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autore: Autore: Sandra Negri

8. La memoria fa parte dell’intelligenza. Incontro con A.N.E.D. di Bologna

di Sandra Negri

Il primo insegnamento che traggo dalla chiacchierata di questa mattina è l’umiltà e la capacità di lasciare entrare l’esperienza, la storia, una vita vissuta attraverso emozioni forti, non sempre rielaborate, ma che sempre hanno dettato le azioni, le scelte, i cambiamenti delle persone.
Sono entrata in questa casa con un mio schema preciso rispetto a questo incontro. La mia bella traccia di domande, i miei obiettivi rispetto ai contenuti che per me erano prioritari.
Ma è bastato poco. Sono state sufficienti poche parole, pochi istanti per capire e sentire che dovevo lasciarmi condurre.
Non sarebbe stato attraverso la risposta alle mie domande che avrei avuto le informazioni che cercavo. Ma attraverso la forza di quel racconto, quella esperienza ancora così presente, quel bisogno di raccontare e fare circolare quella, e tante altre storie.
Ed ecco il secondo insegnamento. Il soggetto educativo di questa storia non è solo e in primo luogo il ragazzo, il gruppo classe. La forza e la passione del racconto sono uno strumento di crescita e di evoluzione per chi lo riceve e per chi lo dona.
Franco Varini è un educatore delle giovani generazioni che, attraverso la sua esperienza di prigioniero delle SS e internato in diversi campi di concentramento e di lavoro durante il secondo conflitto mondiale, trasferisce un sapere che viene da un pezzo molto drammatico della nostra storia vissuto in prima persona.
Dopo la sua liberazione e il rientro in Italia, trascorre molto tempo nel silenzio e nella difficoltà a raccontare, a condividere l’orrore di quei mesi di prigionia e torture. Fino a quando non sente il bisogno di lasciare un segno, una traccia, un qualcosa di accessibile a tutti, di condivisibile.
È così che nel giro di pochi giorni nasce il suo libro Un numero un uomo (Torino, EGA editore, 2008). Così comincia il suo peregrinare per le scuole della regione Emilia-Romagna. Incontra centinaia di ragazzi delle Scuole secondarie inferiori e superiori. Vuole lanciare un seme, dice. Ed è consapevole che quel seme avrà in ogni persona che incontra tempi e modi diversi di crescere e portare il frutto di una cultura apparentemente così lontana dalla nostra.
Il mio interesse è legato ai ragazzi, all’aspetto educativo e didattico di questa storia. Vorrei che mi raccontasse le loro facce, le loro domande, le loro reazioni. E lo fa. Mi racconta del clima che si crea quando lui comincia il racconto. Dei lavori che i ragazzi gli inviano dopo averlo incontrato. Degli abbracci. Dell’interesse che suscita nei ragazzi disposti a sballare l’orario dell’uscita di scuola pur di non far finire quel momento.
Ma capisco che per arrivare a loro devo passare da lui. Dal protagonista della storia. Di allora e di oggi. Quando gli chiedo “E tu? Tu cosa provi quando parli con i ragazzi?”, il suo viso si illumina e mi risponde con un tono molto deciso: “Gioia!”.
Allora cambia il mio focus. E cambia il punto centrale del mio ipotetico scritto. Ciò che risiede nell’educatore, che poi viene trasmesso nella relazione educativa diventa il vero il punto centrale.
La forza con cui Franco accede alle mie emozioni e alla mia curiosità è la stessa forza con cui lui vive quell’incontro. E immagino che avvenga lo stesso meccanismo quando egli si trova a scuola. Quando sia lui che i ragazzi si alimentano di quella energia che solo l’incontro delle esperienze e delle singole storie può far nascere. Tanto i ragazzi attingono da quella vita, tanto lui può attingere dal loro bisogno di avere risposte, informazioni, conoscenza. I primi importano un’esperienza che amplia il proprio bagaglio personale e integra la propria identità di uomini in crescita. Il secondo, attraverso il riconoscimento e il valore attribuitogli da quell’incontro, vive ogni volta dentro il ruolo di educatore e formatore la conferma di una identità che è passata attraverso la storia, sua e nostra.
Ancora una storia. Ancora una persona che fa del racconto della propria esperienza drammatica e miracolosa per esserne uscito, la propria carta di identità, la propria licenza a occupare un posto importante nell’oggi che egli abita.
Armando Gasiani condivide con Franco Varini l’esperienza del campo di sterminio, l’esperienza dell’oblio nel tentativo di disfarsi di quel pezzo di storia insopportabile, e il bisogno di riappropriarsene per sentirsi parte di quella stessa storia; non solo di quel preciso momento, ma quella che ha portato a quel momento, quella che è venuta dopo quel momento. E quella di oggi. Quella dove, dice Armando, diamo per scontata la libertà.
Anch’egli incontra i ragazzi delle scuole. “Noi lo sappiamo cosa significa perdere la libertà. E proprio per questo ne conosciamo il valore. Oggi voi la libertà la avete in mano. E la avete grazie a noi, a ciò che abbiamo vissuto, alle scelte che abbiamo fatto. Per conoscere e apprezzare cosa tutto ciò significa… Bisogna che mi ascoltiate, che capiate…”.
Nella nostra lunga e emozionante chiacchierata mi parla dei ragazzi. “L’età più bella è quella dai 13 ai 17 anni… Ascoltano, fanno domande, sono curiosi. Poi, è come se crescendo, non sentissero più il bisogno di sapere, di conoscere”.
E si arrabbia con gli adulti. “Loro non sanno ascoltare. Forse sanno già tutto! Ma di sicuro la mia esperienza non la conoscono…”.
I luoghi degli incontri e dei racconti non sono solo le scuole. Armando accompagna i gruppi al campo di Mauthausen, in Austria, dove egli ha trascorso quattro mesi di prigionia. Dove ha visto e vissuto situazioni che… “non potreste mai capire. Anche quando ve le racconto, difficilmente sono credibili. A volte fatico io stesso a credere a ciò che ho visto. Questa è terra sacra. Un luogo che ha visto la morte e il dolore di centinaia di migliaia di persone”. Un luogo che oggi diventa contesto privilegiato di conoscenza, di esperienza, di apprendimento. “Quando entriamo al campo non perdo un solo ragazzo per la strada. Sento che capiscono, sono interessati a stare in ascolto di quello che lì dentro è accaduto. Mi stanno vicini, chiedono. E stanno in silenzio. In pullman durante il viaggio sono vivaci. Ma dentro sono attenti e interessati”.
Mentre lo ascolto sento che l’apprezzamento per l’interesse e l’ascolto diventa una richiesta di rispetto per ciò che lui porta in sé, per ciò che racconta, che ha vissuto, che ha fatto di lui l’uomo che è oggi.
Armando dice di dovere la sua rinascita a Roberto Benigni che con il film La vita è bella lo ha svegliato dall’oblio e gli ha restituito una identità legata anche a quella parte del suo passato così duro da digerire. Gli ha ridato la vita attraverso la possibilità di parlare. E da allora, quando egli racconta si scarica, si libera. Ogni volta che fa di quella condivisione un regalo, si alleggerisce e sente, ne è certo, di dare qualcosa di importante. Perché, dice, i ragazzi ne hanno bisogno. Le loro domande lo fanno emozionare, sente che sono contenti, che anche attraverso quell’istante sono cresciuti. Lui si mette a nudo. È a loro disposizione perché essi possano trarre da lui ciò che occorre loro per fare un altro pezzo di strada. Ed è lì che gli orrori che ha vissuto e che lo hanno portato così vicino alla morte si trasformano meravigliosamente in uno strumento unico per contribuire alla evoluzione dell’umanità. Ogni volta accade questa grandiosa alchimia.
Il desiderio e il bisogno di raccontarsi hanno preso anche la forma scritta: Finché avrò voce. Armando Gasiani; una storia autobiografica (a cura di Milena Bandieri, Anzola dell’Emilia, Associazione intercomunale Terre d’Acqua, 2003); Nessuno mai ci chiese. La vita del partigiano Armando Gasiani deportato a Mauthausen (di Alessandro De Lisi, Portogruaro, Edizioni Nuovadimensione, 2008).
Parlando di sé gli sfugge “Sono un povero ragazzo…”. Armando quando entra in classe è il diciassettenne che è entrato a Mauthausen sessantaquattro anni fa, che va a incontrare i ragazzi di oggi. E dice loro “Io vi porto la mia esperienza. Ma voi dovete farvi la vostra. E non in poco tempo. Non in fretta. Una lunga esperienza di vita che vi porta a diventare uomini e donne protagonisti della vostra vita. La vostra vita individuale e la vita sociale. Una società e un futuro che richiedono la vostra presenza. Perché la vostra presenza ha un peso nella storia”.
Proprio come Armando e Franco portano la loro presenza di oggi attraverso la loro presenza di allora. Attraverso tutti i passaggi e i percorsi che la vita li ha portati a compiere.
Questo diventa un regalo che essi fanno ai ragazzi che incontrano. Ma un regalo che hanno fatto a loro stessi attraverso il riconoscimento e la rivendicazione di una storia, di una vita che, attraverso l’azione educativa di oggi, sperano e desiderano possa contribuire alla crescita collettiva di domani.
(Franco Varini e Armando Gasiani lavorano e svolgono la loro preziosa attività all’interno di A.N.E.D, l’Associazione Nazionale Ex Deportati politici nei campi nazisti. I suoi aderenti sono i sopravvissuti allo sterminio nazista e i familiari dei caduti nei Lager. È una associazione senza fini di lucro, eretta Ente morale con decreto del presidente della Repubblica italiana il 5 novembre 1968.

