6. Ulisse incontra Nausicaa
Ciò detto, uscìa l’eroe fuor degli arbusti,
e con la man gagliarda, in quel che uscìa,
scemò la selva d’un foglioso ramo,
che velame gli valse ai fianchi intorno.
Quale dal natìo monte, ove la pioggia
sostenne e i venti impetuosi, cala
leon, che nelle sue forze confida;
foco son gli occhi suoi; greggia ed armento
o le cerve selvatiche, al digiuno
ventre ubbidendo, parimente assalta,
né, perché senta ogni pastore in guardia,
tutto teme investìr l’ovile ancora:
tal, benché nudo, sen veniva Ulisse,
necessità stringendolo, alla volta
delle fanciulle dal ricciuto crine
cui, lordo di salsuggine com’era,
sì fiera cosa rassembrò, che tutte
fuggîro qua e là per l’alte rive.
Sola d’Alcinoo la diletta figlia,
cui Pallade nell’alma infuse ardire,
e francò d’ogni tremito le membra,
piantossegli di contra e immota stette.
[…]
“O forestier, tu non mi sembri punto
dissennato e dappoco”, allor rispose
la verginetta dalle bianche braccia.
[…]
Tal favellò Nausica, e alle compagne:
“Olà”, disse, “fermatevi. In qual parte
fuggite voi, perché v’apparse un uomo?
Mirar credeste d’un nemico il volto?
Non fu, non è: e non fia chi a noi s’attenti
guerra portar: tanto agli dèi siam cari”.
(Libro Sesto)
Le ancelle di Nausicaa tremano davanti a Ulisse vedendolo nudo e selvaggio. Nausicaa invece rimane ad ascoltare quello che Ulisse vuole dirle.
Spesso l’arte e il mondo dei mass media, la pubblicità progresso e di utilità sociale, la televisione in generale o i giornali, ci hanno fatto riflettere; a volte ci hanno colpito quando non volevamo stare a sentire; altre volte siamo rimasti scandalizzati o sconvolti per come hanno trattato un argomento o un problema.
Quando Caravaggio dipinse ed espose la sua prima natura morta, quella con la “mela bacata” per intenderci, fece scandalo. Così come spesso fecero scandalo molti dei suoi quadri. Era l’epoca della Controriforma e del Concilio di Trento, tra il ’500 e il ’600. Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, fu l’artista che più rappresentò il realismo (o naturalismo). La sua fu una vera e propria rivoluzione pittorica che dimostrò la forza che poteva avere una rappresentazione esatta della realtà, senza alcuna trasfigurazione o aggiustamento. Caravaggio infatti abolì dalla sua pittura qualsiasi “trasfigurazione”: la realtà rappresentata nei suoi quadri appariva così come in effetti era. Per il pubblico del tempo fu una cosa sconvolgente.
Arte o spettacolo?
Più recentemente (era il 2003), sollevò non pochi clamori la decisione di collocare a Trafalgar Square, a Londra, Alison Lapper pregnant, una scultura in marmo italiano dell’artista inglese Marc Quinn che rappresentava una donna, Alison Lapper appunto, nuda, incinta e focomelica.
Per i sostenitori di Marc Quinn, quell’opera esprimeva il suo potenziale prima di tutto nell’offrire una rappresentazione fiera e senza compromessi di una donna focomelica. Marc Quinn rappresentò una donna sensuale e fertile, senza atteggiamenti vittimistici. Secondo Donato Ramani, di Jekyll. Comunicare la scienza, la figura di Quinn appariva forte e carnale, “scandalosa solo perché distante dall’immagine rassicurante di una disabilità innocente edasessuata”.
A difendere l’arte di Marc Quinn c’era anche il controverso fotografo Oliviero Toscani che così commentava: “Una ragazza focomelica è una realtà della vita che crea un problema a chi non vuole vedere ciò che la realtà ci dà. Anzi, per quanto mi riguarda, eliminerei tutti i monumenti ai grandi personaggi della storia, che per la maggior parte sono degli assassini trasformati in eroi, per sostituirli con personaggi come la Lapper che fanno parte, loro sì, della vita vera”.
La foto di Alison, dalle braccia mutilate e gambe malformate, fu ripresa dalla copertina di “Panorama” del 26 giugno 2003 . All’interno del giornale vi erano anche “la donna barbuta”, “le gemelle siamesi”, “l’uomo tronco”, “l’ermafrodito” e “l’uomo lupo” ritratti nel servizio fotografico di Gérard Rancinan. L’obiettivo era di celebrare l’anno europeo delle persone disabili con storie vere.
Anche in quel caso, così come a Londra, non si fecero attendere le proteste. Questa volta però arrivarono proprio da quel mondo che avrebbe dovuto, invece, trovare appropriata la scelta del giornale. Furono persone con disabilità ad attaccare “Panorama” accusando il settimanale di spettacolarizzare la deformità a fini commerciali.
