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autore: Autore: Annalisa Brunelli e Giovanna Di Pasquale

9. Testimonianze dei genitori

Una casa, tanti percorsi
Noi siamo fra le famiglie arrivate qui più tardi, tardi ma sempre in tempo.
Giorgia è una ragazza giovane, ha 22 anni, abbiamo avuto l’opportunità di conoscere Roberto e l’associazione, il progetto ci è sembrato degno delle aspettative per la vita di nostra figlia.
Anzi abbiamo proprio auspicato che potesse avvenire l’inserimento di Giorgia.
Mia figlia è giovane, era inserita in un centro diurno dove si trovava bene e la situazione familiare era gestibile. Quello che ci ha fatto volgere verso questa casa è stata propria la qualità del progetto.
Prima di arrivare all’apertura è passato un anno, abbiamo avuto il tempo e il modo di conoscerci, io di conoscere loro e loro di conoscere me. Ci siamo trovati bene, ho trovato un’associazione affiatata, molto coesa, tesa verso questo grande obiettivo che è stato un punto fermo verso cui tendevano tutti i genitori e questo ha tenuto unita come un collante particolare l’associazione.
Il presidente che ha saputo nel corso degli anni tenere insieme questo gruppo numeroso non solo con sentimenti di amicizia ma direi proprio di fratellanza, è stato molto bravo perché questo è sempre un lavoro arduo.
Siamo arrivati all’apertura che è stato un traguardo agognato, abbiamo lavorato nella struttura per abbellirla, per renderla idonea e personalizzata sulle esigenze dei nostri figli. Anche la scelta degli operatori che è stata fatta naturalmente dalla direzione ha seguito le nostre indicazioni.
A distanza di un anno la particolarità dei genitori all’interno della struttura è l’elemento che più la qualifica e la caratterizza nel bene e nel male.
Nel bene perché i genitori sono stati una risorsa informativa per aumentare la conoscenza che è stata di aiuto a entrare in relazione con i nostri figli. Per la maggior parte degli operatori i nostri figli erano degli sconosciuti ed entrare in rapporto con 16 ragazzi con grandi difficoltà – perché i nostri figli hanno grandi difficoltà – non è stato semplice, sebbene gli operatori fossero del mestiere e preparati. L’aiuto dei genitori ha reso più facile questo passaggio.
Nel male perché talvolta la presenza dei genitori può essere stata vista come un ingombro, un impiccio, un’ingerenza nella professionalità stessa degli operatori.
Anche questo però rientra nelle dinamiche, perché le nostre aspettative come genitori erano, e sono, talmente alte (se no non sarebbe un sogno da vivere…) che dovevano già essere messe nel conto. Queste dinamiche hanno agito nella nostra organizzazione per cui la propensione spiccata di ogni genitore nei confronti del proprio figlio può avere determinato una qualche forma di incomprensione.
Le nostre aspettative sono talmente alte, elevate che possiamo vedere come criticità delle piccole cose, legate alle nostre ansie ma anche al fatto che i nostri ragazzi hanno delle specificità così differenziate per cui non possono essere accettati dei trattamenti standardizzati, devono essere dei trattamenti specifici, personalizzati. Questa richiesta può aver determinato delle criticità.
Questo si è avvertito soprattutto all’inizio quando gli operatori dovevano conoscere e noi avevamo l’ansia di trasmettere tutto il nostro bagaglio di conoscenze in modo che diventassero patrimonio per gli operatori.
Il benessere dei ragazzi non si deve vedere solo da come si gestiscono il cambio del pannolino, l’igiene o il cibo. Queste cose io le voglio dare per scontate, sono la base da cui partire per vedere cosa si può fare per stare bene, per farli partecipare al mondo e alla vita.
Se si arriva al punto di dover ragionare su queste cose vuol dire che si è molto lontani dall’obiettivo, a me piacerebbe ragionare sulle attività, su come riusciamo a far passare in maniera decorosa le giornate.
Questa è la loro casa, la loro vita e lo sarà per sempre.
Marcella, mamma di Giorgia

Un posto sicuro
Noi come gruppo siamo insieme dal 2000. Per tutti il pensiero era il domani. Mio figlio frequentava un centro diurno da quando aveva 16 anni ma il pensiero era sempre il domani. Quando è uscito questo progetto a me è sembrato rappresentare il futuro migliore per nostro figlio.
Piano piano è cresciuta anche un’amicizia tra noi, ho conosciuto delle persone che poi sono diventate mie amiche mentre prima ero sempre chiusa in casa.
Per me è sempre stata una festa venire in associazione.
Il futuro è questo, io adesso lo vedo. Dobbiamo pensare a come fare per migliorare, contribuendo anche noi nell’andamento della struttura perché questo è un periodo di rodaggio (è un anno che la casa è aperta) e anche se ci sono delle cose che vanno migliorate, delle questioni che vanno valutate, nell’insieme sono contentissima.
È una sensazione bella perché sappiamo che qualunque cosa possa succedere i nostri figli sono in un posto sicuro, anzi meglio: sono in una casa, perché questa è la loro casa non è una struttura.
Silvana, mamma di Brunetto

Una famiglia allargata
Conosco Roberto da sempre, veniamo dallo stesso paese. Conoscevo la sua storia e non mi è stato difficile capire, conoscendolo, quale era il progetto a cui aveva dato corpo.
L’esigenza della mia famiglia era quella, simile a quella di tutte le famiglie che ci sono qui, di cercare di capire quale era il modo migliore di assicurare a nostra figlia un domani buono per lei.
Dal punto di vista dell’età, questa idea avrebbe forse potuto essere rimandata ma per un problema legato al trasporto di mia figlia abbiamo avuto l’esigenza di pensarci prima di quanto potevamo prevedere.
Ognuno di noi credo abbia combattuto a lungo prima di decidersi a cercare una soluzione di vita fuori dalla famiglia; ragionando poi non solo con i sentimenti ma anche con l’intelletto abbiamo cominciato a guardarci in giro. Conoscendo Roberto, conoscendo il suo progetto ci siamo convinti non solo che questa fosse una soluzione necessaria ma anche una bella risposta.
Nelle finalità e negli obiettivi ci abbiamo creduto subito, dobbiamo creare una vera e propria famiglia allargata perché l’obiettivo a cui teniamo è lo stesso non solo verso i nostri figli ma per tutti i ragazzi. Abbiamo deciso di fare parte di questo progetto e ci siamo buttati seguendo attivamente l’associazione, prima mia moglie e poi anch’io, dopo essere andato in pensione.
Il progetto non era nuovo solo per noi, era nuovo anche per gli operatori ma anche per i nostri familiari. Dobbiamo ancora lavorare molto per cambiare la mentalità tutti insieme, operatori e genitori. Talvolta, nell’ansia di essere collaborativi possiamo anche creare disagio, correre il rischio d’interferire… Stiamo cercato di “disciplinarci”.
Piero, papà di Ilaria

Un posto per noi
Le nostre storie sono più o meno tutte uguali, quando si arriva al fondo sono tutte uguali.
La differenza può essere nell’età dei nostri figli, la mia ha 42 anni, e nel numero di tessera dell’associazione, la mia è la numero 2 dopo quella di Roberto perché la prima volta che l’ho incontrato ho aderito subito al progetto vedendo la persona che era.
Ho lasciato mia figlia per dieci anni a Osimo, l’unico posto allora dove riuscivano a lavorare con lei. A Genova a quei tempi un posto come quello lo sognavo.
Adesso lo abbiamo trovato un posto per noi.
Giuliano, papà di Susanna

Una prospettiva diversa
Dico la verità: ho sempre avuto il terrore che mio figlio andasse in un ricovero per “vecchi”, in un istituto per finire in un letto senza nessuno in grado di capirlo o stimolarlo visto che lui non chiede neanche da bere o da mangiare se non è sollecitato. Tante volte mi dicevo “non so cosa farei per non lasciarlo”.
Con l’associazione si è aperta tutta un’altra prospettiva, un sogno per mio figlio ma anche per noi. Abbiamo deciso di mangiare insieme il mercoledì, di stare insieme, di parlare.
Questo mi ha fatto sentire sollevata, mi ha fatto capire di non essere sola. Conoscere le altre persone è stato un sollievo per me, prima ero sempre chiusa con il mio dolore.
Il dolore rimane, però mi sembra più sopportabile perché è condiviso con gli altri.
Per me avere mio figlio in questa casa, poterlo vedere, venire e poter stare insieme a lui per me è una cosa grandissima; non mi sembra di vivere quel distacco di cui avevo paura.
Sono grata a Roberto, all’associazione perché è una cosa bella, ci sono aspetti che piano piano andranno migliorati ma sono veramente felice che mio figlio sia qui.
Raffaella, mamma di Maurizio

Un “sogno” da vivere e da migliorare
Questo posto è stato anni fa sede di una scuola speciale, di un centro che anche mio figlio ha frequentato. Non funzionava bene ma il posto era (ed è) bellissimo e io l’ho sempre pensato come un luogo adatto per farci una casa, una residenza per i nostri figli, per quel domani che a noi genitori preoccupa tanto e ho spinto anche mio marito perché si andasse in questa direzione. Nonostante questo impegno forte non avrei voluto che mio figlio vivesse in questa casa da subito, era un pensiero che mi attanagliava. Però in un qualche modo noi dovevamo dare l’esempio per cui mio figlio è entrato tra i primi.
La cosa più difficile è stato il prima, il pensiero del distacco; il momento in cui poi l’ho portato è stato meno pesante, anche perché c’erano altri genitori nella mia situazione con cui parlare e confrontarsi. Adesso è una cosa che mi fa stare tranquilla.
Prima di tutto questo è un posto unico, e anche il gruppo è buono. Ci sono cose da migliorare, qualche volta mi arrabbio anch’io per qualche cosa che non funziona ma poi funziona tutto abbastanza bene anche tenendo conto che, come diceva qualcuno, siamo ancora in rodaggio.
È il primo anno, il sogno da vivere esiste già ma si può sempre migliorarlo anche se sono contenta, siamo contenti…
Le attività secondo me sono ancora poche e questo sia per l’organizzazione recente e per la complessità delle disabilità che richiedono un gran lavoro per cogliere gli spunti di interesse da trasformare in piccole proposte.
I nostri ragazzi non si rappresentano, non dicono e non chiedono niente; noi abbiamo il dovere di essere attenti al fatto che le esigenze fondamentali siano accolte, non è un controllo ma proprio l’esercizio del nostro dovere.
Noemi, mamma di Alberto

Condividere una direzione
Chi si è interessata per far entrare Alessandro qui è stata mia moglie Ada. Siamo in associazione da 11 anni, abbiamo vissuto tutte le fasi e questo ci ha permesso di diventare sempre più affiatati.
Mia moglie non voleva inserirlo subito mentre io invece sì, penso che una cosa o si fa o non si fa. E nel marzo del 2011 è entrato, adesso siamo molto contenti di quello che sta succedendo.
Penso che una realtà come questa sia molto rara se non unica: questo perché noi abbiamo la possibilità di condividere la direzione, siamo qui tutti i mercoledì per le attività dell’associazione e per stare insieme come una grande famiglia con la possibilità di venire non per controllare ma per mettere a disposizione anche le nostre capacità…
In tutte le cose c’è il margine di miglioramento ma noi siamo ben contenti di essere qui…
Enrico, papà di Alessandro

Mantenere i legami
Mia figlia era l’unica a essere inserita in un altro residenziale per scelta sua. È una scelta che Sandra ha voluto fare coscientemente perché era stanca di stare a casa. Sentiva il desiderio e la motivazione di uscire di casa. Quindi mi sono dato da fare. Ci è sembrata proprio una bella opportunità per cui abbiamo aderito; è nata l’associazione perché la nostra idea non era solo quella di collocare il figlio quanto quella di poter stare vicino, di mantenere i legami anche quando il figlio vive in una struttura. Abbiamo sentito tutti subito il bisogno di formare un ambiente comune dove riflettere sui problemi, ma anche ricco di rapporti umani per scaricare i momenti di tristezza e partecipare in allegria, di qui l’idea dei nostri mercoledì di ritrovo e incontro. È stato bello, Roberto è un vulcano di idee e soprattutto ci ha sempre trasmesso l’idea che la nostra associazione non deve stare chiusa in se stessa, dobbiamo aprirci e questa è una cosa che condividevo perfettamente. Per questo sono nati tanti contatti, iniziative. Roberto sa creare molte cose e credo che qui tutti abbiamo un senso di riconoscenza verso di lui.
Poi ovviamente ci sono anche le discussioni, i battibecchi; d’altra parte dove c’è una comunità umana queste cose nascono, ci sono. Ma è vita anche quella, non sono cose negative. Forse si stenta a capire che le differenze di opinioni sono una ricchezza perché sono un contributo di idee, uno scambio che oltre a permetterci di conoscerci meglio ci fa realizzare un bilancio più completo dei pro e dei contro e questo è utile per tutti.
Adesso siamo qui, ho sentito con molto piacere che c’è grande soddisfazione e credo che la misura migliore sia quella data dai ragazzi: infatti quando vengono qualche giorno a casa poi hanno voglia di tornare qui. Dove Sandra era inserita prima le cose andavano bene, qui vanno meglio.
C’è un buon gruppo di operatori che lavora bene. Il giudizio è molto positivo.
L’associazione si è resa disponibile a collaborare. È molto utile la partecipazione dei genitori. Ovviamente questa integrazione deve essere fatta con intelligenza, bisogna rimanere in una ragionevole misura senza creare invadenze.
Una delle preoccupazioni maggiori come genitori era quella di staccarsi dal figlio, io per la mia esperienza ho cercato di rassicurare dicendo che i ragazzi si adattano molte bene, apprezzano il fatto di avere intorno molte persone, non sempre le stesse facce.
A casa hanno sempre solo due facce intorno.
Qui arrivano persone nuove, ospiti, c’è sempre qualcuno che viene, altre famiglie che vengono a vedere, c’è movimento e questo è positivo.
L’attenzione è quella di creare un ambiente di relazione buono per i ragazzi. Noi entriamo anche nei momenti dedicati alla cura e possiamo rischiare di essere inopportuni. Dobbiamo trovare la misura, senza assumere la figura di “guardiano”, negativa perché dimostra una mancanza di fiducia in chi lavora; è importante trasmettere agli operatori un senso di amicizia, di vicinanza positiva.
È importante che i ragazzi ricevano dall’ambiente, dagli operatori, segni di amore, di vicinanza. E io vedo questi piccoli segni che fanno la differenza, la carezza, l’attenzione a chiudere la finestra se c’è una corrente… Perché per quanto sia grave la situazione la sensibilità di ricevere affetto non è mai persa, anzi se mai è un canale privilegiato.
Mino, papà di Sandra

