7. Note attorno al valore sociale della disabilità e al lavoro degli operatori
- Autore: Maurizio Colleoni
di Maurizio Colleoni, coordinatore scientifico della Rete Immaginabili Risorse
Vorrei esporre alcune riflessioni attorno al binomio disabilità e valore sociale e ad alcune ricadute operative che possono derivare dall’attenzione al valore sociale che la disabilità può portare con sé.
Per poter formulare questi pensieri ho contratto molti debiti, in senso metaforico, per fortuna.
Da un lato, sono debitore nei confronti del dibattito culturale che si è sviluppato di recente attorno alla tematica della libertà e della cittadinanza attiva e alla ricerca di forme più evolute di comprensione dei concetti di identità e di soggettività, in grado di superare le derive di tipo liberistico che si sono affermate nei decenni scorsi.
Su un altro piano, sono grato agli sforzi, alle sperimentazioni e agli approfondimenti che si sono sviluppati in questi quattro/cinque anni all’interno del movimento di Immaginabili Risorse.
Prima riflessione: la questione dell’identità
Il lavoro con la disabilità è rivolto a persone che hanno sviluppato una forma parti- colare di relazione con la realtà, e, di conseguenza, una forma particolare di identità.
La disabilità (così come la malattia mentale, l’immigrazione, e altre condizioni umane “al limite”) pone in maniera radicale la questione dell’identità, perché dimostra, “incarna” fisicamente, la variabilità, la diversificazione e l’imprevedibilità delle strade attraverso le quali si stabilisce un rapporto con la realtà.
Dove c’è rapporto con la realtà c’è una qualche forma di identità.
Anche se si esprime in maniera fortemente discordante dalle logiche preminenti in quel luogo e in quel tempo.
C’è una condizione umana che merita rispetto e chiede modalità di attenzione specifiche e mirate.
Una condizione umana che può evolvere nella sua capacità di conquista di una propria soggettività e che può sviluppare una relazione attiva e congruente con la realtà, con gli altri e, in generale, con l’esterno a sé.
Anche dentro una necessità di aiuto continuativo.
La condizione di dipendenza da altri non impedisce, necessariamente, l’espressione di una soggettività e di modi propri di relazionarsi con la realtà.
E non impedisce la possibilità ad accedere a diritti che fanno parte dello statuto di “persona” per come si è configurato fino ad ora (diritti alla salute, alla istruzione, alla affettività, alla mobilità, e così via).
In questa logica diventa decisiva la ricerca di modalità adeguate che sostengano e aiutino la persona in questione a evolvere, nei limiti del possibile, cioè a espandere la propria identità, ad arricchirla, ad articolarla, a sostanziarla; ad accrescere una relazione la più partecipe, attiva e congruente possibile con il reale.
È all’interno di questa cornice di senso generale che prende valore il riferimento a concetti come autodeterminazione, adultità, cittadinanza attiva. Concetti che si sono fatti strada di recente e che possono aiutare a portare l’azione socio educativa fuori dalle secche della infantilizzazione perenne delle persone con disabilità. Ed è sempre all’interno di questo orizzonte che diventa possibile porsi il problema del bilancio esistenziale delle persone con disabilità, e non solo della crescita delle loro performance, come indicatore generale di efficacia socio-pedagogica.
Le capacità performanti delle persone con disabilità (come le nostre, del resto) sono limitate; non è pensabile quindi immaginare una valutazione delle azioni compiute nei loro confronti esclusivamente in termini di crescita degli apprendimenti, delle capacità, delle abilità personali.
Diventa necessario chiedersi cosa se ne fanno delle capacità, come e dove le spendono; cioè, in termini più generali, come migliora la qualità della loro esistenza per il fatto che frequentano un servizio, una struttura, un progetto.
Occorre chiedersi perché devono venire a quel servizio, perché devono partecipare a quel progetto, cioè in cosa cresce la loro condizione umana, in cosa si arricchisce la loro identità.
Ciò pone questioni non semplici di revisione, ampliamento (e forse superamento) dei codici di tipo pedagogico e apre a possibilità di ricerca di indicatori diversi, ad esempio quelli delle cosiddette capability o delle cosiddette life skylls.
Seconda riflessione: la questione della relazione con gli altri
Un altro elemento che riguarda la disabilità è la particolarità della relazione con gli altri e ciò che ne consegue in termini di autonomia/dipendenza, di vincolo relazionale, legame interpersonale.
Le persone con disabilità psicofisica vivono relazioni in genere segnate (a volte in maniera molto significativa) dalla necessità di aiuto, dalla dipendenza (a volte continuativa) da altri (persone, ausili, luoghi, situazioni).
È una condizione che porta all’estremo una caratteristica della vita quotidiana di tutti noi: la necessità di poter contare sugli altri, e la possibilità che altri possano fare affidamento su di noi, cioè l’interdipendenza come chiave di volta della vita sociale, visto che nessuno di noi è completamente autosufficiente.
Tutto ciò ha una valenza di carattere generale e delle significative ricadute operative.
