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autore: Autore: Arianna Papini

8. Bibliografia

(1) AA.VV., La “normale” complessità del venire al mondo, Milano, Guerini Studio, 2006

(2) Ammaniti M., Manuale di Psicopatologia dell’infanzia, Milano, Cortina Raffaello Editore, 2001

(3) Arnheim R., Arte e percezione visiva, Milano, Feltrinelli, 2007

(4) Bertini G., Bonizzato L. (a cura di), La bellezza dei margini, Atti del convegno “Il laboratorio di arteterapia 10 anni dopo. Riflessioni e proposte”, Regione Veneto, 2006

(5) Bloom K., Il sé nel corpo, Roma, Astrolabio Editore, 2007

(6) Boniamino V., Iaccarino B. (a cura di), L’osservazione diretta del bambino, Torino, Boringhieri, 1984

(7) Bowlby J., Costruzione e rottura dei legami affettivi, Milano, Cortina Raffaello Editore, 1982

(8) Bowlby J., Una base sicura, Milano, Cortina Raffaello Editore, 1989

(9) Caboara Luzzatto P., Arte terapia, Perugia, Cittadella Editrice, Perugia, 2009

(10) Case C., Dalley T., Working with children in art therapy, London, Tavistock/Routledge, 1990

(11) Cesaro A.N., Boursier V., (a cura di), Psicoanalisi dello sviluppo: D. W. Winnicot, Roma, Armando Editore, 2004

(12) Cramer B., Che cosa diventeranno i nostri bambini, Milano, Cortina Raffaello Editore, 2000

(13) Della Cagnoletta M., Arte terapia – La prospettiva psicodinamica, Roma, Carocci, 2010

(14) Della Cagnoletta M., Atti della mostra-convegno “All’alba della creatività, percorsi di terapia espressiva con i bambini”, Bussolengo, 9 ottobre 2007

(15) Ferro A., La tecnica nella psicoanalisi infantile, Milano, Cortina Raffaello Editore, 1992

(16) Gagliardi M. (a cura di), Le stelle nascoste, Venezia, Marsilio, 1997

(17) Garcia M. E., Plevin M., Macagno P., Movimento creativo e danza, Roma, Gremese Editore, 2006

(18) Gerhardt S., Perché si devono amare i bambini, Milano, Cortina Raffaello Editore, 2006

(19) Laban R., L’arte del movimento, Macerata, Coop. Ephemeria Ed., 1999

(20) Malchiodi C., Capire i disegni infantili, Torino, Centro Scientifico Editore, 2000

(21) Mannoni M., Il bambino ritardato e la madre, Torino, Boringhieri, 1971

(22) Meyer-Thoss C., Bourgeois L., Designing for Free Fall, Zurigo, Amman Verlag AG, 1992

(23) Neri N., Latmiral S. (a cura di), “Uno spazio per i genitori”, in “Quaderni di psicoterapia infantile” n. 48, Roma, Borla Editore, 2004

(24) Papini A., “Leggere in luoghi sensibili”, in “HP-Accaparlante” n. 3, Trento, Erickson, settembre 2011

(25) Rubin J. A., Child Art Therapy, NY, Van Nostrand Rienhold, 1984

(26) Vallino D., Raccontami una storia, Roma, Borla Editore, 1998

(27) Vallino D., Macciò M., Essere Neonati, Roma, Borla Editore, 2004

(28) Weatherhogg A., “Al di là delle parole”, in AA.VV., “Dall’esprimere al comunicare –Immagine, gesto e linguaggio nell’Arte e nella Danza-Movimento Terapia”, n. 2 dei “Quaderni di Art Therapy Italiana”, Bologna, Pitagora, 1998

(29) Wuehl M. I., (a cura di), Nella stanza dell’analista junghiano, Milano, Vivarium, 2002

(30) Winnicot D. W., Colloqui terapeutici con i bambini, Roma, Armando editore, 1971

(31) Winnicot D. W., Dalla pediatria alla psicoanalisi, Firenze, Martinelli, 1975

(32) Winnicot D. W., Sviluppo affettivo e ambiente, Roma, Armando Editore, Roma, 1974

7. Conclusioni

Così, narrando, siamo giunti alla fine di questa trattazione. Per concludere, quale che sia la predisposizione genetica, essa deve tuttavia essere innescata da fattori ambientali per manifestarsi (18 pag. 119), e il setting arte terapeutico madre/bambino rappresenta l’opportunità di ritrovare il filo del discorso interrotto o del dialogo mai esistito, attraverso la rappresentazione artistico/creativa, contenuta in un luogo e in un tempo definiti e protetta dalla presenza del terapeuta. Rappresenta inoltre per la madre la possibilità di ritrovare fiducia nella propria capacità materna, e anche di poter riorganizzare oggetti interni feriti o assenti, e per il figlio di poter continuare a essere figlio prendendo distanza dalla madre.
Sentirsi visti all’interno del legame, come abbiamo osservato negli studi sullo still-face, significa sia per la madre che per il bambino la possibilità di ricominciare a sentire di esistere, e questo fin dalla gravidanza poiché “il processo artistico aiuta sia a esprimere le paure e le angosce, sia a recuperare le proprie parti buone e accoglienti” (13 pag. 166), essendo in grado di ripristinare quella sintonizzazione che sta alla base della frase “Io cambio quando tu ti palesi, tu cambi quando io mi manifesto” (18 pag. 39).

I desideri si realizzano nella notte più buia, che si vedono le stelle.
(Matteo, 6 anni) (16 pag. 43)

6.I casi

6.1 Perdita e malattia: La merla e l’uovo rotto
I figli sono per la madre ancore della sua vita.
(Sofocle)

Al Centro Nascite, Vittoria subisce un aborto terapeutico della sua bambina, dovuto a una grave malattia diagnosticata al sesto mese di gravidanza. Attende questa prima figlia con gioia, fino al giorno in cui le comunicano la patologia, incompatibile con la vita. Vittoria, per sua affermazione, non è in grado di affrontare questa cosa. È traumatizzata dalla diagnosi, così la sua famiglia decide per lei.
In seguito all’aborto cade in gravissima depressione, tenta il suicidio, la segue uno psichiatra ed è posta sotto psicofarmaci. È diabetica come sua madre e la diagnosi della bambina potrebbe derivare dalla sua patologia. Il diabete di Vittoria si è presentato quando aveva vent’anni.
La seguo per i quattro anni di tirocinio, prima nel periodo del lutto, poi quando resta nuovamente incinta, poi con la nuova figlia neonata e in seguito da sola o a volte con la figlia, la quale sviluppa a un anno di vita un gravissimo diabete infantile. Il lavoro con Vittoria appare particolarmente efficace nel periodo post traumatico, in cui al silenzio del lutto si affianca in modo discreto la terapia non verbale attraverso l’arte.
I materiali che preparo per lei sono sempre molto vari, Vittoria sceglie e lavora concentrata, con le spalle curve, parlando continuamente ma molto lentamente.
Con lei il setting madre/bambino accoglie inizialmente la presenza/assenza della figlia perduta, poi quella della figlia attesa in cui il lavoro è volto al riconoscimento delle due distinte persone, bambina perduta e bambina che nascerà. In seguito accoglie la madre con la seconda bimba neonata nei primi mesi di allattamento, poi di nuovo da sola ma con la presenza pregnante della piccola lasciata con grande senso di colpa, poi ancora insieme alla bimba a cui è stato diagnosticato il diabete e infine sola. Nella prima fase Vittoria lavora con i sassi che raccolgo per lei al mare, lisciati dal tempo. Il lavoro è sempre molto ordinato, ho spesse volte la sensazione che la paziente stia a ciò che gli altri si aspettano da lei, salvo piccole variazioni di percorso.
La svolta si ha durante una seduta in cui Vittoria lascia bianco il foglio e piange tutto il suo dolore per non aver visto il viso della bimba perduta. L’assenza del volto della figlia grida nel setting attraverso l’assenza dell’immagine sul foglio e il colore bianco.

La merla e l’uovo rotto
Sull’albero c’è un nido. Nel nido una merla. È rotonda la culla, soffice di piume, rametti, foglie intrecciate e perfino qualche filo di lana verde e bianca.
Cullate da quel nido tre uova e un uovo rotto.
Lei sta lì e cova le quattro uova. A volte l’uovo rotto buca un po’, lei fa finta di niente e sta ferma. Gli altri merli la osservano in silenzio, nessuno osa parlarne. Lei li guarda con sufficienza, non possono capire.
Il suo mondo è distante, accade dal giorno del temporale. La bufera aveva sconquassato i rami dell’albero fino a farli toccare terra. Lei aveva retto, era restata aggrappata con tutte le forze al suo nido. Poi era arrivato il fulmine. Cielo spezzato dalla saetta che aveva colpito un ramo che era caduto sul nido e su di lei. Il mondo era finito.
Quando aveva riaperto gli occhi le gocce del temporale brillavano per i raggi del sole che, dal cielo terso, sfogava il suo calore impertinente. Così lo aveva visto. L’uovo era a terra. Il suo contenuto, giallo e trasparente di vita, sparso tra l’erba e le foglie fradicie. Così lei aveva raccolto il guscio e lo aveva posato accanto ai suoi fratellini ancora intatti. Non una lacrima, non un pigolìo. Come prima si era detta, tutto sarà come prima.
La merla cova il suo guscio rotto sognando che anche da lì esca la vita, tra poco.
È il giorno dell’incanto. Tic tic tac le piccole creature nascono, una a una. Due femmine e un maschio. La merla sente nel cuore la gioia della vita e il dolore della morte, insieme duri da digerire. I piccoli bagnati scuotono le testoline e pigolano, lei vola a prendere vermi di qua e di là incessante la fatica e la gioia e il dolore dell’assenza. I gusci bucano i pulcini e loro, con le zampette, se ne liberano. Uno a uno. Lei è al centesimo verme, prende gocce d’acqua dalla fonte e le versa nel piccolo becco dei figli. Vede con un balzo al cuore che i gusci sono caduti. Tutti, anche quelli di cui non si parla. Chiude gli occhi. I piccoli in silenzio guardano il dolore della mamma, rispettosi, lei li abbraccia con le ali. Loro sono la sua vita, ma ogni volta che un giovane merlo passerà in volo vorrà credere che sia proprio lui, quello dell’uovo rotto.

6.2 Spasmo affettivo: L’ultimo cavallino bianco
I vostri figli non sono figli vostri
Sono i figli e le figlie del desiderio che la vita ha di se stessa
Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi.
(Kahlil Gibran)

Giuliana è al terzo figlio e Nicola, otto mesi, sviene ogni volta che si allontana da lei. Va in apnea effettuando una sorta di piccolo suicidio nella difficoltà di prendere distanza dalla mamma, e finisce due volte in ospedale per soffocamento. Vista l’età rischia di non imparare a sedersi e a camminare. Scrive Cramer che “o studio dei disturbi di separazione dei bambini dimostra ogni volta che si tratta di un sintomo condiviso. (Madri ndr) e bambini sono legati insieme nell’angoscia che la separazione si paghi con la catastrofe o la morte” (12 pag. 175).
Li seguo insieme attraverso un lavoro con rotoli di carta che srotolo in forma di strade partendo dalla coppia simbiotica e su cui cammino a quattro zampe, e con palle di gommapiuma e carta da strappare sottolineando la possibilità di dividere e di allontanare. La madre crea immagini molto inquietanti con le matite, le tempere e i gessetti su piccoli cartoncini colorati. Il lavoro dura due mesi.
Inizialmente prendendo in carico la relazione simbiotica mi ero data lo scopo di riuscire a portare infine la madre fuori dal setting per seguire il suo bambino. In realtà il sintomo, dopo le primissime sedute, mi appare in tutta la sua complessità intergenerazionale legata alla storia di lei, orfana di padre e simbiotica con la madre rimasta sola molto giovane.
Nel corso di una delle ultime sedute io e la mamma con il suo bambino in braccio sediamo una di fronte all’altra per terra, a una distanza di circa due metri. Ci unisce la via di carta su cui rotoliamo le palle colorate di gommapiuma intinte nella tempera, che definiscono graficamente i percorsi in fantastici intrecci. Il piccolo osserva il movimento colorato e accenna al sorriso. La madre ha appena disegnato due occhi terribili, lo sguardo da cui non può prescindere. I segni sprecisi e violenti rispondono allo sguardo cupo di lei reale con uno sguardo grafico spaventato e rabbioso. Il bambino adesso sorride, si stacca da lei e corre abbracciandomi. Capiamo così che Nicola sa già camminare. Il dolore intenso della madre giunge fino a me rendendo soffocato il mio respiro e la mia voce. Ciò mi rende visibile improvvisamente in modo fin troppo concreto il sintomo di Nicola. Incoraggiato da me torna subito indietro e lei lo abbraccia, siamo molto commosse. La seduta si svolge così per mezz’ora con il gioco degli abbracci.
Nella seduta successiva in cui viene sola, la madre mi racconta di avere sempre avvertito un rimpianto fin da quando aspettava Nicola.
Il marito non desiderava altri figli, lei lo aveva convinto ma sapeva che sarebbe stato l’ultimo. Era emerso un disagio della prima bambina affetta da un mutismo elettivo alla scuola materna, scomparso con la nascita di Nicola. Il figlio avuto in mezzo tra i due non aveva presentato sintomi. Era avvenuto un passaggio del testimone del sintomo dalla bimba grande al piccolo, sicuramente ultimo, figlio.

L’ultimo cavallino bianco
Passando su quella strada in Maremma sul crinale della collina si possono notare due cavalli bianchi, somiglianti, uno molto più giovane dell’altro. La cavalla anziana trotta fiera accanto al cavallino giovane e imbizzarrito, danzano una stessa danza, apparentemente non felice ma intensa.
È una cavalla vecchia la Tina, che non ha mai tradito il suo contadino. Ogni volta che Natura lo ha concesso lei gliel’ha fatto capire e lui l’ha portata al cavallo per l’accoppiamento, il suo compagno di vita, bianco come lei.
Undici mesi e ogni volta partoriva il suo puledro che appena adulto le veniva tolto e venduto. Si era sempre stupita dei suoi figli variopinti, così diversi uno dall’altro, col manto nero o marrone o macchiato. Ma al momento giusto li aveva lasciati andare, così come si deve.
Una mattina in cui la campagna verde ramarro sposò l’azzurro terso del cielo estivo per dare alla luce il nuovo giorno, la Tina si sentì stanca.
Pensò forse oggi sono diventata vecchia. Natura come sempre le parlò, donandole l’ultima occasione di figliare. Andò al trotto dal contadino, lui la guardò carezzandole il grande naso i cui peli vani punzecchiavano appena e le disse Tina, adesso che sei vecchia non potrai più fare la madre. Ti porto per l’ultima volta al tuo cavallo e ci facciamo felici tutti con l’ultima gravidanza.
Una notte in cui le nebbie del mare abbracciarono la brezza dell’Amiata per dare alla luce il temporale, nacque Ariosto, bello come il sole e bianco come la sua mamma. Lei lo guardò ma non fu stupita come le altre volte, se l’aspettava che quel puledro fosse diverso da tutti gli altri e identico a lei.
Poi guardò sospettosa l’uomo che l’aveva aiutata a partorire.
La Tina questa volta non fa avvicinare nessuno, è gelosa del piccolo dicono a bassa voce in paese. Arrivato il momento della vendita si parò davanti al suo padrone e lo guardò per storto, lui la conosceva bene e capì che l’avrebbe ammazzato se avesse toccato l’Ariosto. La Tina dicono che lo sapeva che quello era il suo ultimo figlio, così se l’è tenuto per sé.
È strano l’Ariosto, non cerca le cavalle, è grande ma non è cresciuto nella testa, si comporta come un puledrino.
E balla sul crinale della collina con la sua mamma senza allontanarsene mai, pena la morte. 