Il genitore come risorsa
Prima di arrivare all’associazione ho incontrato varie realtà in cui ho sperimentato una sottovalutazione del genitore.
Quello che mi è piaciuto molto di questo progetto è l’interesse del genitore di proporsi come risorsa, non come indagatore ma come una parte in grado di contribuire. Io lo vivo in modo positivo, a me piace avere questo dialogo con gli operatori, le figure sanitarie, questo scambio di conoscenza che mette insieme cosa vedo io e cosa vede l’altro, l’osservatorio privilegiato del genitore e la competenza professionale dell’operatore.
Criticità importanti non mi sento di rilevarle anche perché il tempo che è trascorso dall’apertura sembra tanto ma in realtà è poco. Perché si crei un feeling fra le persone occorre un certo spazio temporale, non tutti possono avere la stessa umanità, non con tutti si crea quella dimensione empatica.
Sergio, papà di Giorgia

6. Documentazione

C. Lepri, Viaggiatori inattesi, Milano, FrancoAngeli, 2011

S. Korff-Sausse, Specchi infranti, Torino, Ananke, 2006

S. Korff-Sausse, Da Edipo a Frankenstein, Torino, Ananke, 2009

M. Zanobini, M.C. Usai (a cura di), Psicologia della disabilità e della riabilitazione, Milano, FrancoAngeli 2012

R. Caldin, F. Serra, Famiglie e bambini/e  con disabilità complessa, Padova, Fondazione Zancan  2011

A. Goussot, Il disabile adulto, Santarcangelo di Romagna, Maggioli, 2009

A. Goussot, Le disabilità complesse, Santarcangelo di Romagna, Maggioli, 2011

G.F. Ricci, D. Resico (a cura di), L’approccio integrato alla persona diversamente abile, Milano, FrancoAngeli, 2007

V. Mancuso, Il dolore innocente, Milano, Mondadori, 2002

M. Pavone  (a cura di), Famiglia e progetto di vita, Trento, Erickson, 2009

L. Formenti  (a cura di), Re-inventare la famiglia, Milano, Apogeo,  2012

F. Walsh, La resilienza familiare, Milano, Raffaello Cortina, 2008

E.F. Kittay, La cura dell’amore, Milano, Vita e Pensiero, 2010

B. Cyrulnik, Il dolore meraviglioso, Milano, Frassinelli 2000

B. Cyrulnik, I brutti anatroccoli, Milano, Frassinelli, 2002

AA.VV., La cura della vita nella disabilità e malattia cronica, Moie di Maiolati, Gruppo Solidarietà, 2008

G. Pontiggia, Nati due volte, Milano, Mondadori, 2002

I. Salomone, Con occhi di padre, Trento, Erickson, 2012

M. Verga, Zigulì, Milano, Mondadori, 2012

M. Ossola (a cura di), Mio figlio ha le ali, Trento, Erickson, 2007

M. Garaventa, La vera storia della principessa sul pisello, Genova, DeFerrari, 2007

R. Gallego, Bianco su nero, Milano, Adelphi, 2004

P. Tripodi, Vivere malgrado la vita, Roma, Derive Approdi, 2005

D. Rossi, Il mondo delle cose senza nome, Roma, Fazi, 2004

L. McIntyre, Il tempo di una vita, Roma, Contrasto, 2004

C. Voglino, Aiutami a non avere paura, Torino, EGA, 2008

M. Paolini, Chi sei tu per me?, Trento, Erickson, 2009

C. Palmieri, Rappresentazioni dell’handicap e processi formativi, Milano, CUEM,  2003

C. Palmieri, La cura educativa, Milano, FrancoAngeli, 2000

M. Schianchi, La terza nazione del Mondo, Milano, Feltrinelli, 2009

A. Dalponte, F. Olivetti Manoukian (a cura di), Lavorare con la cronicità, Roma, Carocci, 2004

4. L’anello di congiunzione

Abbiamo intervistato Marco Catania che si occupa della direzione tecnica-organizzativa della struttura e Sara Pignatelli che si occupa invece della direzione sanitaria.

Qual è il vostro ruolo, è chiaro a tutti?
MARCO: Il mio ruolo prevede sia gli aspetti amministrativi e organizzativi della struttura, sia la parte più legata alla relazione/mediazione tra l’associazione e il gruppo di lavoro. Questo Centro nasce da un progetto sperimentale sul territorio: il fatto che famiglie e privato sociale si trovino a interagire in modo forte rispetto alla quotidianità della struttura e alle sue attività rappresenta una “innovazione” per le nostre realtà. Tutto è centrato molto sulla trasparenza, dal progetto educativo di ogni ragazzo alla terapia; qualsiasi cosa è condivisa con la famiglia e con gli ospiti stessi laddove possibile in un rapporto di fiducia reciproca.
SARA: Il mio ruolo, oltre che di collaborazione per gli aspetti organizzativi, è legato principalmente alla gestione e al controllo di tutti gli aspetti sanitari, assistenziali e riabilitativi. La disabilità che caratterizza i nostri ospiti è di tipo complesso e molto eterogenea: ci sono persone con una grave compromissione neuromotoria ma buone risorse cognitive, altre invece con gradi elevati di ritardo mentale e alterazioni comportamentali ma buone competenze motorie, in altri casi invece la compromissione motoria e intellettiva è gravissima. Nel mio lavoro bisogna aver sempre presente tutti gli aspetti sanitari e la cura in senso ampio della persona, senza perdere di vista le esigenze riabilitative specifiche sulla base delle capacità presenti. La realtà sanitaria e assistenziale del Centro è importante e la famiglia viene sempre coinvolta. Questo tipo di impostazione fa parte della mia formazione di neuropsichiatra infantile, ma per alcuni questa apertura alla persona e alla famiglia può non essere sempre facile e immediata.  

Come siete venuti in contatto con questa esperienza, cosa vi aspettavate?
MARCO: Il mio percorso nell’area della disabilità è iniziato circa venticinque anni fa: storicamente, provenivo da realtà di Centri dove il rapporto con la famiglia era relativo e i contatti sporadici, l’organizzazione era proprio diversa. I miei primi contatti con l’associazione Fa.Di.Vi. risalgono a circa 8 anni fa e il mio ruolo rispetto a questo progetto è stato “costruito“ negli anni. Mi interessava molto questa nuova realtà, quindi ho seguito il progetto di residenzialità delle due strutture ora in attività (“La Magnolia” e “Nucci Novi Ceppellini”) già dalla fase embrionale. Ho poi iniziato con la Direzione nel Centro “La Magnolia” fino al febbraio 2011, quando è stata avviata l’attività del Centro “Nucci Novi Ceppellini”, di cui ho assunto la Direzione.
L’associazione ha scelto di affidare la gestione dei Centri a un consorzio di Cooperative Sociali, il C.Re.S.S. (Consorzio Regionale Servizi Sociali), che ha affidato l’incarico della gestione alla Cooperativa Co.Ser.Co di Genova. Il C.Re.S.S. ha sempre cercato di privilegiare strutture e centri residenziali con un piccolo numero di utenti per ricreare un clima quanto più familiare possibile. Questo tipo di impostazione ha favorito il dialogo con l’asociazione Fa.DiVi. e reso proficua la collaborazione tra l’associazionismo delle famiglie, la cooperazione sociale e gli enti pubblici istituzionali. Se gli aspetti positivi di questo pensiero sono, credo, abbastanza chiari, spesso si tende un po’ a dimenticare gli “oneri” che comporta l’organizzazione di piccoli Centri come il nostro. È necessario infatti mantenere un elevato rapporto operatori/utenti per offrire un servizio di alta qualità nell’ambito della disabilità complessa che va ben oltre i parametri che vengono imposti dalle Direttive Regionali sull’Accreditamento. Il mio compito prevede anche l’organizzazione della turnistica degli operatori, in modo tale che le risorse messe in campo diano risposte di qualità alle esigenze dei ragazzi e, quando possibile, anche alle richieste degli operatori e delle famiglie. In avvio di attività, devo dire che questo è stato facilitato anche dall’organizzazione del C.Re.S.S., che al suo interno dispone di diverse cooperative che gestiscono, tra le altre cose, i Centri Residenziali e Semiresidenziali dove erano accolti molti dei ragazzi che poi sono stati inseriti presso i “Centri Fa.DiVi.”; questo ha permesso un più agevole passaggio di informazioni e, in taluni casi, la possibilità di dare continuità assistenziale proprio rispetto al personale. Una buona parte degli operatori che lavoravano presso altri Centri ed erano interessati alla “novità” del Progetto Fa.Di.Vi., hanno potuto esprimere la loro disponibilità a essere inseriti all’interno del nuovo gruppo di lavoro e poter così “seguire” i ragazzi nella nuova dimensione abilitativa.
SARA: La mia storia è un po’ diversa, io conoscevo il progetto, però ho iniziato a lavorare con loro come Direttore Sanitario quattro anni fa, poco prima che aprisse la struttura di Cornigliano, poi mi hanno chiesto di prendere la direzione anche di questo Centro e ho accettato volentieri. Effettivamente è un modo di lavorare un po’ diverso da quello che si può trovare in altri contesti, anche se credo che molto dipenda da come si imposta il proprio lavoro. Io sono abbastanza portata a parlare con le famiglie e a cercarle; credo che non si possa prescindere dalla famiglia di appartenenza quando ci si prende cura di una persona. Non ho quindi incontrato grosse difficoltà a entrare a far parte del Progetto. Sicuramente richiede impegno e talvolta fatica: è un continuo costruire insieme un’alleanza che si basa sul cercare e dare fiducia. La presenza dei genitori, così importante e imponente nella vita del Centro, è una grossa risorsa; tuttavia a volte è necessario riuscire a leggere certi atteggiamenti, comprenderli e interpretarli per offrire una sorta di mediazione, specie nel rapporto tra le famiglie e gli operatori. Ci sono situazioni nelle quali un commento o un tipo di comportamento richiedono un intervento di mediazione, talvolta con forti argomentazioni mediche e/o pedagogiche, per far sì che la possibile osservazione o critica diventi una fattiva collaborazione e non un mero motivo di scontro e di barriera. 

Nella quotidianità quanto sono presenti i genitori? Quanto può incidere una presenza così forte, il fatto che abbiano qui la sede dell’associazione? Com’è stato questo primo anno in relazione a questo aspetto?
MARCO: In questi anni di esperienza lavorativa nel settore non ho mai visto strutture con queste caratteristiche e credo che anche per l’équipe di lavoro sia una esperienza nuova. L’apertura del Centro è stato un momento forte, in primis per le famiglie: gli ospiti provenivano da tante realtà diverse, alcuni addirittura da casa o da altri centri residenziali. Per molte famiglie è stata proprio una scelta importante, anche se in alcuni casi si sono verificate delle comprensibili resistenze: ci sono alcuni ragazzi molto giovani e i loro genitori forse non erano ancora del tutto “pronti” per questa scelta di residenzialità; diciamo che hanno sposato il progetto per la sua “bontà”, non perché avessero chiaro fino in fondo come poteva concretizzarsi. Mentre per molti l’inserimento, l’approccio, la relazione con la direzione e con gli operatori sono stati più facili, altri hanno fatto più fatica. Stessa cosa può dirsi per alcuni operatori che hanno avuto qualche difficoltà nella relazione con le famiglie: tuttavia questo ci sembra più che naturale in questo tipo di progetto.
All’inizio “non c’era limite” alla frequenza del Centro e la presenza dei famigliari era stata lasciata molto libera, anche se gestita chiaramente dal buon senso.  Adesso, a quasi un anno dall’apertura, i genitori hanno abbastanza chiaro quali sono gli orari in cui c’è bisogno di più tranquillità, di maggiore intimità del ragazzo stesso con l’operatore. Oggi i momenti in cui c’è maggiore frequenza/collaborazione tra i famigliari e gli operatori sono il momento del risveglio, quello del pasto e alcune attività. Nonostante questa presenza sia stata condivisa con la Direzione, a volte ci si è dovuti fermare a riflettere perché si sono verificate delle incomprensioni (ad esempio, la presenza di un numero troppo elevato di persone nel corso del pasto è stato elemento di “disturbo” proprio per i ragazzi). La maggior parte delle famiglie sembra aver ben compreso i tempi e i ritmi della vita del Centro; altri hanno ancora bisogno spesso del nostro intervento. Noi cerchiamo di dar supporto agli operatori con la supervisione, le riunioni plenarie e di gruppo, la programmazione generale e penso che anche per i genitori ci sia bisogno di un percorso di formazione e crescita. L’elemento che è emerso in modo significativo ed è tangibile da parte di tutti, è il benessere dei ragazzi: lo vedi proprio, lo tocchi con mano, quello che si nota quando si entra è che loro stanno bene. Questo è riconosciuto dagli stessi genitori. Ci sono però degli elementi di incomprensione che fanno parte del quotidiano e che portano a momenti di confronto, di discussione che cerchiamo di “incanalare” nel modo giusto: per scelta organizzativa, facciamo più o meno ogni mese e mezzo una riunione come Direzione solo con i famigliari e cerchiamo di focalizzare gli aspetti un po’ rugginosi e che creano ancora un po’ di attrito. Sicuramente il bilancio è positivo, soprattutto per quest’aspetto di novità legato alla stretta condivisione della quotidianità tra ospiti, operatori e famiglie.
SARA: Sono d’accordo con Marco. C’è poi, secondo me, un punto abbastanza importante che spesso può portare a delle criticità: un genitore, soprattutto così presente, vorrebbe che anche il personale avesse gli stessi suoi occhi nei confronti del figlio; chiaramente questo non è possibile. Per quanto gli operatori siano attenti, sensibili, empatici e ricerchino la collaborazione, instaurano un rapporto diverso con i ragazzi. Questo è un elemento importante sul quale ogni giorno bisogna lavorare, anche se è difficile: da un lato si rischia di farsi coinvolgere troppo e dall’altro si rischia di perdere di vista che quello dell’operatore è un lavoro che ha alle spalle un grosso apparato organizzativo e di mediazione.

