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Autore: admin

7. Bibliografia

Arcuri L. (cura di), Percezione e cognizione sociale. Manuale di psicologia sociale, Bologna, Il Mulino, 1995.
Ausilioteca AIAS Cd-rom progetto Future, Soluzioni per l’inserimento lavorativo: gli ausili tecnologici per disabili motori, Bologna, 1999.
Bertini P., “L’accessibilità per tutti. Necessaria e possibile? Intervista a Patrizia Bertini”, in L’accessibilità di internet. Diversabili in Rete (a cura di Ghiretti A.), Parma, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, 2003.
Calzecchi Onesti R. (a cura di), Odissea, Rocca di San Casciano, CDE spa-Milano, 1997.
Canevaro A., Il bambino che non sarà padrone, Milano, Emme Edizioni, 1975.
Canevaro A., Handicap e Identità, Bologna, Nuova casa editrice, 1986.
Canevaro A., Balzaretti C., Rigon G., Pedagogia speciale dell’integrazione. Handicap: conoscere e accompagnare, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1996.
Canevaro A., Goussot A., La difficile storia degli handicappati, Roma, Carocci, 2000.
Canguilhem G., Il normale e il patologico, Torino, Einaudi, 1998.
Ghiretti A., Le barriere di Internet. Diversabili in Rete, Parma, Università di Modena e Reggio Emilia, 2003.
Grassi C. (a cura di), Rapporto sulla Commissione interministeriale permanente per l’impiego dell’ICT a favore delle categorie deboli o svantaggiate, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie, 2005.
Rabbi N., Disabili 1.0 – Servizi, relazioni sociali, barriere: Internet per i disabili, “HP-Accaparlante” n. 1-2005, Trento, Edizioni Erickson, 2005.
Thompson J. B., Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media, Bologna, Il Mulino, 1998.

 

6. Ulisse incontra Nausicaa

 

Ciò detto, uscìa l’eroe fuor degli arbusti,
e con la man gagliarda, in quel che uscìa,
scemò la selva d’un foglioso ramo,
che velame gli valse ai fianchi intorno.
Quale dal natìo monte, ove la pioggia
sostenne e i venti impetuosi, cala
leon, che nelle sue forze confida;
foco son gli occhi suoi; greggia ed armento
o le cerve selvatiche, al digiuno
ventre ubbidendo, parimente assalta,
né, perché senta ogni pastore in guardia,
tutto teme investìr l’ovile ancora:
tal, benché nudo, sen veniva Ulisse,
necessità stringendolo, alla volta
delle fanciulle dal ricciuto crine
cui, lordo di salsuggine com’era,
sì fiera cosa rassembrò, che tutte
fuggîro qua e là per l’alte rive.
Sola d’Alcinoo la diletta figlia,
cui Pallade nell’alma infuse ardire,
e francò d’ogni tremito le membra,
piantossegli di contra e immota stette.
[…]
“O forestier, tu non mi sembri punto
dissennato e dappoco”, allor rispose
la verginetta dalle bianche braccia.
[…]
Tal favellò Nausica, e alle compagne:
“Olà”, disse, “fermatevi. In qual parte
fuggite voi, perché v’apparse un uomo?
Mirar credeste d’un nemico il volto?
Non fu, non è: e non fia chi a noi s’attenti
guerra portar: tanto agli dèi siam cari”.
(Libro Sesto)

Le ancelle di Nausicaa tremano davanti a Ulisse vedendolo nudo e selvaggio. Nausicaa invece rimane ad ascoltare quello che Ulisse vuole dirle.
Spesso l’arte e il mondo dei mass media, la pubblicità progresso e di utilità sociale, la televisione in generale o i giornali, ci hanno fatto riflettere; a volte ci hanno colpito quando non volevamo stare a sentire; altre volte siamo rimasti scandalizzati o sconvolti per come hanno trattato un argomento o un problema.
Quando Caravaggio dipinse ed espose la sua prima natura morta, quella con la “mela bacata” per intenderci, fece scandalo. Così come spesso fecero scandalo molti dei suoi quadri. Era l’epoca della Controriforma e del Concilio di Trento, tra il ’500 e il ’600. Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, fu l’artista che più rappresentò il realismo (o naturalismo). La sua fu una vera e propria rivoluzione pittorica che dimostrò la forza che poteva avere una rappresentazione esatta della realtà, senza alcuna trasfigurazione o aggiustamento. Caravaggio infatti abolì dalla sua pittura qualsiasi “trasfigurazione”: la realtà rappresentata nei suoi quadri appariva così come in effetti era. Per il pubblico del tempo fu una cosa sconvolgente.