6.3 Simbiosi post-traumatica: L’incendio e mamma tucano
Non esiste conforto per una madre che soffre.
(Victor Hugo)

Giuseppe ha dodici anni ed è ricoverato a oncologia pediatrica per un osteosarcoma molto grave a una gamba. Ha subìto un trapianto osseo ed è sottoposto a pesanti cicli di chemioterapia, da mesi è in ospedale e nessuno sa per quanto ne avrà poiché i medici non si pronunciano sulla prognosi.
Il ragazzino sta in reparto con sua madre sul lettino. Li osservo e noto che sono alti uguali. I due, simbiotici e morbosi, hanno sviluppato un rapporto in cui sembra che riescano ad affrontare il trauma della diagnosi. In realtà il rapporto simbiotico isola il bambino e lo rende aggressivo, attuando una forte regressione nell’età in cui probabilmente avrebbe dovuto affrontare il distacco dalla madre attraverso l’adolescenza. Lui gioca tutto il tempo con un videogame su un piccolo portatile e sembra non fare caso alla madre che, distesa accanto a lui, lo tocca continuamente quasi a cercare conferma della sua presenza fisica, del suo esserci ancora. Lei alterna momenti di affetto morboso ad altri di forte aggressività, così che spesse volte le carezze si trasformano in schiaffi.
Il lavoro si svolge in due sedute, attraverso la narrazione di storie e pochi segni lasciati su un foglio. Mentre racconto lei si isola, sta accanto al figlio ma il suo sguardo è perso verso qualcosa che non c’è più.
Giuseppe disegna con pennarelli la paura della morte, concreta e visibile, reale e che può firmare per definire la sua forte presenza. Usa i pennarelli grossi e disegna svogliato, come per farmi contenta, ma mentre disegna racconta il suo sradicamento di ragazzo del sud, la nostalgia del mare e del sole. La madre sembra soffrire molto ed è stupita della consapevolezza di suo figlio ma allo stesso tempo le sue parole la rendono più vera. Al terzo incontro mi affida Giuseppe e va a prendere il caffè.

L’incendio e mamma tucano
Tutto è cambiato da quel giorno in cui la foresta ha messo i capelli rossi fiammanti e il calore s’è divorato il mondo. Mamma tucano con l’ala sbruciacchiata osserva suo figlio. A lui è andata peggio, la zampa non gli funziona più come prima. Per un tucano le zampe sono tutto, chi non cammina bene ha sempre bisogno di aiuto e quando non ci sarò più io… un singhiozzo interrompe il pensiero di lei.
L’uomo s’era accampato vicino alla foresta e cucinava le sue prede. Un giorno caldo la scintilla aveva dato il via alle fiamme infinite che erano corse verso il nido. Lei, il suo compagno e il piccolo si erano salvati… ma tutto è cambiato. Adesso con la sua ala annerita lei ha perso il suo fascino, ovvero, ne è talmente convinta che tutti la vedono invecchiata. Il piccolo con la zampa strana addolora suo padre che per questo sta in distanza, pur amandolo infinitamente.
Il cucciolo e la sua mamma stanno sempre vicini ma sono infelici. Non è solo il dolore del cambiamento, c’è dell’altro. Hanno perso le speranze di farcela e nello stare insieme non sentono più la lieve nostalgia di quando non sarà così. Perennemente uniti vivranno, pieni di rabbia e di amore a litigare tutto il tempo per come è meglio sedersi o sbocconcellare la noce di cocco.
Un giorno passa di lì il gabbiano. S’è perduto ma vola sereno, le grandi ali lo riporteranno presto sulla giusta via. Il cucciolo è affascinato, lui con quel becco enorme non riuscirà mai a volare così alto. Il gabbiano vuole ospitalità per la notte, il piccolo gli chiede di narrare i suoi viaggi. Così lui racconta e inventa mille avventure vissute e non, poi insieme, abbracciati, si addormentano.
Mamma tucano veglia serena. È la prima volta dal giorno dell’incendio che si allontana dal figlio e si accorge che l’ala ferita ha iniziato a rimettere piccole piume variopinte e morbide. Si specchia nella goccia di rugiada e il suo muso risponde ai desideri con un sorriso. Guarda il piccolo con sollievo, improvvisamente tutto è chiaro come l’alba africana: lui un giorno dovrà fare la sua vita, al di là dell’incendio, oltre la morte, con gli amici e i compagni di viaggio che di giorno in giorno conoscerà in giro per il mondo, anche se un po’ zoppo.
Il tempo si ferma d’incanto, lei si gira e vede il suo compagno che la osserva stupito, con amore. Da sempre si capiscono al primo sguardo così vanno l’uno incontro all’altra, poi si allontanano felici e innamorati come se niente di terribile mai fosse accaduto.

6.4 Aggressività nel rapporto e compulsività: L’iguana arrabbiata
Una madre non può che nuocere ai suoi figli
se fa di loro l’unico scopo della sua vita.
(William Somerset Maugham)

Roberta è psicotica, bulimica, affetta da shopping compulsivo ed è violenta con il suo bambino di tre anni. La seguono i servizi territoriali insieme al marito con una terapia di coppia ed è stata ricoverata più volte in psichiatria.
L’invio presso il Centro Nascite riguarda lei sola, il figlio non viene nel setting ma è fortemente lì, tanto che sento la sua presenza fisica in modo pregnante.
Roberta riempie la stanza con il fiume di parole e la potenza fisica che corrispondono esattamente, nella misura e nella forma, al suo forte dolore interno. Ciò che narra è spesse volte frutto del desiderio che la opprime sui fatti della vita che lei stessa non sa se essere reali o immaginati. Sento di doverle dare pochi materiali, così da contenere, almeno lì nel setting arte terapeutico, la quantità dirompente di tutte le cose troppo grandi dentro e fuori di lei. Durante il lavoro parla continuamente del suo bambino e afferma di desiderarne un altro e a volte di aspettarne un altro, si figura di avere effettuato una fecondazione assistita mai avvenuta e tutto questo la opprime come presenza nella mente e assenza nel concreto.
Ogni tanto si mette a piangere violentemente e racconta i momenti di scambio violento che ha con il suo bambino. La narrazione prosegue a volte con brevi ricordi della propria infanzia e della madre che la insegue tirandola per i capelli, definendo il terrore del ricordo di quei momenti. In alcune sedute racconta l’ossessione per il numero tre che le fa ripetere la stessa cosa, mangiare tre gelati, forare tre biglietti dell’autobus, comprare tre paia di pantaloni fino a finire tutti i soldi ed essere presa dal terrore di non poter più vivere.
Durante una delle ultime sedute Roberta può finalmente disegnare l’imbuto che rappresenta la sua persona, da riempire continuamente e sempre vuota. La bocca dell’imbuto sembra però un coperchio in grado di interrompere il circolo vizioso della sua compulsività.

L’iguana arrabbiata
L’iguana ce l’ha col mondo. Non sa perché, dev’esser nata così. Ma se sta ferma per un attimo allora ricorda quando la sua mamma la tirava rabbiosa per la coda e suo padre fingeva di non vedere, così capisce che forse avrebbe potuto essere meglio di così se fosse nata altrove. È tanto arrabbiata che si sfoga col mangiare, ingoia qualsiasi cosa le passi davanti, ogni frutto marcio che cade, ruba il cibo alle altre iguane e loro non la possono sopportare.
Ha sempre desiderato d’esser diversa dai suoi genitori, così quando ha avuto il suo piccolo lo ha guardato con amore. Ma subito dopo già non ce la faceva più ed era arrabbiata con lui perché prendeva spazio sulla sabbia, catturava raggi di sole che erano suoi e mangiava cose che quindi lei non poteva ingurgitare.
Ossessiva in tutto, doveva sempre fare dieci volte ogni cosa ed era scomodissimo. Se andava a bagnarsi al fiume poi doveva tuffarsi altre nove volte e alla fine prendeva il raffreddore. Se mangiava una blatta cornuta le toccava cercarne altre nove e si sa che nel deserto trovar blatte non è mica tanto facile. Le sembrava di essere sempre vuota e si riempiva di tutto quello che poteva.
Un giorno, intenta a divorar papaya una dopo l’altra, non s’accorse dell’arrivo del cobra. Suo figlio rimase talmente stupito di vedere quella bestia così lunga e tutta annodata che rimase immobile e lui gli si arrotolò intorno compiaciuto. Il piccolo sentendosi abbracciato come mai era accaduto gli sorrise, così il cobra decise di far merenda da un’altra parte e, lentamente, si srotolò.
In quel preciso momento la mamma vide improvvisamente i due e restò impietrita dalla paura. Aveva appena iniziato a rotolarsi nella melma del fiume e lo aveva fatto una volta sola, così lo avrebbe dovuto fare altre nove volte. Tutta la vita le passò davanti… Cos’era questa storia delle dieci volte? Doveva forse dimostrare qualcosa a qualcuno? O ritrovare il tempo perduto nella sua testa ansiosa? Poi pensò cosa sarebbe successo se suo figlio non ci fosse stato più. Corse verso di lui, il serpente se n’era andato ma lei, ancora terrorizzata, lo abbracciò per la prima volta. Lui sorrise e le donò una piccola foglia di cactus. Lei la prese e l’odorò. Si accorse che mai aveva odorato il cactus e sentì sapore di casa e profumo di vita. Vide una zanzara e se la mangiò, poi si grattò un orecchio con la zampa posteriore. Il piccolo la guardava stupito, poi anche lei se ne accorse: non doveva più fare le cose dieci volte. La paura l’aveva guarita come la paura, tanti anni prima, l’aveva fatta ammalare.

6.5 Fratelli: Una chioccia, tre pulcini
La madre è orgogliosa del figlio che è salito in alto,
ma darebbe la vita per l’altro: per il figlio senza fortuna.
(Libero Bovio)

Stefania ha una bellissima bambina, aspetta il secondo figlio, Tommaso, ma ha un distacco di placenta non diagnosticato nei primi mesi di gravidanza. Il bambino nasce prematuro e muore dopo due giorni. La sorellina cambia carattere, è arrabbiata e la madre è depressa, il loro rapporto diviene insostenibile e complesso. Seguo le due insieme, poi la madre da sola e in seguito la piccola da sola, durante la terza gravidanza e poi con la nuova sorellina.
Il lavoro risulta particolarmente efficace nei primi mesi, in cui il contenimento del dolore e della rabbia si esprime attraverso l’uso dei materiali e la cooperazione della mamma e della figlia insieme alla terapeuta che lavora con loro e che ha spesse volte la sensazione di ricreare un cerchio tra donne, come quando in passato si lavorava all’uncinetto o al ricamo.
Spesso la violenza emerge nel rapporto tra le due che fisicamente si scontrano nel setting, trasformando la terapeuta in una sorta di arbitro. A un aspetto esteriore delle due esteticamente molto accurato corrisponde un substrato di assenza di accudimento, una nota depressiva che emerge nella mancanza di accuratezza di certi particolari, calzini bucati, unghie molto lunghe.
La bimba all’inizio di ogni seduta corre sversata nel setting, poi attratta dai materiali ritrova la sua calma e racconta la sua vita.
I temi della casa, del percorso e del ritratto si ripresentano periodicamente in modi diversificati, come a cercare di trovare una nuova definizione di sé e del proprio percorso al di là dell’evento traumatico e che vada oltre ciò che convenzionalmente ci si aspetta, soprattutto dalla bambina ma anche dalla madre. Durante una delle ultime sedute della terapia, interrotta dalla madre improvvisamente e senza preavviso, la bimba uscendo dal setting dona alla terapeuta un piccolo anello di scotch giallo a fiorellini rossi così che lei lo possa sempre portare con sé.

Una chioccia, tre pulcini
La chioccia ha fatto tre uova ma questa volta vanno covate e gli uomini non le possono mangiare perché lei se lo sente che sono figlie del suo galletto nero. Uno bianco, uno rosa, uno giallo, la gallina è molto fiera della covata, ben tre uova tutte diverse. Nasce il primo pulcino. È una femmina, gialla come il sole e piena di vita. È tutta bagnata e sottile ma il sole l’asciuga presto e diventa tonda come una pallina morbida. Mi somiglia, dice la chioccia vantandosi con le altre. Dopo due giorni si schiude il secondo uovo. Il pulcino non pigola. Lei cerca di non vederlo ma l’istinto è più forte del pensiero e non può resistere. La madre lo guarda per un attimo e il piccolo entra prepotentemente nel suo cuore anche se lei non lo vorrebbe mai. Il pulcino è come se non potesse asciugarsi al sole, le piume restano tutte ammazzettate, prova a vivere ma respira a stento per due giorni, poi muore.
La chioccia adesso non vede più le cose come prima. La piccola pulcina gialla sembra un po’ più brutta e a volte si scorda perfino di pulirle la testolina e le zampette. Lei la segue ma la madre è infastidita. Non si riconoscono, eppure sono sempre le stesse. Ogni tanto si danno una beccata a vicenda, sanno che non potranno mai fare a meno l’una dell’altra e questo le riempie di rabbia. Il pulcino maschio non c’è più, e questo è accaduto ormai. Madre e figlia guardano il terzo uovo e sognano un giovane galletto che corre e zampetta e canta la sua sveglia alle quattro del mattino così come dev’essere.
Nasce il terzo pulcino. È una femmina. Mamma e figlia la guardano senza felicità. La amano di un amore immenso ma sanno di aver perduto per sempre quella pienezza della vita com’era quando per la prima volta si sono incontrate.
La piccola è gioiosa e vivace e si mette in pericolo continuamente così la chioccia ha tanto da fare. E le giornate scorrono stratificando le nebbie amorose e inconcludenti della nostalgia.

6.6 Maternità e rinuncia di una parte di sé: L’altra faccia della sogliola
Una madre è contenta di essere niente altro che una madre.
(Elias Canetti)

Simona, sette anni, è in day hospital a Neuropsichiatria Infantile per i molteplici disturbi che fin dalla nascita, parole della nonna, la perseguitano. La bambina è sottoposta, durante la mattinata, a test di ogni genere che la spossano.
La nonna prende in mano la situazione da subito, è la protagonista del laboratorio aperto, lavora con alcuni bambini e una ragazza anoressica raccontando la sua terribile storia di madre felice distrutta dalla nascita della nipote, figlia della sua unica, bellissima, intelligentissima figlia. Ho la sensazione che il laboratorio sia molto utile proprio a lei.
La figlia si affaccia al setting più volte, osservando in silenzio, eterea. La bambina invece si rapporta fortemente alla nonna, a me e ai materiali.
La nonna effettua un collage in cui si ritrae giovane e bella con un grande cappello a fiori rosa, poi piangendo ammette di non farcela più e di avere fatto un errore a portare via la bambina a sua figlia perché forse ce l’avrebbe fatta meglio di lei.
Durante l’unica seduta in cui incontro le tre donne, una specie di teatro mi mostra la realtà patologica intergenerazionale di questa piramide in cui la nonna decide di prendersi la nipote togliendola alla figlia per non farla soffrire. La bimba disegna continuamente animali, con segni forti e sversati e con macchie che sottolineano le sue difficoltà di movimento e di espressione.