Le stesse accuse – creare scandalo appositamente per puri fini commerciali – spesso si sono ripetute anche contro molte delle campagne del fotografo Oliviero Toscani. Di Toscani, tra le sue numerose produzioni, ricordiamo i bambini disabili griffati “Beneton” dell’istituto per handicappati di Ruhpolding. Anche in quel caso le foto sollevarono un po’ di discussioni, se non proprio un’alzata di scudi, come avvenne invece in Inghilterra. C’è chi difese Oliviero Toscani affermando che quella era una campagna di sensibilizzazione, chi al contrario lo attaccò. Le contrastanti sensazioni di fronte a quelle immagini apparse nel lontano 1998 sono ben riassunte in un intervento della scrittrice Clara Sereni, apparse allora nelle pagine de “Il Manifesto”: “Contrariamente a quanto è successo in Gran Bretagna, la nuova campagna di Oliviero Toscani per Benetton, tutta giocata sugli ospiti di un istituto-modello per handicappati, non ha prodotto da noi particolari polemiche e turbamenti. […] non c’è polemica perché le immagini raccontano un mondo in cui la diversità ha diritto alla moda. […] Ipotesi cattivista: in gioco ci sono i buoni sentimenti assolutori, quelli che fanno dire a più d’uno che gli handicappati sono angeli, in quanto tali diversi irrimediabilmente. Dunque da rinchiudere, per il loro bene naturalmente, in un apposito paradiso, eventualmente rappresentato da un istituto di suore sorridenti e caritatevoli. Lontano dagli occhi, lontano dalla ragione, lontani da un’interazione vera con una società che tende a cancellarli, ma vestiti Benetton come noi, spastici autistici e Down possono essere nient’altro che un mezzo di contrasto per confermarci normali”.
Forse quello che disturba nell’arte di Toscani, oltre alla crudezza nella rappresentazione del reale (non è il caso di questi bambini, ma di altre campagne come quella sull’AIDS ad esempio) è il fatto che ai tempi in cui lavorava per l’azienda Benetton utilizzava per i suoi messaggi un “veicolo commerciale”. I manifesti, le inserzioni sui giornali, recavano il marchio di una azienda che vende abiti. Era pubblicità e l’intento della pubblicità generalmente è vendere, non far riflettere o sensibilizzare. Era, quella di Benetton e Oliviero Toscani, un caso anomalo di “pubblicità sociale/progresso”? Quelle campagne pubblicitarie davvero potevano diffondere tematiche e stimolare riflessioni sui problemi reali e allo stesso tempo far vendere un’azienda? Quanto queste due anime (sociale e commerciale) possono davvero convivere e non danneggiarsi l’una con l’altra?
All’indomani dell’apparizione di quelle foto sui giornali una giornalista, Cristina Barlera, così commentava: “Certo il mercato e la pubblicità non hanno riguardi: inventano, propongono, cercano di sbalordire e di emozionare per quello che è il loro obiettivo, vendere […]. Ma più che il cinismo della pubblicità e della moda, questa vicenda porta allo scoperto l’atteggiamento della gente nei confronti dell’handicap. Quello che stride, che stupisce e che fa male è proprio la meraviglia, lo sconcerto, il clamore, l’enfasi e la risonanza data dai media […]. Sfilano e appaiono tutti su giornali e reti televisive: […] Ma gli handicappati no, non possono: a loro quei territori sono vietati. Perché non corrispondono ai modelli di bellezza e di intelligenza che la società si è costruita e che continua a inseguire. Perché l’handicap nell’immaginario comune significa solo dolore. Invece ciò che colpisce di quelle foto sono l’innegabile felicità di un gruppo di bambini […] immagini che risultano molto più vere di quelle dei bambini della pubblicità delle merendine o delle modelle diafane prive di espressione”.
La giornalista metteva in evidenza come la gente, fruitrice di quella pubblicità, ha reagito. Il messaggio è stato dato: quali sono state le riflessioni e gli atteggiamenti della società?
Si entra qui nel difficilissimo campo della definizione di arte e di comunicazione e del confine tra arte e comunicazione. Sempre Toscani, in un’intervista rilasciata a Arte.it, afferma: “Si crede che la comunicazione sia il cavalier servente della spinta al consumo. In realtà le cose non stanno così. La comunicazione è una forma moderna di azione culturale. Cosa fa un giornale? Un giornale usa immagini e parole per informare e per vendere un oggetto stampato su carta. Anche quello è un prodotto. Cosa fa la comunicazione commerciale? Usa le parole per vendere e al tempo stesso per informare. La prospettiva tutto sommato è la stessa. Perché dovrebbe essere differente? Di fronte a uno spot la mia prima reazione non è di andare a comprare il prodotto reclamizzato. Ho una reazione emotiva, umana, come accade quando guardo la copertina di un giornale o il trailer di un film”.