Arte o spettacolo?

Più recentemente (era il 2003), sollevò non pochi clamori la decisione di collocare a Trafalgar Square, a Londra, Alison Lapper pregnant, una scultura in marmo italiano dell’artista inglese Marc Quinn che rappresentava una donna, Alison Lapper appunto, nuda, incinta e focomelica.
Per i sostenitori di Marc Quinn, quell’opera esprimeva il suo potenziale prima di tutto nell’offrire una rappresentazione fiera e senza compromessi di una donna focomelica. Marc Quinn rappresentò una donna sensuale e fertile, senza atteggiamenti vittimistici. Secondo Donato Ramani, di Jekyll. Comunicare la scienza, la figura di Quinn appariva forte e carnale, “scandalosa solo perché distante dall’immagine rassicurante di una disabilità innocente edasessuata”.
A difendere l’arte di Marc Quinn c’era anche il controverso fotografo Oliviero Toscani che così commentava: “Una ragazza focomelica è una realtà della vita che crea un problema a chi non vuole vedere ciò che la realtà ci dà. Anzi, per quanto mi riguarda, eliminerei tutti i monumenti ai grandi personaggi della storia, che per la maggior parte sono degli assassini trasformati in eroi, per sostituirli con personaggi come la Lapper che fanno parte, loro sì, della vita vera”.
La foto di Alison, dalle braccia mutilate e gambe malformate, fu ripresa dalla copertina di “Panorama” del 26 giugno 2003 . All’interno del giornale vi erano anche “la donna barbuta”, “le gemelle siamesi”, “l’uomo tronco”, “l’ermafrodito” e “l’uomo lupo” ritratti nel servizio fotografico di Gérard Rancinan. L’obiettivo era di celebrare l’anno europeo delle persone disabili con storie vere.
Anche in quel caso, così come a Londra, non si fecero attendere le proteste. Questa volta però arrivarono proprio da quel mondo che avrebbe dovuto, invece, trovare appropriata la scelta del giornale. Furono persone con disabilità ad attaccare “Panorama” accusando il settimanale di spettacolarizzare la deformità a fini commerciali.
Le stesse accuse – creare scandalo appositamente per puri fini commerciali – spesso si sono ripetute anche contro molte delle campagne del fotografo Oliviero Toscani. Di Toscani, tra le sue numerose produzioni, ricordiamo i bambini disabili griffati “Beneton” dell’istituto per handicappati di Ruhpolding. Anche in quel caso le foto sollevarono un po’ di discussioni, se non proprio un’alzata di scudi, come avvenne invece in Inghilterra. C’è chi difese Oliviero Toscani affermando che quella era una campagna di sensibilizzazione, chi al contrario lo attaccò. Le contrastanti sensazioni di fronte a quelle immagini apparse nel lontano 1998 sono ben riassunte in un intervento della scrittrice Clara Sereni, apparse allora nelle pagine de “Il Manifesto”: “Contrariamente a quanto è successo in Gran Bretagna, la nuova campagna di Oliviero Toscani per Benetton, tutta giocata sugli ospiti di un istituto-modello per handicappati, non ha prodotto da noi particolari polemiche e turbamenti. […] non c’è polemica perché le immagini raccontano un mondo in cui la diversità ha diritto alla moda. […] Ipotesi cattivista: in gioco ci sono i buoni sentimenti assolutori, quelli che fanno dire a più d’uno che gli handicappati sono angeli, in quanto tali diversi irrimediabilmente. Dunque da rinchiudere, per il loro bene naturalmente, in un apposito paradiso, eventualmente rappresentato da un istituto di suore sorridenti e caritatevoli. Lontano dagli occhi, lontano dalla ragione, lontani da un’interazione vera con una società che tende a cancellarli, ma vestiti Benetton come noi, spastici autistici e Down possono essere nient’altro che un mezzo di contrasto per confermarci normali”.
Forse quello che disturba nell’arte di Toscani, oltre alla crudezza nella rappresentazione del reale (non è il caso di questi bambini, ma di altre campagne come quella sull’AIDS ad esempio) è il fatto che ai tempi in cui lavorava per l’azienda Benetton utilizzava per i suoi messaggi un “veicolo commerciale”. I manifesti, le inserzioni sui giornali, recavano il marchio di una azienda che vende abiti. Era pubblicità e l’intento della pubblicità generalmente è vendere, non far riflettere o sensibilizzare. Era, quella di Benetton e Oliviero Toscani, un caso anomalo di “pubblicità sociale/progresso”? Quelle campagne pubblicitarie davvero potevano diffondere tematiche e stimolare riflessioni sui problemi reali e allo stesso tempo far vendere un’azienda? Quanto queste due anime (sociale e commerciale) possono davvero convivere e non danneggiarsi l’una con l’altra?