L’altra faccia della sogliola
La sogliola non aveva mai reagito alla sua situazione. Le era parsa l’unica fattibile ed era stata a quello che la vita le aveva dato. Si accontentava di farsi dondolare dalle onde la cui eco lontana giungeva fin giù nel fondo del mare, e di farsi solleticare dalla sabbia su quel volto buio che nessuno mai aveva visto. Sì perché lei, come tutte le sogliole, aveva una faccia di quelle che non si possono mostrare. Aveva adeguato il suo corpo alla situazione in cui era vissuta e le era parso di non desiderare niente di più.
Tutto era stato così fino a quando era nata quella strana figlia. Non era come le altre sogliole e lei se n’era accorta subito. Con il suo compagno erano restati fermi immobili nel vedere la soglioletta neonata che si muoveva in tutte le direzioni andando in qua e in là disordinatamente, senza una mèta. Subito dopo, la sua grande mamma sogliola, nonna della strana piccola, aveva preso in mano la situazione. Tu non ce la puoi fare con questa figlia le aveva detto e lei era filata via liscia liscia come aveva sempre fatto, lasciando campo libero a chi era più forte di lei.
Poi la piccola era cresciuta. La nonna, stanca e invecchiata, si era accorta di aver fatto il passo più lungo della pinna. Così la madre era tornata a guardare la figlia che si divincolava nell’acqua creando una gran confusione tra le sogliole che monotonamente, da milioni di anni, avevano vissuto sempre nello stesso modo. La mamma l’aveva carezzata piano sulla minuscola pancia e la giovane sogliola si era un attimo calmata per poi riprendere a divincolarsi e a comportarsi in modo strano.
Il grande sogliolo, mago antico della comunità, aveva decretato che quella soglioletta sarebbe stata sempre così, senza speranze – aveva ripetuto più volte facendo molte bolle imbarazzato.
La mamma sfiorò per istinto la sua piccola, si rese conto di desiderare molto abbracciarla, e così fece. Lei si calmò ancora una volta, poi ricominciò irrefrenabile la sua corsa matta a rendere limacciosa l’acqua limpida dell’atollo. La mamma si sentì strana. Un fremere dall’interno si impossessò di lei e si rese conto che forse, un poco, quella figlia le somigliava. Era solo che la parte somigliante lei non l’aveva mai voluta vedere. Istintivamente diede un forte colpo di pinna, fece tre salti mortali e si appoggiò al fondo sulla sua parte visibile. Sentì la sabbia entrare negli occhi e nella bocca ma accadde anche qualcosa di incredibile: la sua parte nascosta si rivelò estremamente creativa, colorata, luccicante e fantasiosa tanto che tutte le sogliole dei dintorni accorsero per vederla.
La figlia, stupita, la osservava. Era calma per la prima volta nella sua vita ma anche lei sentì un fremito irresistibile, diede un colpo di pinna e si rovesciò, mostrando la sua parte nascosta, identica a quella della madre anche se molto più piccola.
Nessuno sa cosa accadde subito dopo né come fu che madre e figlia siano sopravvissute a un’azione così contro natura, fatto sta che le due spesso si vedono insieme passare sul fondo del mare, vicine ma non troppo, andare dello stesso passo inusuale e variopinto.

6.7 Maternità come rinascita: La gatta piccola dalla grande pancia
Nessuno stato è così simile alla pazzia da un lato, e al divino dall’altro quanto l’essere incinta.
La madre è raddoppiata, poi divisa a metà e mai più sarà intera.
(Erica Jong)

Centro Nascite. A Lucia, poco più di una bimba, viene chiesto di dare in adozione la figlia che aspetta. È troppo piccola, troppo sola e immatura e la sua storia molto pesante. Non ha mai conosciuto sua madre ed è cresciuta con i nonni, persone molto problematiche. È scappata con un ragazzo di un’etnia diversa dalla sua, ha rubato ed è rimasta incinta.
All’arte terapeuta in tirocinio viene chiesto, in tre sedute, di accertare la sua volontà che non è chiara né agli psicologi né ai servizi sociali.
La ragazzina e la sua pancia popolano il setting in modo intenso, con vera sete di narrazione. Materiali da bambina, soprattutto pennarelli con cui lei, disegnando ritratti di famiglia, elabora il lutto di essere stata lasciata dalla madre ancora piccolissima.
Nei ritratti che sembrano fatti a scuola, presenta come in una parata i parenti veri e immaginati, gli animali e ritrae se stessa con la pancia e a volte con la sua bambina in braccio.
La svolta avviene nel corso della seduta in cui Lucia, alla richiesta di rappresentare con pochi segni la sua maternità, crea un abbraccio con un cuore in mezzo. Il disegno, semplice e intenso, mostra tutta la forza della gravidanza come possibilità di riemergere dal tunnel dell’assenza. La bimba che aspetta ha lo stesso nome della madre che l’ha lasciata e che lei non ha mai conosciuto.

La gatta piccola dalla grande pancia
La gatta piccola dalla grande pancia cammina fiera nel cortile. È l’ultima arrivata e i gatti della colonia la guatano severi come a dire Questa cosa vuole? Non è per cattiveria ma la gattara del Comune porta cibo giusto giusto per i 23 gatti della colonia e quando uno nuovo si avvicina tutti temono di mangiare un po’ meno. Ma la gatta piccola dalla grande pancia non ha paura di niente. Eppure pare così fragile, esile sulle sue zampette di cristallo. È molto bella, beige con occhi verdelago di montagna e il naso rosa cipria, una d’altri tempi insomma.
È molto giovane eppure la sua storia è già così pesante… Non ricorda come ma si è trovata sola piccolissima in un cespuglio del parco della città. C’era la potatura degli alberi e i tronchi cadevano con sordo frastuono, uno alla volta. Lei, rifugiata sotto un sasso, si era salvata. La sua mamma non l’aveva mai conosciuta, si era sempre occupato di lei un vecchio gatto mezzo cieco che chiamava nonno. Era tutto spelacchiato e non si avvicinava più di mezzo metro ma l’aveva nutrita e difesa dagli assalti di altri gatti. Lei però aveva sempre sofferto tanto il freddo.
Un giorno le si era avvicinato un gatto siamese. Tutti i gatti tenevano una distanza di sicurezza dai siamesi che si dice che rubano e che sono strambi e che non si sa da quale strano paese possano venire. E poi a volte sono senza coda e hanno gli occhi azzurri tutti storti. Ma lui era bellissimo. Sottile, alto con un gran testone così come i gatti maschi fascinosi devono avere, si era avvicinato a lei con destrezza e l’aveva guardata col suo sguardo da mezzosangue che le aveva fatto battere forte il cuore. Così, a dispetto del nonno e degli altri gatti del parco, se n’era scappata col siamese chissà dove ed era tornata con una grande pancia.
Le vecchie gatte l’avevano avvisata che si trattava di roba da grandi e che di lì a poco non sarebbe più stata una figlia per diventare una mamma. Ma lei, che figlia non si era mai sentita, era rimasta così scombussolata da questi discorsi che se n’era andata.
Aveva camminato a lungo nel bosco del parco, attraversato pericolosamente ben tre viali rumorosissimi con degli strani bestioni con le ruote che muggivano forte al suo passaggio, poi aveva visto il cortile. Lì aveva pensato di poter mettere su casa. Non sapeva come ma le pareva di essere già stata in quel posto, tanto tempo prima. Pensò che la sua pancia contenesse una gatta femmina e le diede nome Nina. Sentì la forza selvaggia del cambiamento nascere dolorosamente dentro di lei, così cercò un posto nascosto e partorì. Nina era bella come il sole, occhi azzurri come il padre, naso rosa cipria e un fascino particolare. Ma soprattutto era precisa a sua nonna, la madre che la gatta piccola dalla grande pancia non aveva mai conosciuto e che portava, come per magia, lo stesso nome. E che abitava all’ultimo piano del palazzo che affacciava proprio su quel cortile. Ma lei non l’ha mai saputo.

6.8 Disturbo alimentare e del sonno: Il barbagianni che non sapeva dormire
Un figlio deve abitare la nostra casa come un estraneo avventuroso e felice.
(Pietro Citati)

Lucilla è una delle ragazze anoressiche che frequentano assiduamente il laboratorio aperto tematico di arte terapia presso Neuropsichiatria Infantile. Realizza collages componendo immagini artistiche con piccoli interventi di tempera o grafite. Il modo accurato corrisponde a certe caratteristiche del suo corpo, le unghie dipinte, i capelli lisci raccolti perfettamente da un semplice elastico, le spalle diritte. Durante una seduta fondamentale lavoriamo a fianco senza guardarci per circa un’ora e lei mi racconta intensamente ciò che prova nel guardarsi allo specchio. In quella seduta restiamo spesso sole nel setting, come se le persone capissero di essere capitate in un momento particolare.
La volta successiva è presente in reparto sua madre. Il tema, scaturito dalla seduta precedente, è l’autoritratto.
La mamma, bella quanto lei, partecipa silenziosamente con lo sguardo, senza toccare niente, mentre la figlia effettua il suo lavoro usando i gessetti, senza sporcarsi. È un fondale marino. L’autoritratto mostra la potenza del silenzio nella patologia, della fissità del tema e del movimento ritmico e obbligato delle terapie. Durante la seduta, mentre la ragazza termina il suo lavoro, la madre sfiora il suo corpo inesistente con una sorta di compiacimento che mostra in tutta la sua terrifica realtà la sofferenza intergenerazionale presente nel loro legame.

Il barbagianni che non sapeva dormire
Tutti i barbagianni dormono. Così quando il suo babbo si era accorto che lui non era come gli altri si era preoccupato ma non aveva detto niente poiché in segreto, nella luce piena del giorno, i suoi occhi erano sempre stati stranamente spalancati come non si addice a un buon barbagianni.
Ma che il suo piccolo non dormisse no, non andava bene. Lui senza vergogna mostrava a tutti la sua stranezza e suo padre questo non lo sopportava. Si chiedeva spesso se fosse più l’imbarazzo a farlo soffrire o la preoccupazione per la salute di suo figlio. Poi, confuso e vergognoso dei propri pensieri, tornava sul ramo a gestirsi l’insonnia in silenzio.
Il piccolo barbagianni aveva un carattere particolare. Da sempre affascinato dai colori, con il becco faceva strane composizioni di foglie che raffiguravano topolini e coniglietti, così si saziava della propria creatività e non doveva procurarsi il cibo. Era magro e stanchissimo. Il padre, deluso, sognava un figlio che lo rendesse fiero, gran cacciatore notturno, mangiatore forte e alto. Ma c’era una parte di lui che era felice, in fondo la somiglianza di suo figlio dava spazio a quel suo lato un po’ strano che mai aveva accettato.
Un giorno arrivò in zona un maschio di sula dai piedi blu. Era molto bello e il piccolo barbagianni, estasiato dal colore dei suoi piedi, si avvicinò e gli mostrò come sapeva fare le sue composizioni di foglie. Il maschio di sula rimase stupito e affermò che mai nella sua vita aveva incontrato un barbagianni così bravo nel comporre immagini di foglie. Aveva girato tutto il mondo, sapeva i segreti degli uccelli notturni e diurni ma una cosa così non l’aveva mai vista.
La sula lasciò che il piccolo terminasse la sua opera, poi chiamò gli animali del bosco affinché ammirassero quelle composizioni così particolari. Il topolino giunse trafelato e si riconobbe nei ritratti che il piccolo gli aveva fatto, poi scappò perché chissà se il barbagianni aveva fame. Gli uccelli variopinti accorsero e festeggiarono il giovane compositore che per l’occasione mostrò anche quanto fosse abile nell’arte del fischio. Scrosciarono gli applausi e un rumore assordante spaventò perfino i cacciatori che fuggirono dal bosco chissà dove.
Il padre osservava in silenzio, da lontano. Forse poteva essere fiero di suo figlio, ma in un modo che mai aveva previsto. Era turbato che uno straniero, per giunta con i piedi blu, gli avesse mostrato con grande chiarezza le sue qualità, ma prevalse la gioia. Scese dal ramo e spalancando gli occhi insonni disse a voce altissima Io non dormo tutto il giorno da anni, poi sereno salì sul suo ramo e si addormentò. Il piccolo lo seguì e si accoccolò accanto a suo padre che mai era stato così morbido. Si abbracciarono e fecero una bella dormita illuminati dal sole cocente del ferragosto.

5. Le fasi della crescita nel Setting

Adesso cresco, cresco, cresco
(Chloé, 4 anni) (1 pag. 353)

Esistono alcuni temi legati all’età del figlio, che l’arte terapeuta può tenere in mente e che rendono più semplice l’individuazione della strada da percorrere nelle specifiche tipologie patologiche e che sono esemplificate nei seguenti paragrafi, prima di trattare della specificità dei casi.

5.1 Dialogo pre natale madre bambino
Quando ero dentro la mamma, la mamma mi conosceva.
Stefano, 3 anni (1 pag. 145)

Citando Fonagy, Mimma Della Cagnoletta scrive che “il lavoro preventivo con la donna in gravidanza permette di far affiorare quegli aspetti conflittuali della madre che potrebbero riversarsi sul bambino e nuocere sia alla loro futura relazione che alla capacità di attaccamento del bambino stesso” (13 pag. 165).
Chi lavora con i bambini sa che un neonato ha dietro di sé molta storia. Il piccolo immaginato dai genitori ha già una struttura che continua a evolversi nei mesi della gravidanza e, in condizioni di normalità, viene abbandonata al momento dell’incontro con il bambino reale che piange e respira e assorbe tutto il tempo che i genitori hanno a disposizione. In presenza di lutto, depressione, trauma e altri eventi o patologie, la storia del neonato diviene ancora più intensa, lunga, ingombrante, fino a impedire talvolta ai genitori di accogliere il bambino reale per ciò che lui è.
Ma anche lo sviluppo della madre in rapporto al suo dialogo con il figlio risulta denso e pregnante di attese, sogni, desideri che improvvisamente e a volte in modo traumatico sono interrotti al momento della nascita che rappresenta uno scontro con la realtà. E vedremo nell’esemplificazione dei casi come talvolta questo crei problemi di simbiosi, di aggressività e di sviluppo di falso Sé. D’altra parte “Nell’interazione madre-bambino vengono […] trasmesse ripetizioni di modelli interrelazionali, per cui dalla qualità dell’organizzazione dell’attaccamento materno si può predire quella del suo bambino” (13 pag. 165).
Tale problematica ha risvolti importanti nei cambiamenti avvenuti a livello sociologico poiché la “separazione tra casa e lavoro, pubblico e privato, che ha come conseguenza l’isolamento delle madri nelle loro case” (18 pag. 31) crea spesse volte un silenzio colmo di vergogna sulla propria condizione di madre depressa da cui tutti si aspettano felicità assoluta per la fortuna di aspettare un bambino. Madre in inglese è stato definitivamente sostituito con Chi dà le cure di base: “La società attraverso gli asili nido si è ripresa molte delle funzioni di custodia tradizionalmente riservate alle donne. I padri […] partecipano all’accudimento dei bambini piccoli. Vi sono dunque cambiamenti importanti nella definizione del ruolo di madre” (12 pag. 239).
Nel setting che accoglie la madre con il proprio figlio visibile al mondo solo attraverso il cambiamento del suo corpo, il lavoro deve svolgersi in vista dell’accoglienza del bambino reale quando nascerà. In presenza di lutto, soprattutto nella perdita di un figlio precedentemente alla gravidanza presa in carico, la ricerca di una via volta alla conoscenza dell’individualità del nuovo bambino è fondamentale affinché la nascita non prenda una valenza di lutto, delusione e depressione nel non riconoscere nel neonato le fattezze del figlio perduto, o induzione alla ricerca di un falso Sé qualora si riconoscano o si proiettino, in quel neonato, molte delle caratteristiche del figlio perduto (vedi caso Perdita e malattia: La merla e l’uovo rotto).
Il setting deve essere strutturato in modo accogliente, con elementi morbidi così che la futura madre possa mettersi in ascolto del proprio corpo e dei suoi cambiamenti, presa in braccio dal luogo terapeutico così come dovrà fare lei con il suo bambino. Questo è particolarmente importante visto che ciò che appare un temperamento innato può essere già stato influenzato dall’ambiente prenatale (18 pag. 171).
I materiali da utilizzare sono tutti quelli possibili salvo i tossici o troppo odorosi, ma risulta efficace l’uso di elementi naturali quali foglie e fiori secchi, sassi e rametti, fili e batuffoli di lana e cotone, in grado di evocare il fare nido.
In presenza di madre in gravidanza e fratellino già nato è bene effettuare un lavoro volto all’instaurarsi del legame a tre che dopo pochi mesi si realizzerà. In questo tipo di setting può essere particolarmente efficace l’uso di libri con rime molto musicali che alla nascita il nuovo bambino potrà nuovamente condividere con la madre e il fratellino (esempi e bibliografia su questo tema si trovano nell’articolo Papini A. “Leggere in luoghi sensibili” (24 pag. 18).