Per saperne di più:
www.deportati.it). 

1. La teoria del genio è un’invenzione borghese

di Sandra Negri

Che siete colti ve lo dite da voi. Avete letto tutti gli stessi libri. Non c’è nessuno che vi chieda qualcosa di diverso?
Così scrivono i ragazzi della Scuola di Barbiana nel lontano 1966 in Lettera a una professoressa (Firenze, Libreria Editrice Fiorentina), forti della esperienza straordinaria e rivoluzionaria della scuola di don Milani. In quella denuncia si coglie la rabbia di chi vuole affermare una verità per lui assoluta ma che si scontra con la rigida staticità che non si apre al nuovo, all’inedito.
È la rabbia di chi non trova comprensione per la propria grande verità. Per la propria specificità.
Ed è la verità di una esperienza forte. Passata da importanti incontri, rivoluzionarie scoperte di sé e del fuori da sé, dalla messa in gioco, dal superamento della difficoltà, dall’accoglimento del proprio e altrui limite e dalla grande soddisfazione per l’acquisizione di conoscenze, competenze, sicurezza di un metodo di studio e di lavoro che sono, per ogni membro del gruppo, assolutamente rispettosi della propria individualità.
Facendo riferimento alla citazione iniziale… i libri degli studenti di Barbiana sono molteplici e variegati. Gli strumenti per l’acquisizione del sapere sono i più diversi. I canali di apprendimento tengono in grande considerazione tutto ciò che compone e caratterizza i contesti di vita e di crescita delle persone reali che li vivono.
Questa è la contestazione alla scuola del tempo. L’assenza di una valorizzazione della molteplicità e della ricchezza di occasioni di conoscenza e formazione, per una didattica uniformata e conformata. Una mancanza di conoscenza dell’alunno, il protagonista sovrano dell’apprendimento. E di qui l’impossibilità ad applicare le necessarie attenzioni nel rispetto delle differenze.

E non capiva, poveretta, che era proprio di questo che era accusata. Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali?
Ciò che abbiamo raccolto in questa monografia è l’esperienza, l’innovazione, la creatività che vivono in molte situazioni di didattica, educazione e formazione che vogliano utilizzare “altri libri”, “che chiedano qualcosa di diverso”.
Con grande gioia abbiamo verificato l’enorme quantità di situazioni, all’interno della scuola e dei molteplici contesti formativi, in cui la presa in cura del singolo nella sua individualità e nelle sue differenze è possibile e necessaria per la crescita personale e intellettuale di tutto il gruppo.
È poi molto stimolante e divertente avvicinarsi con sguardo curioso e attento alle diverse esperienze e constatare che gli strumenti utilizzati per fare ciò non richiedono formule magiche, costi esorbitanti, organizzazioni impossibili. In realtà ci siamo imbattuti in persone, esperienze e contesti che partono da elementi, a dire il vero, elementari: la propria esperienza, le proprie capacità, le proprie passioni.
Un elemento è comune a tutte le esperienze che abbiamo conosciuto: il coraggio di ricercare e sperimentare il proprio approccio, il proprio metodo. Partendo dalle basi sicure delle proprie competenze.