Quali sono i punti qualificanti e le criticità rispetto alla situazione attuale?
MARCO: Tra i punti qualificanti c’è sicuramente l’aspetto delle famiglie, che portano una conoscenza importantissima rispetto alle proprie storie e vissuti. Portano però il loro punto di vista che va confrontato con il punto di vista degli operatori che passano la giornata con i loro figli. Altro punto di forza è la bellezza del posto e della struttura. Ho sempre detto alle famiglie che la stessa struttura collocata in un’altra posizione, senza il giardino, senza la tranquillità del posto, il piccolo parco che c’è davanti, la piscina che ci sarà un domani non avrebbe lo stesso peso. Secondo me è qualificante anche il fatto di avere la sede dell’associazione vicina: tutela molto avere il supporto di un’associazione che ti conforta anche nei momenti attuali, più difficili, che stiamo vivendo. La continuità di una parte degli operatori e l’inserimento di alcuni elementi nuovi ha permesso la costituzione di un gruppo di lavoro ben equilibrato: alcuni hanno più conoscenze rispetto ai ragazzi, mentre gli elementi nuovi portano vitalità, forza, motivazione. Bisogna tuttavia stare attenti: elementi qualificanti come il fatto che la famiglia sia presente e che l’associazione sia vicina potrebbero portare anche al rischio di una “chiusura” su se stessi. Crediamo invece fermamente che sia necessario essere aperti verso l’esterno: o portando dentro delle cose da fuori oppure andando noi all’esterno. Altro rischio da considerare è che le famiglie vivano questa come la loro casa e non come la casa dei loro figli. In alcuni c’è proprio la tendenza a riprodurre le dinamiche di casa propria. Questa però è una casa diversa, un po’ più ampia dove devi convivere con altri.
SARA: In quest’ottica, la presenza delle famiglie è un elemento di continuità con la “vita precedente” ma questa nuova casa non può esserne una riproduzione. Questo anche perché, per quanto possibile, per ogni ospite cerchiamo di sviluppare al massimo potenzialità, desideri e aspettative che, come succede in ogni famiglia, non sempre coincidono con quelle dei genitori. Anche questo, a volte, può essere un problema sul quale è necessario riflettere e collaborare per creare le basi di una seppur minima autonomia. 

L’allontanamento dalla famiglia ha creato maggior autonomia di pensiero, di desiderio? Questo è riconosciuto come positivo dalle famiglie?
SARA: Dipende, nel momento in cui si creano delle situazioni “conflittuali” tra l’ospite e la sua famiglia può esserci difficoltà a elaborarle, ad accettarle e quindi ad andare avanti. Si creano sicuramente dei momenti di criticità sui quali però pensiamo sia fondamentale lavorare insieme per creare una maggior accettazione delle spinte verso l’autonomia dei ragazzi.
MARCO: Soprattutto per coloro che hanno la capacità di rappresentarsi. Direi che le famiglie lo riconoscono, per quei ragazzi che possono farlo. Ma gli stessi elementi che possono essere positivi, qualificanti, possono al contempo creare dei problemi o portare a episodi di incomprensione e attrito. Il pericolo è proprio quello di creare un ambiente molto bello, molto familiare ma fine a se stesso.

Dicevate che una cosa che facilita il rapporto con le famiglie è questo incontro che fate una volta al mese e mezzo…
MARCO: Per noi è un momento importante, anche se per alcuni genitori la frequenza è eccessiva. Ci sono genitori che vivono in modo forte la quotidianità, che collaborano al momento del risveglio, del pasto, vengono spesso durante la settimana, ma ci sono anche le famiglie dei cinque ragazzi del Centro diurno che sono stati inseriti dopo e che frequentano dal lunedì al venerdì dalle 8,30 alle 16. Abbiamo condiviso il loro inserimento con la ASL, valutando quali potevano essere i ragazzi più idonei da inserire, sulla base di esigenze e potenzialità che potessero essere in qualche modo complementari agli altri. Anche per queste famiglie è comunque importante avere la possibilità di vedersi e confrontarsi. È un momento importante in cui la direzione può comunicare con le famiglie e condividere i progetti del Centro, le attività e le problematiche che possono riguardare tutti.
SARA: Da parte del genitore questo è un elemento molto positivo, anche nei momenti critici c’è un confronto, magari molto animato, ma sempre educato e teso alla soluzione dei problemi.  Questa è sempre la volontà da ambo le parti. Alle famiglie dobbiamo sicuramente riconoscere una buona propensione al dialogo, all’ascolto e al confronto che forse nasce anche dalla storia del progetto: è stato un percorso molto lungo nel quale i famigliari sono sempre stati abituati a vedersi tra di loro, hanno fatto parecchia formazione sulla gestione delle conflittualità e questo ha dato i suoi frutti. Poi sicuramente un conto è pensare una cosa, sognarla, e un conto è viverla. Certe cose non corrispondono a quello che avevi pensato, è normale.

Qual è la differenza fra quello che si era sognato e quello che si è realizzato? Quali aspetti si potrebbero rinforzare o cambiare dopo questo primo anno di sperimentazione?
MARCO: Non so se cambierei qualcosa, sicuramente si potrebbero potenziare e implementare varie aree. È giusto che certi problemi, se ci sono, vengano fuori, soprattutto in questa prima fase. È chiaro che tutti dobbiamo avere la capacità, la forza e la volontà di comprendere meglio i nostri ruoli, questo dà un risultato ancora più forte e incisivo rispetto al progetto. Anche se c’è questa volontà, è poi chiaro che la parte genitoriale, la parte educativa, la parte direzionale a volte prendono il sopravvento.
SARA: Rinforzerei gli aspetti legati alla collaborazione in tutti i suoi aspetti positivi: la disponibilità a svolgere insieme alcune attività, l’animazione in certi momenti della giornata in cui può esserci maggior “sofferenza organizzativa”, legata ad altre incombenze prioritarie, specie assistenziali. Sicuramente è necessario continuare a fare un lavoro di “limatura” da tutte le parti. Mi sarei aspettata dei momenti più critici da parte di alcune famiglie, invece si è riusciti a trovare sempre una mediazione. Certo, è tutto un po’ più difficile rispetto ad altri ambienti di lavoro: ogni decisione è condivisa con l’ospite, la sua famiglia e/o i suoi referenti socio-sanitari. La conoscenza e la cura di ogni ragazzo non può prescindere dalla sua storia (famigliare, sociale, medica, riabilitativa). Inoltre come responsabili del Centro siamo una sorta di filtro e anello di congiunzione tra i ragazzi, le loro famiglie, gli operatori. È proprio un lavoro di mediazione, di limatura, un continuo cercare di vedere e far vedere le cose sotto i vari punti di vista (quello dei ragazzi, dei professionisti, delle famiglie, ognuno con i propri bisogni, le proprie competenze e i propri vissuti). Tutto questo è stimolante perché in certi momenti l’eccessiva criticità da parte del genitore ti porta comunque a concentrarti su un eventuale problema che, se anche vissuto da parte del genitore in maniera un po’ amplificata, può essere oggetto di riflessione e revisione del proprio lavoro. E questo è positivo; è un continuo stimolo a ripensare e migliorare il proprio operato. 

2. Un sogno da vivere, un progetto da realizzare

Intervista/conversazione con Roberto Bottaro e Bruno Nanni, rispettivamente Presidente e Segretario dell’Associazione Fa.Di.Vi.

Da dove siete partiti?
Chi si occuperà di nostro figlio alla nostra morte?
Questa domanda nasce spontanea e naturale all’interno di una famiglia dove vive una persona disabile. Questa preoccupazione, questa proiezione futura della vita del proprio figlio diventa angosciosa con il passare degli anni, con l’invecchiare.
Dove abiterà? In quale situazione si troverà? Avrà accanto qualcuno che gli darà affetto? Riuscirà a godere delle (poche o tante non importa) risorse economiche che durante tutta la vita i genitori hanno accantonato per lui?
Non riuscire a rispondere a questa apprensione porta molti genitori a dichiarare “Vorrei che mio figlio, mia figlia morisse un minuto prima di me!”, frase certamente comprensibile ma nello stesso tempo aberrante.
Pensare quindi un’alternativa all’Istituto che per qualcuno si identifica come “l’anticamera della morte” è diventato così un obiettivo da perseguire anche attraverso la costituzione dell’associazione Fa.Di.Vi.
Ecco le parole con cui nel giugno del 2000 Roberto descriveva questa volontà:
“Con alcune famiglie del Centro Arcipelago ci siamo già incontrati, poco tempo fa e abbiamo parlato di questo nostro progetto. L’incontro di oggi è necessario per formalizzare, ma ancor prima condividere alcuni atti che ci consentano di procedere nella ricerca di quanto ci eravamo prefissati, cioè riuscire a ricercare la possibilità che i nostri figli o parenti possano trovare accoglienza e garantita ospitalità presso il futuro centro residenziale della Vidoni, già nel ‘durante noi’ e ancor più nel ‘dopo di noi’ cioè quando noi genitori non ci saremo più.
In altre parole vorremmo riuscire a concretizzare quello che io ritengo sia il sogno, la speranza, di molte famiglie: constatare direttamente, finché siamo in vita, quale sarà la futura sistemazione dei nostri ragazzi (perché tali rimangono) verificando noi stessi il funzionamento, adoperandosi anche per caratterizzare lo svolgimento della attività e della vita del Centro”.
Nel settembre di quello stesso anno in un convegno sul “Dopo di noi” veniva approfondito il senso del nostro obiettivo: “Credo che dobbiamo sostenere l’applicazione di modelli, anche innovativi, con il genitore quale prezioso collaboratore, direttamente partecipe della fase realizzativa e testimone attento della rispondenza alle aspettative.
Parlare di ‘dopo’ corrisponde spesso per noi genitori a evocare delle paure, delle angosce legate soprattutto all’incertezza, ai dubbi di un futuro che non potremo affatto indirizzare, perché non ci saremo più.
Ma perché noi famiglie dobbiamo sempre fare i conti con il ‘dopo’?
Dopo la nascita, dopo quel trattamento riabilitativo, dopo la scuola, dopo la formazione, dopo la morte dei genitori…
Il non poter avere una ragionevole sicurezza determina sfiducia, distacco, a volte instaura un rapporto antagonista con i Servizi. Se poi aggiungiamo che quando trattiamo dei nostri ragazzi/e, noi genitori siamo spesso soggetti difficili, poco propensi a fidarsi ciecamente, forse anche un po’ diffidenti, sospettosi, pervasi dal timore di non operare al meglio, rosi dall’ansia di dover fare di più, di non compiere le scelte più adeguate, diventa conseguente la volontà di riuscire a trasferire il ‘dopo’ nel ‘durante noi’.
Per molti di noi sono certo che il ‘dopo’ ideale, quello auspicabile dovrebbe essere una continuazione del modello familiare, ovviamente allargato alla dimensione di un Centro dove l’assistenza sia garantita, l’attenzione sia massima e possibilmente ci sia un po’ di affetto, se chiedere amore è troppo.
Noi dobbiamo impegnarci tutti a realizzare nuove residenzialità in grado di ricevere un ridotto numero di ospiti/utenti, tali da permettere un’organizzazione che possa instaurare una diretta relazione, per compensare almeno in parte la diversa situazione affettiva derivata dal distacco dalla famiglia, che per altro esistendo avrà un suo specifico ruolo.
Questa residenzialità, questa Comunità dovrà essere in grado di maturare una cultura della riabilitazione, dell’integrazione, una struttura che non sia caratterizzata da un approccio solo assistenziale o peggio assistenzialistico”.

Quale idea di residenzialità avevate in mente?
Un’idea di residenzialità in cui ogni soggetto coinvolto (persone disabili, famiglie, operatori, direzione, ASL, volontari, ecc.) potesse avere e mantenere la consapevolezza del proprio ruolo. Questo per noi genitori ha voluto dire sforzarsi di sviluppare la capacità di confronto costante sia al nostro interno, sia con le altre componenti per provare una strada di ricerca utile a consolidare e migliorare il rapporto fra tutti.
Il grande sforzo per noi familiari è stato ed è quello di andare oltre un atteggiamento individualistico, superare l’abitudine a “girare la testa” per non farsi coinvolgere troppo dagli altri.
Abbiamo lavorato affinché il familiare fosse riconosciuto dal gestore della struttura, dai dirigenti, dagli operatori come soggetto attivo, come portatore di una storia ed esperienze significative di cui potersi avvalere.
Sapevamo che le esperienze e le attese del soggetto disabile potevano non essere sempre coincidenti con quelle delle famiglie ma l’obiettivo è sempre stato quello di operare insieme, in modo il più possibile condiviso per conciliare anche queste differenti prospettive.
Dopo una vita spesa nell’amore ma anche nel sacrificio, nella non rassegnazione, nel fronteggiare mille difficoltà, pensavamo e pensiamo che al familiare debba essere “concesso” di poter accompagnare il proprio figlio nell’ulteriore passaggio fuori dalla famiglia; questo era per noi fondamentale anche come genitori che hanno pensato e preparato l’uscita da casa del proprio figlio riuscendo poi a renderla possibile.
Con l’aiuto dell’associazione, ognuno di noi ha cercato di trovare il giusto equilibrio, la giusta distanza rispetto alla propria voglia di essere sempre e comunque presente.
Alcuni anni fa riflettendo sulle nostre aspettative scrivevamo che: “Si cercheranno e troveranno insieme le soluzioni più idonee e più opportune nell’accompagnamento dei nostri figli, non trascurando le esperienze, il passato, il contesto, la realtà, le aspettative, le ansie, la consapevolezza dolorosa di ogni singola famiglia. Ogni genitore dovrà provare a descriversi e a proiettarsi all’esterno non attraverso lo stereotipo del dolore, dell’angoscia o del pietismo, bensì con la forza, l’amore, il coraggio, la gioia di vivere, la convivialità, la fantasia, l’immaginazione, la generosità, la sensibilità, il sentimento, la vita. Ogni familiare dovrà poter condividere il piano educativo, riabilitativo per il proprio figlio e la conoscenza delle modalità di attuazione degli interventi”.
La nostra idea di residenzialità comprendeva quindi un importante ruolo della famiglia che, soprattutto nella dimensione associativa, si è posta come un supporto nel pensare, proporre, ricercare e attuare nuovi progetti e nel dare continuità a ciò che è stato acquisito con il lavoro di tanti anni.