5.2 Il lutto del perdere la pancia
La vita parte da dove sei nato.
(Andrea, 4 anni) (1 pag. 11)

In presenza di patologie il portare la pancia può indurre la futura madre a pensare che tutti la amino poiché tutti la guardano, osservano curiosi la sua condizione e mettono in conto una sua fragilità, un suo affaticamento facendola sedere al proprio posto o passare a una fila alla posta. È qui che emerge la problematica nel momento della nascita, quando alla pancia, appartenente alla mamma fisicamente, si sostituisce il bambino che attira l’attenzione di tutti distogliendola da lei.
Il bambino alla nascita è equipaggiato da due modalità di movimento, la tensione muscolare chiamata flusso di tensione muscolare, e il flusso di forma o forma fluente.
A volte il bambino nasce molto teso fisicamente e questo può creare problemi alla mamma nel tenerlo in braccio, come all’opposto può crearne se è ipotonico.
La tensione corporea si organizza attraverso dei ritmi che hanno a che vedere con il tenere e il rilassare, tutto il corpo lo fa, anche il cuore. Il primo ritmo è quello del succhiare, libero/tenuto che accompagna tutto il bambino, i piedini, le sue mani. Esso funziona da calmante, favorisce la fusionalità, l’unione nel periodo che va da zero a sette mesi circa.
La Tustin nei primi anni ’90 scrive che non esiste uno stadio infantile di autismo primario normale (27 pag. 77). Osservando i neonati e le loro madri nei primi giorni e mesi di vita dopo la nascita, l’Infant Research respinge come irrealistica la fusione descritta da Margaret Mahler come indifferenziazione tra l’io del neonato e la madre. Cade l’ipotesi della simbiosi come stato primario del bambino che in realtà, si scopre, è in relazione fin da quando nasce: “il neonato è sveglio, attento, già complesso mentalmente, sin dall’inizio destinato a sofferenze non soltanto fisiche” (27 pag. 25).
Il setting madre/neonato si struttura attorno ai ritmi della madre con il suo bambino. La stanza dell’arte terapia diviene teatro delle molteplici intense interazioni tra i due in cui il movimento dona al terapeuta infiniti spunti di riflessione. Nel setting madre/neonato avvengono molte cose pratiche, il piccolo deve mangiare o deve essere cambiato, così il lavoro con i materiali diviene prezioso tempo rubato all’accudimento. Affinché le interruzioni siano sporadiche così da ottenere una continuità nel lavoro, è bene che il setting sia strutturato con elementi morbidi per terra che permettano di appoggiare il bambino in assenza di pericoli, così che le due persone della relazione siano il più possibile autonome e rilassate. I materiali vanno scelti in funzione del fatto che la madre tocca continuamente il suo bambino, vanno evitati materiali dall’odore troppo forte o che sporcano eccessivamente. Anche in questo caso sono da preferirsi elementi legati alla natura e all’istinto, morbidi e dai colori tenui come quelli che popolano il mondo dell’allattamento al seno. Nei casi in cui questo sia il problema, va dotato il setting di cuscini da allattamento a forma di mezzaluna.

5.3 L’altro da Sé
Il mare nasce da mamma onda
Il tempo nasce dal temporale
Il vento nasce dall’aria e ha la forma di sbattere.
(Valeria, 3 anni) (1 pag. 19)

Dopo i sette mesi inizia il ritmo del mordere ed è qui che emergono in tutta la loro forza i casi di simbiosi. È un momento fondante, Winnicot parla dei disturbi dell’appetito che hanno radici nella primissima infanzia e di un tipo di crisi dovuta alla reazione ansiosa all’impulso di mordere il seno (31 pag. 44). Il bambino utilizza lo spazio, lo esplora, l’orizzontalità è il primo luogo in cui esso stabilisce un rapporto tra sé e l’esterno. È molto importante osservare la qualità del modo in cui entra a contatto con il mondo, il bambino per crescere sano deve avere un buon rapporto con lo spazio.
Dopo i sette mesi di vita il piccolo comincia ad attivare la forza, sta seduto, gattona, crea un diverso rapporto con la gravità, attua dei cambiamenti che lo soddisfano molto. A circa un anno, con la posizione eretta, modula la forza con la tensione, conquista la verticalità e si trova per la prima volta nel mondo degli adulti.
Siamo nel piano cosiddetto della porta, della presentazione di sé. C’è l’orgoglio di affermare io esisto e mi presento, cado e mi rialzo senza piangere perché fa parte di questa esperienza, il bambino ha più forza, trattiene, sale su e scende giù, ha ritmi tenuti o lunghi.
Si giunge a definire l’esistenza di due linee, una dell’attaccamento e l’altra della separazione, che devono progredire parallelamente. Con l’attaccamento si sviluppa la capacità di far crescere le relazioni mentre la separazione serve a rinsaldare il senso di sé come individuo. Le due cose sono entrambe necessarie. Nel bambino che entra in terapia una o l’altra o tutte e due le linee hanno subìto un’interruzione, è importante quindi osservare la sua capacità di stare da solo o in relazione.
Esistono due forme di simbiosi che Mimma Della Cagnoletta (13 pag. 50) chiama fusione e confusione. Nella fusione gli elementi che emergono sono nella linea che porta alla separazione, nella confusione ci sono gli elementi fondamentali che si trovano nella linea dell’attaccamento. Fusione e confusione sono due forme di base di autoespansione. Nella fusione si ha l’espansione del sé per includere l’oggetto, è una forma di potere per avere, di controllo. Nella confusione i due, sé e oggetto, sono fusi insieme, uno è inglobato nell’altro soprattutto per quanto riguarda le sue capacità, c’è un controllo, e questo ha a che vedere con l’incorporare per essere.
L’esperienza della simbiosi sulla linea di sviluppo della separazione è molto importante, se viene bloccata il bambino non si può assolutamente separare. L’obiettivo è controllare l’oggetto, tenerlo dentro di sé. Questo riporta alla frase di Freud secondo cui il bambino ha la mamma. L’esperienza di confusione invece riguarda il concetto che Noi due siamo una cosa sola, così che a livello affettivo le due persone non vanno verso un’autonomia dell’individuo. In questo caso il bambino sembra affermare io sono la mamma.
Per accogliere adeguatamente, in questa fase così delicata, il bambino e sua madre nella stanza di arte terapia, è importante capire quale dei due vissuti prevale. Ma ciò che appare nascosto può in seguito essere compreso molto bene nell’osservare la relazione tra i due e i legami che esistono tra ciò che viene creato attraverso i materiali.
Se il bambino non riesce a entrare senza la mamma, dunque quando il setting madre/bambino diventa un percorso obbligato, è importante prendere atto del fatto che anche la mamma ha bisogno di entrare nella stanza con lui. Il bambino non sa se riuscirà a sopravvivere nel setting senza di lei ma non sa neanche se la mamma potrà sopravvivere senza di lui.
Anche nel setting madre/bambino, nonostante l’apparente affollamento, molto passa attraverso l’espressione non verbale. Accade al terapeuta di vedere improvvisamente qualcosa, nel disegno o nel movimento, di cui nessuno gli ha parlato: intanto come primo passo è importante chiedersi il perché di tale silenzio, anche se è dimostrata “la potenza dell’attività artistica nel riflettere e nel condurre emozioni quando le parole non sono possibili” (20 pag XIII) (vedi l’abbraccio con il cuore in mezzo disegnato dalla madre/bambina nel caso Maternità come rinascita: La gatta piccola dalla grande pancia). D’altra parte “Freud ha osservato che le immagini rappresenterebbero ricordi dimenticati o repressi, i cui simboli avrebbero la possibilità di riemergere attraverso i sogni o le espressioni artistiche” (20 pag. 3).
Il bambino si rapporta naturalmente ai materiali, cerca di assaggiarli, sua madre generalmente fa in modo che questo non accada, anche nel setting come nella vita. È un lavoro complesso quello con madre e bambino perché condividere nella stanza dell’arte terapia l’infanzia e il rapporto primario ha a che vedere anche con il contattare le perdite subìte. Ogni bambino chiede Conoscimi, il terapeuta deve dargli solo visibilità e lo può fare usando il bambino che è in lui, ma a volte la presenza della madre complica tutto questo.
In questo tipo di setting in cui le due persone, quando non vi siano patologie gravi, possono muoversi abbastanza autonomamente, vanno osservate alcune regole.
È necessario che sia difeso il lavoro della madre, ponendo i supporti a diversi livelli, appesi alla parete o su tavoli. Per terra vanno posizionati giochi morbidi, in particolare palle e cubi di stoffa, elementi smontabili e matitoni atossici con grandi fogli di carta. In presenza di problematiche legate alla simbiosi, che spesse volte si presentano a questa età in cui il bambino dovrebbe fare il primo passo verso l’autonomia, il setting va strutturato con elementi volti a sottolineare che esiste una possibilità di percorrere, dividere, strappare (vedi caso Spasmo affettivo: L’ultimo cavallino bianco).

5.4 Due strade, due vite
Qui c’è il tuo nido, via c’è il tuo mondo
qui c’è l’oceano, via c’è la nave
qui c’è la tana dove ti nascondo
qui c’è lo scrigno, via c’è la chiave…
(Bruno Tognolini)

Calibrando la madre il dare e il frustrare, le presenze e le assenze, suo figlio può crescere. Dopo il primo anno di vita il bambino comprende l’alto e il basso e diviene consapevole di essere piccolo. Verso i due anni torna più morbido nei movimenti, il suo senso del confine è più labile, il movimento è sagittale ed è una fase molto importante in quanto conferisce al piccolo la possibilità di fare le cose, andare verso e allontanarsi da, per ricaricarsi.
In questo periodo, in cui prende la sua strada, il bambino riconosce la sequenzialità, sa che dopo il giorno viene la notte poiché la sagittalità coincide con il senso del tempo, il piccolo accelera e decelera, prende decisioni e ha un obiettivo ma non porta a termine le cose e gioca molto con l’acqua.
Questo movimento è facilmente osservabile nei setting misti poiché la mamma è lì, a volte collabora, a volte inibisce il bambino nel movimento. Accade anche che la presenza del terapeuta permetta la messa in atto di una vera e propria sfida durante la quale l’uno o l’altro si sentono spalleggiati.
Nel setting madre/bambino si può osservare una inibizione del piccolo che ha paura di sporcarsi perché la madre lo guarda; non è detto che lei non voglia che si sporchi, a volte lui immagina le reazioni della madre ed è importante che il terapeuta tenga conto di questo poiché spiega molto sul rapporto.
Il mondo rappresentativo del piccolo in arte terapia dona immagini completamente diverse da ciò che il terapeuta poteva pensare prima di vederlo disegnare perché lui rappresenta lì il suo mondo interno. “L’arte, infatti, permette di aprire una finestra sui problemi, sui ricordi traumatici e su altre esperienze problematiche del bambino, anche se il suo scopo principale rimane quello di fornirgli un altro linguaggio con il quale condividere sentimenti, idee, percezioni, fantasie” (20 pag. XVI).
Il setting madre/bambino dai due anni in poi deve essere strutturato in funzione della relazione e delle problematiche riscontrate. In presenza di violenza, trauma o depressione è utile preparare la stanza con alcune possibilità abbastanza flessibili di lavoro singolo o comune, anche se relativamente all’osservazione ogni movimento, ogni segno, ciascuna azione non prescinde dalla presenta dell’altro componente della coppia presa in carico, anche quando il lavoro è silenzioso ed è realizzato ai lati opposti della stanza. Tutto ha un senso, ogni elemento è oggetto di osservazione così da rappresentare un tassello del complesso puzzle.
Quando il figlio è adolescente o preadolescente il setting misto va considerato solo in presenza di situazioni molto particolari. In casi in cui il figlio sia affetto da gravi malattie oncologiche o anoressia e vi sia una compresenza obbligata con la madre, il setting arte terapeutico può rappresentare un’opportunità atta a spezzare la simbiosi obbligata in cui i due vivono, spesso loro malgrado. La presenza dei materiali e del contenimento del terapeuta rendono possibile una strada di comunicazione silenziosa in cui il non detto e il non nominabile prende una forma e una definizione che attenua la realtà terrifica e il continuo contatto con il tema della morte (vedi casi Simbiosi post-traumatica: L’incendio e mamma tucano e Disturbo alimentare e del sonno: Il barbagianni che non sapeva dormire).

4. Lavorare nel setting: alcuni elementi pratici

Io ho volato, gattonato e sono entrata dall’ombelico…
(Erika, 3 anni) (1 pag 155)