6. La figura dell’educatore all’interno del Gruppo Calamaio

di Mario Fulgaro e Sandra Negri

Raccontare un gruppo educativo è sempre complicato. Lo è ancora di più quando il gruppo educativo in questione si pone l’obiettivo di ridefinire il rapporto tra utente ed educatore cercando di costruire un contesto in cui la collaborazione e la condivisione del percorso è centrale. Per questo abbiamo pensato di raccontare il Gruppo Calamaio dando voce ai due protagonisti della relazione educativa.

Dal punto di vista di Mario Fulgaro, animatore con disabilità
Uno dei segreti per vivere bene sta nel rapportarsi a se stessi in modo pacifico, così da confrontarsi con gli altri in modo altrettanto sereno. Occorre, infatti, tirare un sospiro di sollievo e sorridere sempre, sia di fronte alle innumerevoli circostanze che il mondo ci mette davanti, sia di fronte allo scambio di informazioni che si ha con chi ci sta accanto, anche se per un arco di tempo limitato. Questo accade sempre e in ogni ambito, sociale o politico o, in senso ampio oppure più “ristretto”, in campo educativo.
È indispensabile, dunque, fare riferimento a una qualche figura guida che ci aiuti a superare ogni tipo di impasse. Parafrasando l’alto pensiero contenuto nella Maieutica di Socrate, potremmo dire che “nessuno riesce ad agire da solo” e ognuno ha bisogno di qualcun altro che lo sproni a sviluppare le proprie abilità, nella giusta direzione. Ogni “tratto di strada” è compiuto, oltre che in circostanze idonee, anche e so- prattutto assieme a qualcun altro. Non siamo delle “cellule” autosufficienti in tutto e per tutto.
Quando si entra a far parte del Gruppo Calamaio, ognuno è carico del proprio bagaglio culturale ed esperienziale, utile e fondamentale per arricchire il gruppo lavorativo di nuove “nozioni relazionali”. Infatti, non c’è alcuna forzatura, tutto si lascia fluire con spontaneità e naturalezza. Poco alla volta, poi, sotto la guida degli educatori, ci si ritrova a contribuire, con il proprio “corredo di sapere”, al lavoro corale di tutti. Si entra subito in sintonia con gli educatori attraverso armi invincibili, quali l’ironia e lo spirito di gruppo.
Il ruolo principale dell’educatore, all’interno del Gruppo Calamaio, è quello di analizzare, guidare e indirizzare le potenzialità messe in campo da tutti.
La sorpresa, se non la meraviglia, che investe chi ha scoperto un proprio talento da poter sfruttare, si manifesta, di solito, in un largo sorriso di soddisfazione. Il clima di amicizia e allegria, che si viene a instaurare tra educatori e disabili, favorisce la nascita di forti legami di appartenenza. Così, lo spirito di gruppo che ne consegue, rafforza il bisogno di confrontarsi e scambiare informazioni di sé, con naturalezza e spontaneità: “Che ne dite di prendere un caffettino?”, “Sì sì, ma io prendo il caffè macchiato, tipo cappuccino!”.
Giorno per giorno si inizia a percorrere un pezzo di strada comune, ognuno in modo personale, perché le differenze, se coordinate bene tra loro, sono alla base di una crescita collettiva. Chi si smarrisce per un attimo, trova l’aiuto e la collaborazione dell’educatore che, con i suoi consigli e suggerimenti, agevola una più regolare gestione di tutte le dinamiche interne al gruppo di lavoro: “Aiuto! Chi può aiutarmi?”, “Vengo io, non ti agitare come al solito!”.
Il dialogo acquisisce un valore prioritario e, per consentire un suo svolgimento pacifico, il rapporto tra i membri del Gruppo Calamaio, educatori e disabili, è di tipo paritario. Si scambiano pareri e proposte tra colleghi di lavoro, sicché i possibili ammonimenti sono vissuti come “consigli educativi”. Inevitabilmente, differenze di ruolo possono emergere e, molto spesso, affiorano, ma solo come fattore volto a valorizzare il compito di ognuno, non come elemento discriminatorio. Il dialogo ha un potere risolutivo di grande rilevanza ed è quello che l’educatore utilizza, per dirigere le energie proprie e altrui, in vista di una soluzione condivisa. È facile, così, che si faciliti una condivisione di intenti da parte di tutti: “Quale colore va meglio sul nostro volantino, il rosso o il verde?”, “Direi il verde!”, “Allora metteremo il rosso!”, “Ok!”.
In un gruppo di lavoro così grande, è inevitabile che possano sorgere situazioni di malinteso o, addirittura, di stallo. In questi frangenti, gli educatori sanno bene che devono mettersi in discussione, per riuscire a superare ogni fase critica. Ogni volta, l’intero gruppo ne ha beneficiato in termini di compattezza, trovando, appunto, negli educatori i suoi punti di riferimento: “Io sto bene con loro. Io con io ed io con loro, senza alzate di testa!”.
Il rispetto dei tempi di ciascuno è strategia essenziale, sia per cercare di studiare il modo più idoneo per intervenire, sia per dare tempo all’altro di entrare in sintonia con il contesto creatosi attorno. La crescita di un gruppo sta nella sua dinamicità interna: “Se non ti senti in forma stamattina, puoi rilassarti un po’ sulla poltrona”, “Magari!”.
Condividendo anche aspetti del vivere quotidiano, quali pranzi, merende, feste, convegni…, sorgono, anche in queste occasioni, legami affettivi di amicizia e di condivisione di intenti e piaceri. Il veicolo, che è alla base di tutta questa evoluzione relazionale, è dato dal tipo di approccio ironico e autoironico. La leggerezza con cui si vivono tali eventi, non va a inficiare la distinzione di ruolo, del tutto naturale, che sussiste tra educatore e persona con disabilità. Infatti, durante le occasioni di svago, non mancano episodi educativi.
Può cambiare il contesto in cui si agisce, ma non lo spirito con il quale si affrontano le diverse situazioni. È proprio questa la chiave di successo dell’educatore: riuscire a creare le condizioni per colorare, macchiare, in modo allegro e contagioso, la realtà in cui si opera.