Quali secondo voi i punti qualificanti di questa esperienza?
Un primo aspetto ci sembra quello del coinvolgimento della cooperazione sociale come soggetto titolare della gestione del Centro. Fa.Di.Vi. con largo anticipo rispetto all’apertura ha cercato di coinvolgere l’organizzazione delle cooperative sociali in un processo di cambiamento della cultura organizzativa per riuscire da un lato a garantire e innalzare la qualità del servizio e dall’altro a consentire alla persona disabile e alla famiglia d’assumere un ruolo centrale all’interno del progetto.
Abbiamo creduto che provare a disegnare insieme dei percorsi di sviluppo della qualità e riflettere con operatori motivati ad affrontare questa sperimentazione, fosse il presupposto e l’occasione per operare un cambiamento utile al raggiungimento degli obiettivi prefissati.
Disegnare nuovi modelli, ricercare nuovi percorsi con creatività, misurarsi con la propria capacità, questa è stata la sfida per creare qualcosa che aumentasse le risorse a diposizione.
Fa.Di.Vi. ha provato a compiere un’analisi sulla garanzia gestionale, sull’efficienza e l’appropriatezza degli interventi. La scelta dei genitori di costituirsi in associazione e svolgere un ruolo attivo, anche se non di gestione diretta, ci sembra una scelta che dimostra quest’impegno.
Un altro elemento sul quale abbiamo molto creduto e investito è stata la formazione.
Abbiamo pensato e organizzato una serie di progetti formativi attribuendo loro grande valore.
Con essi volevamo promuovere un processo di cambiamento che avesse il dichiarato intento di sviluppare con gli operatori un rapporto finalmente libero dai pregiudizi e dalle generalizzazioni che per tanto tempo ci hanno di fatto diviso e posto quasi in antagonismo.
Uno degli obiettivi che ci siamo proposti è stato quello di provare a percorrere con loro un cammino finalizzato all’imminente realizzazione del progetto residenziale.
L’intento era quello d’incontrare gli operatori, con i quali avremmo condiviso la quotidianità della Casa, per conoscerci, capirci e “costruire” assieme un clima di fiducia e rispetto dei rispettivi ruoli
Abbiamo creduto molto in questa modalità di formazione congiunta, una strada non facile ma necessaria per avviare processi che consentissero di sentirci parte attiva, vera risorsa per il Centro. Abbiamo posto particolare attenzione nell’evitare di cadere nell’autoreferenzialità, “aprendoci”, mettendoci in gioco, entrando in relazione con Enti, persone e associazioni.
Eravamo convinti che questo lavoro ci avrebbe avvantaggiato facilitando il futuro.
Purtroppo il risultato non è stato all’altezza delle nostre aspettative.
Nonostante siamo partiti in largo anticipo rispetto all’apertura del Centro, molti operatori coi quali abbiamo condiviso la formazione, a causa del prolungarsi dei lavori strutturali, non hanno potuto far parte della nostra équipe, vanificando così il nostro forte investimento sulla formazione comune.
Questo lungo impegno è stato comunque utile per farci crescere e comprendere meglio le problematiche che s’incontrano nel “pensare il futuro”.
Abbiamo potuto considerare l’importanza del “prenderci cura” per continuare ad “aver cura”. Attraverso esperienze corporee come lo shiatsu, il watsu, il movimento in acqua e/o le danze abbiamo constatato l’importanza e l’utilità d’imparare ad ascoltarci per sostenere ancor meglio la ricerca del benessere e di una buona qualità della vita anche nelle situazioni di cronicità.
Abbiamo organizzato incontri, dibattiti e confronti per sensibilizzare l’opinione pubblica sui diritti delle persone disabili e superare gli stereotipi che “gravano” su di esse e sulle loro famiglie identificate solitamente come problemi e quasi mai come risorse.
In questo quadro sono state inoltre coinvolte l’Università e altre centrali formative favorendo la presenza e la partecipazione di studenti e tirocinanti ai nostri eventi.
Abbiamo faticosamente cercato d’imparare a darci il permesso d’abbandonare atteggiamenti distruttivamente pessimistici o illusoriamente ottimistici nel definire e perseguire i nostri obiettivi.
Una parte importante nel nostro progetto l’ha avuta l’idea d’impegnarci a esprimere e valorizzare le potenzialità presenti in ogni contesto familiare.
Una modalità particolarmente efficace per riuscire in questo intento è stata quella di sfruttare ogni occasione di convivialità per scoprire, condividere e scambiare interessi e capacità.
Fin dall’inizio alcuni di noi erano convinti che fosse vitale “fare gruppo”, unirsi per provare a diventare una sorta di famiglia allargata capace di condividere gioie, superare difficoltà, raccontarsi e comprendersi, aiutarsi e sostenersi in ogni eventuale necessità.
Il nostro progetto “Un sogno da vivere” ha attribuito molta importanza alla convivialità, alla cultura del cibo e dell’accoglienza prevedendo incontri periodici coi quali mantenere e rinsaldare le nostre relazioni. Al contempo, non abbiamo rinunciato a cercare nuovi amici per allargare l’orizzonte delle conoscenze, favorire gli scambi e rinnovare la nostra cultura d’appartenenza.
Un aspetto “debole” del nostro progetto è invece identificabile nelle modalità di formazione del gruppo di famiglie e quindi anche di persone disabili che avrebbero in seguito abitato la casa.
Al nucleo nato intorno al tavolo della Consulta (non avendo ancora una sede associativa) si sono aggiunte in seguito altre famiglie.
Ma quale è stato il criterio di scelta? Uno dei criteri che ci siamo dati è stata la temporalità.
Chi lo chiedeva per primo aveva la precedenza.
Ripensandoci, questa modalità avrebbe dovuto essere maggiormente approfondita.
Le scelte sono state anche condizionate dalle modalità con cui le famiglie si sono presentate.
Non è stato facile fare scelte ponderate quando hai davanti mamme che piangono, che esprimono la paura di non essere accolte con i propri figli e questo ci ha fatto sottovalutare aspetti importanti soprattutto nel valutare le esigenze e gli interventi che si sarebbero potuti rivelare via via necessari.
Tutto ciò è stato compiuto da noi, senz’alcun supporto “tecnico professionale” perché in quel momento eravamo ancora “soli” nell’organizzare una “lettura” delle situazioni.
Oggi che, in virtù della nostra esperienza, siamo spesso chiamati a essere interlocutori delle Istituzioni per l’apertura di nuovi centri e manteniamo contatti e collaborazioni con famiglie coinvolte in nuovi progetti, ricordiamo a tutti di curare con molta attenzione la fase costitutiva del progetto dandosi con ogni mezzo il tempo e la possibilità di conoscere e valutare serenamente ogni situazione, senza trascurare nulla.
Un altro elemento di criticità riguarda la contemporaneità in situazione di più servizi.
Nel nostro caso ciò che andrebbe modificato è il rapporto fra le famiglie titolari per la residenzialità e quelle per il Centro diurno abbassando il numero delle prime e alzando quello delle seconde.
 Il numero dei nostri residenti è un numero alto (16) e nasce da una soluzione compromissoria dettata dalla necessità di rendere sostenibile la gestione. 

Le prospettive: come muoversi per il domani?
Un filo conduttore sarà quello di stimolare costantemente una condivisione progettuale che tenga conto delle molteplici esigenze presenti. La condivisione dei progetti e il continuo confronto sono modalità imprescindibili per far sì che i problemi del quotidiano non vengano vissuti e interpretati in modo unicamente individualistico.
Per sviluppare il rapporto servizio/famiglie sarà necessario impegnarci ancor di più nella ricerca di un linguaggio comune che favorisca una collaborazione funzionale migliorando costantemente la capacità di comunicazione e le competenze relazionali.
Siamo coscienti d’esserci talvolta presentati e comportati in modo rigido e assolutista tanto da cercare, in alcuni casi, d’imporre quello che ritenevamo essere in quel momento il nostro indiscutibile punto di vista. Oggi, se questi anni d’impegno e confronto ci hanno effettivamente fatto crescere in consapevolezza, si aprirà una stagione nella quale ciascuno potrà essere considerato e riconosciuto per il proprio valore. In tal modo si potranno individuare e ridurre quegli ostacoli che impediscono di trovare risposte creative e realizzare percorsi innovativi capaci di superare le molteplici difficoltà che in questo momento storico affliggono i servizi socio-sanitari.
Per resistere alla crisi sarà importante associare alla continua valorizzazione del lavoro di cura l’attuazione di progetti d’ampio respiro collegati alla pluridimensionalità dei progetti di vita.
Sarà difficile reperire le risorse ma cercheremo di mantenere il nostro impegno articolandolo in tre direzioni: la riflessione ormai classica intorno ai temi della genitorialità e dell’adultità nella quale siamo finalmente riusciti a comprendere il ruolo interpretato da sorelle e fratelli, la formazione continua sul tema dei conflitti e infine il grande sforzo per implementare il nostro “capitale sociale” cercando di aumentare e qualificare il già intenso programma d’eventi che realizziamo all’interno della nostra struttura per essere considerati sempre più parte viva del territorio.

3. Le storie curano l’anima

Il gatto che aveva perso la coda nasce da un’idea di due tecnici dell’Istituto dei tumori di Milano, Sarah Frasca e Gabriele Carabelli, e dell’illustratrice Annalisa Beghelli che, grazie alla casa editrice Carthusia e alla Fondazione Cleme (www.magicacleme.org/it/home.asp) mi hanno permesso di scrivere una storia per i bambini malati. Si tratta di bambini anche piccolissimi, tutti con tumori al cervello, spesso già operati, che devono subire cicli di radioterapia. Per permettere alla testa di restare immobile indossano un casco che viene fissato al lettino su cui si sdraiano.
Per i bambini è un momento molto difficile, hanno paura, sono soli durante l’irradiazione: in certi casi occorre sedarli.
Il libro si propone di dare loro coraggio. Attraverso la storia di un gatto tigrato che ha perso la coda e va nello spazio a cercarla, indossando un casco come talismano, i bambini coraggiosi e anche quelli che non sanno di essere coraggiosi possono scoprire dentro di sé la forza per superare, come gli eroi delle fiabe, le prove a cui sono sottoposti.
Il gatto che ha perso la coda è quindi un libro pensato e scritto per i bambini in cura, che vi si riconoscono immediatamente e per i quali è di grande conforto. Il gatto, alla ricerca della coda, comincia un viaggio fatto di incontri, tentativi e prove da superare. Alla fine, trovando una coda da tigre e un cuore da leone, ritrova il coraggio e la speranza.
Ma Il gatto che ha perso la coda è anche un libro per la libreria: può essere letto da tutti i bambini. Non c’è infatti nessun riferimento esplicito alla malattia: ogni passaggio è simbolico, parla all’inconscio, non alla ragione.
Le storie sono psicomagie: le mamme e i papà che le raccontano si trasformano in dottori magici e potentissimi. Le storie, con i sentimenti e i percorsi che suggeriscono, aiutano i bambini ad affrontare le paure, a costruire risorse interiori, a rapportarsi con la realtà, anche con quella dolorosa e immeritata. Insegnano a escogitare riti o sistemi personalissimi di difesa e ad acquisire così la forza necessaria per affrontare la vita.
Le storie curano l’anima, la curano nel silenzio che segue la parola detta.
Un bambino ferito trasformerà la sua sofferenza in qualcosa di accettabile solo se sarà capace di narrarla.
Le storie hanno ali molto più potenti di chi le racconta o di chi le inventa.
In Mamma nastrino (Milano, Piemme, 2006) ho raccontato che il cuore di ogni bambino è legato al cuore della sua mamma con un nastrino d’amore che non trattiene, ma incoraggia, e che si può allungare all’infinito, perché non si rompe mai. Ho fatto molti esempi di mamme con il nastrino, anche di mamme che vivono in cielo e che fanno le pilote d’aereo o le astronaute. Solo più tardi mi sono accorta all’improvviso, mentre leggevo la storia a un gruppo di ragazzi, che quando si parla di mamme che vivono in cielo il pensiero va anche alle mamme che non ci sono più. Allora mi sono resa conto che, con le mie parole, non confortavo solo i bambini che si sentivano soli quando la mamma era lontana, ma anche chi, grande o piccolo, non aveva più la mamma, ma scopriva che il suo nastrino restava sempre e comunque legato al suo cuore.
Tempo fa scrissi la storia di un orso che aveva un retino tra le zampe. Quell’orso, seduto tutta la notte sul letto di un bambino, intrappolava nella rete i brutti sogni. Qualcuno allora mi disse che gli Indiani d’America (non so purtroppo quale tribù) possiedono un retino con i quali acchiappano i sogni belli.
Non sapevo niente di quella tradizione, ma più tardi sperimentai per la prima volta con una piccola amica, che da giorni faticava a prendere sonno, quanto un orso guardiano, purché “armato” e amato sia un ottimo antidoto contro la paura della notte (nel suo caso, in mancanza di un retino, usai una padella giocattolo, ma nel caso di mio figlio fu sufficiente dire che l’orso apriva la bocca e mangiava i sogni brutti).
Da parte mia so che ciò che scrivo e racconto a volte si trasforma in medicina solo se mantiene il suo potere misterioso, se resta filtro magico dolce e piacevolissimo.
Forse anche un’otite può essere curata da qualche parola dolce soffiata nell’orecchio. E un mal di pancia da una bella scorpacciata di parole narrate.
Le mamme buone sono dottoresse.
Non prescrivono medicine,
ma storie a voce alta.
Se avete il mal di pancia dei maiali,
il raffreddore degli elefanti,
il morbillo delle coccinelle,
la tosse degli asini,
cercate una mamma dottoressa.
Cercatela nell’armadio,
sotto il letto, nella vasca dei pesci.
Le mamme dottoresse si nascondono nei posti più impensati.
Ma per raccontare una storia,
mio cavallin ciò cio,
non si fanno mai pregare.
(da E. Nava, W le mamme buone?, Roma, Lapis, 2003)