Compito della comunicazione pubblicitaria quindi è creare emozioni, reazioni. Se guardiamo all’arte del passato ci sono tanti esempi di rappresentazioni di persone disabili, o malate, deboli, o comunque, “imperfette” rispetto ai canoni di bellezza stabiliti dalla moda e dalla società di ciascuna epoca. La mela di Caravaggio non fa eccezione perché apparsa come mela “reale” in un mondo abituato a vedere rappresentate solo mele “ideali”, perfette. Eppure Caravaggio e gli altri pittori che aderirono al naturalismo restituirono ai soggetti rappresentati, alla realtà stessa, la loro dignità e il loro ruolo.
Oggi le nature morte di Caravaggio ci stupiscono per la loro bellezza ma non ci scandalizzano più. Forse però scandalizzarono i contemporanei del pittore. E forse, allo stesso modo, tra qualche anno, non faranno più “effetto” a noi né i bambini di Benetton, né Alison Lapper perché quella realtà, a lungo negata, taciuta, nascosta, isolata, sarà invece accettata. Sarà diventata conoscenza comune, parte della nostra realtà grazie a un’opera di “disvelamento”. Lo stesso tragitto – passare dal silenzio alla luce della verità, della rivelazione – lo hanno compiuto altri soggetti e altre tematiche: l’Aids, l’omosessualità, le mine antiuomo, i bambini soldato.
Certo, ciò che disturba molti è il fatto che dietro a quelle realtà ritratte su “Panorama” o da Oliviero Toscani ci sia la pubblicità commerciale, l’imperativo di vendere, il denaro. È qui che comincia la riflessione su ciò che è lo sfruttamento di una difficoltà o la sua spettacolarizzazione e ciò che è informazione vera.
Registri comunicativi: l’ironia
Henri de Toulouse-Lautrec proprio a causa (o grazie) alla sua condizione di disabile poté avvicinarsi a un mondo che viveva ai margini della società aristocratica cui lui apparteneva. Egli stesso si autorappresentò in disegni d’effetto che colpiscono per la vividezza, la lucidità, e la grande autoironia. Non si fece sconti. Così si liberò e si conquistò una parte nel mondo. È forse per questo che non ha creato disagi, né scandali, né dissensi, la pubblicità delle Paralimpiadi 2006 della Gialappa’s band. Il trio (Marco Santin, Carlo Taranto e Giorgio Gherarducci) nello spot intervista un atleta in carrozzina. Questo sportivo non viene trattato dai tre autori della Gialappa’s in modo diverso da come hanno trattato in precedenza i lavoratori della banca San Paolo e gli atleti che partecipavano alle gare olimpiche. Sottolinea Maria Novella Oppo nel suo articolo L’ironia che rende uguali: “Il ragazzo invalido viene allegramente strapazzato come tutti gli altri e reagisce ridendo come tutti gli altri. Manca nello spot ogni segno di quella pietosa condiscendenza con cui viene solitamente trattato, soprattutto in tv, il disabile. […] La risata con cui si conclude lo spot vale più di tante benintenzionate parole, a cui non corrispondono i fatti. Come si può giudicare dal modo reticente e censurato con cui le imprese degli atleti disabili vengono seguite dalla tv. Per non dire del modo in cui la pubblicità si occupa, o non si occupa, dei problemi che riguardano i disabili. Se ne occupa infatti, solo la pubblicità sociale […] che interrompe come un pugno nello stomaco la teoria degli spot commerciali. […] E la pubblicità sociale difficilmente ci fa sorridere, mentre questa pubblicità commerciale ci strappa una risata liberatoria, attraverso lo spettacolo dell’uguaglianza di fronte all’ironia”.
Anche dietro a questo spot c’era un committente commerciale: la banca San Paolo. Però questo è uno spot differente. Cosa cambia? Cambia il modo di comunicare. Questo spot utilizza un registro comunicativo diverso da quello di Toscani. Non colpisce perché abbina mondi apparentemente distanti (moda e malattia; moda e disagio; moda e disabilità) ma perché sfrutta l’ironia applicando ai disabili lo stesso trattamento che è riservato a un non disabile. Tratta il soggetto “normalmente” lasciandolo libero di proporsi come un ragazzo simpatico o antipatico, buono o cattivo.
San Paolo ha scelto il suo modo di comunicare. Oliviero Toscani ha il suo e così Marc Quinn o “Panorama”. Al pubblico resta il diritto e la possibilità di reagire e far sentire la propria opinione generando, si spera, un circuito di idee e di confronto su problemi o tematiche prima poco affrontate.
L’obiettivo deve essere sempre uno solo: superare la paura della diversità. Imparare a “guardarla” e, con tutte le nostre forze, tutelarla.
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