Dal punto di vista di Sandra Negri, coordinatrice educativa
Educare: dal latino educĕre «trarre fuori, allevare».
Essere educatori al Progetto Calamaio significa ciò che “essere educatori” significa in ogni contesto educativo. Ma mi spingo oltre: significa ciò che “essere in relazione” significa in ogni contesto di vita.
Ho cominciato la mia esperienza di educatrice all’interno del Centro Documentazione Handicap quando ero giovane e poco esperta di questa professione, ma soprattutto non avevo esperienza alcuna nelle relazioni con la disabilità. Mi sono ritrovata davanti a persone adulte, con deficit motori importanti e una grande consapevolezza di sé, di chi erano, di chi volevano essere, di ciò che sapevano, volevano e potevano fare in ambito lavorativo… e anche di ciò che non potevano, volevano e sapevano. Ecco, il primo impatto è stato da subito di una situazione ribaltata rispetto al mio immaginario. Io non sapevo nulla e i miei cosiddetti “utenti” sapevano tanto. La risposta più semplice era affidarmi, lasciarmi condurre, lasciarmi “allevare” in questa nuova veste che non sapevo ancora indossare.
È stata una bellissima iniziazione. E da allora – che il nostro gruppo di strada ne ha percorsa tanta – questo è ancora il punto centrale del nostro lavoro educativo. Gli educatori cercano sempre di affidarsi al sapere che la persona con disabilità porta in sé e all’occasione di crescita e di nuova conoscenza che rappresenta.
Attorno al riconoscimento dell’altro come parte attiva e indispensabile della relazione educativa, che è il punto centrale del nostro stile di lavoro, si snodano tanti altri aspetti, tutti fondanti e insostituibili del nostro accompagnare e accompagnarci reciprocamente nel percorso di miglioramento di noi stessi e del contesto in cui viviamo.

Relazione – conoscenza di sé e dell’altro – messa in gioco
Parlare di relazione non significa osservare semplicemente un elemento dell’educazione, ma affrontare l’essenza dell’educazione stessa come esperienza umana che accade tra le persone. Partendo da sé e dalla consapevolezza di chi siamo e di cosa mettiamo in gioco, attraverso la relazione avviene poi la conoscenza reciproca; quella vicinanza sensoriale e percettiva che fornisce informazioni e stimoli affinché l’altro possa rappresentare una risorsa e un’occasione di scambio, fino a diventare condivisione empatica sul piano personale e lavorativo. Si tratta di un lavoro lungo e complesso, di un percorso che richiede disponibilità a lasciarsi coinvolgere e cambiare. E quando diviene consuetudine e abilità stabile, il gruppo si fa luogo di crescita profonda per ognuno.

Creatività – apertura al nuovo – sperimentazione – improvvisazione
La disabilità ci obbliga a fare i conti con l’inatteso, l’ignoto. Ci costringe a reinventare la relazione e la collaborazione a ogni passo del nostro percorso e a ogni nuova strada che intraprendiamo. Impossibile prevedere, progettare, fare piani che verranno, con ampia probabilità, modificati. L’handicap, che è ostacolo, difficoltà, ci mette sempre davanti a un bivio: lasciarci frenare o inventare una nuova soluzione. Questo allenamento all’improvvisazione è materiale prezioso nel quotidiano per creare realtà, legami, progetti e idee nuove. La capacità appresa e allenata alla creatività è risorsa preziosa nel superamento delle criticità, nella ricerca delle risposte alle incognite che il lavoro educativo presenta e nell’incontro con l’altro, mai uguale a se stesso, sempre da conoscere e riconoscere.

Relazione alla pari – relazione di cura e di aiuto
Se la relazione è scambio, lo è anche quando si tratta di ruoli e competenze. La figura dell’educatore e quella dell’utente non sono mai definite in modo netto e chiaro. Questo è ancora più presente all’interno di una relazione che, per sua natura, è collaborazione e compartecipazione a un progetto e un’attività produttiva–la realizzazione di incontri rivolti alle scuole sui temi dell’inclusione di tutti dove l’animatore con disabilità ricopre il ruolo centrale. Nello stesso contesto e nello stesso momento, educatore e animatore con disabilità rivestono funzioni molteplici e sovrapposte dentro una relazione che è sia di condivisione che di cura. Si sperimenta contemporaneamente l’integrazione delle rispettive competenze nella conduzione dell’incontro e la rappresentazione della dinamica di aiuto laddove il deficit del collega con disabilità impedisca l’autonomia sul piano motorio o relazionale. Si realizza la piena espressione di ciò che è l’incontro e il rapporto umano fra gli individui, che sono necessariamente differenti, in cui sempre compaiono elementi quali lo scambio, l’aiuto, il sostegno, la mediazione e il piacere della comune adesione all’esperienza.

Piacere – benessere – divertimento – ironia
Ogni relazione si costruisce a partire da ciò che siamo, ciò che sentiamo. Quanto più investiamo nelle nostre relazioni, tanto più queste ci gratificano, ci danno soddisfazione e ci procurano piacere. Questo genera necessariamente un ciclo virtuoso per il quale, dalla soddisfazione e dal benessere si attiva il desiderio di entrare in una maggiore profondità relazionale che ci procurerà ancora il piacere e il gusto per quell’incontro. Il benessere inteso proprio come benessere e benestare è un tratto distintivo dei rapporti tra le persone all’interno del Progetto Calamaio. È un benessere dato dall’intensità, dalla passione, come anche dalla leggerezza e dall’allegria che ognuno porta nel gruppo. Un’alchimia fortunata che fonda da sempre le sue radici su un aspetto che, parlando di disabilità, è molto interessante: l’ironia. Ancora una volta è il rapporto alla pari che ci aiuta, che autorizza l’educatore, il “normodotato”, a toccare l’intimità dell’altro, e quindi anche la sua disabilità, con il rispetto, ma anche con la leggerezza che diventa gioco e complicità.