L’arte terapeuta che si trova a operare in setting madre/bambino può partire da elementi molto pratici quali l’esclusione di un certo tipo di materiale, il posizionamento di aree-rifugio nel setting, la realizzazione di campi di intervento posti ai vari livelli considerando le diverse altezze fisiche dei partecipanti, ma questo non può prescindere dal motivo dell’invio che a sua volta struttura il setting in modo pregnante e a volte definitivo. Inoltre tali elementi devono tener conto dell’età del bambino, poiché da zero a dieci anni vi sono distanze tali nell’uso del setting da non permettere di generalizzare, e nel breve periodo per la stessa coppia madre/bambino le differenze sono molto grandi.
La complessità del setting madre/bambino riguarda anche la protezione degli elaborati e sappiamo che “In alcune circostanze i bambini devono essere protetti dalle immagini degli altri […] per la loro sicurezza e il loro benessere” (20 pag. 266). Ma questo vale anche per la madre che, in presenza di problematiche gravi del figlio, va protetta dalle proprie immagini e da quelle del bambino, che a volte in modo molto diretto giungono a urlare nel setting il proprio bisogno di essere viste e definite anche verbalmente. Così il terapeuta in questo tipo di setting si trova spesse volte a impersonare un ruolo di mediatore tra esigenze opposte. Per lavorare con i bambini l’arte terapeuta ha bisogno di tenere con sé la sua parte adulta, per lavorare nel setting madre/bambino è necessario un forte equilibrio tra le due parti che compongono la sua storia, e alle quali dovrà attingere continuamente. Ed è fondamentale avere un tempo piuttosto lungo, dopo la seduta, per dipingere e fare emergere con forza ciò che prepotentemente ha evocato la sua storia, a volte anche intergenerazionale.
Il processo creativo in genere passa essenzialmente due fasi, in sequenza quella più prettamente sensoriale e quella narrativa e simbolica. Durante la scelta dei materiali prevale il livello sensorio, attirano gli odori, i colori, come sono al tatto. Il livello sensoriale è immagazzinato nella memoria implicita, non è pensato né pensabile. I materiali scelti attivano le memorie, essi evocano qualcosa del vissuto del paziente dando luogo alla fase della narrazione. Così attraverso i sensi sono raggiunte le memorie che poi possono divenire un livello condiviso. Tale sequenza in arte terapia è ottimale, ma molte persone che per difesa hanno il livello sensorio inibito partono dalla narrazione. Nell’esperienza sensoria le due categorie, sempre soggettive, sono piacevole e non piacevole. Nel bambino mi piace vuol dire buono e non mi piace vuol dire cattivo. Dopo la fase sensoria vi è un passaggio che rappresenta l’oggetto transizionale, il protosimbolo. Quando all’immagine si attribuisce un significato nasce la narrazione. Scrive Alberto Comazzi che “il percorso terapeutico di uscita dal trauma corrisponde […] alla possibilità di raccontare la propria storia e al trovare un ascolto empatico” (23 pag. 257). Nello sviluppo del bambino le tre fasi sono attraversate in sequenza, così se il paziente preferisce una dimensione piuttosto che un’altra, dà all’arte terapeuta indicazioni sulla sua collocazione.
In genere nel setting madre/bambino l’elemento narrativo è preponderante poiché è utile a riorganizzare i momenti complessi, quelli in cui si confondono le varie esigenze, della madre e del bambino ma anche del terapeuta di contenere e riorganizzare per dare un ordine in sequenza alle varie azioni. Ma sono molto importanti i momenti in cui la relazione si abbandona al sensoriale, ai materiali in quanto tali e nella cui condivisione madre e figlio rievocano la possibilità di un dialogo istintivo che a volte non hanno avuto la possibilità di vivere.
Il bambino che giunge nel setting con sua madre è emozionato, a volte preoccupato e ha due atteggiamenti corporei opposti; se sta fermo e si nasconde dietro la madre è utile aver preparato materiali affascinanti così da muovere la sua curiosità e facilitare l’inizio del lavoro. Se è irrefrenabile sarà importante avere previsto un setting con uno spazio ampio e morbido in cui il piccolo può correre senza farsi male. Assecondare lo sfogo corporeo fa sì che lui si senta accolto per come è, e si fidi di narrare il suo dolore, allo stesso tempo dona al terapeuta l’osservazione del movimento e i conseguenti spunti di riflessione. Una prima fase di espressione corporea forte è stata alla base di tutte le sedute madre/bambina nel caso Fratelli: Una chioccia tre pulcini. Sofia all’inizio di ogni seduta rotolava e correva irrefrenabile per poi passare, nella fase artistica, alla narrazione dell’assenza facendosi aiutare, da me e da sua madre, a ricalcare le impronte dei piedini su grandi fogli di carta appoggiati sul pavimento e infine uniti tra loro in percorsi nuovi.
Esiste sempre il pericolo che il lavoro con i bambini venga interrotto. Se si ha difficoltà a prendere in carico la famiglia possono nascere invidie, gelosie, spaccamenti; è necessario fare attenzione a non rompere equilibri familiari prima di riuscire a contenere. Vanno tenuti dentro sia madre che bambino così che lei non si senta fallita ma neanche abbia la sensazione di delegare troppo il terapeuta. Quando Nicola si è staccato da sua madre per corrermi incontro ho temuto che non l’avrei più rivisto, il setting si è impregnato del dolore di lei. Dopo aver fatto volare il piccolo in alto gli ho detto di correre dalla sua mamma. Così lui ha potuto ripetere molte volte il gioco degli abbracci (vedi caso Spasmo affettivo: L’ultimo cavallino bianco). 

Le fasi della crescita nel setting
Adesso cresco, cresco, cresco
(Chloé, 4 anni) (1 pag. 353)

Esistono alcuni temi legati all’età del figlio, che l’arte terapeuta può tenere in mente e che rendono più semplice l’individuazione della strada da percorrere nelle specifiche tipologie patologiche e che sono esemplificate nei seguenti paragrafi, prima di trattare della specificità dei casi.

3. Il luogo intermedio e la visibilità della relazione

Questo mare ci agita nelle sue onde e chi sono ora io, si confonde.
Ma se solo il tuo sguardo s’incrocia col mio, dico sì, sono qui. Sono io.
(Bruno Tognolini)

Quanto detto finora entra con forza come un fiume nella cascata quando viene presa in carico la coppia madre/bambino. Tutto si fa evidente, la madre sa che starà nel setting e questo provoca in lei la possibilità di lasciare andare la sua idea di figlio per fare i conti con ciò che lui realmente è. Quando madre e bambino entrano nella stanza dell’arte terapia, la complessità della doppia presenza si fa subito pregnante. In genere conviene partire da un tema che, nella mente del terapeuta e nell’attesa dell’ora a disposizione, si fa largo scaturendo dal motivo dell’invio o da quanto trattato nel corso della seduta precedente. Ma questo non può apparire didascalico altrimenti le difese emergono velocemente, strutturate dal rapporto complesso preso in carico. È la narrazione che ci viene in aiuto, “C’era una volta…” è la frase che in molti casi risolve la prima seduta, il momento in cui è necessario sciogliersi e collaborare, trovare una strada comune madre-bambino-terapeuta in cui gli uni si possano affidare agli altri tramite l’arte. Nel caso Fratelli: Una chioccia, tre pulcini questo inizio narrativo ha risolto momenti di stasi dovuti all’assenza di parole e di immagini di fronte al trauma del figlio/fratellino perduto.
“In molti casi i bambini sono capaci di comunicare i loro […] sintomi più efficacemente attraverso i loro disegni piuttosto che con le parole” (20, pag. 237). A volte è stupefacente come essi siano in grado di usare lo spazio dell’arte terapia: accade che il bambino con quel tipo di contenimento possa mostrare certi suoi aspetti sani altrimenti non utilizzati, tanto che molti arte terapeuti utilizzano il disegno con i bambini come strumento terapeutico e non diagnostico (20, pag. 12). Ma anche per le madri, fin dall’inizio della gestazione e durante tutta l’attesa del figlio, l’arte terapia risulta particolarmente efficace poiché in questo modo esse sono stimolate a conoscere la propria parte bambina (13, pag. 166).
Nel setting madre/bambino va tenuto conto del fatto che i piccoli più degli adulti strutturano la seduta in modo personale, per cui ogni indicazione a priori può distogliere l’osservazione. Inoltre in alcuni casi la madre può essere sopraffatta dalla capacità che ha il figlio di sfruttare i materiali a disposizione per esprimersi, essendo lei più inibita in quanto adulta.
Partendo da queste premesse si comprende quanto sia complesso standardizzare un setting in cui vivono più personaggi, più elaborati, dinamiche e rapporti intrecciati che, ampliando lo schema paziente-opera-terapeuta (10, pag. 40) creano infiniti intrecci che dobbiamo essere in grado di osservare e di accogliere.
Inizialmente nel prendere in carico la madre e il suo bambino il terapeuta può credere di seguire due singole persone. Immediatamente la complessità del setting rende evidente quanto questo non sia possibile, poiché utilizzando i metodi del setting singolo l’arte terapeuta è sopraffatto dagli eventi che deve osservare e annotare, e tanto di quelle due persone, in quel luogo e in quel tempo, è apparentemente perduto.
Aiuta lo schema di Paola Luzzatto in cui è trattata la capacità che ha l’arte terapia di creare una comunicazione indiretta tra terapeuta e paziente tramite l’opera realizzata.
Il setting madre/bambino non è un setting di gruppo, né un luogo-tempo in cui sono prese in carico due singole persone. Nel setting madre/bambino l’arte terapeuta ha in carico la relazione. Essa occupa uno spazio centrale che rende denso tutto ciò che accade. È come se vi fosse uno schema triangolare ai cui vertici esistono le tre persone, le quali però sono collegate attraverso uno spazio centrale di forte densità, una sorta di nucleo, rappresentato dalla relazione. Nel mezzo tra madre e bambino vive il lavoro, o i lavori, che non possono essere mai considerati singoli perché tutto è influenzato dalla presenza dell’altro.
Il terapeuta osserva il lavoro ma tale osservazione è mediata dalla relazione. Essa, come una lente di ingrandimento, rende visibili elementi invisibili, donando al terapeuta il bandolo della matassa quando essa appare confusa e inestricabile. Così, nel setting madre/bambino, lo schema bidimensionale diviene tridimensionale: il nucleo centrale è una sfera e il triangolo diviene una piramide, al cui apice vive l’osservatore e alla cui base stanno i personaggi, elaborati e pazienti. La base della piramide è triangolare quando vi è una simbiosi e due lavori, oppure i due pazienti sono autonomi e realizzano un unico elaborato; è quadrata quando i quattro elementi vivono con relativa autonomia nella stanza dell’arte terapia.
Tutto ciò appare particolarmente evidente quando in periodi diversi accade di seguire la stessa mamma in gravidanza, poi con il bambino e poi senza di lui (vedi caso Perdita e malattia: La merla e l’uovo rotto). E questo rende anche molto chiaro che una coppia madre/bambino non può essere presa in carico tout court, ma solo in quei casi in cui il nodo sia la relazione e vi sia un’esigenza particolare che porta il terapeuta a dover comprendere dinamiche specifiche, o infine nei casi di simbiosi (vedi caso Spasmo affettivo: L’ultimo cavallino bianco). Così è semplice comprendere anche cosa osservare nel setting, come guardare gli elaborati, le interazioni, i movimenti dei due personaggi intorno alle loro opere e in compresenza con il terapeuta, anche perché poi, quando i due pazienti escono dal setting, gli elaborati artistici vanno osservati insieme, gli uni nascono dagli altri, il bambino e la mamma sono condizionati dalla presenza dell’altro, da cosa dice o da come guarda quello che sta facendo. Inoltre spesso vi sono momenti di collaborazione all’interno dello stesso lavoro, interazioni che stratificano l’opera e complicano la sua lettura.
Prendendo in carico la relazione diviene chiara l’osservazione delle ansie, dei contenuti emotivi che rischiano di sopraffare il bambino o la madre o entrambi, la percezione degli strumenti che il piccolo ha per gestirle e come i due cercano un equilibrio tra spazio personale e luogo condiviso. Infine è più immediata l’individuazione dell’aiuto, che non riguarda mai l’eliminazione di ansie o il superamento di traumi, ma la ricerca delle risorse già presenti in quelle due persone affinché possano emergere e rendere loro possibile fronteggiare l’ansia o convivere con e a volte perfino utilizzare l’evento traumatico potendolo finalmente condividere all’interno di un luogo protetto.
Anche nelle terapie con il singolo bambino spesso è lui a dare al terapeuta gli strumenti per essere compreso. Ed è necessario capire se il sostegno deve essere dato al genitore. Tra i casi portati in questa trattazione vi sono una mamma e un bambino simbiotici a tal punto che il piccolo di soli otto mesi ha sviluppato un tipo di spasmo affettivo che lo faceva cessare di respirare appena la madre non lo toccava più (vedi caso Spasmo affettivo: L’ultimo cavallino bianco). All’inizio mi ero posta l’obiettivo, andando avanti con gli incontri, di giungere infine a far uscire la mamma dal setting per approfondire il lavoro con lui appena fosse stato in grado di prendere distanza fisica da lei. Dopo l’incontro in cui la simbiosi è stata risolta dal gioco degli abbracci è sorta in me la consapevolezza che fosse il bambino a dover uscire dal setting in quanto proprio la madre portava con sé la storia pesante che aveva provocato il sintomo condiviso con suo figlio. La seduta successiva la madre si è presentata sola.
Quando un genitore porta un figlio in terapia c’è sempre una richiesta di aiuto, noi dobbiamo solo capire quali sono i bisogni e chi riguardano. È lì che, in alcuni casi, è forte la sensazione di dover prendere in carico la coppia madre/bambino poiché essa non ha trovato spazio e tempo per esprimere la sua parte sana, così da dilagare nell’esigenza del sintomo come richiesta di aiuto.
Spesso i bambini arrivano in terapia con una diagnosi in cui tutta la famiglia si rifugia, e magari è sbagliata. Ed è fin troppo facile definire un genitore poco buono anziché accogliere ciò che di destabilizzante può essere osservato del suo rapporto con il figlio.
Ma c’è anche una questione molto delicata che riguarda l’immaginario dei genitori. Spesso durante l’incontro con il piccolo per una prima valutazione, lui immediatamente appare molto diverso da come è stato descritto dai genitori. Vi è sempre una proiezione, un’idealizzazione o un investimento su quel figlio che offusca la persona reale ma che va considerata in quanto comunque l’immagine che il genitore ha di suo figlio incide sempre su come lui realmente si rappresenta. Così spesse volte nel setting madre/bambino possiamo osservare un vero e proprio gioco in cui lo spostamento dal ruolo dato dalla madre, o a volte da tutta la famiglia a quel bambino, comunica attraverso la provocazione indicazioni molto utili. Nel caso Fratelli: Una chioccia tre pulcini Sofia usciva dalle aspettative di sua madre che dichiarava di non riconoscerla più, tenendo un comportamento particolarmente maleducato e impattante socialmente. In questo modo sapeva che sarebbe giunto presto l’aiuto e anche nel setting ripeteva, come in una drammatizzazione, tale comportamento dirompente quale affermazione del suo carattere ribelle, emerso solo al momento della perdita del fratellino. Poi, nel ritrarsi con la madre accanto alla casa, si disegnava bella pettinata e la madre appariva arruffata e in disordine, mentre nella realtà era sempre esteticamente perfetta. Così a me era presentato graficamente il ritratto della bambina quale la madre desiderava che fosse, e il ritratto della madre quale era realmente nel suo disordine affettivo/depressivo. Nello stesso momento la madre e la figlia reali nel setting si rappresentavano all’opposto, come in una scena teatrale, rendendomi chiara la situazione e agevole l’aiuto.
La diagnosi dovrebbe basarsi su una valutazione psicodinamica ampia, che apra alla comprensione del luogo in cui è adesso il paziente e di quello in cui deve andare. Si tratta di uno strumento vivo e le strade da intraprendere possono cambiare in itinere. “La diagnosi di un paziente non solo diventa più chiara col procedere dell’analisi, ma anche si modifica” (32, pag. 167) e ciò è particolarmente vero con i bambini, che crescono e cambiano continuamente e con le loro madri, che evolvono di conseguenza.
L’arte terapeuta osserva in particolare l’aggressività e le resistenze. L’aggressività all’interno del setting viene esternata a tre livelli, quello del comportamento, quello dell’atteggiamento distruttivo verso il prodotto, quello verso i contenuti del prodotto.
Le resistenze riguardano alcune affermazioni che il bambino può fare, come non voglio o non so disegnare, non voglio più venire. Oppure possono riguardare la madre che afferma “Se continui così andiamo via” oppure “È l’ultima volta che veniamo”. La presenza nel setting della madre e del bambino amplia questo tipo di osservazione poiché l’atteggiamento distruttivo verso il prodotto e i suoi contenuti, come vedremo nei casi portati, può riguardare una aggressione da parte del bambino del prodotto della madre oppure della madre stessa, aggressione fisica, oppure aggressione verbale della madre verso il bambino. Qui l’arte terapeuta è messo a dura prova nella propria capacità di contenimento e di protezione delle aree in cui avviene lo scambio infinitamente complesso tra madre e bambino, soprattutto in presenza di dolore, trauma, patologia, perdita. Ma allo stesso tempo si tratta di una sorta di rappresentazione spazio temporale in cui la danza, lo scambio di sguardi, la collaborazione o la distanza tra i due dona infiniti spunti di riflessione per l’aiuto.
L’attenzione a cercare materiali condivisibili da madre e figlio è fondamentale in quanto crea la possibilità, ma non certamente l’obbligo, di lavorare insieme e condividere lo spazio e il tempo, soprattutto nei casi in cui la vita abbia negato questo. I materiali dovrebbero anche rispondere alle esigenze dei temi per i quali i due sono lì. Alcuni esempi sono i sassi lisciati dal mare per il trauma, che danno il messaggio della possibilità di cambiare con il passare del tempo, di ammorbidire la pietra scheggiata del cuore spezzato dall’evento (vedi caso Perdita e malattia: La merla e l’uovo rotto). Nei casi di simbiosi gli spazi orizzontali, che sono i primi che il bambino conosce e nei quali può avventurarsi senza difese, possono essere arricchiti e sottolineati da strade di carta e palle di gommapiuma o di stoffa, così da rendere visibile la possibilità di un percorso altro rispetto a quello del sintomo che in quel momento ingabbia madre e bambino impedendo la crescita di entrambi (vedi caso Spasmo affettivo: L’ultimo cavallino bianco). Nei disturbi alimentari il collage dà la possibilità di realizzare lavori perfetti in poco tempo, con minimi contributi artistici, ma le parti ritagliate da offrire ai pazienti devono essere scelte accuratamente, preferendo quelle artistiche o i paesaggi naturali (vedi caso Disturbo alimentare e del sonno: Il barbagianni che non sapeva dormire).
I bambini creano con i materiali, noi osserviamo il loro lavoro che ci dà sensazioni spesse volte confutate da ciò che affermano: è importante non attribuire significati a quanto osservato poiché la comunicazione è sempre molto soggettiva.
L’uso dello spazio nei lavori può essere messo in relazione alla linea di attaccamento e a quella di separazione, le dimensioni verticali indicano separatezza e quelle orizzontali fusione, confusione, legame a due. Quando un bambino entra e si butta per terra mostra di voler essere abbracciato, se invece sta rigido e diritto mostra un timore verso il contatto: solo nello sviluppo omogeneo delle due modalità troviamo una normalità dello stare bene. Quando nel setting c’è anche la madre il significato di tutto questo può variare sensibilmente, ma l’apparente complicazione si semplifica nel ridisegnare il movimento e le interazioni tra i due nello spazio.
Dall’osservazione dei bambini autistici sono state desunte molte cose sui materiali morbidi e su quelli duri. I materiali morbidi e modificabili, dalla stoffa alla velina al cotone all’acqua, evocano l’esperienza materna, il contatto, l’accudimento. I materiali duri invece rendono un senso di confine, è una sensazione forte che però solidifica il discorso del contenimento. Nella linea della separazione il confine demarca l’interno dall’esterno. I materiali e gli oggetti duri come il martello, il filo di ferro, i legnetti, danno un’esperienza di reazione della linea di separazione. È necessario osservare che approccio ha il bambino con tutte le funzioni corporee e come reagisce a questo sua madre. Preferire materiali puliti può significare anche avere paura di attivare in modo troppo diretto alcuni organi. Questo significa che è possibile capire in che modo i pazienti sono in contatto con se stessi attraverso l’osservazione di come scelgono e usano i materiali artistici.