All’indomani dell’apparizione di quelle foto sui giornali una giornalista, Cristina Barlera, così commentava: “Certo il mercato e la pubblicità non hanno riguardi: inventano, propongono, cercano di sbalordire e di emozionare per quello che è il loro obiettivo, vendere […]. Ma più che il cinismo della pubblicità e della moda, questa vicenda porta allo scoperto l’atteggiamento della gente nei confronti dell’handicap. Quello che stride, che stupisce e che fa male è proprio la meraviglia, lo sconcerto, il clamore, l’enfasi e la risonanza data dai media […]. Sfilano e appaiono tutti su giornali e reti televisive: […] Ma gli handicappati no, non possono: a loro quei territori sono vietati. Perché non corrispondono ai modelli di bellezza e di intelligenza che la società si è costruita e che continua a inseguire. Perché l’handicap nell’immaginario comune significa solo dolore. Invece ciò che colpisce di quelle foto sono l’innegabile felicità di un gruppo di bambini […] immagini che risultano molto più vere di quelle dei bambini della pubblicità delle merendine o delle modelle diafane prive di espressione”.
La giornalista metteva in evidenza come la gente, fruitrice di quella pubblicità, ha reagito. Il messaggio è stato dato: quali sono state le riflessioni e gli atteggiamenti della società?
Si entra qui nel difficilissimo campo della definizione di arte e di comunicazione e del confine tra arte e comunicazione. Sempre Toscani, in un’intervista rilasciata a Arte.it, afferma: “Si crede che la comunicazione sia il cavalier servente della spinta al consumo. In realtà le cose non stanno così. La comunicazione è una forma moderna di azione culturale. Cosa fa un giornale? Un giornale usa immagini e parole per informare e per vendere un oggetto stampato su carta. Anche quello è un prodotto. Cosa fa la comunicazione commerciale? Usa le parole per vendere e al tempo stesso per informare. La prospettiva tutto sommato è la stessa. Perché dovrebbe essere differente? Di fronte a uno spot la mia prima reazione non è di andare a comprare il prodotto reclamizzato. Ho una reazione emotiva, umana, come accade quando guardo la copertina di un giornale o il trailer di un film”.
Compito della comunicazione pubblicitaria quindi è creare emozioni, reazioni. Se guardiamo all’arte del passato ci sono tanti esempi di rappresentazioni di persone disabili, o malate, deboli, o comunque, “imperfette” rispetto ai canoni di bellezza stabiliti dalla moda e dalla società di ciascuna epoca. La mela di Caravaggio non fa eccezione perché apparsa come mela “reale” in un mondo abituato a vedere rappresentate solo mele “ideali”, perfette. Eppure Caravaggio e gli altri pittori che aderirono al naturalismo restituirono ai soggetti rappresentati, alla realtà stessa, la loro dignità e il loro ruolo.
Oggi le nature morte di Caravaggio ci stupiscono per la loro bellezza ma non ci scandalizzano più. Forse però scandalizzarono i contemporanei del pittore. E forse, allo stesso modo, tra qualche anno, non faranno più “effetto” a noi né i bambini di Benetton, né Alison Lapper perché quella realtà, a lungo negata, taciuta, nascosta, isolata, sarà invece accettata. Sarà diventata conoscenza comune, parte della nostra realtà grazie a un’opera di “disvelamento”. Lo stesso tragitto – passare dal silenzio alla luce della verità, della rivelazione – lo hanno compiuto altri soggetti e altre tematiche: l’Aids, l’omosessualità, le mine antiuomo, i bambini soldato.
Certo, ciò che disturba molti è il fatto che dietro a quelle realtà ritratte su “Panorama” o da Oliviero Toscani ci sia la pubblicità commerciale, l’imperativo di vendere, il denaro. È qui che comincia la riflessione su ciò che è lo sfruttamento di una difficoltà o la sua spettacolarizzazione e ciò che è informazione vera.