Uno spazio dove prendersi cura delle proprie fatiche: il gruppo educatori
Conoscenza, creatività, relazione alla pari e benessere sono alcuni degli elementi essenziali in ogni relazione, affinché sia tale. Riempiono di calore e colore un percorso di accompagnamento e di cura che porta in sé anche un grande carico di fatica perché ci fa continuamente toccare con mano le fragilità, nostre e degli altri. Per mantenere alta la qualità del lavoro e del benessere di tutti, noi educatori sentiamo il bisogno di uno spazio fisico e temporale dove prenderci cura delle nostre fatiche fisiche ed emotive. Lo abbiamo trovato nel modo in cui viviamo il gruppo educatori: un luogo indefinito, senza una connotazione precisa, dove ci stanno i rapporti personali, gli affetti di tanti anni condivisi, la complessità di tutte le nostre variegate personalità e i diversi approcci lavorativi. È uno spazio che abitiamo in ogni attimo della giornata lavorativa, ma che, in alcune occasioni, ha bisogno di mettere un confine tra sé e il resto. Sono le settimanali riunioni educatori, dove il confronto fra noi non ha interruzioni e risulta più “produttivo” e, da alcuni anni, alcune giornate nel periodo estivo dove, in una sede distaccata, accompagnati da ogni comfort, rileggiamo il lavoro svolto nell’anno lavorativo appena concluso e programmiamo quello che da lì a qualche mese ricomincerà. È una vera coccola. Un’occasione in cui ci guardiamo in faccia, esprimiamo e condividiamo come stiamo, cosa sentiamo per noi e per le persone con disabilità e sappiamo di trovare ascolto e comprensione incondizionati.

3. Libero da cosa?

di Sandra Negri

“A vivere nell’incertezza, senza sicurezze, senza programmi mete, lasciandomi trasportare come un uccello sospinto dalla brezza, ecco cosa ho imparato nei miei pellegrinaggi. Ti stupisce che a sessantadue anni possa partire di nuovo all’improvviso per vagare senza itinerario né bagaglio, come un ragazzo in autostop, che me ne vada per un tempo imprecisato e non ti chiami ti scriva e che al ritorno non ti possa dire dove sono stato. Non c’è nessun segreto, Alma. Cammino, tutto qui. Per sopravvivere ho bisogno di pochissimo, quasi nulla. Ah, la libertà!”.
(Isabel Allende, L’amante giapponese)

Tempo libero: libero da cosa? Arriveremo forse a una risposta solo dopo avere raccolto e messo al centro i pensieri e le idee dei protagonisti di questa nostra riflessione: le persone con disabilità che usufruiscono dei servizi di tempo libero o che vorrebbero usufruirne ma per varie ragioni non possono, o che scelgono di uscire da alcuni servizi perché non si identificano nelle loro proposte…
“Il tempo libero è quando puoi fare delle cose in autonomia, quando non hai delle regole, delle cose che altri ti obbligano a fare”. Francesca
“Per me il tempo libero non c’è senza aiuto; o meglio, c’è un pochino”. Diego “Uscire fuori con gli amici. Ultimamente sono andato a cena con i miei compagni di classe che non vedevo da 30 anni. Siamo andati in un ristorante in collina. Uno di loro è venuto a prendermi in macchina a casa e abbiamo passato una bella serata in compagnia. Mi sono divertito un casino! E lo rifarei! Mi brillano gli occhi se ci penso!”. Ermanno
“Mi piace fare teatro, ma non lo considero tempo libero perché è impegnativo”. Diego

Subito, dalle prime risposte che abbiamo ricevuto, abbiamo sentito il bisogno di cambiare il punto di vista. Stavamo parlando sì di tempo libero, ma non secondo la logica della maggior parte delle persone, non secondo modalità e meccanismi della balotta del sabato sera. Era chiaro che stavamo parlando di qualcosa di molto più complesso, molto più articolato e, soprattutto, molto meno facile di come lo possiamo percepire nella nostra consuetudine. Ma quindi si tratta di un’altra cosa? Dobbiamo dargli un altro nome? Dipende… forse, a volte, sì.

Per me Tempo Libero è…
Tempo per me.
Uscire.
Spazio per coccolarsi.
Divertimento.
Tempo in cui non ho niente da fare e posso gironzolare. Fare le cose che mi piacciono.
Fare ciò che ho voglia di fare al di fuori del lavoro.
Quando sto in casa da sola perché non ho i miei genitori e posso fare quello che mi pare.
Difficile.
Ecco… se fino alla penultima risposta si poteva pensare a qualcosa di comune a tutti noi, l’ultima ci porta su un altro livello, ci mette di fronte a un aspetto che non prendiamo spontaneamente in considerazione, che conosciamo e, allo stesso tempo, ci spiazza. Proseguiamo con l’intervista.

In che cosa il tempo libero è difficile?
Organizzazione: orari dei volontari, distanza km dell’evento, quante persone, orari di rientro.
Tempo necessario per progettare. Trovare volontari.
Trasporti.
Costi.
La famiglia: potrebbe ostacolare.

Pare abbastanza chiaro che le persone con disabilità hanno una lunga serie di ostacoli da superare prima di raggiungere il risultato “tempo libero”. Mi ricordano un po’ le Dodici Fatiche che Ercole dovette affrontare per espiare il fatto di essersi reso colpevole della morte della sua famiglia. E quali colpe dovrà mai espiare il nostro “eroe” per essere obbligato ad affrontare tutte queste prove?

Tempo libero: da chi, da che cosa?
Dal lavoro.
Dalla famiglia.
Dalla quotidianità.
Dai vincoli, programmi, impegni, orari. Da ciò che decidono gli educatori per me.
Da quando è cambiata la coordinatrice del gruppo appartamento, decido io.

Ancora una volta le prime risposte ci illudono di trovarci in un terreno comune, fino a quando non arriva l’ultima che parla di decisioni prese da altri. E troviamo una grande contraddizione: tempo libero nel quale non sono libero di decidere come spenderlo. Mmmm… l’analisi si fa complicata.