2. Perché un setting madre/bambino in arte terapia

I bambini danno molta più importanza a ciò che i genitori fanno, che a ciò che essi dicono.
(Marie von Ebner-Eschenbach) 

“Ciò che distingue i neonati umani da quelli di altri mammiferi è la sensibilità che il bambino possiede per l’interazione con altri umani” (18 pag. 42).
Sue Gerhardt, partendo da questo importante presupposto, narra appassionatamente della dipendenza del piccolo neonato dall’espressione facciale, ipotizzandone la nascita nei primati della savana africana, dove i progenitori dell’uomo avevano la necessità di intendersi silenziosamente, per non attirare l’attenzione dei predatori. Le esperienze con lo still-face, paradigma di faccia a faccia con volto inespressivo, espandono tali concetti dimostrando come in assenza di espressione facciale e dunque di empatica partecipazione della madre, vi sia un “fallimento per co-creare significati e formare stati diadici di coscienza” (1, pag. 55). Di fronte al volto inanimato della madre inizialmente i piccoli cercano di ripristinare il rapporto con lei attirandone l’attenzione, poi si isolano, diventano tristi e cercano dei metodi di auto consolazione come quello di succhiarsi il dito. È stato ipotizzato, nell’assenza di espressione facciale della mamma, un vissuto di pericolo che sfocia in quello di non credere di esistere più. Questa traumatica interruzione o in alcuni casi di assenza da sempre del rapporto visivo con chi dà la vita e il nutrimento, crea una sensazione di essere perduti che però non è irreversibile, anche se i ricercatori hanno dimostrato che gli orfani rumeni abbandonati nei loro lettini tutto il giorno “presentavano un buco nero là dove di fatto avrebbe dovuto svilupparsi la corteccia orbito-frontale” (18 pag. 47).
Se presa in tempo, l’assenza di espressione della madre tipica della depressione post partum ma anche di altre patologie, può essere contenuta all’interno di un setting che permetta alla relazione di essere nuovamente accolta.
Tale reversibilità è narrata dalla Gerhardt nella presa in carico di madri con i loro bambini. In particolare è trattato il caso di una donna in carriera, alla prima gravidanza e non più giovane, e di una bimba che quando lei si avvicinava si girava dall’altra parte. L’atteggiamento della piccola provocava nella madre una rabbia che sfociava in pensieri di infanticidio ma non sappiamo come e perché tale sistema si fosse innescato. In quel caso il contenimento terapeutico in setting madre/bambino aveva reso possibile alla madre di osservare le esigenze della piccola e i suoi segnali corporei e di rispondere semplicemente ad essi con azioni materne di accudimento. Questo in poco tempo aveva assicurato al rapporto un piacere reciproco (18 pag. 48).
Le molteplici esperienze in tirocinio, effettuate al Centro Nascite La Margherita di Firenze, a Neuropsichiatria Infantile e presso l’Associazione La Fonte di Settignano, svolte nell’arco dei quattro anni di formazione con setting arte terapeutico madre/bambino, hanno mostrato quanto tale contenimento sia possibile ed efficace attraverso l’uso dei materiali così che, come dice la Gerhardt, la madre possa trovare un luogo in cui rappresentare insieme al suo bambino ciò che non è in grado di dire (18 pag. 61).
In particolare la presenza di trauma, o patologie precedenti alla nascita del piccolo, ha potuto riportarmi, come terapeuta, all’osservazione del rapporto complesso e strettissimo che si crea nella mente della madre fin dalla prima idea di bambino, sul filo dell’immaginario e della quasi opposta realtà dei fatti, colma di cose da fare e intensità pratica del cambiamento.
Così nel tempo, dalla prima convinzione che in ogni situazione potesse essere efficace accogliere e dare un luogo terapeutico alla coppia madre/bambino, nel corso dell’esperienza in tirocinio la complessità di questo tipo di setting mi ha guidata verso una sfaccettatura di tipologie di rapporti e di relazioni che avrebbero dovuto essere accolte in modi diversificati. Come sempre la strada, attraverso la conoscenza soprattutto sul campo, si fa tortuosa e complessa, semplificando allo stesso tempo i punti focali delle questioni.
Nella trattazione di questo tipo di setting arte terapeutico, denso di presenza e bisognoso di una particolare cura e osservazione, è importante partire con notevole flessibilità, unitamente alla forte capacità di entrare nel setting senza memoria e senza desideri così come Bion insegna.
Quando un bambino giunge in terapia la richiesta è quasi sempre espressa da uno o più adulti. Lui si presenta con i genitori, i quali difficilmente condividono tale decisione in egual misura. Sta al terapeuta implicarli nello stesso modo poiché chi non si è fatto vivo all’inizio prima o poi entrerà, a volte in modo molto impattante, nel setting. Scrive Anna Michelini Tocci che accogliere i genitori significa accoglierli entrambi, se il terapeuta accetta di vederne solo uno l’altro remerà contro, sentendosi escluso, anche se è lui che si dichiara non disponibile. Molti terapeuti da sempre trovano utile considerare il triangolo della famiglia del bambino preso in carico e in particolare capire se la comunicazione avviene tra tutti e tre i vertici o no. Può succedere che uno dei componenti non esista, è accaduto un po’ così a Giuliana, la madre simbiotica del caso Spasmo affettivo: L’ultimo cavallino bianco.
Ma è anche fondamentale ricordare chi porta chi, poiché il bisogno del genitore non sempre può essere espresso direttamente. Francesca Koch Braschi parlando di suo figlio racconta: “Mi dicevano che se non lavoravo su di me non lo avrei potuto aiutare, che era il senso della mia esistenza che dovevo trovare […] conoscere le mie emozioni […] Il dolore di mio figlio era l’aspetto esterno di altri nodi esistenziali che io stessa non sapevo né volevo affrontare” (23 pag. 272).
Così, fino dalle prime esperienze di lavoro con i bambini, è necessario rendersi conto che la terapia sarà inefficace fino a quando non saranno accolti anche i loro genitori. Ma il dolore del bambino svia il terapeuta in questo senso ed è talmente forte e tangibile che spesse volte lo confonde. Scrive Nadia Neri: “Spesso la nostra storia, o le nostre carenze affettive, ci fanno scivolare inconsciamente a identificarci con il figlio, rischiando così di perdere i genitori” (23 pag. 42). Jung ci parla approfonditamente del ruolo del salvatore per cui i terapeuti si identificano con il genitore buono. Ma sappiamo che andrà accolto e compreso il genitore meno buono, quello complesso e ferito, cattivo, poiché è proprio lì che uscendo dal labirinto sarà chiara la via per aiutare il piccolo che si trova nel setting. Vedere i genitori insieme al piccolo consente al terapeuta di capire se il problema portato da loro è un problema anche per lui. Ma è importante soprattutto all’inizio raccogliere da essi solo le notizie strettamente necessarie in quanto spesso il bambino è molto diverso da come è descritto, così accade di dover lavorare troppo in seguito per prendere le distanze da quella immagine di lui che non è rispondente alla realtà.
Non dobbiamo mai dimenticare che i genitori fanno una grande fatica nel portarci i loro figli, perché non vogliono credere di non saperli aiutare. Scrive la Vallino che i bambini si aspettano dalla presenza e dalla testimonianza del terapeuta di poter essere rimessi in contatto con i genitori, e sottolinea la necessità che l’analista porti i genitori verso la comprensione dei problemi del bambino: “un importante risultato è stato condurre pian piano i genitori a farsi loro stessi attenti osservatori” (23,  pag. 245).
L’alleanza e il lavoro con il bambino si possono intraprendere quando si è già creata con il genitore, accogliere i genitori in terapia significa sapersi confrontare con i genitori interni del bambino, non accoglierli significa escludere un’importante parte del bambino stesso (23, pag. 204). Scrive Sue Gerhardt che “L’atteggiamento critico (verso i genitori ndr) non migliora la loro capacità di fornire risposte positive ai propri bambini” (18, pag. 31).
I bambini usano in modo spontaneo i materiali, l’ambiente e il terapeuta, alcuni vengono nel setting per giocare, altri per trovare un alleato contro i genitori, altri per tranquillizzarli. L’alleanza nasce con il tempo, ma è fondamentale poiché “la partecipazione del paziente è tanto creatrice del processo quanto quella del terapeuta […] una psicoterapia o una terapia istituzionale fallirà se il paziente non stabilisce un’alleanza positiva con il terapeuta aderendo al progetto di cura” (12, pag. 249).
Ciò che i bambini portano non appartiene al loro passato ma al qui e ora. L’alleanza terapeutica diviene dunque cooperazione.
Accade a volte di identificarsi con le aspettative onnipotenti dei genitori. Il bambino può essere portatore di aspetti ombra rimossi poiché i suoi sintomi possono esprimere dei conflitti familiari inconsci (23, pag. 190). Accade così che appena il bambino migliora venga immediatamente tolto dalla terapia poiché quel sintomo che ha subìto un’attenuazione risultava utile alla famiglia, al contorno del bambino. Ciò è più facile che non avvenga quando è presa in carico la coppia madre/bambino (vedi caso Fratelli: Una chioccia tre pulcini in cui l’interruzione sarebbe avvenuta molto presto se fosse stata presa in carico solo la figlia).
Esistono alcuni schemi strutturati per la prima seduta di arte terapia con un bambino, in cui si prescinde chiaramente dalla presenza del genitore. Sono schemi da cui poter partire, soprattutto in casi in cui vi sia la necessità di standardizzare per effettuare un lavoro di ricerca. Tali schemi vengono usati anche molto creativamente dagli arte terapeuti, come punti di partenza per trovare poi una strada personale, da adattare a ogni bambino poiché l’arte terapia va inserita sempre nel contesto relazionale. In particolare la fase della separazione, sottolineata da Avi Goren nella capacità che ha il piccolo di separarsi dall’elaborato artistico, risulta particolarmente intuitiva e complessa e va gestita in modo peculiare e flessibile rispettando le infinite soluzioni che i bambini trovano (vedi il saluto alla terapeuta in forma di anello nel caso Fratelli: Una chioccia tre pulcini).
Molti arte terapeuti sostengono la seduta libera poiché quella strutturata impedisce di osservare cosa avrebbe fatto il bambino se lasciato libero: scrive Moustakas che “i bambini hanno bisogno di sentirsi liberi per potersi esprimere senza riserve, paure e costrizioni, facendo cadere le difese” (20 pag. 39). La seduta libera, soprattutto per la prima valutazione, rende possibile ascoltare il piccolo senza avere già in mente una griglia, poiché l’obiettivo finale consiste nel favorire l’integrazione tra la dimensione non verbale e quella verbale.
Nello stesso tempo, nei setting madre/bambino, a volte l’enunciazione di un tema aiuta il terapeuta a dare sequenzialità alla seduta e a rendere leggibile la relazione. Nell’obiettivo terapeutico, è importante puntare sul cambiamento. In questo senso è molto rilevante come sono strutturati il setting e gli incontri, ed è necessario mantenere una certa elasticità per via dell’ambiente sufficientemente buono che dobbiamo offrire alla coppia presa in carico. 

1. Premessa

A Rosaria, Angela, Elena, Federica, Giovanna, Mona Lisa, Simone
Preziosi compagni di viaggio.

L’arte è una bugia necessaria a scoprire la verità.
(Pablo Picasso)

Il contenuto di questa monografia nasce dal lavoro di ricerca da me svolto nel corso della formazione presso la scuola Art Therapy Italiana di Bologna. La raccolta delle esperienze riguarda in particolare l’interazione madre-bambino in molti dei suoi aspetti.
La monografia presenta due parti, una teorico-storica e l’altra sui casi. Ogni caso è presentato sinteticamente e approfondito in forma di racconto illustrato, quale strumento utile alla mia personale rielaborazione e comprensione di esso.
Ringrazio la scuola di Art Therapy, Rosaria Mignone per l’attento e accuratissimo lavoro di supervisione e i miei preziosi compagni di formazione.