1. Introduzione

Servendoci di una metafora certo assai utilizzata ma per noi particolarmente calzante, possiamo dire che la realizzazione di questo numero della rivista ha significato compiere una sorta di viaggio nei territori dei libri “per tutti” e dell’accessibilità della lettura.
Un viaggio che si è rivelato in sintonia con le nostre aspettative di persone che amano e usano i libri nella vita personale e professionale; abbiamo ritrovato luoghi e atmosfere noti, costumi e “tradizioni” molto vicini ai modi con cui in questi anni abbiamo voluto dedicare un’attenzione affettuosa ai compagni di strada fatti di parole e immagini, carta e inchiostro, e oggi anche di files e supporti multimediali.
Un viaggio che ha anche saputo rivelare aspetti meno conosciuti o, forse, solo meno illuminati, sentieri poco frequentati che, accanto a strade di maggior transito, disegnano la mappa di una regione fertile non solo di idee e progetti ma anche di realizzazioni concrete che coniugano insieme utilità e bellezza.
Un viaggio che, più ancora della meta in sé, è stato ricco di opportunità di conoscenza e di consolidamento di legami fra persone, gruppi, realtà che si riconoscono accomunati dalla consapevolezza che, anche nella società iconica e multimediale, il libro e la lettura sono insostituibili occasioni di esperienza e crescita per tutti, adulti e bambini, al di là dei differenti modi di fruizioni.
I contributi raccolti in questo numero, infatti, fanno certamente riferimento a esperienze specifiche e in alcuni casi personali, ma esprimono allo stesso tempo una forte coralità nel sottolineare come la forza dei libri sia nella dimensione di relazione e reciprocità che si crea tra il testo e il lettore, tra chi legge a voce alta e chi ascolta, tra coloro che seduti intorno e tra i libri seguono trame e disegni.
Questo multiforme ponte comunicativo tra l’interiorità e l’esterno che i libri sostengono, o possono sostenere a determinate condizioni, è premessa indispensabile per acquisire competenze maggiormente definite (come la comprensione del testo scritto) o capacità specifiche.
E per la sua valenza di oggetto-ponte, il libro è per sua natura universale, aperto, non specialistico o riabilitativo in senso stretto anche se, rivolgendosi a persone che possono essere in difficoltà sulla fruizione “tradizionale”, deve essere realizzato secondo criteri rigorosi derivanti da approcci scientificamente fondati.
Nei racconti e nelle riflessioni raccolti in questo lavoro troviamo proprio questa attitudine a tenere insieme un bagaglio importante di conoscenze e saperi specializzati, con uno sguardo di insieme al libro, alla sua bellezza e magia, all’appetibilità che da questi tratti deriva, che lo fanno essere per tutti e capace di attirare molti tra i lettori reali e potenziali.
Molti percorsi emergono per aumentare la possibilità di un accesso ampio, facile, comune; molte le indicazioni e i suggerimenti; numerosi i luoghi dove si trovano supporti e risorse personalizzate; con l’attenzione sempre alta a non confondere specializzazione con separazione, a non creare recinti dove c’è bisogno di apertura, incontro, dialogo.
Le pagine dei libri possono essere straordinari veicoli per superare solitudini e situazioni di fragilità, permettono l’immedesimazione e l’immaginazione creatrice. Se è vero che il primo diritto del lettore secondo Daniel Pennac è proprio la possibilità di non leggere, tutti gli altri nove ci ricordano l’opportunità unica che il libro costituisce per il lettore: “la lettura è per lui una compagnia che non prende il posto di nessun’altra, ma che nessun’altra potrebbe sostituire” (D. Pennac, Come un romanzo, Milano, Feltrinelli, 1999)

Il bambino sullo scaffale

Per chi ci segue da tempo non è una novità trovare un percorso bibliografico tra i libri per bambini e ragazzi sul tema della diversità. L’incontro con altre storie, uguali e diverse dalla propria, la conoscenza di bambini e ragazzi disabili o con delle difficoltà, può aiutare a confrontarsi con la realtà e tutti i suoi aspetti su un terreno protetto dove potersi sperimentare con la vita vera. Ideale prosecuzione de Le facce della diversità nella letteratura infantile (“HP-Accaparlante” 74/2000), il percorso che proponiamo si snoda fra libri per ragazzi più grandi, che toccano anche temi particolarmente difficili e delicati come quelli della sofferenza mentale, del rapporto tra fratelli, del deficit acquisito e del rifiuto nei confronti della diversità, per arrivare ai libri dedicati ai più piccoli ai quali sanno proporre, anche se in modo diverso, temi non banali e scontati.

Hanne Kvist, Il ragazzo con il casco d’argento, Milano, I Delfini Fabbri, 2000

“La sorellina di Jan era nata con le ali. Jan lo vide con i suoi occhi. Piccolissime ali ossute con la pelle sottile in mezzo, piegate e rugose come le ali di un pipistrello. […] Si ricordava gli occhietti della sua sorellina, che lo guardavano, e mamma e papà zitti. Non erano passati cinque mesi quando la vendettero. La madre e il padre di Jan vendettero la sua sorellina, non volevano più tenerla. Non dissero mai che era a causa delle ali, ma Jan ne era sicuro”. (pag. 5) Comincia così questa bellissima storia, irreale, incantata, che racconta del viaggio di Jan per ritrovare Liv, di strani incontri e di un centro dove un conte misterioso tiene prigionieri tanti bambini piccolissimi, tutti con le ali, in attesa che siano mature per essere tagliate. Come sottolinea Faeti nella post-fazione, questa è una vera fiaba con tutti gli ingredienti per affascinare i bambini ma è anche (come le fiabe) una dichiarazione d’amore per la vita e per la libertà.

David Almond, Skellig, Milano, Junior Super Mondadori, 2000

È Michael, un ragazzino alle prese con troppi problemi, a raccontare in prima persona l’incontro con un essere misterioso nascosto in fondo a un vecchio garage. Michael ha appena traslocato e si sente piuttosto solo, tanto più che i suoi genitori sono molto presi dalla sorellina appena nata che ha un grave difetto cardiaco. Insieme a Mina, sua coetanea e vicina di casa, cerca di superare la paura che gli fa l’uomo del garage (ma è un uomo? Cosa sono quelle protuberanze morbide sulla schiena? Perché mangia gli insetti?) e affronta l’incontro con una diversità che gli permetterà di guardare con occhi nuovi la sua vita e i suoi rapporti con gli altri. Un romanzo centrato soprattutto sulla crescita ma in cui viene sottolineato con forza il valore della diversità e la possibilità che da un nuovo incontro possano scaturire stimoli positivi.

Joke van Leeuwen, Ma non è un angelo, Milano, Gli Istrici Salani, 1998

“Warre era appassionato di uccelli…”, comincia così questo bel libro illustrato dall’autrice in modo che anche i deliziosi disegni facciano parte integrante della storia. E Warre un giorno trova qualcosa… “Somigliava più che altro a un bambino, o piuttosto a una bambina. Solo che aveva delle piume al posto dei vestitini. E al posto delle braccia due ali. Vere. Sul momento Warre pensò che fosse un angioletto caduto dal cielo. Ma sapeva bene che non poteva essere, perché gli angeli hanno le braccia. Gli angeli hanno le ali sulla schiena e le braccia lì dove devono stare le braccia. O almeno sono secoli e secoli che gli uomini pensano così degli angeli. No: questo era un uccello in forma di bambina. O una bambina in forma di uccello. O una via di mezzo. Dormiva. Forse, pensò Warre, era stata abbandonata lì perché qualcuno la trovasse. È vero che ogni tanto si vedono anche degli adulti sdraiati davanti a una porta o in un’aiuola, ma nessuno pensa che siano lì per essere trovati”. (pagg. 10-11) E così Warre porta a casa, dalla moglie Tina, la bambina-angelo-uccello e vorrebbe tenerla con sé. Dolcissimo il rapporto della coppia con la bambina e i loro tentativi di “nasconderne” la diversità per evitare gli sguardi dei curiosi che “sarebbero venuti tutti insieme a pregarla di far loro dei favori…”. Anche farla mangiare non è facile: Icci non ha le mani e Tina deve studiare diversi sistemi per permetterle di mangiare da sola. Ma Icci non resterà a lungo con Warre e con Tina e, come ogni uccello che si rispetti, sceglierà la libertà dopo aver però incontrato altre persone con cui tessere un legame di amicizia e di affetto. Un libro che parla di diversità ma soprattutto di accettazione e di libertà, e che comunica chiaramente quanto sia sbagliato “impossessarsi” dei bambini e considerarli proprietà privata senza tener conto invece del loro desiderio di indipendenza. Un’indipendenza però che non vuole e non può rinunciare alla tenerezza e all’amore. Come sanno dimostrare Tina e Warre nell’ultimo, bellissimo capitolo quando preparano la cena d’addio alla piccola Icci che, sanno benissimo, presto partirà per il Sud.

Errol Broome, Magnus il grande (forse), Milano, I Delfini Fabbri, 2001

Una storia da leggere senza interruzioni questa di Magnus il topolino bianco che, scappato dalla gabbia dove viveva nella camera di un bambino, si ritrova a dover affrontare la vita, quella vera, in cui c’è fame, paura e solitudine. Al suo fianco una famiglia di comunissimi topolini scuri di cui saprà pian piano guadagnarsi l’affetto. Come ci rammenta Faeti nella post-fazione, “Magnus è da subito un diverso che fa nascere tante domande, che suggerisce un atteggiamento razzista, che imbarazza, stupisce, tormenta. Perché lui solo è bianco se noi siamo di colore scuro? […] Di uno così ci possiamo fidare? Uno così a che cosa serve? Come si avverte bene, non sono domande nuove. Riguardano uomini, donne, stranieri, clandestini, diversi. Ancora una volta, uomini e topi vivono lo stesso destino, animano storie molto simili, riempiono di dubbi le menti e le fantasie”. Ma se questa diversità fa pensare subito a una differenza razziale, in senso più ampio rappresenta tutte le diversità, mentre la storia indica la strada della piena accettazione che passa dal contenuto e non dall’apparenza. Una chiave di lettura che sempre più di frequente troviamo nei libri per ragazzi, in cui non si assiste più tanto spesso a magiche guarigioni e trasformazioni, ma in cui l’epilogo positivo è legato proprio al riconoscimento che ciascuno vale per quello che è.

Jerry Spinelli, La schiappa, Milano, Mondadori, 2003

Il nuovo romanzo di questo scrittore eccezionale è molto particolare e abbiamo deciso di inserirlo in questo percorso anche se di fatto Zinkoff, il protagonista, non ha alcun deficit, è solo… un perdente, un incapace, una schiappa. Eppure non si scoraggia e affronta la vita con grinta, determinazione, una buona dose di incoscienza e tanta gioia di vivere. La sua storia e la storia delle relazioni, o meglio delle non-relazioni, che intreccia con i compagni di scuola, raccontano a chi è attento molto di più di quello che dicono le parole. E mentre tratteggiano un quadro che troppo spesso ci è capitato di vedere da vicino, intuendone la conclusione inevitabile, indicano strade inesplorate, illuminano abilità particolari, lasciando aperta la porta a nuove soluzioni e possibilità di relazione. E soprattutto sottolineano come sia possibile arrivare a essere accettati rimanendo quello che si è.

Philip Pullman, Ero un topo, Milano, Gli Istrici Salani, 1999

Come reagireste se, una sera, alla vostra porta bussasse un bambinetto magro, dai vestiti sbrindellati e vi dicesse che lui, prima, era un topo? Inizia così questo bel romanzo che conferma le grandi doti di fantasia dell’autore. Da leggere tutto di un fiato la storia del bambino che era un topo e che da tale si comporta, cercando disperatamente di capire come invece dovrebbe comportarsi da essere umano. Le indicazioni che riceve sono infatti contraddittorie e tutte tese a mettere in risalto la mostruosità della sua situazione e della sua natura. Intercalato dalle pagine del quotidiano “La Sferza” (che ricorda tanto le pagine che spesso ci troviamo costretti a leggere, chiedendoci dove sia finita la vera informazione) il romanzo si snoda ricco di colpi di scena. Senza bisogno di retoriche morali, lancia un messaggio chiaro e una richiesta precisa perché sia rispettata la diversità di ciascuno e sia tutelato il diritto a essere informati correttamente. E così conclude il bambino cui viene chiesto se era meglio prima, quando era un topo: “Si ha meno guai a essere un topo, tranne che per essere sterminati. Questo non vorrei. È difficile fare una persona, ma è meno difficile se pensano che sei una persona. Se pensano che non sei una persona, allora è troppo difficile per me.”

