8. La memoria fa parte dell’intelligenza. Incontro con A.N.E.D. di Bologna
di Sandra Negri
Il primo insegnamento che traggo dalla chiacchierata di questa mattina è l’umiltà e la capacità di lasciare entrare l’esperienza, la storia, una vita vissuta attraverso emozioni forti, non sempre rielaborate, ma che sempre hanno dettato le azioni, le scelte, i cambiamenti delle persone.
Sono entrata in questa casa con un mio schema preciso rispetto a questo incontro. La mia bella traccia di domande, i miei obiettivi rispetto ai contenuti che per me erano prioritari.
Ma è bastato poco. Sono state sufficienti poche parole, pochi istanti per capire e sentire che dovevo lasciarmi condurre.
Non sarebbe stato attraverso la risposta alle mie domande che avrei avuto le informazioni che cercavo. Ma attraverso la forza di quel racconto, quella esperienza ancora così presente, quel bisogno di raccontare e fare circolare quella, e tante altre storie.
Ed ecco il secondo insegnamento. Il soggetto educativo di questa storia non è solo e in primo luogo il ragazzo, il gruppo classe. La forza e la passione del racconto sono uno strumento di crescita e di evoluzione per chi lo riceve e per chi lo dona.
Franco Varini è un educatore delle giovani generazioni che, attraverso la sua esperienza di prigioniero delle SS e internato in diversi campi di concentramento e di lavoro durante il secondo conflitto mondiale, trasferisce un sapere che viene da un pezzo molto drammatico della nostra storia vissuto in prima persona.
Dopo la sua liberazione e il rientro in Italia, trascorre molto tempo nel silenzio e nella difficoltà a raccontare, a condividere l’orrore di quei mesi di prigionia e torture. Fino a quando non sente il bisogno di lasciare un segno, una traccia, un qualcosa di accessibile a tutti, di condivisibile.
È così che nel giro di pochi giorni nasce il suo libro Un numero un uomo (Torino, EGA editore, 2008). Così comincia il suo peregrinare per le scuole della regione Emilia-Romagna. Incontra centinaia di ragazzi delle Scuole secondarie inferiori e superiori. Vuole lanciare un seme, dice. Ed è consapevole che quel seme avrà in ogni persona che incontra tempi e modi diversi di crescere e portare il frutto di una cultura apparentemente così lontana dalla nostra.
Il mio interesse è legato ai ragazzi, all’aspetto educativo e didattico di questa storia. Vorrei che mi raccontasse le loro facce, le loro domande, le loro reazioni. E lo fa. Mi racconta del clima che si crea quando lui comincia il racconto. Dei lavori che i ragazzi gli inviano dopo averlo incontrato. Degli abbracci. Dell’interesse che suscita nei ragazzi disposti a sballare l’orario dell’uscita di scuola pur di non far finire quel momento.
Ma capisco che per arrivare a loro devo passare da lui. Dal protagonista della storia. Di allora e di oggi. Quando gli chiedo “E tu? Tu cosa provi quando parli con i ragazzi?”, il suo viso si illumina e mi risponde con un tono molto deciso: “Gioia!”.
Allora cambia il mio focus. E cambia il punto centrale del mio ipotetico scritto. Ciò che risiede nell’educatore, che poi viene trasmesso nella relazione educativa diventa il vero il punto centrale.
La forza con cui Franco accede alle mie emozioni e alla mia curiosità è la stessa forza con cui lui vive quell’incontro. E immagino che avvenga lo stesso meccanismo quando egli si trova a scuola. Quando sia lui che i ragazzi si alimentano di quella energia che solo l’incontro delle esperienze e delle singole storie può far nascere. Tanto i ragazzi attingono da quella vita, tanto lui può attingere dal loro bisogno di avere risposte, informazioni, conoscenza. I primi importano un’esperienza che amplia il proprio bagaglio personale e integra la propria identità di uomini in crescita. Il secondo, attraverso il riconoscimento e il valore attribuitogli da quell’incontro, vive ogni volta dentro il ruolo di educatore e formatore la conferma di una identità che è passata attraverso la storia, sua e nostra.
Ancora una storia. Ancora una persona che fa del racconto della propria esperienza drammatica e miracolosa per esserne uscito, la propria carta di identità, la propria licenza a occupare un posto importante nell’oggi che egli abita.
Armando Gasiani condivide con Franco Varini l’esperienza del campo di sterminio, l’esperienza dell’oblio nel tentativo di disfarsi di quel pezzo di storia insopportabile, e il bisogno di riappropriarsene per sentirsi parte di quella stessa storia; non solo di quel preciso momento, ma quella che ha portato a quel momento, quella che è venuta dopo quel momento. E quella di oggi. Quella dove, dice Armando, diamo per scontata la libertà.