2. Ci riguarda, ci appartiene. Leggere in luoghi sensibili

Da sempre i libri mi accompagnano nei percorsi di condivisione della lettura in luoghi che chiamo sensibili, posti fertili e necessari alla mia scrittura e alla mia arte, dunque alla mia vita. In tali luoghi la lettura è particolarmente indispensabile alla creazione di ponti tra persone che in quel momento non trovano parole. Il buon libro, quello dal contenuto vero e dalla forma estetica sorprendente, crea l’opportunità di un dialogo e di un approfondimento che in certi casi può rappresentare il miglior modo, se non l’unico, per ridare un senso a ciò che accade. Una forma, un colore, una parola, riesce talvolta a sbloccare i nostri e gli altrui colori, forme, parole, e a farli galoppare, nuovamente liberi di narrare.
Scrive Rodari che ogni poesia, similmente al sogno, interrompe lo stato abituale allo scopo di rinnovarci, di mantenere sempre vivace in noi il senso stesso della vita. E ancora scrive che la parola singola agisce solo quando ne incontra una seconda che la provoca, la costringe a uscire dai binari dell’abitudine, a scoprirsi nuove capacità di significare. E aggiunge che non c’è vita, dove non c’è lotta. È un concetto che guida il mio operare da molti anni. Dove tutto appare semplice c’è poco da cercare, altrove, nei luoghi impervi e scomodi, lottanti, lì si trovano i veri tesori, quelli in grado di farci crescere, maturare, vivere. Così, il libro è l’incontro, la lotta creativa tra parole e immagini, pensieri e interpretazioni, vita reale e sogno.
La scrittura e la pittura sono elementi terapeutici in sé. Lo sono per chi scrive e dipinge, per chi legge, per chi ascolta, per chi guarda. Siano essi adulti o bambini.
Un buon libro è un ponte tra diverse realtà. Bambini e adulti, pance gravide e fratellini già nati, mamme e operatori, medici e pazienti comunicano attraverso la lettura e tutti possono trovare un canale di condivisione e narrazione attraverso un buon libro. E un buon libro è principalmente un libro senza età, un contenitore di cose.
Chi legge sente la propria voce come chi ascolta, e nasce un rapporto che sul filo delle parole corre e spiega l’inspiegabile, narra l’indicibile. Ci sono immagini nei libri, come quelle di Roberto Innocenti in La storia di Erika, che rendono immediatamente comprensibile la profondità del trauma, la fissità dell’evento inenarrabile, bloccano il momento cruciale come in uno scatto affettivo che attraverso una macchina fotografica mentale fa giungere il dolore fin dentro di noi per poi sublimarlo attraverso la condivisione visiva e verbale.
La lettura, sia della scrittura che delle immagini, non è un’azione dunque, ma un luogo in cui possono coabitare altri luoghi, persone, eventi, memoria. Un luogo d’incontro senza tempo e senza età ma con una forma ben precisa che riesce a contenere il pensiero e l’immagine, la memoria, le memorie.
Ci sono libri che universalmente e trasversalmente parlano di temi grandi in modo lieve, piccolo. Essi come per magia arrivano a tutti, ognuno con le diverse abilità riceve un messaggio che può tradurre attraverso la propria storia per comunicare con altre persone. Quei libri mettono in relazione luoghi generalmente distanti: Nel paese dei mostri selvaggi la foresta cresce, cresce all’interno della cameretta del bambino che ne ha combinate di tutti i colori fino a fare arrabbiare la mamma. Quei particolari libri sovvertono ruoli e creano spazi vitali laddove questo pareva impossibile.
I luoghi che io amo chiamare sensibili sono quelli in cui avviene una crescita, una trasformazione di chi li abita. È una definizione ampia poiché la crescita e la trasformazione riguardano in realtà ogni posto e qualsiasi vita in ogni sua fase, ma alcuni spazi abitati come i centri nascita, i reparti oncologici, i nidi, sono impregnati fortemente dal dolore e dalla forza della trasformazione che a volte pare impossibile da affrontare.
Scrive Marie – José Comparti De Laure che quando la città non è uno spazio di libera circolazione e di gioco, diventa un mondo inquietante. È una frase importante, potremmo estendere questo pensiero a ogni luogo abitato. Ma ci sono posti che di punto in bianco, da una data precisa della nostra vita e a volte per un periodo limitato o per sempre, diventano più di una casa per noi, per uno stato in cui ci troviamo, o per un’età o per una situazione. In certe patologie l’ospedale si trasforma nella città del bambino, il luogo di vita in cui è necessario che lui trovi i punti di riferimento e di appoggio per quelle leve che gli permettano di andare oltre, di sperare.
Stessa cosa accade nel nido, nello spazio gioco, nei luoghi di scambio e di crescita che il bambino incontra, che sono l’estensione dello spazio della casa e dipendono fortemente dalla situazione in cui nasce o si trova a passare per motivi di vario genere. Durante una visita al campo nomadi vicino a Firenze mi resi conto che per quei bambini la strada rappresentava un’estensione importante della casa, un enorme foglio da disegno in cui esprimere con pezzetti di gesso e piccoli sassi i propri sogni, la scrittura colma di speranza dei propri desideri.
È un errore di base pensare a una minoranza della popolazione umana quando trattiamo di persone con necessità speciali. In realtà è importante tenere sempre in mente che le necessità speciali riguardano tutti noi, in certi periodi della vita, in seguito a un trauma, a una malattia, al distacco da qualcuno o qualcosa che amiamo profondamente, oppure nello scorrere dell’età che cambia il nostro corpo diminuendo le sue capacità. In queste situazioni negate dall’estetica, preponderantemente volta alla perfezione, del nostro periodo storico, lì abbiamo bisogno della condivisione ed è allora che il libro entra in punta di piedi e crea una via di dialogo che ci riporta a casa, sempre che ci sia data la possibilità di avvicinarlo.
Quando abbiamo un buon libro tra le mani il suo messaggio arriva comunque, a tutti. Nello stesso modo i tempi rallentati, l’accuratezza dei luoghi, indispensabili alla crescita dei bambini con necessità speciali, sono necessari a tutti. Ed è qui la ricchezza del poter partecipare lo spazio e il tempo della scuola tra bambini con necessità diversificate, è un’opportunità per tutto il gruppo di ritrovare ritmi compatibili con il pensiero e la creatività.
Così, potendo condividere gli spazi con i tempi necessari alla crescita, la scuola torna a essere una casa accogliente. Ho lavorato molto con i bambini su cosa è la casa. A volte è un semplice atto, come l’allattamento, un abbraccio consolatorio o lo sguardo comprensivo di una persona amica. E non è detto che siamo al sicuro in una casetta quadrata col tetto a punta, poiché ciò che vi accade dentro non sempre è rassicurante e a volte ci costringe addirittura alla fuga. Una casa può avere il volto di chi la abita e una porta da cui non si passa agevolmente, e penso a una bellissima immagine di Bernd Molck-Tassel. Durante un laboratorio su questo tema una bimba di cinque anni disegnò una casa fatta a forma di elefante. Vi si accedeva attraverso una scaletta e la piccola si era ritratta ai suoi piedi, felice e sorridente. Nella condivisione dei disegni nel gruppo della sua classe emerse la sua origine indiana e la sua storia di figlia adottiva di cui nessuno era a conoscenza. Perché la casa è parte di noi, a volte rappresenta il pretesto per riconoscere la nostra provenienza o per sentirne la dolorosa complessità.
Ma qualsiasi casa, anche la più solida, può essere messa a dura prova da un evento traumatico o da qualcosa che crea diversità da ciò che convenzionalmente deve essere la vita. Lo tzunami ne è un esempio terribile ed è stato dipinto e illustrato in infiniti modi.

Come leggere in luoghi sensibili
Allora cosa dobbiamo tenere in mente quando andiamo a operare con i bambini molto piccoli, nelle scuole, nei reparti e in qualsiasi altro spazio in cui si ha la sensazione di abitare luoghi sacri? Come possiamo scegliere i libri da portare con noi, che possano accompagnarci verso le persone, senza intromissioni ma al loro fianco, utili ma non indispensabili, presenti fortemente ma non ingombranti? Ci sono alcune cose fondamentali da tenere in mente e che mi sento di consigliare a tutti, ma soprattutto a chi effettua volontariato nei reparti.
Dobbiamo conoscere il libro a memoria: può accadere che noi andiamo a leggere e che vi sia una frase che non va per niente bene lì dove siamo capitati… dobbiamo poterla saltare senza che nessuno se ne accorga, siamo andati lì per aiutare e non per nuocere.
Dobbiamo conoscere di quel libro i contenuti letterari più profondi, ed è per la stessa motivazione di cui sopra: c’è un senso subito evidente, poi ci sono le letture profonde, non subito significanti ma di cui i libri più belli sono colmi, e può darsi che lì via sia un punto fragile di chi ascolta e dobbiamo essere pronti a cambiare strada, scelta del testo da leggere, del modo in cui leggerlo, delle parti da leggere. A volte è possibile attenuare uno dei significati semplicemente animando il libro attraverso l’uso di un pupazzo o di scenografie che sottolineano una parte più accessibile rispetto a un’altra.
Dobbiamo analizzare le immagini nelle loro capacità evocative più recondite poiché anche le illustrazioni, come le frasi, hanno tanti strati, soprattutto le illustrazioni di alta qualità che dovrebbero essere sempre quelle da dare ai bambini. Lì, in quelle immagini, oltre la realtà esiste il sogno, la paura, il non detto che appare in certi sguardi, in particolari apparentemente inconsistenti.
Dobbiamo sempre scegliere i formati in relazione all’utilizzo che di quel libro faremo: diverso è se leggiamo a un bambino oncologico che possiamo accompagnare solo a distanza perché immunodepresso, a un gruppo di piccolissimi, o a una classe di bambini di dieci anni. Il formato e le immagini saranno fondamentali per la buona riuscita della lettura nei primi due casi, mentre nel terzo la capacità interpretativa del lettore sarà dominante rispetto a tutto il resto.
L’ultima cosa che non va mai persa di vista è quella di immaginare molto flessibilmente possibili attività derivanti dalla lettura, poiché è impensabile progettare senza aver prima condiviso uno spazio con i bambini, poiché essi hanno la capacità di scombinare creativamente qualsiasi progetto, trasformandolo completamente. In questi casi la buona riuscita della lettura o del laboratorio possono dipendere totalmente dalla flessibilità dell’operatore.

Quali temi portare
Gli argomenti che possono coadiuvare l’incontro tra diversità sono tutti quelli possibili. Dobbiamo sapere però cosa stiamo andando a proporre e in quale luogo, poiché dobbiamo essere in grado di assorbire la risposta, a volte anche molto diretta, dei bambini. Ci sono alcuni argomenti efficaci in tal senso.
Bugie. Picasso diceva che l’arte è una bugia che ci serve per arrivare alla verità. Questo fa della frottola un evento di valore quale è, poiché l’invenzione parte da una bugia che ci diciamo, in cui poi crediamo e che infine cerchiamo di dimostrare. In fondo sono nate così tutte le grandi scoperte, il mondo a un certo punto è stato immaginato sferico e adesso su questo siamo tutti d’accordo. Ma perché impediamo ai bambini di dire bugie e ne diciamo molte a loro, magari a fin di bene?
Una bimba ammalata di tumore che mi aveva chiesto di raccontarle la fiaba di Biancaneve mi disse, fissandomi dritta negli occhi, che lei la mela non l’aveva mangiata ma si era ammalata ugualmente e che forse sarebbe morta. Mi chiese perché. Le dissi che non lo sapevo, che nella vita molte cose sono inspiegabili. Mi raccontò di essere arrabbiata con la vita. Le confidai che molte volte era capitato anche a me. La bambina mi chiese se avevo dei figli. Le dissi che sì, ne avevo due, uno della sua stessa età. Mi chiese se stessero bene e io le risposi di sì. In quel momento sentii che si rilassava, il fatto che mi fossi aperta con lei raccontandole la verità le era servito. Mi chiese di raccontarle un’altra storia, tornando dunque insieme a me all’aiuto della fiaba e dunque dell’invenzione.
Lavoro da anni con le bugie dei bambini e ho su questo argomento alcune convinzioni molto profonde. Dobbiamo permettere ai bambini di dire bugie mentre non abbiamo il diritto di raccontarne a loro. Convenzionalmente la nostra società ragiona in modo opposto. Nonni e vecchi gatti svaniscono nel nulla, esiste Babbo Natale, ma i bambini devono dire sempre tutta la verità.
Non sono i bambini a mettere paletti sugli argomenti, sono gli adulti che non possono, a volte, affrontarli. Dobbiamo sapere i nostri limiti e non andare mai oltre così da essere veramente utili in quei luoghi dove andiamo a operare. E dobbiamo scordarci le convenzioni. Come usavamo ieri quegli oggetti e quelle parole è storia del passato; adesso, qui, proviamo altre strade e scegliamo la più comoda, la più accogliente. Pazienza se è completamente inusuale.
Fare oltre le possibilità apparenti. Un argomento molto importante da affrontare nei gruppi in cui vi è ricchezza di diversità e di speciali necessità è quello del fare oltre le possibilità apparenti.
Alcuni libri sono fantastici per affrontare questo. Beelinda è una pecora ribelle. Lei vuole volare, odia stare a brucare l’erba a testa bassa, il gregge la isola per questo. Riuscirà a realizzare il suo sogno ma in modo reale, attraverso la solidarietà. Ospiterà nel suo pelo gli uccellini che poi la aiuteranno a volare. È un libro meraviglioso quando siamo in luoghi in cui le abilità sono diversificate poiché tratta molti temi pratici e non, del fare, della possibilità di attuare i propri sogni al di là delle possibilità fisiche, e soprattutto del saper chiedere aiuto agli altri.
Ne L’albero e la bambina l’antica pianta è radicata a terra oltremodo, tristissima di questo suo destino. Ma sa sognare. L’incontro con una bimba che ha fiducia che l’albero possa volare crea un rapporto tra i due che, sul filo del sogno, realizza fiabe apparentemente impossibili.
Crispino è un cane abbandonato, lasciato per strada. Va alla ricerca di un luogo in cui sentirsi veramente se stesso. Prova a fare tante cose, incontra personaggi, tenta i ruoli di porcello e d’imbianchino. Ma ritrova la sua vita solo quando atterra in una piccola casa dove può fare il Crispino. Essere noi stessi a volte è la sfida più grande e la necessità più impellente.
Il viaggio. Scrive Calvino che tutto può cambiare ma non il linguaggio che abbiamo dentro. Ma viaggiare è spostarsi o fare esperienza? Andrea Porcello e Capra Marta (6) sono gelosissimi perché altri animali, come le cicogne, migrano, si spostano e raccontano sempre a tutti cosa hanno visto. Loro non hanno mai niente da raccontare agli altri animali, così decidono di partire. Dopo solo pochi minuti, ancora vicini alla fattoria, un profumino di torta li attira verso la finestra di una casa. Si avvicinano e assistono estasiati ai primi passi di un bambino. Tornano a raccontare a tutti la loro avventura. Un libro che parla del viaggio nella sua accezione più profonda, della scoperta, della conquista nelle fasi di crescita, della possibilità di andare oltre le definizioni.
Il cambiamento fa paura ai bambini, ma può rappresentare l’opportunità di trovare se stessi. Scrive Picasso che i colori, come i lineamenti, seguono i cambiamenti delle emozioni. Il libro è un jolly che può trasformarsi a seconda del luogo, del tempo, di chi partecipa. Ma ha anche caratteristiche di personaggio, è vivo, vitale, specchia noi stessi, sorprendentemente cambia l’immagine che abbiamo di noi. Alcuni libri sono portatori di tematiche universali, fondamentali, e la metamorfosi riguarda la creatività come la malattia come la crescita. Oggi no domani sì (7) parla di uno struzzo che cade nel deserto, non si sa come. Non può volare ma non ha il coraggio di dirlo e prova tutte le notti. Gli animali del deserto temono il nuovo arrivato, pensano che si senta più grosso di loro perché vola, forse… Solo quando trova il coraggio di dire a tutti la verità scopre che in realtà è quello che tutti speravano e si aspettavano da lui. È un libro sul bullismo, sulle paure del nuovo, sul gruppo e il singolo, sull’esclusione e l’autoesclusione, sulla potenza creativa e distruttrice delle aspettative che abbiamo noi e che hanno gli altri su di noi.
L’ho letto a un gruppo di bambini dello spazio gioco, di circa un anno e mezzo. C’era un grande struzzo che avevo dipinto come sfondo, vera sabbia di mare in una vasca rotonda. Era inverno e la sabbia era fredda. Durante la lettura i bambini hanno toccato e mescolato continuamente la sabbia con le manine. Alla fine della lettura era diventata calda. Questo ha dato loro la misura della potenza dello stare insieme, della forza fisica delle loro mani che, così tante, avevano potuto trasformare la materia.
Linguaggi e diversità. Scrive Calvino che il posto ideale in cui abitare è quello dove è più naturale vivere come stranieri. I nidi e gli ospedali sono luoghi dagli infiniti linguaggi, così come le biblioteche e le case. Ci aiuta l’arte, l’immagine, quando la parola non basta o è incomprensibile perché i bambini sono molto piccoli oppure hanno provenienze diversificate oppure esiste un silenzio sulla malattia o sulla disabilità che blocca il dialogo tra genitori e figli.
Alcuni libri ci aiutano in questo. Riescono a farci trovare parole di dialogo laddove non avremmo immaginato di poterne avere. Un buon libro non dà risposte ma crea la possibilità di fare domande. Fammi una domanda (8) è uno dei testi più belli che mai siano stati pubblicati poiché è fatto di sole domande associate a immagini dagli infiniti linguaggi. Molto può nascere in un gruppo lavorando con questo libro che, come fanno i bambini, chiede il senso e il perché di tutte le cose riportandoci a quando ce lo chiedevamo e questo ci faceva esistere in modo intenso e nuovo, poiché da poco avevamo conosciuto la vita. “Quale animale vorresti avere con te? Cosa sai fare di speciale con le mani? Da cosa capisci che stai crescendo? Come hai fatto a venire al mondo? Hai mai perso qualcuno? Sei mai stato solo solo? Di che colore sono i tuoi occhi?”.