Registri comunicativi: l’ironia

Henri de Toulouse-Lautrec proprio a causa (o grazie) alla sua condizione di disabile poté avvicinarsi a un mondo che viveva ai margini della società aristocratica cui lui apparteneva. Egli stesso si autorappresentò in disegni d’effetto che colpiscono per la vividezza, la lucidità, e la grande autoironia. Non si fece sconti. Così si liberò e si conquistò una parte nel mondo. È forse per questo che non ha creato disagi, né scandali, né dissensi, la pubblicità delle Paralimpiadi 2006 della Gialappa’s band. Il trio (Marco Santin, Carlo Taranto e Giorgio Gherarducci) nello spot intervista un atleta in carrozzina. Questo sportivo non viene trattato dai tre autori della Gialappa’s in modo diverso da come hanno trattato in precedenza i lavoratori della banca San Paolo e gli atleti che partecipavano alle gare olimpiche. Sottolinea Maria Novella Oppo nel suo articolo L’ironia che rende uguali: “Il ragazzo invalido viene allegramente strapazzato come tutti gli altri e reagisce ridendo come tutti gli altri. Manca nello spot ogni segno di quella pietosa condiscendenza con cui viene solitamente trattato, soprattutto in tv, il disabile. […] La risata con cui si conclude lo spot vale più di tante benintenzionate parole, a cui non corrispondono i fatti. Come si può giudicare dal modo reticente e censurato con cui le imprese degli atleti disabili vengono seguite dalla tv. Per non dire del modo in cui la pubblicità si occupa, o non si occupa, dei problemi che riguardano i disabili. Se ne occupa infatti, solo la pubblicità sociale […] che interrompe come un pugno nello stomaco la teoria degli spot commerciali. […] E la pubblicità sociale difficilmente ci fa sorridere, mentre questa pubblicità commerciale ci strappa una risata liberatoria, attraverso lo spettacolo dell’uguaglianza di fronte all’ironia”.
Anche dietro a questo spot c’era un committente commerciale: la banca San Paolo. Però questo è uno spot differente. Cosa cambia? Cambia il modo di comunicare. Questo spot utilizza un registro comunicativo diverso da quello di Toscani. Non colpisce perché abbina mondi apparentemente distanti (moda e malattia; moda e disagio; moda e disabilità) ma perché sfrutta l’ironia applicando ai disabili lo stesso trattamento che è riservato a un non disabile. Tratta il soggetto “normalmente” lasciandolo libero di proporsi come un ragazzo simpatico o antipatico, buono o cattivo.
San Paolo ha scelto il suo modo di comunicare. Oliviero Toscani ha il suo e così Marc Quinn o “Panorama”. Al pubblico resta il diritto e la possibilità di reagire e far sentire la propria opinione generando, si spera, un circuito di idee e di confronto su problemi o tematiche prima poco affrontate.
L’obiettivo deve essere sempre uno solo: superare la paura della diversità. Imparare a “guardarla” e, con tutte le nostre forze, tutelarla.
 

5. Ulisse lascia l’isola di Calipso

Ma come del mattin la figlia, l’alma
dalle dita di rose Aurora apparve,
tunica e manto alle sue membra Ulisse,
e Calipso alle sue larga ravvolse
bella gonna, sottil, bianca di neve;
si strinse al fianco un’aurea fascia, e un velo
sovra l’ôr crespo della chioma impose.
Né d’Ulisse a ordinar la dipartita
tardava. Scure di temprato rame,
grande, manesca e d’ambo i lati aguzza,
con leggiadro, d’oliva, e bene attato
manubrio, presentògli, e una polita
vi aggiunse ascia lucente; indi all’estremo
dell’isola il guidò, dove alte piante
crescean; pioppi, alni, e sino al cielo abeti,
ciascun risecco di gran tempo e arsiccio,
che gli sdruccioli agevole sull’onda.
Le altere piante gli additò col dito,
e alla sua grotta il pié torse la diva.
Egli a troncar cominciò il bosco: l’opra
nelle man dell’eroe correa veloce;
venti distese al suolo arbori interi,
gli adeguò, li polì, l’un destramente
con l’altro pareggiò. Calipso intanto
recava seco gli appuntati succhi,
ed ei forò le travi e insieme unille,
e con incastri assicurolle e chiovi.
Larghezza il tutto avea, quanta ne dánno
di lata nave trafficante al fondo
periti fabbri. Su le spesse travi
combacianti tra sé lunghe stendea
noderose assi, e il tavolato alzava.
L’albero con l’antenna ersevi ancora,
e costrusse il timon, che in ambo i lati
armar gli piacque d’intrecciati salci
contra il marino assalto, e molta selva
gittò nel fondo per zavorra o stiva.
Le tue tele, o Calipso, in man gli andâro
e buona gli uscì pur di man la vela,
cui le funi legò, legò le sarte,
la poggia e l’orza: al fin, possenti leve
supposte, spinse il suo naviglio in mare,
che il dì quarto splendea. La dea nel quinto
congedollo dall’isola: odorate
vesti gli cinse dopo un caldo bagno;
due otri, l’un di rosseggiante vino,
di limpid’acqua l’altro, e un zaino, in cui
molte chiudeansi dilettose dapi,
collocò nella barca; e fu suo dono
un lenissimo ancor vento innocente,
che mandò innanzi ad increspargli il mare.
(Libro Quinto)