Karen Hesse, La musica dei delfini, Milano, I Delfini Fabbri, 2000

“Li raggiungo a nuoto in mezzo al mare che mormora. Quando arrivo, il loro cerchio si apre per lasciarmi entrare, poi si richiude”. (pag. 7) Fin da queste prime righe siamo invitati a leggere questo bellissimo libro da una prospettiva diversa. La storia di Mila, allevata dai delfini e riportata fra gli esseri umani, ripropone una riflessione sul nostro senso di superiorità, sulla nostra convinzione che “umano sia meglio” e che quindi sia giustificato qualsiasi tentativo di riportare tra gli uomini qualcuno che non vuole starci, pensando così di salvarlo. Le riflessioni di Mila, i suoi tentativi di compiacere le persone con cui deve vivere, sforzandosi di apprendere a parlare, a mangiare, a muoversi… come fanno loro, evidenziano con chiarezza una realtà apparentemente positiva ma di costrizione e dolore per la ragazzina. “Justin, io penso a domani e domani sempre chiusa a chiave nella mia stanza o nell’aula, con addosso i vestiti, a mangiare cose morte. Ma io voglio tornare indietro. Dalla mia famiglia di delfini, dalla mia casa di delfini. […] Justin dice: Mia madre non ti lascerà andare via […] Tu sei già abbastanza brava. Sai fare tanto di più di quello che credevano. Ma loro non sanno mai quando fermarsi”. (pag. 133) Per nulla scontato, il libro ci porta verso l’unica soluzione possibile, ponendoci di fronte ad un’accettazione totale della diversità e dei desideri che solo Justin, un ragazzino solo come Mila, anche se è sempre vissuto fra gli uomini, è in grado di seguire fino in fondo. E così Mila si chiede: “Posso forse andare con i delfini e dimenticare di essere umana? È difficile pensare, sono stanca. La dottoressa Beck dice: Mila so che stai male adesso. Ma non farà sempre male così. Essere uomini va sempre meglio. Te lo prometto. La promessa è una cosa buona. So che c’è amore e attenzione per me, non solo per la ragazza delfino, ma per me, Mila. Ma non può andare meglio. Anche se la dottoressa Beck fa una promessa. Io sto tornando al mare dal momento in cui l’ho lasciato”. (pagg. 173-174) E dice anche lucidamente: “Io credo che abbiano interesse solo per la bambina delfino. Tutta la mia vita con gli umani sarà così. Io sarò sempre la bambina delfino. Gli umani saranno curiosi come il delfino è curioso della spazzatura che galleggia sul mare. Una cosa con cui giocare, una cosa da trascinare e lanciare, ma alla fine una cosa da abbandonare”. (pag. 155) Un libro per ragazzi ma un invito per tutti a guardare con occhi diversi le persone che ci circondano, senza certezze e con un’immensa disponibilità all’ascolto.

Mordicai Gerstein, Victor, Milano, Junior +10, Mondadori, 2000

“Che diavolo è quel coso?” borbottò il fornaio, sforzandosi di penetrare con lo sguardo le volute di nebbia che si addensavano sulla piazzetta. Strizzò un paio di volte gli occhi, poi spalancò la bocca per lo stupore. “Mio Dio” esclamò sua moglie “Ma è un bambino!” Si precipitarono fuori dal negozio per guardare meglio, e una dozzina di negozianti della piazzetta fecero altrettanto. Da est, i raggi del sole cominciavano a riscaldare l’aria disperdendo la nebbia, mentre una luce dorata si rifletteva sull’acciottolato. Il bambino penzolava dal bastone con le caviglie e i polsi legati, completamente nudo, tranne che per lo strato di sudiciume che gli si era seccato addosso. Sembrava proprio che l’avessero appena tirato fuori da sottoterra”. Così gli abitanti di Saint-Sernin nel distretto di Aveyron fecero la conoscenza di Victor, il ragazzo selvaggio diventato l’emblema di una delle più impegnative sfide dell’educazione. che ha anticipato per molti aspetti la cultura dell’integrazione sociale e la ricerca di sostegno all’evoluzione di persone con problemi evolutivi e difficoltà di apprendimento. La vicenda complessa ed affascinante di Victor è, infatti, l’incontro fra la natura e la società che assume le sembianze di Jean-Marc-Gaspard Itard, il medico che si assunse il compito di dimostrare la sua “educabilità” vivendo e lavorando a stretto contatto con il ragazzo. L’autore, avvicinatosi alla storia di Victor attraverso la visione dello splendido film di Francois Truffaut, riscrive l’intero percorso dell’enfant sauvage: l’infanzia passata in solitudine nei boschi, i primi momenti di avvicinamento, il lungo e puntiglioso lavoro di Itard e Victor, la costante e quasi testarda determinazione del dottore, la delusione e la fatica, la ricerca di affetto e il ruolo esercitato dalle donne di casa Itard, la signora Guerin su tutte. Non è un racconto facile, tanti temi si intrecciano nell’esperienza del ragazzo selvaggio e ci aiutano ancora oggi a pensare cosa è il bene per una persona, quale la forma di un vero aiuto rispettoso dell’identità, la ricerca di equilibrio fra libertà e legami.

Martha Heesen, Mia sorella è un mostro, Milano, Feltrinelli, 2002

L’autrice, con questo romanzo, punta il riflettore sui fratelli e le sorelle delle persone disabili, sul loro rapporto con la famiglia e il resto del mondo. È un bel romanzo e certamente ci saranno fratelli e sorelle che si riconoscono nella protagonista e nella sua vita difficile. Sicuramente è un bene che non si sentano soli e che sappiano che altri provano i loro stessi sentimenti. Ma troviamo inadatto il libro a bambini di 10-11 anni (come vorrebbe l’indicazione della collana). A 10 anni ci deve essere posto per la speranza e, se pure è difficile vivere con un fratello o una sorella diversi, è necessario sapere che si può guardare avanti e che ci sono spiragli di luce e mani che sostengono e aiutano a diventare grandi.

Angela Johnson, Sussurri, Milano, Shorts Mondadori, 1999

È difficile vivere con una sorella diversa e ancora di più quando la diversità che la segna è imprevedibile. È Sophy, adolescente, che racconta la sua vita al fianco di Nicole e della sua schizofrenia. Un bellissimo libro che affronta una tematica difficile, dolorosa, di cui si fa fatica a parlare. L’autrice riesce a dar voce alle paure e alle angosce di Sophy, sorella di carta di tanti fratelli e sorelle reali, riesce a farci capire come sia possibile insieme amare e odiare una sorella così: “Odio mia sorella… Non credo che possa esserci niente di peggio. […] Vorrei poter amare Nicole come un tempo. Mi dice che essere schizofrenici è come urlare in un ripostiglio dove nessuno può sentirti”. (pagg. 76-77) Ci dice come sia facile precipitare in un abisso di disperazione ma ci dice anche, con estrema chiarezza e decisione, che non sempre si precipita e che, anzi, è possibile guardare avanti e sperare ancora. Un libro coraggioso che affronta il tema delicatissimo delle sofferenze mentali e affida un forte messaggio di speranza ad un personaggio emblematico e bellissimo, la signorina Onyx che ha perduto tutto all’epoca del nazismo. E proprio lei che non ha salvato nulla, neanche i suoi sogni, sa leggere nel cuore di Sophy e tenderle una mano per farle riprendere l’equilibrio. “Pensa…, sì pensa se ti fosse tolta la possibilità di ballare, se non potessi più servirti di un dono che possiedi dalla nascita. […] E ora pensa a tua sorella. Pensa a come si sente smarrita, quando non riesce a venire fuori da se stessa. Perciò è così importante usare il dono che hai ricevuto. Più lo userai, più troverai te stessa. Non sapevo di essermi smarrita, e lo dico. La signorina Onyx annuisce sorridendo. Tu non lo sai, ma non sai ancora chi sarai un giorno. Ci sarà ben altro. Oh sì. Mi aspetto molto da te”. (pag. 38)

Mary Rapaccini, Perché Giulia non è bella, Milano, Arka, 2000

"Nonno, è così brutto essere diversi?” “A volte sì perché certe persone non capiscono e giudicano le cose o gli altri per quello che vedono. Succede anche a me […]. Pianto un seme e mi aspetto una pianta. Sulla busta dei semi c’è un pomodoro rotondo, così io aspetto che spunti una pianta di pomodori rotondi […]. Essere diversi è saper già in partenza che non sarai uguale al disegno che c’è sulla bustina dei tuoi semi, sarai diverso da quello che gli altri si aspettavano da te. Ma alla fine, sarà solo il tempo che ci dirà se quello che ci sembra solo diverso non è diventato qualcosa di speciale." Pensieri, emozioni e vita quotidiana di una ragazzina alle prese con una nuova sorellina che ha la sindrome di Down in questo bel libretto che fa parte della collana "l’Orsa Maggiore" rivolta a bambini dai dieci anni in su.

Louise Lawrence, Le luci di Rigel, Milano, Junior fantascienza, Mondadori, 1999

Il libro raccoglie otto racconti di spessore diverso, tutti ambientati in un futuro lontano che si lecca le ferite lasciate da catastrofi ambientali, guerre e distruzioni (che riflettono in modo inquietante il mondo di oggi). Le storie affrontano, spostandoli nel futuro, problemi di oggi, dal rispetto dell’ambiente ai rapporti fra le culture fino alla paura della diversità. Proprio su questo tema vi consigliamo di leggere in particolare il penultimo racconto, che dà il titolo alla raccolta, la cui piccola protagonista sa vedere il fascino e la bellezza delle luci di Rigel, considerate dagli altri pericolose e nemiche, e ne intuisce, accogliendone la diversità, il legame profondo con gli abitanti del pianeta.

Theresa Breslin, Sussurri tra le tombe, Milano, Junior horror Mondadori, 1999

Ci sono tutti gli ingredienti dell’horror in questo romanzo, dall’antico cimitero abbandonato alle tombe che si aprono fino alle streghe e alle maledizioni. Ma c’è anche un ragazzino, il protagonista, abbandonato dalla madre e con un rapporto conflittuale e difficile con il padre alcolista. Questo ragazzino è dislessico. Una storia apparentemente centrata su tutt’altro in cui invece questo tema viene affrontato con delicatezza ma in modo incisivo, tanto che si potrebbe proprio parlare di due racconti paralleli con lo stesso protagonista che, da un lato, deve fare i conti con sortilegi e apparizioni ma, dall’altro, deve affrontare una realtà difficile e imparare a fare i conti e a accettare una diversità che non porta per forza all’emarginazione. E così Solomon, che non riesce a leggere e scrivere e conosce “decine di trucchi per evitare di essere scoperto. Guardo, copio, ascolto e ripeto quello che dice qualcun altro; chiedo di uscire prima che arrivi il mio turno per leggere; faccio chiasso e mi sbattono fuori. Funziona sempre” (pag. 32), sta per rinunciare chiedendosi disperato “Perché non riesco a trasformare i pensieri in parole scritte? Riesco solo a usare le parole che sono sicuro di poter scrivere nel modo giusto. Devo scrivere carino quando invece intendo bello, e poi bene quando penso perfetto. Tutte le mie immagini e le mie idee sono soffocate e fallite in partenza. Dentro di me ci sono i colori dell’arcobaleno, ma sfumano subito in una specie di nebbia opaca e grigia”. (pag. 95) Ma troverà qualcuno che saprà infondergli fiducia, parlandogli con chiarezza senza illuderlo ma spronandolo a proseguire. “Riuscirò a farlo giusto un giorno? – chiedo. Incontra i miei occhi e non distoglie lo sguardo. Certo, ma forse non completamente. – dice – Quando diventerai ricco e famoso, non compilare mai un assegno senza che nessuno controlli se le cifre sono esatte. – Sorride – Potresti scrivere 3000 sterline anziché 300. Ma PUOI farcela comunque abbastanza per andare avanti. Ricordati che è una difficoltà e non un’incapacità, devi superarla e andare avanti con la tua vita, per scegliere di fare quello che vuoi. Tieni tu il controllo e non farti condizionare da questo”. (pag. 134).

Silvana De Mari, La bestia e la bella, Milano, Gli Istrici Salani, 2003

Una bellissima rivisitazione della fiaba che il film di Disney ha fatto diventare famosa. Qui però non ci sono teiere parlanti né candelabri e sgabelli che saltellano. Il principe crudele, che racconta in presa diretta, viene trasformato in cane ma “non in uno dei miei magnifici segugi dal pelo fulvo che splendeva di oro, non in uno dei miei splendidi alani ma in un immondo rognoso botolo di un indistinto color fango, con la coda come quella di un sorcio e una vocetta ridicola”. (pag. 5-6) Sarà scacciato dal castello ma anche dal villaggio, sperimenterà rifiuto, violenza, fame e freddo ma anche amore e accoglienza che gli verranno offerte dalla persona più emarginata e più povera di tutte. Una donna che vive in una grotta, sola con il suo bambino, una guaritrice accusata di stregoneria. Non vi raccontiamo il seguito per lasciarvi il piacere di leggere questa bellissima storia di diversità e accettazione ma anche di memoria, umanità e giustizia.

Claudio Imprudente, Il principe del lago, Trento, Erickson, 2001

Protagonista di questa storia è Giangi che un giorno, per caso, cade dentro un libro e si ritrova alla ricerca del Principe del Lago scomparso misteriosamente. Conoscerà individui singolarissimi e luoghi incantati, dovrà affrontare prove di abilità e di coraggio, arriverà a dubitare di sé e delle sue convinzioni ma troverà alla fine, attraverso l’incontro con la diversità, il vero tesoro. Un libro che sa raccontare in modo semplice e piacevole le difficoltà e i timori che può suscitare il contatto con la diversità mentre indica la strada per arrivare a superarli.

Silvia Roncaglia, Orco qua, orco là, Milano, Feltrinelli kids, 2003

Cosa fareste se la vostra mamma vi desse nome Peonia (Rosa di cognome)? Al ragazzino protagonista di questo libro è proprio capitato così e naturalmente tutti lo prendono in giro. Peonia ha anche uno strano papà grande e grosso che, si scoprirà poi, è un orco disintossicato. Non mangia più bambini, cioè. Mescolando questo ed altri ingredienti, nasce questa storia divertente che affronta il tema della diversità in chiave umoristica ma lascia tra le righe un chiaro messaggio che anche i ragazzini più giovani, cui il libro è rivolto, saranno in grado di cogliere.

Alessandro Ghebreigziabiher, Tramonto, Roma, Lapis, 2002

Un bellissimo libro colorato che ci racconta di chi “nasce in mezzo, su una linea di confine e vive camminando su una corda immaginaria, sospeso su un mondo bisognoso di riconoscere e di riconoscersi”. Dalla sua vicenda personale di uomo nato fra due Sud, Napoli e l’Africa, l’autore crea un racconto incantato il cui protagonista cresce alla ricerca di una collocazione e di una identità. Una storia contro i pregiudizi razziali ma anche, in senso più ampio, una dichiarazione “a favore” di tutte le diversità. “Non è vero che siamo tutti banalmente uguali ma tutti splendidamente diversi e unici […] le diversità non vanno tollerate o sopportate, ma vanno amate, sono ricchezze”.