La questione di carattere generale riguarda il “contributo” della disabilità alla idea di normalità.
Darsi da fare per restituire dignità alle diverse forme di identità (comprese quelle segnate dalla dipendenza) significa dilatare e arricchire il concetto di normalità reintroducendo in questo campo simbolico la fragilità, il limite e la dipendenza stessa come elementi costitutivi della condizione umana, e quindi della normalità.
Viviamo una fase nella quale viene spesso propugnata un’idea di normalità piuttosto selettiva, una normalità intesa come prestazionalità, efficienza, forza, indipendenza.
Questa simbologia, di stampo giovanilistico, ha senza dubbio degli aspetti positivi: pensiamo alla spinta verso forme di vita più “sane”, alla ricerca di un proprio equilibrio, attente a prevenire l’insorgenza di malattie, attente a questioni come il cibo, la vita attiva, la regolazione dei ritmi lavoro-riposo, la necessità di svago e di tempo libero “intelligente”.
L’altra faccia della medaglia è la difficoltà a riconoscere “il difetto” come fattore intrinseco alla condizione umana, e quindi alla stessa normalità.
Reintrodurre la fragilità e il limite nella normalità significa lavorare per una società più umana.
Sul piano più pratico, questa tematica apre delle questioni delicate su almeno due fronti.
Un primo fronte riguarda la gestione della relazione con persone caratterizzate dal limite, e quindi l’interpretazione della asimmetria che attraversa queste relazioni. Ci sono sostanzialmente due modi per “abitare” una relazione dissimmetrica: la si può utilizzare per assoggettare l’altro, manipolarlo, ridurlo a oggetto o a protesi, e quindi producendo dei maltrattamenti identitari.
Oppure si può abitarla rispettando le istanze identitarie che comunque si manifestano e modulandola in relazione alle evoluzioni della condizione umana della persona in questione.
Vale a dire che è possibile anche una asimmetria evolutiva.
Il dibattito e le prassi concrete che si stanno sviluppando sulla questione della auto-determinazione mi pare siano un interessante terreno di ricerca attorno a questa tematica.
Un secondo fronte riguarda l’intensità e la varietà delle relazioni possibili, anche dentro l’asimmetria. Anche le persone con disabilità hanno bisogno di sperimentare la variabilità del reale che si può esprimere nella mutevolezza dei campi relazionali ai quali possono accedere.
Campi relazionali che possono essere segnati, a loro volta, da legami più o meno intensi.
Il problema, come sempre, è saper gestire i confini di queste relazioni, è regolare degli equilibri dotati di senso tra assenza di implicazione emotiva e confusione.
E anche in questo caso mi pare ci sia tutto un fermento progettuale interessante, pensiamo anche solo alle questioni di tipo relazionale, affettivo e sessuale, temi assenti dalle pratiche operative e dal dibattito anche solo dieci anni fa.
Terza riflessione: la questione della relazione con il contesto esterno
Un’ultima riflessione riguarda la relazione con la vita sociale e i contesti di territorio, e quindi la questione della cittadinanza e della responsabilità sociale, e, in fondo, l’idea stessa di libertà.
Le persone con disabilità sono (anche) cittadini, con diritti e con la possibilità di contribuire (entro i propri limiti) al miglioramento della convivenza sociale.
Anche nella disabilità è possibile concretizzare il concetto di cittadinanza attiva, ampliandone e arricchendone le sue declinazioni concrete.
Come nelle riflessioni precedenti, siamo di fronte a una sorta di frontiera, di confine. La disabilità, infatti, concretizza ed evidenzia il superamento di uno stereotipo sociale piuttosto diffuso: che si è liberi cittadini in quanto esenti da vincoli e da dipendenze esercitate da “forze” superiori (lo stato, la religione, i genitori, gli altri…) che inibiscono le possibilità di decisione e di azione autonoma del singolo.
È un’idea che ha avuto molto successo negli anni scorsi, ed è una deriva di un pensiero di tipo liberistico. Ma è anche un po’ una perversione illusoria, anche se, purtroppo, piuttosto radicata.
In realtà la libera cittadinanza si gioca entro la trama dei legami e delle reciprocità che costituiscono il tessuto sociale e che danno fondamento alle identità individuali. Senza reciprocità e interdipendenza non si dà tessuto sociale, e nemmeno identità, e tantomeno cittadinanza. Non solo: ampliando un po’ questo concetto, e radicalizzandolo, non si dà cittadinanza senza una qualche forma di responsabilità civile e sociale.
La cosa interessante è discutere di questo tema in relazione alla disabilità, cioè in rapporto con una identità “al limite”, come si diceva prima, e strutturalmente dipendente.
Una discussione che può essere formulata nei termini di un interrogativo: la disabilità infatti, “interroga” il contesto circa la sua capacità di accettare e fare spazio a manifestazioni di cittadinanza peculiari, difficilmente assimilabili alla “media”, ma non per questo insignificanti o inutili. Costituisce cioè un “invito” (anche un po’ una provocazione…) rivolto al contesto sociale ad ampliare la differenziazione interna, a reggere “il peso” della espansione delle diverse identità che lo abitano, e a cercare modalità più evolute di convivenza tra differenze identitarie.
