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2. L’avventura del Ciclope

Ma quando al Ciclope intorno al cuore il vino fu sceso,
allora io gli parlai con parole di miele:
“Ciclope, domandi il mio nome glorioso? Ma certo,
lo dirò; e tu dammi il dono ospitale come hai promesso.
Nessuno ho nome: Nessuno mi chiamano
madre e padre e tutti quanti i compagni”.
Così dicevo; e subito mi rispondeva con cuore spietato:
“Nessuno mangerò per ultimo, dopo i compagni;
gli altri prima; questo sarà il dono ospitale”.                […]

Allora il palo caccia sotto la molta brace,
finché fu rovente, e con parole a tutti i compagni
facevo coraggio, perché nessuno, atterrito, si ritirasse.
[…]
Essi, alzando il palo puntito d’ulivo,
nell’occhio lo spinsero: e io premendo da sopra
giravo, come un uomo col trapano un asse navale
trapana;
[…]
Paurosamente gemette, n’urlò tutta intorno la roccia;
atterriti balzammo indietro: esso il tizzone strappò dall’occhio, grondante di sangue,
e lo scagliò lontano da sé, agitando le braccia,
e i ciclopi chiamava gridando, che in giro
vivevano nelle spelonche e sulle cime ventose.
E udendo il grido quelli accorrevano in folla, chi di qua, chi di là;
e stando intorno alla grotta chiedevano che cosa volesse:“Perché, Polifemo, con tanto strazio hai gridato
nella notte ambrosia, e ci hai fatto svegliare?
forse qualche mortale ti ruba, tuo malgrado, le pecore?
o t’ammazza qualcuno con la forza o l’inganno?”.
E a loro dall’antro rispose Polifemo gagliardo:
“Nessuno, amici, m’uccide d’inganno e con la forza”.
E quelli in risposta parole fugaci dicevano:
“Se dunque nessuno ti fa violenza e sei solo,
dal male che ti manda il gran Zeus non c’è scampo;
piuttosto prega il padre tuo Poseidone sovrano”.
Così dicevano andandosene: e il mio cuore rideva,
come l’aveva ingannato il nome e la buona trovata.

(Libro Nono)

 

Ulisse per ingannare il Ciclope cannibale che gli ha divorato i compagni e che rifiuta il dono dell’ospitalità così caro ai Greci, utilizza un gioco di parole. Finge di chiamarsi “Nessuno”. Così trova scampo alla furia degli altri Ciclopi e, infine, riesce a salvarsi.

Abbiamo scelto questo episodio perché sottolinea quanto le “parole” siano importanti; ciò che diciamo, e magari senza che noi ce ne rendiamo conto, determina delle conseguenze attorno a noi. Inoltre, il modo in cui ci esprimiamo è una diretta conseguenza del nostro modo di pensare. Studiando il vocabolario impiegato in una certa cultura per trasmettere informazioni o addirittura per denominare alcuni gruppi, si rintracciano e scoprono quali stereotipi sono vivi in quella società.

Che cosa sono gli stereotipi?

Luciano Arcuri nel suo Percezione e cognizione sociale. Manuale di psicologia sociale definisce gli stereotipi come: “Sistemi concettuali che ci permettono di semplificare le nostre rappresentazioni soprattutto quando esse hanno a che fare con l’ambigua, sfuggente e spesso cangiante realtà delle categorie sociali. A questi sistemi, qualche volta semplici, altre volte semplificatori, ma non di rado semplicistici, gli psicologi hanno dato il nome di stereotipi”.
Gli stereotipi sono cioè un mezzo per classificare in modo veloce (e quindi, per forza di cose, approssimativo) la complessa realtà che ci circonda.

Come agiscono gli stereotipi?

In questo caso scomodiamo Walter Lippmann, un altro grande studioso, che nel 1922 scrisse L’Opinione Pubblica, libro in cui, per primo, si interrogò sulla formazione delle opinioni. Per Lippmann molte delle decisioni che vengono prese dalle persone sono basate su “preconcezioni”, ossia su stereotipi. Gli stereotipi semplificano i fatti perché si propongono di rappresentare gruppi e non individui: in questo modo non rendono giustizia alla specificità dei singoli che vengono assimilati in un’immagine globale; inoltre gli stereotipi portano a interpretazioni errate degli individui anche quando esiste un contatto diretto con questi: se ci si aspetta, ad esempio, che una persona sia “fredda” perché appartiene al gruppo dei settentrionali, questo ci porterà a riconoscere la freddezza in tutti i comportamenti messi in atto dai settentrionali.
Cosa dice, in sostanza, Lippmann sugli stereotipi? Che sono pericolosi perché ci rimandano un’immagine distorta della realtà anche quando noi quella realtà la conosciamo per esperienza diretta. Un esempio: ci hanno sempre detto che le persone meridionali sono spiritose ma sfaticate. Nel posto in cui lavoriamo arriva una nuova collega che proviene dal Sud. Capita che un giorno ci dica che è stanca e non ha proprio voglia di far nulla. Ecco che per noi lo stereotipo si attiva. Non giustifichiamo la nostra collega pensando che forse può essere stata male di notte e non aver chiuso occhio, ma attiviamo quello che pensiamo delle persone meridionali: senz’altro anche lei è una sfaticata.

Come si trasmettono gli stereotipi?