Fred Bernard, Francois Roca, Gesù Betz, Troina (EN), Città Aperta junior, 2003

Abbiamo aperto con molta curiosità questo particolarissimo libro e ne siamo state subito conquistate. Sotto forma di lettera alla madre e accompagnato da bellissime illustrazioni, è il protagonista che racconta la sua storia di uomo senza braccia né gambe e della sua vita in mezzo a uomini e donne che l’hanno rifiutato e cacciato e ad altri che invece hanno saputo accoglierlo e amarlo per quello che è.

Claire H. Blatchford, La missione di Nick, Milano, Junior giallo, Mondadori, 2002 Donna Jo Napoli, Nuovi amici per Pat, Milano, Fabbri, 2001

Il protagonista del primo romanzo, divertente e abbastanza coinvolgente, è Nick, un ragazzino non udente che riesce a salvare un amico e a risolvere una situazione piuttosto intricata. La storia potrebbe rientrare fra quelle, ormai numerose, in cui è già avvenuto un processo di acquisizione in relazione al deficit che viene quindi inserito nelle trame senza che rivesta particolare importanza in quanto tale. Ma l’abbiamo segnalata perché, senza calcare la mano né usare toni didascalici, pone l’accento sulla necessità della comunicazione e sulle difficoltà che può trovare una persona priva dell’udito a mettersi in relazione con gli altri. La scelta, in questo caso, è per la lingua orale mentre nell’altro tenero racconto, per ragazzini più piccoli, lo strumento di comunicazione privilegiato è la lingua dei segni che anche i piccoli amici di Pat, la protagonista, cercano di imparare per poter giocare con lei. Sia Nick che Pat hanno chiaro che per loro non è facile relazionarsi con il mondo degli udenti, entrambi hanno momenti di sconforto e di rifiuto ma riescono a trovare la strategia giusta per non isolarsi, riuscendo a intrecciare rapporti significativi. Non sta a noi stabilire quale dei due sistemi comunicativi sia più adatto (sempre che una scelta debba essere fatta), ma ci pare interessante che anche i giovani lettori possano rendersi conto che ci sono diverse possibilità e che ci si può venire incontro per fare un po’ di strada insieme.

Simonetta Anniballi, Il regalo del nonno, Roma, Sinnos, 2000 Simonetta Anniballi, Matteo è sordo, Roma, Sinnos, 2003

In relazione a questo deficit particolare segnaliamo anche questi due bei libretti, strumenti di lavoro che possono essere utilizzati con i bambini non udenti e le loro famiglie, ma anche con i compagni di classe che, leggendo le semplici storie raccontate anche attraverso la lingua dei segni, potranno scoprire un nuovo sistema di comunicazione e, perché no, imparare a usarlo.

Arianna Papini, Amiche d’ombra, Firenze, Fatatrac, 2000

“Adesso me lo dice. Di sette mesi è nata e nell’incubatrice hanno sbagliato l’ossigeno e lei non ci ha visto mai più. Allora ci vedevi quando sei nata le dico e lei dice sì, che si ricorda la luce e i colori, un pochino. A me mi viene da piangere ma non glielo faccio sentire di voce. […] Non essere triste, mi dice piano”. (pag. 11) Un anno di scuola attraverso il racconto di piccoli episodi, dei compagni, degli insegnanti, delle gite… ma soprattutto un anno al fianco di Michela che guarda la vita con le mani. I bellissimi disegni e le scanzonate descrizioni ci accompagnano in questa storia lieve di integrazione, guidata dai bambini che sanno istintivamente come avvicinarsi a chi è diverso da loro.

Jutta Richter, Quando imparai a addomesticare i ragni, Milano, Salani, 2003

Vogliamo chiudere questa prima parte dedicata ai ragazzi più grandi con un libro che apparentemente non c’entra niente. Ma se si legge tra le righe della piccola, bellissima storia di una bambina e della sua amicizia con Rainer, ragazzo difficile, con una famiglia disastrata alle spalle e poco apprezzato dai coetanei, si scopriranno temi quali la capacità di guardare al di là delle apparenze, il valore dell’amicizia, l’importanza dei patti e della lealtà, l’accettazione della diversità e la ricerca di un’identità, temi che ritornano anche nei testi che abbiamo letto per voi. Un libro dunque che si presta a diversi piani di lettura e può fare da filo conduttore per aiutare i ragazzi, soprattutto nel momento più complicato, nella terra di mezzo fra l’infanzia e l’adolescenza, a crescere senza perdere di vista i valori veri e imparando a scegliere con autonomia e intelligenza.

L’handicap acquisito

Non sono molti i libri per ragazzi che affrontano la tematica del deficit acquisito e la conseguente dura ripresa di contatto con la realtà. Ma ne abbiamo trovati tre che vi presentiamo qui di seguito. Pur di spessore e qualità diversi, ci lasciano con un messaggio di speranza e sottolineano con fermezza che è dentro se stessi che bisogna cercare l’energia e la volontà per rialzare la testa e proseguire lungo una strada in cui proprio la diversità aiuta a riconoscere l’essenziale e a saper discriminare fra l’apparenza e la sostanza delle cose.

Paola Zannoner, La linea del traguardo, Milano, Junior Best seller Mondadori, 2003

Leo, adolescente un po’ presuntuoso con una sfrenata passione per il calcio coronata dal successo, si ritrova, dopo un incidente in motorino, paralizzato dalla vita in giù e con tutti i suoi sogni infranti. “Ti è rimasta un’unica parola maligna a tormentarti: sintagma, quella che a scuola non riuscivi a capire e che ora sembra echeggiarti nella testa come fosse la cosa più chiara che ci sia. Hai perso il sintagma, la combinazione di base per cui correvi, giocavi a calcio, camminavi, saltavi. Non sai di preciso come è successo e dove si è interrotta la linea, ma è quello che ti è capitato: il tuo corpo è un sintagma spezzato”. (pag. 48) […] “Ti ricordi? Sei rimasto ammutolito quando la professoressa di lettere ti ha chiesto cos’è un paradigma. Oggi sapresti spiegarglielo attraverso te stesso: il tuo obiettivo è costruire il tuo paradigma esistenziale. Ed è dura quando in questo paradigma devi coniugarci il dolore”. (pag. 56) Insieme a Leo, ripercorriamo con fatica e rabbia la strada che lo riporterà fra gli altri dopo una dura presa di coscienza. “Noi siamo gli esiliati, non stiamo nel mondo come gli altri ma in una specie di via di mezzo, come quelli che lasciano la loro casa, la loro terra e non ci possono tornare […] e anche se imparano alla perfezione un’altra lingua, altri costumi e cosa si mangia e come si saluta, c’è qualcosa in loro che li fa riconoscere subito per quello che sono, esiliati […]: la nostalgia della terra perduta che impregna lo sguardo come una sostanza oleosa che non riesce a lavar via, neppure dopo tante lacrime”. (pagg. 86-87) E siamo ancora con Leo, e con Viola che sa stargli accanto, quando rialza la testa e si ritrova capace, di nuovo, di affrontare la vita. Siamo con loro fino in fondo, al bellissimo crescendo finale che vi invitiamo a leggere tutto di un fiato, prima di mettere il libro fra le mani dei ragazzi perché lo leggano al più presto.

Cynthia Voigt, Una ragazza modello, Milano, Gaia Junior Mondadori, 1998

Questa volta la protagonista è Izzy, un’adolescente carina, intelligente e ben accetta da tutti che, come Leo, improvvisamente si ritrova a fare i conti con una nuova prospettiva di vita, dopo un incidente stradale nel quale ha perso una gamba. Una storia che affronta forse con un po’ troppa leggerezza i passaggi necessari perché Izzy possa accettare la sua nuova condizione, ma che ha il pregio di far riflettere sui rapporti d’amicizia e sulla possibilità di essere considerate persone normali, con sogni e desideri… anche senza una gamba. “La vita andava avanti e così anch’io… sulle stampelle d’accordo però […] dentro la mia testa vidi la piccola Izzy. Stava lì tutta sola, senza grucce, con la sua gonna di velluto nero. […] Sapevo, anche se non si vedeva, che sotto la lunga gonna c’erano una gamba di carne e una finta. La piccola Izzy restò immobile per un momento e poi mosse un esitante passo in avanti… preparata a cadere, preparata a non cadere”. (pagg. 174-176)

Benjamin Zephaniah, Al di là del volto, S. Dorligo della Valle (TS), Ex Libris, 2000

Ha molte analogie con Leo questo Martin sicuro di sé e un po’ sbruffone che si ritrova con il viso sfigurato dalle fiamme dopo un incidente stradale. Un tema particolare e una diversità che fa molta paura perché tocca il viso in cui riponiamo i segni della bellezza e del riconoscimento. Anche questo romanzo ci accompagna attraverso la presa di coscienza di Martin che arriva con fatica e determinazione a accettarsi mentre ridefinisce le relazioni e le amicizie sulla base di valori più solidi e significativi.

Per i più piccoli

Wilhelm Hauff, Piccolo Nasolungo, S. Dorligo della Valle (TS), Einaudi ragazzi, 2002

Hauff, vissuto all’inizio dell’Ottocento a Stoccarda, ha raccolto trenta volumi di fiabe e poesie della tradizione popolare fra le quali Einaudi, in un piccolo volumetto con belle illustrazioni delicate, ha scelto la fiaba di Jacob trasformato da una strega in un mostriciattolo dal lunghissimo naso. La sua mente resta però viva e pronta e Jacob non si scoraggia. Troverà lavoro come cuoco presso il signore di quelle terre e saprà dimostrare che non bisogna soffermarsi sull’aspetto fisico ma vedere quello che una persona è capace di fare. Aiutato da un’oca riuscirà alla fine a liberarsi dall’incantesimo e… vivranno tutti felici e contenti.

Nicola Cinquetti, Il dono della farfalla, Roma, Lapis, 2001

“C’era una volta una farfalla che aveva una sola ala. Oh poverina! – esclama Chiara, guardando la farfalla grigia disegnata sulla pagina. Poverina un corno! – grida la farfalla, con una voce esile e decisa”. Sta in queste prime righe l’interesse di questo bel libro illustrato. La storia non è diversa da tante altre che si ritrovano nei racconti per i più piccoli ma in questo caso la farfalla si ribella decisamente, fin da subito rifiuta il ruolo di vittima che le si vuole affibbiare e aiuta Chiara, e con lei i piccoli lettori (ma anche i meno piccoli!) a guardare le cose da un’altra prospettiva in cui anche le diversità, tutte le diversità, diventano qualcosa di prezioso e di positivo.

Didier Daeninckx, La farfalla di tutti i colori, Milano, Junior -8 Mondadori, 2000

Ben diversa la storia di Esmeralda, un’altra farfalla che nasce con le ali completamente bianche e si deve rendere conto ben presto che questa caratteristica la rende diversa e quindi la isola dal resto del mondo animale. Dopo essersi dipinta le ali per essere accettata, viene smascherata e di nuovo allontanata. E meno male perché non ci sarebbe piaciuto molto vedere che, solo mascherandola e nascondendola, la diversità può venire accettata. La storia finisce invece con la farfalla sana e salva sull’arcobaleno che in un gioco di luce le colora le ali e la ospiterà per sempre. Sana e salva sì ma… sola. Non sarebbe stato più bello pensare che altri insetti potessero raggiungerla?

Dr. Seuss, Gli Snicci e altre storie, Firenze, Giunti Junior, 2002

Theodor Seuss Geisel è uno dei più conosciuti e amati autori per bambini della letteratura infantile americana e non solo, grazie alla sua rara capacità di usare le doti dell’ironia, della dolcezza e della profondità. Così è anche per il racconto in rima dedicato al popolo degli Snicci che, distinti in “stellati” e “comuni”, sono ben decisi a farsi guerra a vicenda. La presunta superiorità di una parte sull’altra e i tentativi di emulazione diventano, attraverso le strofe e i disegni di Seuss, occasione per riflettere in maniera divertente ed acuta su quanto sia diffusa fra gli esseri umani l’abitudine di mettere muri e recinti a protezione di una irreale e insensata superiorità. Per fortuna sempre di una favola si tratta e quindi, almeno per quanto riguarda gli Snicci, il lieto fine è assicurato e così: “e con gioia vi aggiorno che gli Snicci capirono finalmente un bel giorno, giorno in cui fu deciso che gli Snicci sono Snicci, e nessuno è migliore, non han senso i bisticci. Da quel giorno, di stelle più nessuno ha parlato E ogni Sniccio è felice che sia o meno stellato”.

Anne Maar, Pozor, storia di un cane, Firenze, Fatatrac, 2001

Un grande libro, illustrato magistralmente da Bernd Malck Tassel, che racconta di Pozor, un cane gentile e ordinato che sa lavare i piatti e rifarsi il letto ma… molto grande e con una bocca enorme. Tutti ne hanno paura e lo evitano. Racconta anche di Lukas, un bambino molto molto piccolo che sogna di diventare un domatore. L’incontro fra i due personaggi è l’incontro tra due diversità che si integrano in un progetto comune e condiviso senza mai annullarsi l’uno nell’altro, ma anzi trovando forza proprio nell’affettuoso riconoscimento della peculiarità di ciascuno.

Dino Guernieri, Anzoletto vola in cielo, Padova, Edizioni Messaggero di Padova, 2001

Accompagnati da deliziose illustrazioni, seguiamo le avventure di Anzoletto Cherubin che sta sospeso in aria sul cielo di Venezia. Siamo ai tempi delle repubbliche marinare, il Doge è furibondo: la diversità fa paura, ciò che non si riesce a tenere sotto controllo va eliminato. Un piccolo libro da leggere tutto d’un fiato da cui si ricava (ma senza che ci si annoi con lezioni pedanti!!) che le diversità non vanno rinchiuse entro caselle che le delimitano e le controllano, ma vanno accolte e accettate per quello che sono.

