I bambini danno molta più importanza a ciò che i genitori fanno, che a ciò che essi dicono.

(Marie von Ebner-Eschenbach) 

“Ciò che distingue i neonati umani da quelli di altri mammiferi è la sensibilità che il bambino possiede per l’interazione con altri umani” (18 pag. 42).

Sue Gerhardt, partendo da questo importante presupposto, narra appassionatamente della dipendenza del piccolo neonato dall’espressione facciale, ipotizzandone la nascita nei primati della savana africana, dove i progenitori dell’uomo avevano la necessità di intendersi silenziosamente, per non attirare l’attenzione dei predatori. Le esperienze con lo still-face, paradigma di faccia a faccia con volto inespressivo, espandono tali concetti dimostrando come in assenza di espressione facciale e dunque di empatica partecipazione della madre, vi sia un “fallimento per co-creare significati e formare stati diadici di coscienza”(1 pag. 55). Di fronte al volto inanimato della madre inizialmente i piccoli cercano di ripristinare il rapporto con lei attirandone l’attenzione, poi si isolano, diventano tristi e cercano dei metodi di auto consolazione come quello di succhiarsi il dito. È stato ipotizzato, nell’assenza di espressione facciale della mamma, un vissuto di pericolo che sfocia in quello di non credere di esistere più. Questa traumatica interruzione o in alcuni casi di assenza da sempre del rapporto visivo con chi dà la vita e il nutrimento, crea una sensazione di essere perduti che però non è irreversibile, anche se i ricercatori hanno dimostrato che gli orfani rumeni abbandonati nei loro lettini tutto il giorno “presentavano un buco nero là dove di fatto avrebbe dovuto svilupparsi la corteccia orbito-frontale” (18 pag. 47).

Se presa in tempo, l’assenza di espressione della madre tipica della depressione post partum ma anche di altre patologie, può essere contenuta all’interno di un setting che permetta alla relazione di essere nuovamente accolta.

Tale reversibilità è narrata dalla Gerhardt nella presa in carico di madri con i loro bambini. In particolare è trattato il caso di una donna in carriera, alla prima gravidanza e non più giovane, e di una bimba che quando lei si avvicinava si girava dall’altra parte. L’atteggiamento della piccola provocava nella madre una rabbia che sfociava in pensieri di infanticidio ma non sappiamo come e perché tale sistema si fosse innescato. In quel caso il contenimento terapeutico in setting madre/bambino aveva reso possibile alla madre di osservare le esigenze della piccola e i suoi segnali corporei e di rispondere semplicemente ad essi con azioni materne di accudimento. Questo in poco tempo aveva assicurato al rapporto un piacere reciproco (18 pag. 48).

Le molteplici esperienze in tirocinio, effettuate al Centro Nascite La Margherita di Firenze, a Neuropsichiatria Infantile e presso l’Associazione La Fonte di Settignano, svolte nell’arco dei quattro anni di formazione con setting arte terapeutico madre/bambino, hanno mostrato quanto tale contenimento sia possibile ed efficace attraverso l’uso dei materiali così che, come dice la Gerhardt, la madre possa trovare un luogo in cui rappresentare insieme al suo bambino ciò che non è in grado di dire (18 pag. 61). 

In particolare la presenza di trauma, o patologie precedenti alla nascita del piccolo, ha potuto riportarmi, come terapeuta, all’osservazione del rapporto complesso e strettissimo che si crea nella mente della madre fin dalla prima idea di bambino, sul filo dell’immaginario e della quasi opposta realtà dei fatti, colma di cose da fare e intensità pratica del cambiamento.

Così nel tempo, dalla prima convinzione che in ogni situazione potesse essere efficace accogliere e dare un luogo terapeutico alla coppia madre/bambino, nel corso dell’esperienza in tirocinio la complessità di questo tipo di setting mi ha guidata verso una sfaccettatura di tipologie di rapporti e di relazioni che avrebbero dovuto essere accolte in modi diversificati. Come sempre la strada, attraverso la conoscenza soprattutto sul campo, si fa tortuosa e complessa, semplificando allo stesso tempo i punti focali delle questioni.

Nella trattazione di questo tipo di setting arte terapeutico, denso di presenza e bisognoso di una particolare cura e osservazione, è importante partire con notevole flessibilità, unitamente alla forte capacità di entrare nel setting senza memoria e senza desideri così come Bion insegna. 

Quando un bambino giunge in terapia la richiesta è quasi sempre espressa da uno o più adulti. Lui si presenta con i genitori, i quali difficilmente condividono tale decisione in egual misura. Sta al terapeuta implicarli nello stesso modo poiché chi non si è fatto vivo all’inizio prima o poi entrerà, a volte in modo molto impattante, nel setting. Scrive Anna Michelini Tocci che accogliere i genitori significa accoglierli entrambi, se il terapeuta accetta di vederne solo uno l’altro remerà contro, sentendosi escluso, anche se è lui che si dichiara non disponibile. Molti terapeuti da sempre trovano utile considerare il triangolo della famiglia del bambino preso in carico e in particolare capire se la comunicazione avviene tra tutti e tre i vertici o no. Può succedere che uno dei componenti non esista, è accaduto un po’ così a Giuliana, la madre simbiotica del caso Spasmo affettivo: L’ultimo cavallino bianco.

Ma è anche fondamentale ricordare chi porta chi, poiché il bisogno del genitore non sempre può essere espresso direttamente. Francesca Koch Braschi parlando di suo figlio racconta: “Mi dicevano che se non lavoravo su di me non lo avrei potuto aiutare, che era il senso della mia esistenza che dovevo trovare […] conoscere le mie emozioni […] Il dolore di mio figlio era l’aspetto esterno di altri nodi esistenziali che io stessa non sapevo né volevo affrontare” (23 pag. 272). 