Sempre Arcuri afferma che il più importante veicolo di trasmissione degli stereotipi è quello linguistico.
Per questo l’episodio di Ulisse è tanto importante per noi: lo è perché ci permette di parlare di stereotipi, di classificazione della realtà, di termini. Nel nostro caso specifico: è la stessa cosa definire una persona disabile piuttosto che handicappata o diversamente abile, o non normodotata? E poi, che cosa significano normale e anormale?
Claudio Imprudente, presidente del Centro Documentazione Handicap di Bologna, propose, più di otto anni fa, il termine diversabile per sostituire tutti gli altri. L’idea di Imprudente era al tempo stesso dare una sferzata di ottimismo e sottolineare, della persona non normodotata, la diversa abilità posseduta piuttosto che il deficit, ovvero la mancanza di qualche abilità rispetto ai normodotati. Era un mezzo per ribaltare la prospettiva generale e avviare un percorso culturale in cui superare gli handicap derivanti dai deficit significa inventare qualcosa di nuovo anziché imitare la normalità.
Esistono due classi di parole per designare la persona con deficit. Quelle che appartengono alla prima classe (ad es. handicappato, portatore di handicap, persone in situazione di handicap) evidenziano l’handicap; quelle che rientrano nella seconda (disabile, non vedente, motu-leso, eccetera) evidenziano il deficit.
È in questa logica che si inserisce la necessità di pensare a come definiamo le persone, a che etichette gli applichiamo addosso. Questa è una considerazione che vale in generale: è importante evitare termini che contengono una qualche forma di giudizio. Sarebbe più produttivo abbandonare l’opinione di diverso e anomalo come qualcosa di deviante e peggiore e rivalutare la diversità (che ciascuno di noi possiede) come un valore o più semplicemente, come una possibilità.
Saper usare le parole, coniarne di nuove che siano meno “handicappanti” per chi già vive un disagio, non significa però e non deve significare rifiutare la realtà, evitare di accettare una diversa abilità del proprio corpo o della propria mente: questo sarebbe pericolosissimo perché significherebbe non somministrare le cure necessarie e attuare in tempo la giusta prevenzione, così come rallentare lo sviluppo della ricerca medica.
Se l’idea, propositiva, di Claudio Imprudente è stata salutata con entusiasmo da alcuni, c’è anche chi non è d’accordo: nel Forum del sito web Disabili.com in cui ho postato alcuni messaggi e nel quale ho raccolto qualche opinione, c’è stato chi ha dichiarato che è stanco di dover veder cambiare, e per moda, il modo in cui il disabile definisce se stesso o gli altri definiscono lui.
In effetti se le parole possono essere mezzi attraverso i quali ci mettiamo in relazione con gli altri, esse possono diventare anche “gabbie” quando le definizioni si fanno troppo strette, ossia quando con una definizione, con un termine, ci illudiamo di poter cogliere tutta la realtà e le sue infinite sfumature.
Ecco cosa dice a questo proposito Franco Bomprezzi, 50 anni, giornalista, ex-responsabile editoriale del portale Inail Superabile.it dedicato al mondo della disabilità: “Non esistono le persone disabili. Esistono le persone. I singoli, ognuno con la propria realtà, le personali aspettative di vita, i differenti livelli di cultura e di censo”.
Quando non ci troviamo in un contesto medico e quindi non stiamo parlando di malattie o cure, dovremmo abbandonare la nostra smania di “riassumere” tutta una persona in simboli, categorie o classificazioni. Per Bomprezzi definire qualcuno come “persona disabile” non è un progresso. In ambito medico parlare di Down, tetraplegico, spastico aiuta a definire la condizione fisica e a circoscrivere l’intervento. Al di fuori di un contesto simile occorrerebbe abbandonare sia termini come “handicappato” che “disabile” o “persona diversamente abile”. “Persona disabile” è addirittura un paradosso per Bomprezzi: sembra sottointendere l’esistenza di un grande insieme, quello delle “persone abili” di cui le “persone disabili” sono un sottoinsieme modificato. Hanno in comune qualcosa ma mancano di qualcos’altro. Ci si dimentica che l’insieme è formato invece dalle Persone e che esistono tanti sottoinsiemi quante sono le caratteristiche intellettuali, fisiche e morali degli individui.
Bomprezzi afferma che la disabilità trova una sua collocazione accettabile (per la società) solo in contesti codificati e previsti: i posteggi riservati, gli scivoli, la segnaletica di riferimento. Codici di civiltà, dal punto di vista del rispetto dei diritti, ma contemporaneamente segnalatori di diversità, in buona misura ghettizzanti, separatori sociali. E lo stesso può valere per i termini. Per quelli cosiddetti politically correct.
Anche per Andrea Canevaro, docente di Pedagogia Speciale all’Università di Bologna, ciò che occorre evitare è cadere nella logica dell’etichettamento, vale a dire, usare classificazioni stereotipanti; allo stesso tempo però è da rifiutare anche la logica, opposta, di chi vuole “normalizzare” tutto. “Normalizzare” significa ritenere che siamo tutti uguali senza alcuna diversità. Questo porterebbe a appiattire il reale che è molto più complesso e variegato. L’etichettatura dunque è negativa se è imbalsamare una persona in un destino; è sensata se delinea tutte le caratteristiche dell’individuo.

 




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