Marco Meschini, I rapatori di teste, Monte S. Vito (AN), Raffaello, 1999

Un’avventura divertente con tutti gli ingredienti per piacere ai bambini: un nonno, dei cattivi, un po’ di magia e un tesoro nascosto. E naturalmente due bambini come protagonisti di cui uno ha "le gambette sottili come le zampe di una cicogna ma corte corte; la testina completamente pelata e le orecchie perfettamente a sventola. Era sempre molto silenzioso ma ogni tanto schiudeva le labbra e allora tutti udivano chiaramente tao du du e perfino esè esè pappo di cui nessuno conosceva il significato…". Un bambino "diverso" ma con il quale l’amico riesce a comunicare e di cui scopre, con assoluta sicurezza, le capacità e le potenzialità che saranno necessarie per il lieto fine.

Kitty Crowther, Il mio amico Jim, Bolzano, AER, 1998

Poche brevi frasi per un libro tutto illustrato, rivolto ai più piccoli, che racconta dell’amicizia fra Jack, un corvo nero nero e Jim, un gabbiano… ovviamente bianco bianco. Guardato con ostilità dagli altri gabbiani, Jack rivelerà presto una dote nascosta che permetterà di superare le diffidenze e la paura della diversità.

Hiawyn Oram, Susan Varley, Talpa e la luna, Bolzano, AER, 1997

Si sa, le talpe non vedono niente. Ma Piccolino Talpa riesce a vedere al buio… e quando cerca di comunicare agli altri le sue scoperte arrivano i problemi. "Vede ciò che non esiste […] è meglio fargli controllare gli occhi…". Così si ritrova con una benda sugli occhi che lo impiccia e lo fa inciampare… Naturalmente Piccolino si libererà della benda e riuscirà a convincere i grandi che la sua diversità è preziosa.

Rémy Simard, Pierre Pratt, Lo stivale magico, Bolzano, AER, 1997

Un libro con illustrazioni coloratissime per raccontare ai più piccoli la storia di Pippo, un bambino con "dei piedi lunghi che non vogliono smettere di crescere". La storia è semplice ma godibilissima, naturalmente il lieto fine è assicurato e ci sono tutti gli ingredienti per appassionare i piccoli lettori, dall’amico invidioso alla fatina buona, dall’orco alla magia.

Francesco Enna, Il bambino di porcellana, Cagliari, Condaghes, 2000

Una fiaba divertente che aiuta a capire chi sono i bambini con autismo, attraverso le avventure di Daniele, bimbo di fragilissima porcellana, le cui avventure sono raccontate in modo fantastico e poetico ma con riferimenti precisi alle figure reali di bambini con questo deficit.

Concetta Rundo, La bambina che parlava con le mani, Troina (EN), Città aperta junior, 2002

È accompagnata dalle bellissime tavole di Lucia Scuderi la fiaba di Selene che dialoga con le stelle e la natura usando le mani. Un viaggio nel mondo senza suoni dei non udenti e la ricerca di una possibile integrazione col mondo molto più rumoroso, ma a volte distratto, di chi ci sente.

Associazione Italiana Dislessia, Il mago delle formiche giganti, Firenze, Libriliberi, 2002

Una storia semplice e divertente per far sapere ai bambini che cos’è la dislessia. Alla fine della storia si trovano schede operative e giochi per cercare di capire e affrontare un problema sempre più frequente fra i bambini delle scuole elementari.

Virginia Fleming, Floyd Cooper, Sii amorevole con Eddie Lee, Bologna, Giannino Stoppani Editore, 2001

Un bellissimo libro in cui le meravigliose illustrazioni si fondono con un testo semplice e poetico che ci trasporta in un pomeriggio caldo e assolato, insieme a tre bambini e alla loro scoperta della diversità di tutti gli esseri umani.

Guido van Genechten, Rikki, Trieste, Emme, 2000

Una deliziosa, piccola storia che ci fa conoscere Rikki, un coniglietto come tutti gli altri, solo che una delle sue orecchie pende in giù e così gli altri lo prendono in giro. Dopo aver tentato in tutti i modi di raddrizzare l’orecchio ribelle, Rikki arriva a capire che tutte le orecchie sono diverse e ritorna nel gruppo di amici con una proposta divertente per farlo capire anche a loro.

Leo Lionni, Un colore tutto mio, Milano, Babalibri, 2001

La magica matita di Leo Lionni crea un personaggio indimenticabile, il piccolo camaleonte alla ricerca di un colore tutto suo. L’impresa si rivelerà impossibile, tutto cambia colore intorno a lui e insieme a lui, ma la soluzione, suggerita da un altro camaleonte, sarà molto semplice: “Perché non stiamo insieme? Cambieremo colore ogni qualvolta ci sposteremo, ma tu e io saremo sempre uguali. E così rimasero insieme sempre vicini. Erano verdi tutti e due e viola e gialli. E rossi a pallini bianchi. E vissero sempre felici e contenti.” Anche i bimbi che non sanno leggere saranno in grado di cogliere il messaggio chiarissimo che scaturisce dai bellissimi disegni e che non ha bisogno di commenti.

Jeanne Willis, Tony Ross, Questa è Susanna, Milano, Mondadori, 2000

Anche senza leggere la spiegazione sul retro di copertina senz’altro superflua e un po’ troppo didascalica, lo scopo del libro è chiaro e, ci pare, assolutamente raggiunto. Deliziosi disegni accompagnati da brevissimi testi ci raccontano tutte le cose, giuste o sbagliate, che Susanna sa fare, tutti i sentimenti, buoni e cattivi, che prova e solo alla fine ce la mostreranno sorridente su una sedia a rotelle mentre la didascalia ci dice che “questa è Susanna, queste e tante altre sono le cose che sa fare proprio come me, proprio come te”.

Kathryn Cave, Chris Riddell, Qualcos’Altro, Milano, Mondadori, 2000

“Su una collina esposta al vento, da solo, senza nessuno con cui fare amicizia, viveva Qualcos’Altro”. È già chiaro da questo inizio che il protagonista è stato rifiutato, nonostante tutti i suoi tentativi, da tutti gli altri. Una sera però sarà lui a dover decidere se respingere o accogliere Qualcosa diverso da lui che bussa alla sua porta. Una storia semplice, dai disegni accattivanti, che fa riflettere sulla diversità e l’accoglienza, senza falsi moralismi e con molta semplicità.

Marina Bassani, Zefirino Collolungo, Milano, Feltrinelli kids, 2000

Un esile libricino, illustrato da Emanuele Luzzati, porta i primi lettori in un paese senza luce elettrica dove incontrano un bambino dal collo lunghissimo che, naturalmente, viene cacciato da tutti perché combina solo guai. Sarà però proprio la sua diversità che porterà la luce nel paese, insieme alla riconoscenza e all’affetto di tutti.

Geronimo Stilton, Un meraviglioso mondo per Oliver, Casale Monferrato (AL), Piemme, 2003

Una nuova storia per un topo molto amato dai bambini che, questa volta, affronta il tema della disabilità e delle barriere architettoniche attraverso una storia semplice e gradevoli soluzioni grafiche.

Augusto Roa Bastos, Il pulcino di fuoco, Milano, Junior -8 Mondadori, 1994

Dalla penna di un importante scrittore latino americano, esce un’esile fiaba sulla diversità, le paure e i pregiudizi che può suscitare. La storia del pulcino di fuoco che incendia tutto quello che tocca (a cominciare dal suo stesso pollaio…) è semplice e non racconta niente di nuovo, ma tratteggia bene alcuni tratti tipici che contraddistinguono chi, alle prese con la diversità, non sa far altro che fuggire demonizzandola, attribuendole tutti i mali del mondo, oppure cerca di mercificarla, facendone un fenomeno da baraccone.

Nicoletta Bertelli, Maria Loretta Giraldo, Gli amici di Anna, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo Edizioni, 2001

Un libretto per primi lettori con grandi illustrazioni accompagnate da poche righe di testo in stampatello che raccontano di Anna e dei suoi compagni preferiti, emarginati dagli altri perché hanno qualche difetto. Uno è troppo grasso, un’altra non riesce a scrivere, uno è troppo aggressivo e lei stessa ha i capelli rossi e le lentiggini. Diventa quasi un gioco e vuole essere un invito esplicito a cercare dietro le apparenze perché “Luca spesso balbetta […] ma quando parla la lingua degli uccelli non balbetta, sa fare il verso del passero e quello del merlo e quello del fringuello. Quando Luca cinguetta sembra di essere in un bel boschetto”.

Marie Ndiaye, La diavolessa, Milano, Junior -8 Mondadori, 2002

Una bellissima fiaba di una scrittrice per adulti che ci trasporta in un mondo magico al fianco di una donna alla disperata ricerca del figlioletto che non trova più. Lo cerca per tutto il villaggio, bussa a tutte le porte ma… “La diavolessa aveva un viso piacevole da guardare […] ma non era possibile aver pietà della diavolessa, una volta che ci si accorgeva dei suoi piedi non umani”. Bisogna abbandonare ogni logica e seguire l’incanto della fiaba senza farsi domande, immergendosi nelle coloratissime illustrazioni, per arrivare alla conclusione che non vi anticipiamo e che non ha bisogno di alcun commento.

Guido van Genechten, Perché ti voglio tanto bene, Bolzano, AER, 2003

Una tenerissima storia che ci racconta di Nevoso, un orsetto polare molto curioso, e della sua mamma. Tenerissime illustrazioni accompagnano il crescendo di domande di Nevoso fino a una molto particolare. “Ma se io fossi giallo – domandò Nevoso – penseresti ancora che sono tenero e dolce? Ma naturalmente – rispose la mamma. E se fossi rosso o verde o blu, dappertutto? Lo penseresti ancora? Certamente! – sorrise la mamma. Perché? – le chiese Nevoso. Perché ti voglio tanto bene! – disse la mamma”. Ed è questo che conta, per tutti. E questo messaggio, i più piccoli sapranno coglierlo senza bisogno di spiegazioni.

Piotr Wilkon, Jozef Wilkon, La gattina Rosy, Milano, Arka, 1989

Una piccola storia di diversità, rifiuto e accettazione la cui protagonista è una scatenata gattina dal pelo rosso, nata in una famiglia di gatti neri e molto per bene. Rosy non è come i suoi fratelli, non riesce a seguire le regole, è in perenne movimento e fa amicizia con tutti (compresi… topi e cani!). La sua famiglia viene emarginata dalla comunità finchè Rosy non decide di andarsene per il mondo, restituendo così la tranquillità e il buon nome alla famiglia. Diventerà un’affermata cantante e riporterà ai nonni, finalmente riconciliati e disposti a accettarla, quattro nipotini di cui tre rossi e uno… nero come il carbone.

Marina Schlossmacher, Iskender Gider, La gallina nera, Saint-Germain-en-Laye, Nord-Sud, 2003

C’era una volta un pollaio in cui viveva una gallina nera. Non solo era nera, deponeva anche uova di tutte le forme tanto che le altre galline, rigorosamente bianche e con uova a forma di uovo, la prendevano in giro e la accusavano di essere la vergogna del pollaio. Ma il coniglio pasquale porterà le sue uova al re… Lieto fine assicurato per una piccola storia che, senza retorica, parla ai più piccoli di accettazione e fiducia nelle proprie capacità.

Marie-Hélène Delval, Susan Varley, Un fratellino diverso dagli altri, Milano, Einaudi scuola, 2002

È stata una gradevole sorpresa trovare questo libretto rivolto ai ragazzini più giovani in cui i protagonisti sono conigli ma il tema della diversità viene affrontato in modo molto concreto e reale, non attraverso metafore come accade quasi sempre nei testi per i più piccoli. È la sorellina di Toto che ci racconta com’è la vita con un fratello con la sindrome di Down, sottolineando anche le fatiche e i momenti di rifiuto per arrivare a un’accettazione piena che sa tener conto del deficit ma sa vedere anche tutto il resto.

Louise Gorrod, Mio fratello è diverso, Milano, Fondazione Clara Fabietti per l’autismo, 1997

"Mio fratello è diverso. Vi spiego cosa voglio dire…". Comincia così questo libretto con grandi illustrazioni e poche righe di testo che, attraverso la voce della sorellina maggiore, spiega ai bambini cos’è l’autismo e come ci si può comportare con i bambini che hanno questo deficit. Chi volesse maggiori informazioni può rivolgersi alla Fondazione Fabietti, via De Amicis 19, 20123 Milano o scrivere una e-mail a fondazionefabietti@tin.it.

José Moran, Emilio Urberuaga, Paz Rodero, Dodo, Padova, Bohem Press, 2003

Una notte nel bosco piove un uovo enorme da cui esce “Dodo, un animaletto molto strano con un’espressione smarrita” che va alla ricerca della propria identità interrogando tutti quelli che incontra. Ne ottiene puntualmente risposte evasive che non fanno che sottolineare la sua diversità. Quando Dodo comincerà a essere stanco di questa ricerca infruttuosa ecco che dal cielo piovono molte altre uova e può dare il benvenuto alla sua famiglia: “Questo è un pianeta fantastico per viverci, vedrete! Bè ci sono alcuni animaletti strani, sono diversi da noi ma non fanno male a nessuno… e, dopotutto, chi non è un po’ strano?”.

Eric Battut, Ric e Ric. Storia di un orco e di un folletto, Padova, Bohem Press, 2002

Enormi, coloratissimi disegni e poche righe di testo per la storia di Ric e Ric, uno orco e l’altro folletto, nati nello stesso istante. Ma… il figlio degli orchi era nato piccolo mentre il figlio dei folletti cresceva sempre più. Attraverso le loro vicende passiamo per le difficoltà e il rifiuto della diversità, per arrivare al riconoscimento delle capacità e delle caratteristiche di ciascuno. Senza miracoli né trasformazioni. “Ric e Ric erano sempre gli stessi, né più grande né più piccolo. Qualcosa però era cambiato: avevano ora un sorriso fino alle orecchie”.