Chi decide il vostro tempo libero?
Gli altri. A volte sono obbligata. Provo fastidio e non mi diverto.
La mia famiglia. Senza la loro approvazione io non posso organizzarmi in autonomia.
I servizi socio educativi, che mi hanno proposto un gruppo con un programma già definito.
Gli educatori del mio centro. Non è possibile pensare a proposte diversificate per tutti. Siamo in troppi.
Lo decido io. Questo mi fa sentire più libera, più tranquilla, più contenta, più soddisfatta, più grinta, più adulta, più responsabile.

Questa volta l’ultima risposta ci stupisce in modo positivo. Ci riporta a una dimensione conosciuta: quando siamo in grado di prendere decisioni che ci riguardano, di qualunque genere siano, stiamo bene, ci sentiamo a nostro agio, padroni della nostra vita e delle nostre scelte. Siamo motivati a metterci in gioco, a rischiare situazioni nuove. Ha un senso crescere.

Se tu fossi un/una referente del servizio socio educativo cosa faresti?
Organizzerei dei gruppi misti.
Darei alle persone la possibilità di decidere se fare o no le attività proposte. Proporrei sia attività fisse che sporadiche: alcune potrebbero essere fisse, altre si potrebbero decidere di volta in volta.
Ascolterei i desideri delle persone con disabilità e farei in modo che possano fare ciò che desiderano.
Organizzerei dei fine settimana di vacanza.
Verificherei se le strutture sono attrezzate e accessibili. Farei fare esperienze a contatto con animali e con la natura.

Che ruolo hanno le persone con disabilità nell’organizzazione di servizi e progetti per il tempo libero? Quanto vengono coinvolte nella progettazione? Secondo la nostra esperienza, questo accade di rado, nonostante abbiano le idee molto chiare su ciò che desiderano, ciò che a ognuno di loro piace o non piace. Se io entro in un’agenzia di viaggio, la prima cosa che mi viene chiesta è quando e dove voglio andare. Se questo avvenisse anche all’interno dei servizi per il tempo libero nascerebbero idee nuove, originali e adeguate alle persone a cui questi servizi sono rivolti.

Questo avrebbe un senso, sia per le persone interpellate rispetto alle loro scelte, ma probabilmente anche per chi, a quelle scelte, dovrebbe dare risposte. Questo richiederebbe certamente un cambio di prospettiva, uscire da schemi consolidati e entrare in un’organizzazione flessibile e creativa. Una fatica iniziale che verrebbe ripagata da un sistema maggiormente gratificante, a misura delle persone che vi lavorano e che usufruiscono di quel lavoro, che potrebbero diventare parte attiva di quel sistema, esserne uno degli ingranaggi.

Quando hai del tempo libero cosa fai?
Vado a cavallo.
Faccio fisioterapia.
Vado al ristorante con il volontario. Vado nel cortile del centro che mi ospita. Chiacchiero con amici.
Vado a vedere concerti con il gruppo del tempo libero. Gioco con il papà.
Sto da sola.
Organizzo il lavoro.
Coloro.
Faccio shopping con mamma. Faccio foto.
Esco con gli amici.
Guardo la tv.
Ascolto la musica.
Faccio passeggiate.
Cucino.
Attività organizzate dal gruppo. Faccio le parole crociate.
Guardo video e foto di quando ero piccola.

A questo punto della chiacchierata emerge un altro aspetto molto importante e che rappresenta un nodo complesso: le relazioni. Le risposte a questa domanda mettono in evidenza come il tempo libero, il riposo, il divertimento, siano spesso associati o alla solitudine oppure alla condivisione “forzata” del tempo e delle attività in contesti quali la famiglia e realtà strutturate come il gruppo educativo, quello del tempo libero o dei volontari. Il vuoto delle amicizie spontanee, scelte e gestite fuori da organizzazioni di altri, affonda le sue radici nel lungo e difficile percorso verso la vera inclusione delle persone con disabilità. Con tale termine intendiamo una reale autonomia per muoversi e spostarsi, per frequentare contesti non necessariamente afferenti alla disabilità; una efficace rete di servizi accessibili a tutti; un processo culturale al cui interno la collettività, le famiglie, il mondo del lavoro, le persone con disabilità stesse sentano sempre di più familiarità e confidenza con l’amalgama delle tante differenze che vivono le nostre città e i nostri contesti di vita.

L’inclusione può avvenire anche tramite il tempo libero?
Sì, ti permette di non stare tra le quattro mura e scappare dalla quotidianità e dalla monotonia.
No, se si tratta di un’uscita con disabili, sempre vincolata ai contesti della disabilità, dove si segue il gruppo in modo obbligato e senza possibilità di scelta.
Sì, se ci sono anche i volontari, altre persone con cui posso parlare d’altro e con cui posso confrontarmi ed esprimere i miei gusti e le mie preferenze.
Sì, perché i luoghi per tutti, come i teatri, facilitano l’incontro fra le persone.