È per questo che è così importante che servizi e progetti operanti in questo ambito si diano da fare anche per contribuire alla crescita della qualità della vita nel e del contesto circostante.
Perché così possono dimostrare di essere parti in causa nella costruzione di una società più solida e più aperta, e di rendere possibile l’espressione di una cittadinanza effettiva anche da parte di persone con disabilità. Possono rendere effettivamente più libere le persone con disabilità. Molte delle strutture, dei servizi, dei luoghi nati per gestire la disabilità adulta hanno attrezzature, spazi, competenze, reti esterne, hanno cioè un capitale di risorse potenzialmente molto significativo per il contesto esterno. Un capitale che può dar vita a delle circolarità di tipo mutualistico che migliorano le condizioni concrete dell’esterno e ne alimentano il capitale sociale.
Tutto ciò inoltre non ha solo una valenza “politica”, ma anche importanti ricadute concrete.
Infatti, almeno nelle esperienze che mi è capitato di incontrare, le azioni volte a migliorare l’esterno hanno reso disponibili possibilità educative e relazionali fertili e originali, impensabili dall’interno del laboratorio dedicato. E hanno consentito agli operatori di inoltrarsi su terreni progettuali interessanti, a volte davvero originali e creativi, contribuendo a “rigenerare” la capacità progettuale dei servizi e a contenere i rischi di burn-out degli operatori stessi.
Una conclusione
Vorrei concludere questo contributo con un pensiero che cerca di riassumere e rileggere trasversalmente quanto esposto fino ad ora.
Parlare di valore sociale della disabilità, sulla scorta di quanto affermato fino ad ora, significa porre la questione del legame possibile tra riconoscimento identitario delle persone (di tutte le persone, comprese quelle con disabilità psicofisica) e crescita della coesione sociale dei nostri contesti di territorio.
Tutto ciò che si è detto fino ad ora, infatti, mi pare arrivi a questa conclusione. Arriva cioè alla conclusione che il valore sociale della disabilità è, in estrema sintesi, il contributo che la disabilità e il “mondo” che si è organizzato attorno a questa condizione umana (i famigliari, gli operatori, i servizi, gli specialisti, eccetera) può offrire alla crescita delle compatibilità possibili tra identità diverse che coesistono nello stesso luogo.
È questa la questione di fondo.
In altri termini il valore sociale della disabilità è il rispetto delle diverse forme di rapporto con la realtà (e, quindi, di conquista dell’identità) e il rispetto reciproco tra le diverse identità.
Non mi pare niente di nuovo sotto il sole, ma mi sembra comunque una chiave di lavoro interessante nell’ambito della disabilità.
Stiamo parlando di affermazione delle soggettività e contribuzione alla coesione sociale.
Da un lato abbiamo delle persone che possono crescere nella ricerca di originali modi di stare al mondo e di sviluppare relazioni con gli altri.
Da un altro abbiamo un territorio che cresce nelle specificità identitarie che riesce ad accettare, nelle differenze relazionali, negli spazi vitali per tutti, nelle radici che ciascuno riesce a mettere, nei rami che riesce a gettare, nei reticoli fiduciari che si attivano.
Solo che questa prospettiva fa i conti, da un lato, con la spinta del gruppo sociale a incrementare la propria omeostasi interna come fattore di sicurezza; e, da un altro, con la spinta delle persone (comprese quelle con disabilità) a pensare che il mondo coincida con il proprio ombelico.
Da ciò deriva la consapevolezza che il valore sociale non scaturisce in maniera “spontanea” mettendo insieme persone diverse che abitano lo stesso microcosmo. Al contrario, è necessario un lavoro di cura delle relazioni possibili e sostenibili, da calibrare di volta in volta, in relazione alle caratteristiche specifiche dei diversi contesti implicati.
È a questo livello che entrano in gioco gli operatori.
Il lavoro degli operatori e dei servizi consiste in una funzione delicata e decisiva di messa a punto, costruzione, regolazione e cura delle compatibilità tra soggettività diverse, a livello individuale, di gruppo, di organizzazioni più complesse.
A partire, naturalmente, dalla domanda di riconoscimento identitario delle persone con disabilità.
È un lavoro creativo e trasformativo, dato che la compatibilità fa i conti con le trasformazioni che interessano l’arco vitale delle persone e con i cambiamenti richiesti alle persone e ai gruppi per riuscire a coesistere.
È un lavoro, pertanto, che riguarda la capacità di interpretare e gestire i conflitti. L’oggetto di lavoro, di conseguenza, sono le relazioni possibili e vivificanti, tra persone, gruppi, organizzazioni, non tanto le caratteristiche delle singole persone con disabilità.
È un oggetto che, però, diventa “prendibile” e “trattabile” a condizione che si abbia e si metta in gioco un’adeguata capacità di ricerca e conoscenza della condizione specifica delle diverse persone con disabilità.
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