Per finire, anzi, per cominciare…
È importante sottolineare che ciò che conta è portarsi sempre dietro il luogo della lettura. Platone diceva che la direzione nella quale l’educazione di un uomo lo avvia, determinerà la sua vita futura. È ciò in cui chi opera con i bambini crede profondamente. Questo rende però molto grande la responsabilità di chi, per scelta o per caso, si trova a rivestire questo ruolo.
Un grande urbanista ha scritto che praticare lo spazio significa ripetere l’esperienza esaltante e silenziosa dell’infanzia. Allora potremmo immaginare uno spazio dentro di noi, condiviso da altre persone, in cui la lettura può aver luogo. Ma il luogo è anche un luogo fisico, con il suo clima, i suoi colori, il sapore e l’odore. Quando andiamo nei reparti e nei nidi e nelle biblioteche troviamo odori, colori preponderanti che ci invadono completamente e cambiano le immagini dentro di noi.
In certi casi sappiamo che potremo partire dal libro per arrivare ovunque.
In altre situazioni il libro rappresenterà la nostra mèta poiché sarà complesso anche solo giungere a una lettura adeguata al luogo e al tempo in cui andremo a operare.
In certi casi ci troveremo a rivedere i nostri progetti mentali. Siamo andati per leggere, poi abbiamo trovato persone e eventi che ci hanno portato a stare lì in altri modi, a dare un abbraccio, ad ascoltare storie invece che a narrarne. Ugualmente, anche senza accorgercene, siamo arrivati lì forti dei nostri libri.
Gocce di voce è scritto da tanti autori ma il testo sulla foce è il mio preferito perché parla di crescita, di andare per restare, di lasciare andare per prendere di più. Nell’esperienza del fiume che sbocca in mare vi è la ricchezza di tutto ciò che ai bambini abbiamo donato con la nostra presenza, con il nostro operare amoroso, intenso e accurato.
Così il bambino che è diventato autonomo; e ancor più nella crescita interrotta o resa complessa dal trauma, dallo sradicamento e dalle differenti abilità, conta la foce poiché salutare è tenere con sé:
Ed è la foce, ma non può finire
I figli vanno nel mare del mondo
Perché ogni fiume che sembra sparire
Diventa solo più largo e profondo

Alcuni miei scritti per approfondire le tematiche del dialogo tra diversità
Arianna Papini, Ad abbracciar nessuno, Firenze, Fatatrac, 2010
Arianna Papini, Amiche d’ombra, Firenze, Fatatrac, 2000
Arianna Papini, Il Gobba dei randagi, Firenze, Fatatrac, 2002
Arianna Papini, Jovan non sa di Vlora, Genova, Edicolors, 2001
Arianna Papini, L’albero e la bambina, Firenze, Fatatrac, 2011
Arianna Papini, Le parole scappate, Belvedere Marittimo (CS), Coccole e Caccole, 2011
Arianna Papini, Lisa, un anno con la taccola, Firenze, Fatatrac, 1998
Arianna Papini, Odore di bombe profumo di pioggia, Firenze, Fatatrac, 2004
Arianna Papini, Pareva un gioco, Roma, Lapis, 2002
Arianna Papini, Sentire le immagini, guardare le parole, in “Effeta” – Mensile della Fondazione Gualandi a favore dei bambini sordi, n. 2, 2010

Fatatrac, diversi libri diversi

Una mattina del 1979, Mario Mariotti, artista geniale purtroppo recentemente e prematuramente scomparso, si presentò nell’ufficio di Nicoletta Codignola, fondatrice della NIEP (Nuova Italia Educazione Primaria) e attuale amministratore unico della Fatatrac, proponendole quel progetto che in seguito lo avrebbe reso famoso a livello mondiale, i libri degli animali fatti con le mani, il cui primo titolo fu “Animani”. Le sue mani grandi e nodose di scultore avevano preso la forma di animali ed erano state fotografate, in un teatrino fantasioso e variopinto, a tratti inquietante.
Stupito dell’entusiastica accoglienza ricevuta, Mariotti affermò di aver girato varie case editrici incassando un no dietro l’altro poiché questi libri non erano in realtà né per bambini né per adulti, o meglio, si rivolgevano sia ai bambini che agli adulti, rompendo lo schema convenzionale di quello che in seguito sarebbe stato definito freddamente “target di un libro”.
Il simbolo della NIEP era la sagoma, tipo ombre cinesi, di un adulto e di un bambino che leggono insieme un libro. Questo a sottolineare che la prima educazione alla diversità è, o potrebbe essere, per il bambino la condivisione della lettura con l’adulto. Il marchio stesso proponeva allora nell’incontro di un mondo, quello del libro, attraverso due mondi diversi, molto diversi, quello dell’adulto e quello del bambino, una prima cognizione di quanto nella vita sia importante confrontarsi.
Il tutto avveniva nella consapevolezza che l’età educativa, in realtà, dura tutta la vita. Le collane della Nuova Italia Educazione Primaria contenevano questo presupposto e da esso partivano, per le scelte sui contenuti principalmente ma anche sull’impostazione grafica nell’uso di tecniche diverse di illustrazione dal collage alla fotografia, nel linguaggio che giungeva fino all’eliminazione totale del testo e alla lettura solo per immagini, fatto molto preoccupante per certi adulti che non sapevano come “leggerle” ai bambini, o all’utilizzo di formati inusuali (grande album in brossura orizzontale per la collana “Il lavoro ieri e oggi” sui mestieri, rettangolo stretto e lungo verticale per il libro “A un bambino che nasce” completamente illustrato con grafite in bianco e nero (!), per giungere agli scientifici quadrati).
Nel libro “Immagini” l’educazione alla lettura avveniva per mezzo di icone diversificate: il bambino molto piccolo trovava lo stesso oggetto, la sedia ad esempio, in una foto e all’interno di un quadro, oppure la spugna posata da una parte e poi durante il suo utilizzo, nella vasca da bagno, nella pagina successiva; il sole dipinto da un pittore, la palla fotografata e un viso femminile a tratto portavano il piccolo lettore al riconoscimento della forma rotonda proprio nella sua diversità iconografica e simbolica.
L’esperienza della NIEP è confluita poi nella Fatatrac come la vediamo oggi, ma il percorso è stato in qualche maniera ancora diversificato. Da un lato l’interesse nella trattazione di tematiche sociali, anche in modo molto diretto e a volte in collaborazione con Enti Pubblici per la distribuzione gratuita nelle scuole (“La città ad ostacoli” sul problema delle barriere architettoniche, “Diversi amici diversi” testo in più lingue per i bambini della scuola materna, “Il giardino degli undici gatti” che affronta il tema della tossicodipendenza partendo proprio dal disagio nel sentirsi diversi all’interno del gruppo), dall’altro, e soprattutto dai primi anni ’90 in poi, nell’affrontare questi argomenti all’interno delle collane di narrativa, dei libri-gioco, in una sorta di “globalizzazione” del tema della diversità a più livelli.
L’interesse crescente nella normalizzazione di argomenti complessi e nella loro collocazione in libri non tematici parte dalla stessa consapevolezza che guida la distribuzione gratuita nelle scuole di libri “parascolastici”: ciò di cui trattiamo è di fondamentale importanza e, in quanto tale, deve giungere a destinazione anche, e soprattutto, in ambiti non ancora aperti.. Da qui la volontà di distribuire ad esempio i libri di incontro tra cultura italiana e cultura cinese non solo nelle scuole interessate dalla presenza di bambini cinesi ma in tutte le scuole, o parlare di handicap in modo lieve all’interno di racconti di narrativa (e penso ad esempio a “Talpa, Lumaca, Pesciolino” di Guido Quarzo in cui si parla di bambini “poco diversi”, Talpa vede poco, Lumaca è lenta, Pesciolino non parla…) che vengono acquistati da tutti i bambini e non solo dall’insegnante che si occupa di handicap.

Il filo che lega le radici della NIEP alla Fatatrac che oggi pubblica la collana “Tu non sai chi sono io” è ulteriormente sottolineato dal tema dell’incontro. L’interesse non è quello di “parlare su” ma di “dialogare con” una cultura. La collana interculturale, che si arricchisce in questi giorni dei due nuovi titoli sul popolo kurdo, mette a confronto la cultura italiana con le altre presenti sul territorio italiano, in un lavoro di gruppo formato da persone che appartengono alle due culture.
Nello stesso modo, in “Dall’altra parte del libro” di Mario Mariotti (uscito nei primi anni ’80 e precursore riconosciuto di volumi a tematica interculturale per ragazzi), l’incontro tra la cultura araba e quella italiana avviene in mezzo ad un libro che parte da tutti e due i mondi e che si legge sia da sinistra verso destra che da destra verso sinistra mettendo a confronto due storie ognuna con i propri simboli, diversi ma simili, il proprio metodo comunicativo…
Ancora dal tema dell’incontro sboccia l’attenzione crescente alla grafica e all’illustrazione che incontra il testo nei libri Fatatrac per accompagnarlo, con linguaggio altro, nella memoria di chi si trova il libro fra le mani.
L’incontro è tanto più interessante quanto più i mondi dell’autore e dell’illustratore riguardano modi diversi di comunicare, di “leggere” un tema e di proporlo ai ragazzi e ai bambini. L’apparente difficoltà delle immagini Fatatrac, nel senso della mancanza di convenzionalità in un panorama che sempre più è reso omogeneo da immagini in qualche modo rassicuranti, disneyane, note agli adulti, persegue la volontà, tutt’oggi, di educare il bambino alla diversità attraverso l’immagine atipica, artisticamente valida.
In questo senso la collana dei “Nuovi ottagoni” si arricchisce di due letture parallele e fondamentali per una vera educazione alla diversità; da un lato la presenza, all’interno della collana di narrativa, di tematiche “impegnative” (il tema dello sfruttamento dei bambini ne “Il mistero della torre saracena” o quello della clonazione in “A immagine e somiglianza”, quello dell’ecologia ne “Le bestiazze”, in uscita in questi giorni, o quello dell’immigrazione dei ragazzi africani ne “La città sotto la sabbia”), dall’altro l’incontro dei testi con la matita altamente espressiva di giovani illustratori di altissimo livello (Nicoletta Ceccoli, Alessandra Cimatoribus, Sandro Natalini, Carlo Becerica per citarne solo alcuni).
Nei libri-gioco e negli albi illustrati degli ultimi anni il tema della diversità è il presupposto di pubblicazioni di grande comunicatività; basti pensare alla collana “Maschi e femmine”, in cui il gioco della diversità tra i due sessi si fa ironico e sdrammatizzante o il bellissimo “La cosa più importante” in cui ogni animale del bosco viene considerato importante proprio per le sue specificità, o ancora “Volare!” che gioca sulla diversità della merla femmina, bianca, che impara a volare prima degli altri e dunque si trova in qualche modo, per un poco, esclusa dal nucleo familiare in quanto “atipica”.
La Fatatrac affronta temi “diversi” (l’educazione alla legalità per i bambini di 4-5 anni ne “L’alfabeto del cittadino” della collana “Contromafia”), in modo “diverso” (una filastrocca per ogni lettera dell’alfabeto gioca sul doppio significato, civile e mafioso, di parole come rispetto, dono, amico) e, passando attraverso eperienze molteplici e differenziate giunge alla fine del millennio con la consapevolezza di non aver mai deviato dai suoi intenti educativi, continuando a pubblicare “libri senza età” come il bellissimo “Maria Moll Cappero”, illustrato da Nicoletta Ceccoli, inno all’amore universale.
Questo anno 2000 che rappresenta per l’occidente un momento di passaggio di fondamentale importanza, dovremmo ricordare in ogni istante che per la maggior parte degli abitanti della terra è un anno come tutti gli altri e soprattutto non è il 2000!
E per chi avrà ricevuto una vera educazione alla diversità questa notizia, anzichè inquietante, risulterà a dir poco rassicurante…

Arianna Papini
direttore editoriale e artistico della Fatatrac

(Nicoletta Codignola e Arianna Papini, madre e figlia, lavorano insieme presso la casa editrice Fatatrac di Firenze)

Fatatrac – Una bibliografia fra le diversità

Interculturalità
AAVV – Diversi amici diversi – 4-6 anni
Mario Mariotti – Dall’altra parte del libro – dai 4 anni
AAVV – Amici nel mondo – 5-8 anni
AAVV – Vieni a casa mia? I bambini italiani e i bambini cinesi si incontrano – 6-8 anni
AAVV – Com’è il tuo paese? L’Italia e la Cina, due mondi che si incontrano – 9-11 anni
AAVV – Cici Daci Dom. Incontro con i bambini Rom – 6-8 anni
AAVV – La casa del sole e della luna. I Rom, un popolo che viene da lontano – 9-11 anni
AAVV – La strada delle stelle. Viaggio con il popolo arabo – 9-11 anni
AAVV – Le mille e una parola. Dialogo con il mondo arabo – 9-11 anni
AAVV – Ogni bambino ho la sua stella. Incontro con i bambini kurdi – 6-8 anni
AAVV – La primavera viene d’improvviso. I kurdi, popolo di montagna – 9-11 anni
Bruno Tognolini – Sentieri di conchiglie – dai 7 anni
Vanna Cercenà – Il mistero della torre saracena – dai 7 anni
Marina Iraso – La città sotto la sabbia – dai 12 anni
Gnugo De Bar – Strada patria sinta – 9-13 anni
AAVV – Tantipopoli – 11-15 anni
Mariangela Giusti – Una scuola, tante culture – per genitori e insegnanti

Handicap
Guido Quarzo – Talpa, Lumaca, Pesciolino – dai 7 anni
Arianna Papini – Amiche d’ombra – dai 7 anni
AAVV – La città a ostacoli – 9-13 anni

Altri libri citati
AAVV – Immagini – 0-6 anni
Lucia Scuderi – Volare! – 4-7 anni
Antonella Abbatiello – La cosa più importante – 4-7 anni
Mario Mariotti – Animani – dai 4 anni
AAVV – L’alfabeto del cittadino – 5-8 anni
Vittoria Facchini – Collana Maschi e femmine – 5-8 anni
AAVV – Collana Il lavoro ieri e oggi – 5-9 anni
Luciano Morati – Il giardino degli 11 gatti – 6-10 anni
Paola Pallottino – Maria Moll Cappero – dai 7 anni
Ugo Vicic – Le bestiazze – dai 7 anni
Vanna Cercenà – A immagine e somiglianza – dai 12 anni