Una questione di libertà
“Per me tempo libero è quando puoi fare delle cose in autonomia, quando non hai delle regole, delle cose che sei obbligato a fare. Non lo considero libero quando sono gli altri a dire quello che devo fare. Quando sono io a organizzare delle cose che mi fanno stare bene, tipo: una cena con gli amici. Possono essere delle cose che mi vengono spontaneamente, tipo: disegnare. Fare delle passeggiate per me è tempo libero, fermarmi a guardare un tramonto, andare al cinema e scegliere io quello che voglio vedere. Una cosa che mi piacerebbe, ma che purtroppo non riesco tanto perché nessuno mi accompagna è andare a teatro. In estate mi diletto a scrivere testi di film e poi in famiglia li rappresentiamo, scegliendo anche le colonne sonore. Quando vado nella casa di campagna mi piace nuotare in piscina e mi rilasso, è un modo di alleggerire le mie tensioni. Mi piace fotografare, mi organizzo con qualcuno della mia famiglia, scelgo i posti. Questo capita spesso in viaggio, uso una macchina fotografica piccolina che mi lego al braccio. Passo del tempo libero con il mio fidanzato, guardando film al computer, giochiamo a carte, andiamo a cena fuori, andiamo in biblioteca, a fare shopping”. Francesca
“Tempo libero è fare delle cose piacevoli, tipo andare al mare sia con i miei genitori che con un gruppo organizzato. Andare a visitare i musei. Esco spesso con mio pa- dre e andiamo nei pub, in discoteca, a prendere un gelato. Sono cose che propongo io e lui mi aiuta ad attuarle. Viaggiare per me è tempo libero”. Diego
“Felicità, passare del tempo con la mamma, andiamo a mangiare un gelato, a fare shopping”. Federica
“Un tempo per distrarsi. Uscire fuori con gli amici. Per me la vacanza è un tempo libero. Quando vado in soggiorno mi diverto e sto bene in compagnia degli educatori. Il venerdì pomeriggio con l’educatore vado in Montagnola, in sala borsa, al cinema, ai Giardini Margherita, a mangiare un gelato, a fare la spesa. Passo del tempo libero anche con mio fratello Davide che è l’unico disponibile della famiglia. Andiamo in campeggio, a mangiare una pizza o la piadina ci divertiamo”. Ermanno
“Intendo Tempo Libero quando esco con il mio gruppo appartamento perché spesso posso scegliere cosa fare. Quando gli educatori sono pochi e non si riesce a uscire è tempo stracciaballe. Io non sono dell’idea che le persone disabili non abbiano tempo libero. Sono dell’idea che bisogna anche crearselo. Per esempio, tempo libero è anche uscire senza la mamma, con chi considero amico”. Tiziana
Molte delle persone con cui abbiamo parlato sottolineano l’aspetto della libertà legata alla possibilità di scelta. Il tempo è libero se e quando posso scegliere cosa, dove, come, quando e con chi. La libertà è uno dei beni fondamentali di ogni uomo. Ma la possibilità di esprimersi, di determinare autonomamente le proprie scelte, di agire senza costrizioni non è poi così scontata. Anche scelte meno impegnative, come quelle legate al tempo libero, non sono per molti soggetti sinonimo di gioia, allegria, ma di costrizioni, impedimento, impossibilità.
Il pedagogista americano Wehmeyer definisce l’autodeterminazione come “l’agire come agente causale primario nella propria vita e compiere delle scelte e prendere decisioni riguardanti la propria qualità di vita, libere da indebite influenze esterne o da interferenze”. Fra le quattro caratteristiche essenziali del comportamento autodeterminato, egli individua l’autonomia comportamentale, che riguarda l’individuazione, il prendersi cura di sé, l’agire in accordo con le proprie preferenze, con i propri interessi, con le proprie abilità, l’agire in maniera autonoma, liberi da indebite influenze nelle diverse attività che si effettuano e nei diversi contesti di vita (casa, tempo libero, lavoro, attività sociali).
Le attività che svolgiamo nel nostro tempo libero ci coinvolgono in maniera globale, influendo sulla nostra vita non solo ricreativa ma pure sociale, culturale, intima.
Avere la libertà di… significa vivere in maniera gratificante, contribuendo alla piena realizzazione personale. Gli incontri, le amicizie, il prendersi cura, sono spesso le maglie più gratificanti della rete di relazioni che ci costruiamo. Non agevolare o reprimere tali possibilità, crea invece occasione di esclusione, emarginazione e solitudine.
Il tempo libero è ancora troppo spesso un problema e questo è un segnale tangibile del fatto che il percorso verso l’inclusione sociale della persona con disabilità è ancora lungo e ricco di ostacoli da affrontare e superare. Il salto di qualità che le persone con disabilità desiderano è quello di un tempo libero dove davvero siano liberi di…, fuori dalla famiglia e con un’ampia gamma di possibilità. Chiedono di poter frequentare le persone con cui stanno bene, negli ambienti “di tutti”, durante le normali attività che chiunque svolge per divertirsi e rilassarsi. In queste condizioni riescono a rapportarsi con gli altri al pari, sentendosi non più “diversi”, ma persone che, nello scambio, danno e ricevono. Pur essendoci grosse difficoltà strutturali (ad esempio le barriere architettoniche) e ancora parecchie problematiche culturali, la persona con disabilità può avere oggi maggiori opportunità e maggiore capacità di “far sentire la propria voce”, anche nelle scelte legate al tempo libero. Accanto alle esperienze “ghettizzanti” rivolte solo a persone specifiche, in alcune realtà territoriali, si iniziano finalmente a promuovere esperienze di tempo libero integrato. Un tempo libero, non solo possibile ma soprattutto preferibile, non creato ad hoc per il soggetto disabile, ma dove egli abbia la possibilità di essere libero di scegliere e partecipare a qualsiasi attività, insieme ai propri amici, disabili e non.
Essere liberi di divertirsi, socializzare, interagire, amare, non far nulla, sbagliare, sognare… è vivere.

15. Un contagio socialmente trasmissibile

di Sandra Negri, coordinatrice Progetto Calamaio

I compleanni sono spesso momenti di riflessioni e bilanci. In occasione del nostro trentesimo compleanno, una mattina abbiamo fermato le attività e ci siamo guardati con l’occhio degli altri, quelli che ci incontrano a scuola, ai convegni, o che fanno con noi un pezzo di strada attraverso esperienze condivise. Oppure con il nostro occhio di 10, 20 o 30 anni fa. E abbiamo riguardato il nostro gruppo e il suo percorso. Ci siamo chiesti a che punto siamo e quale sia oggi la caratteristica più avvincente del Progetto Calamaio. Questo un estratto del nostro lungo incontro.
A livello di contenuti, l’aspetto per noi più avvincente è rappresentato dalla sfida di fare diventare interessante una realtà – la disabilità – che di per sé non è interessante.
Sul piano della nostra professionalità ci sembrano interessanti e significative caratteristiche quali:

  •  il contatto diretto tra animatori disabili con bambini e insegnanti;
  • ognuno si può sperimentare con le proprie capacità, e le proprie abilità con i propri tempi;
  • sentirsi protagonisti del proprio lavoro, potendosi reinventare e continuare a esprimere la propria professionalità, anche nei cambiamenti personali;
  • rendere felici i bambini con il nostro lavoro e vedere felici noi stessi;
  • le cose che facciamo ci danno tante soddisfazioni – anche se gli obiettivi che ci poniamo non sono obiettivi semplici – che fanno bene alle persone e a noi.