Anch’egli incontra i ragazzi delle scuole. “Noi lo sappiamo cosa significa perdere la libertà. E proprio per questo ne conosciamo il valore. Oggi voi la libertà la avete in mano. E la avete grazie a noi, a ciò che abbiamo vissuto, alle scelte che abbiamo fatto. Per conoscere e apprezzare cosa tutto ciò significa… Bisogna che mi ascoltiate, che capiate…”.
Nella nostra lunga e emozionante chiacchierata mi parla dei ragazzi. “L’età più bella è quella dai 13 ai 17 anni… Ascoltano, fanno domande, sono curiosi. Poi, è come se crescendo, non sentissero più il bisogno di sapere, di conoscere”.
E si arrabbia con gli adulti. “Loro non sanno ascoltare. Forse sanno già tutto! Ma di sicuro la mia esperienza non la conoscono…”.
I luoghi degli incontri e dei racconti non sono solo le scuole. Armando accompagna i gruppi al campo di Mauthausen, in Austria, dove egli ha trascorso quattro mesi di prigionia. Dove ha visto e vissuto situazioni che… “non potreste mai capire. Anche quando ve le racconto, difficilmente sono credibili. A volte fatico io stesso a credere a ciò che ho visto. Questa è terra sacra. Un luogo che ha visto la morte e il dolore di centinaia di migliaia di persone”. Un luogo che oggi diventa contesto privilegiato di conoscenza, di esperienza, di apprendimento. “Quando entriamo al campo non perdo un solo ragazzo per la strada. Sento che capiscono, sono interessati a stare in ascolto di quello che lì dentro è accaduto. Mi stanno vicini, chiedono. E stanno in silenzio. In pullman durante il viaggio sono vivaci. Ma dentro sono attenti e interessati”.
Mentre lo ascolto sento che l’apprezzamento per l’interesse e l’ascolto diventa una richiesta di rispetto per ciò che lui porta in sé, per ciò che racconta, che ha vissuto, che ha fatto di lui l’uomo che è oggi.
Armando dice di dovere la sua rinascita a Roberto Benigni che con il film La vita è bella lo ha svegliato dall’oblio e gli ha restituito una identità legata anche a quella parte del suo passato così duro da digerire. Gli ha ridato la vita attraverso la possibilità di parlare. E da allora, quando egli racconta si scarica, si libera. Ogni volta che fa di quella condivisione un regalo, si alleggerisce e sente, ne è certo, di dare qualcosa di importante. Perché, dice, i ragazzi ne hanno bisogno. Le loro domande lo fanno emozionare, sente che sono contenti, che anche attraverso quell’istante sono cresciuti. Lui si mette a nudo. È a loro disposizione perché essi possano trarre da lui ciò che occorre loro per fare un altro pezzo di strada. Ed è lì che gli orrori che ha vissuto e che lo hanno portato così vicino alla morte si trasformano meravigliosamente in uno strumento unico per contribuire alla evoluzione dell’umanità. Ogni volta accade questa grandiosa alchimia.
Il desiderio e il bisogno di raccontarsi hanno preso anche la forma scritta: Finché avrò voce. Armando Gasiani; una storia autobiografica (a cura di Milena Bandieri, Anzola dell’Emilia, Associazione intercomunale Terre d’Acqua, 2003); Nessuno mai ci chiese. La vita del partigiano Armando Gasiani deportato a Mauthausen (di Alessandro De Lisi, Portogruaro, Edizioni Nuovadimensione, 2008).
Parlando di sé gli sfugge “Sono un povero ragazzo…”. Armando quando entra in classe è il diciassettenne che è entrato a Mauthausen sessantaquattro anni fa, che va a incontrare i ragazzi di oggi. E dice loro “Io vi porto la mia esperienza. Ma voi dovete farvi la vostra. E non in poco tempo. Non in fretta. Una lunga esperienza di vita che vi porta a diventare uomini e donne protagonisti della vostra vita. La vostra vita individuale e la vita sociale. Una società e un futuro che richiedono la vostra presenza. Perché la vostra presenza ha un peso nella storia”.
Proprio come Armando e Franco portano la loro presenza di oggi attraverso la loro presenza di allora. Attraverso tutti i passaggi e i percorsi che la vita li ha portati a compiere.
Questo diventa un regalo che essi fanno ai ragazzi che incontrano. Ma un regalo che hanno fatto a loro stessi attraverso il riconoscimento e la rivendicazione di una storia, di una vita che, attraverso l’azione educativa di oggi, sperano e desiderano possa contribuire alla crescita collettiva di domani.
(Franco Varini e Armando Gasiani lavorano e svolgono la loro preziosa attività all’interno di A.N.E.D, l’Associazione Nazionale Ex Deportati politici nei campi nazisti. I suoi aderenti sono i sopravvissuti allo sterminio nazista e i familiari dei caduti nei Lager. È una associazione senza fini di lucro, eretta Ente morale con decreto del presidente della Repubblica italiana il 5 novembre 1968.
Per saperne di più:
www.deportati.it).