Così, fino dalle prime esperienze di lavoro con i bambini, è necessario rendersi conto che la terapia sarà inefficace fino a quando non saranno accolti anche i loro genitori. Ma il dolore del bambino svia il terapeuta in questo senso ed è talmente forte e tangibile che spesse volte lo confonde. Scrive Nadia Neri: “Spesso la nostra storia, o le nostre carenze affettive, ci fanno scivolare inconsciamente a identificarci con il figlio, rischiando così di perdere i genitori” (23 pag. 42). Jung ci parla approfonditamente del ruolo del salvatore per cui i terapeuti si identificano con il genitore buono. Ma sappiamo che andrà accolto e compreso il genitore meno buono, quello complesso e ferito, cattivo, poiché è proprio lì che uscendo dal labirinto sarà chiara la via per aiutare il piccolo che si trova nel setting. Vedere i genitori insieme al piccolo consente al terapeuta di capire se il problema portato da loro è un problema anche per lui. Ma è importante soprattutto all’inizio raccogliere da essi solo le notizie strettamente necessarie in quanto spesso il bambino è molto diverso da come è descritto, così accade di dover lavorare troppo in seguito per prendere le distanze da quella immagine di lui che non è rispondente alla realtà. 

Non dobbiamo mai dimenticare che i genitori fanno una grande fatica nel portarci i loro figli, perché non vogliono credere di non saperli aiutare. Scrive la Vallino che i bambini si aspettano dalla presenza e dalla testimonianza del terapeuta di poter essere rimessi in contatto con i genitori, e sottolinea la necessità che l’analista porti i genitori verso la comprensione dei problemi del bambino: “un importante risultato è stato condurre pian piano i genitori a farsi loro stessi attenti osservatori” (23 pag. 245). 

L’alleanza e il lavoro con il bambino si possono intraprendere quando si è già creata con il genitore, accogliere i genitori in terapia significa sapersi confrontare con i genitori interni del bambino, non accoglierli significa escludere un’importante parte del bambino stesso (23 pag. 204). Scrive Sue Gerhardt che “L’atteggiamento critico (verso i genitori ndr) non migliora la loro capacità di fornire risposte positive ai propri bambini” (18 pag. 31).

I bambini usano in modo spontaneo i materiali, l’ambiente e il terapeuta, alcuni vengono nel setting per giocare, altri per trovare un alleato contro i genitori, altri per tranquillizzarli. L’alleanza nasce con il tempo, ma è fondamentale poiché “la partecipazione del paziente è tanto creatrice del processo quanto quella del terapeuta […] una psicoterapia o una terapia istituzionale fallirà se il paziente non stabilisce un’alleanza positiva con il terapeuta aderendo al progetto di cura” (12 pag. 249). 

Ciò che i bambini portano non appartiene al loro passato ma al qui e ora. L’alleanza terapeutica diviene dunque cooperazione. 

Accade a volte di identificarsi con le aspettative onnipotenti dei genitori. Il bambino può essere portatore di aspetti ombra rimossi poiché i suoi sintomi possono esprimere dei conflitti familiari inconsci (23 pag. 190). Accade così che appena il bambino migliora venga immediatamente tolto dalla terapia poiché quel sintomo che ha subìto un’attenuazione risultava utile alla famiglia, al contorno del bambino. Ciò è più facile che non avvenga quando è presa in carico la coppia madre/bambino (vedi caso Fratelli: Una chioccia tre pulcini in cui l’interruzione sarebbe avvenuta molto presto se fosse stata presa in carico solo la figlia).

Esistono alcuni schemi strutturati per la prima seduta di arte terapia con un bambino, in cui si prescinde chiaramente dalla presenza del genitore. Sono schemi da cui poter partire, soprattutto in casi in cui vi sia la necessità di standardizzare per effettuare un lavoro di ricerca. Tali schemi vengono usati anche molto creativamente dagli arte terapeuti, come punti di partenza per trovare poi una strada personale, da adattare a ogni bambino poiché l’arte terapia va inserita sempre nel contesto relazionale. In particolare la fase della separazione, sottolineata da Avi Goren nella capacità che ha il piccolo di separarsi dall’elaborato artistico, risulta particolarmente intuitiva e complessa e va gestita in modo peculiare e flessibile rispettando le infinite soluzioni che i bambini trovano (vedi il saluto alla terapeuta in forma di anello nel caso Fratelli: Una chioccia tre pulcini).

Molti arte terapeuti sostengono la seduta libera poiché quella strutturata impedisce di osservare cosa avrebbe fatto il bambino se lasciato libero: scrive Moustakas che “i bambini hanno bisogno di sentirsi liberi per potersi esprimere senza riserve, paure e costrizioni, facendo cadere le difese” (20 pag. 39). La seduta libera, soprattutto per la prima valutazione, rende possibile ascoltare il piccolo senza avere già in mente una griglia, poiché l’obiettivo finale consiste nel favorire l’integrazione tra la dimensione non verbale e quella verbale. 

Nello stesso tempo, nei setting madre/bambino, a volte l’enunciazione di un tema aiuta il terapeuta a dare sequenzialità alla seduta e a rendere leggibile la relazione. Nell’obiettivo terapeutico, è importante puntare sul cambiamento. In questo senso è molto rilevante come sono strutturati il setting e gli incontri, ed è necessario mantenere una certa elasticità per via dell’ambiente sufficientemente buono che dobbiamo offrire alla coppia presa in carico. 

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