Le relazioni tra noi, sia sul piano umano che professionale portano in sé aspetti importanti:

  • rapporto alla pari tra disabili e normodotati e ruolo attivo dell’animatore con disabilità;
  • ironia e autoironia data dalla consapevolezza e che permette di relazionarsi con l’altro in modo leggero, senza perdere di vista la realtà;
  • conoscenza e consapevolezza di sé, dei propri limiti e delle proprie risorse;
  • gruppo unito tra disabili e non, nella leggerezza.

Fra tutti, ci sono alcuni termini a me molto cari: capacità, cambiamenti personali, consapevolezza…
Ogni percorso è fatto di passaggi e cambiamenti. Anche il nostro è stato ricco di momenti e occasioni che hanno portato sempre qualcosa di nuovo: persone, competenze, idee, opportunità. Fin dai primi passi il gruppo è stato il terreno fertile per riflessioni, approfondimenti dei contenuti a partire dalle esperienze di relazione fra noi. Era ed è importante vivere sulla nostra pelle l’esperienza delle relazioni che porta alla consapevolezza. Questo ci permette di non impostare i nostri incontri di animazione e formazione solo su basi teoriche ma soprattutto su una base di solida e ricca esperienza che prima di tutto ha modificato in noi atteggiamenti e vissuti.
Il Progetto Calamaio è stato avviato da un piccolo gruppo di giovani uomini e donne con disabilità che nel proprio percorso di vita avevano avuto numerose occasioni di lavorare sui propri strumenti personali e sulle proprie autonomie. Per loro la consapevolezza di ciò che volevano e potevano chiedere e dare era una delle tappe della strada che stavano e stanno tuttora percorrendo. Nel tempo però ci siamo resi conto che queste tappe non sono presenti nel percorso di tutte le persone con disabilità. Questo può accadere per fattori personali, sociali, familiari, tipologia di deficit. Ci siamo dovuti chiedere se lavorare all’interno del Progetto Calamaio fosse possibile solo per qualcuno. Domanda che si tradurrebbe in un interrogativo ancora più difficile: l’inclusione, la valorizzazione delle proprie abilità – quali e quante esse siano – la possibilità di giocare un ruolo attivo nella propria vita e nella vita collettiva è solo per qualcuno o può concretamente essere per tutti?
Cosa succede se arriva nel nostro gruppo una persona con disabilità che ha una scarsa o assente consapevolezza di sé, dei propri limiti e delle proprie risorse? Se non si conosce, se non è abituata a parlare di sé… Cosa succede se i bambini o gli adolescenti le fanno domande scomode e delicate sulla sua disabilità che rischiano di metterla in crisi?
 La prima volta in cui Lorella venne in una scuola elementare come osservatrice la rassicurammo dicendole che nei primi incontri non avrebbe avuto un ruolo attivo, ma che era possibile che i bambini la coinvolgessero con le loro domande e curiosità, che all’interno dei nostri incontri vengono appositamente sollecitate perché la disabilità non sia un tabù e se ne possa parlare apertamente. Lei rispose che non aveva nessuna intenzione di rispondere ad alcuna domanda dei bambini perché fin da quando era piccolina ricordava di essere stata guardata dagli altri in modo strano e curioso e non ha mai vissuto bene l’essere oggetto di attenzione per via della sua diversità. Come partenza non fu delle migliori. Ma per capire se ci fossero margini di lavoro con lei, dovevamo farle toccare con mano il ruolo educativo che l’animatore con disabilità del Progetto ha in classe. Le abbiamo così assicurato che non avremmo lasciato che i bambini la coinvolgessero. E così è stato. Lei si è sentita al sicuro e, osservando la collega Stefania mentre si relazionava con i bambini attraverso le attività, si è letteralmente tuffata nell’incontro e ha sentito di potersi esporre da protagonista in un contesto che le riconosceva un ruolo attivo importante, per lei e per i ragazzi.
Il Progetto Calamaio deve essere per tutti. Ma allo stesso tempo, quando siamo a scuola e incontriamo i bambini, i ragazzi, gli insegnanti e i genitori dobbiamo garantire professionalità, qualità del lavoro e un contesto emotivo sicuro sia per i colleghi con disabilità che per i partecipanti.
C’è stato un momento in cui abbiamo cominciato a lavorare in modo specifico sul percorso che ognuno di noi deve fare per acquisire le competenze necessarie allo svolgimento di questo lavoro. Abbiamo cominciato a puntare molto su una formazione professionale che passasse da una formazione personale che ci portava tutti a familiarizzare con i contenuti del progetto ma anche con i vissuti legati al rapporto con la disabilità nostra e degli altri, con i tabù e i non detti legati ai deficit e agli handicap, compagni di strada e di lavoro di ognuno di noi.
Ci siamo piano piano accorti che il progetto Calamaio aveva in sé un’ulteriore grande risorsa. Il lavoro finale nelle scuole comportava un lavoro personale di consapevolezza e di accettazione di chi la disabilità la vive in prima persona, sulla propria pelle: le persone con disabilità, le famiglie, le strutture che essi frequentano, i servizi socio sanitari del territorio…
Ha preso forma così un percorso educativo specifico mirato alla consapevolezza di sé, di chi siamo, cosa vogliamo, cosa ci piace e cosa non ci piace. Cosa sappiamo, cosa vogliamo, cosa possiamo e cosa no.
Da diversi anni abbiamo così strutturato il nostro tempo del lavoro su attività diverse. A fianco dei momenti di progettazione, programmazione degli incontri, contatti e collaborazioni con le scuole e con le realtà del territorio, hanno preso posto momenti laboratoriali in cui lavoriamo su di noi; ci raccontiamo a noi stessi e al gruppo, per vivere e aggiornare l’esperienza che poi proponiamo a scuola.
Succede così che, come qualcuno ama dire, il Calamaio macchia di persona in persona. Un lavoro svolto dentro le quattro mura del Cdh diventa socialmente trasmissibile attraverso le relazioni familiari, amicali, lavorative.