immaginabile come un percorso di reciproca interazione tra potenzialità e limiti, messi in campo tra persone e gruppi diversi tra loro che accrescono le proprie possibilità identitarie proprio grazie alla reciprocità che si genera e alle evoluzioni che questa condizione rende possibile”.
Sta emergendo il passaggio dalla cultura dei servizi che danno risposte ai bisogni, ai servizi che si basano sui desideri delle persone con disabilità e delle loro famiglie.
Occorre quindi formare gli operatori in maniera diversa. Siamo di fronte alla necessità di costruire modelli che aiutino le famiglie ad avere sempre più potere contrattuale, risorse e strumenti. In questo senso è interessante creare occasioni di incontro per le famiglie e di co-costruzione e co-progettazione tra operatori e famiglie: questo può portare, tra le altre cose, ad ampliare il range delle competenze disponibili nei gruppi di lavoro. Naturalmente è necessario un tempo interno ai servizi in cui si programma, ma lo è altrettanto un tempo in cui si dialoga sul senso delle cose tra operatori e famiglie.
Certo, non è possibile coinvolgere tutte le famiglie, poiché molte di esse non hanno i mezzi, non sono formate o pronte, hanno bisogno di essere accompagnate. È però certamente possibile coinvolgerne una parte, che potrà poi assumere una funzione di volano.
Le famiglie e le persone con disabilità vengono messe nella condizione di committenti che esprimono domande oppure di utenti che ricevono servizi, dimenticando che essi sono cittadini e persone.
È importante che il progetto di vita della persona con disabilità venga definito in un’ottica di mutualità e che si ingaggino le famiglie come persone e cittadini del territorio.
Le alleanze che si andranno a costruire saranno sofisticate e richiederanno da parte degli operatori la disponibilità ad assumersi il rischio di abbandonare i setting professionali classici, poiché i setting espellono gli elementi della qualità della vita e poiché la vita è più larga del setting: purtroppo persiste il pensiero che un dialogo diverso con la persona con disabilità, la sua famiglia e il contesto delegittimi l’operatore.
Quando parliamo di relazione dei servizi per persone con disabilità con le famiglie, ci muoviamo spesso fra poli opposti ovvero tra autonomia e dipendenza. Il concetto di autonomia è generalmente legato al “saper fare delle cose”, a un aspetto prettamente quantitativo, “più cose so fare, più sono autonomo”. Quello di dipendenza ci riporta al già evocato strettissimo rapporto di cura afferente al mondo familiare.
Quando si lavora con la disabilità sarebbe opportuno lavorare sull’interdipendenza. La progettualità non è mai per l’autonomia, ma per l’articolazione delle dipendenze, perché siano più ricche e qualificanti.
Lavorare sulle interdipendenze significa principalmente lavorare sul rapporto con il contesto, con l’esterno, perché è lì che esistono le risorse, le possibilità e le soggettività. La progettualità deve essere sulla relazione tra persone con disabilità e ambiente, persone con disabilità e famiglia, famiglia e contesto.
Nel coltivare e accrescere le interdipendenze gli operatori si trovano esposti allo sguardo dell’altro e devono imparare a reggerlo. Riuscire a guardare la persona nelle sue interdipendenze fa sì che il servizio non sia qualcosa di alternativo, ma di sostegno alle famiglie e al contesto.
Al fine di rendere l’interdipendenza qualitativa ed evolutiva è fondamentale conoscere la famiglia. L’altro, per diventare partner, ha bisogno di essere conosciuto e riconosciuto. L’ingaggio delle famiglie nella progettualità permette di restituire loro il ruolo di soggetti e risorse.
Spesso non c’è continuità nella conoscenza delle famiglie, che passano da un servizio all’altro seguendo la crescita del proprio figlio. È fondamentale conoscerle, invece, perché possano essere realmente partner nella progettazione del percorso di vita della persona con disabilità e possano diventare una risorsa, insieme agli operatori, per i propri congiunti e per il territorio. La conoscenza può permettere di creare un’alleanza con le famiglie per leggere e affrontare insieme le difficoltà e tentare di superarle.
Per favorire la costruzione delle alleanze tra operatori e famiglie alcuni strumenti utili possono essere:

  • la ricostruzione delle biografie e delle storie familiari;
  • il Manuale di vita: strumento che permette alla famiglia di raccogliere e condividere sia informazioni e aspetti importanti della biografia della persona con disabilità, sia informazioni più particolareggiate e apparentemente meno rilevanti, ma che possono essere molto utili nel momento della fuoriuscita dal nucleo familiare. Facilita un vero e proprio passaggio del testimone;
  • i gruppi trasversali con operatori e famigliari;
  • i gruppi di auto-mutuo-aiuto per famigliari delle persone con disabilità.

Lavorare sulle interdipendenze, sul loro accrescimento e sviluppo, permette di in- contrare e costruire relazioni dove l’altro può esprimere delle richieste a cui dare risposte e/o, cosa assai preziosa, produrre dei pensieri che generano delle domande, uscendo così dal tema del dialogo come domanda-risposta e producendo un meccanismo di pensiero che genera conoscenze e risorse.
Resta aperto il tema del potere: qual è il ruolo dell’ente pubblico, quale quello del terzo settore, come sostenere le famiglie?
Occorre tenere bene in considerazione, e non è per niente scontato farlo, che ogni attore all’interno delle relazioni di aiuto gioca delle ambivalenze dalle quali si può uscire trovando dei contesti dove si dia parola alle cose, dove l’ambivalenza possa essere riconosciuta diversamente, uscendo così dalla dicotomia potere/conflitto.
Le ambivalenze richiedono che nelle dinamiche gerarchiche tra operatori e utenti si esca dalla logica delle asimmetrie fisse e si accolga quella delle asimmetrie variabili per la quale, poiché si sanno cose diverse, il potere è distribuito più uniformemente tra i soggetti in relazione. Fintanto che la relazione si svolge intorno a una domanda specifica, è difficile aprirsi al dialogo e la tensione è verso la costruzione di ruoli definiti.
Adottando questo approccio si genera fiducia, che però non è data una volta per sempre. Diventa interessante riflettere su quale contenitore possa sostenerla. I due estremi sui quali possiamo muoverci sono quelli dell’istituzione e dell’impresa. Occorre ricercare un contenitore che abbia la dimensione della persistenza propria dell’istituzione e quella dell’innovazione propria dell’impresa.
Serve un lavoro continuo per creare legami di fiducia e mantenerli nel tempo attraverso la relazione. È necessario tendere a uno scambio di energie, di diverse letture dello stesso tema, a un continuo rimodulare, ri-immaginare, rimettere in discussione. Gli operatori se la sentono davvero di mettersi a progettare con le famiglie?
Famiglie, operatori e servizio pubblico sono chiamati in questa logica a cedere un po’ del proprio potere. Operatore e servizio pubblico non devono porsi come gli unici in grado di dare le risposte ai bisogni delle persone con disabilità in nome del fatto che hanno dalla loro parte la tecnica, la professionalità e le risorse economiche; la famiglia deve uscire dalla convinzione di essere la sola a saper gestire al meglio la persona con disabilità.
Solo se tutti cedono una parte del proprio potere si possono creare alleanze e pensare a un futuro assieme.



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