La dea Calipso aiuta Ulisse a costruire la zattera che permetterà all’eroe di lasciare la sua isola. Gli fornisce strumenti e cibo e alla fine un vento propizio. Ulisse usa la sua abilità, forza ed esperienza per poter realizzare il mezzo che, spera, gli permetterà di ritornare a casa.
In questa ottica, quella della collaborazione, va considerato l’e-learning.
Ma che cos’è l’ e-learning: cos’è?
Possiamo definire l’e-learning (letteralmente: insegnamento elettronico) come la formazione a distanza basata sulla telematica. Wikipedia, il più grande dizionario libero on line lo definisce come: “Un settore applicativo della tecnologia dell’informazione, che utilizza il complesso delle tecnologie Internet (web, e-mail, FTP, IRC, streaming video, ecc.) per distribuire on line contenuti didattici multimediali. L’e-learning sfrutta le potenzialità rese disponibili da Internet per fornire formazione sincrona e/o asincrona agli utenti, che possono accedere ai contenuti dei corsi in qualsiasi momento e in ogni luogo in cui esista una connessione on line”.
Operativamente si immagini di vedere un numero di studenti che da casa propria si collegano alla rete dell’Ateneo o del corso di formazione al quale sono iscritti. Essi vedono il professore in video conferenza, ascoltano la sua voce e possono “leggere” le presentazioni power point che l’insegnante ha preparato o condividere altri materiali (fogli di calcolo, file di testo, ecc.); hanno la possibilità di interagire ponendo domande e possono “rivedere” la lezione, una volta che è terminata, tutte le volte che lo desiderano.

E-learning: possibilità per tutti

L’e-learning, così come Internet sul quale si basa, può rappresentare un’ottima possibilità. Si abbatte il problema degli spostamenti e anche dei costi. Per chi ha gravi problemi motori, studiare e dare gli esami direttamente da casa potrebbe infatti rappresentare una buona soluzione; per i disabili uditivi più o meno gravi potrebbe esser utile seguire lezioni con proiezioni di slide, testi e video sottotitolati o lezioni “tradotte” da un esperto di linguaggio dei segni.
Garantire l’occasione di studio, lavoro (tele-lavoro) e incontro (anche solo tramite una rete Internet) per chi non può muoversi da casa può rappresentare un’occasione di crescita personale e di integrazione sociale importante.
Allo stesso modo, studiare e lavorare da casa, in un ambiente conosciuto e tranquillo, “amico”, dà la possibilità all’utente non normodotato (ad esempio persone con disturbi di ordine psichico o disturbi dell’attenzione) di non essere sottoposto a ulteriori stress e di poter affrontare il percorso formativo seguendo i propri tempi e i propri ritmi. Infatti, la fruizione dei contenuti didattici e-learning non è vincolata a tempi e a luoghi specifici e offre la possibilità di adattarsi ai diversi stili di apprendimento degli utenti, fornendo canali di comunicazione diversificati (del tipo visivo, auditivo, testuale); infine l’e-learning tiene conto dei progressi e della velocità di apprendimento del singolo (che può procedere velocemente e saltare le cose che già conosce, oppure ripeterle quanto vuole) senza modificare il ritmo dei compagni di studio.

Un po’ di storia

Si parla oggi di e-learning di terza generazione o formazione in rete.
La formazione a distanza di prima generazione consisteva nell’invio, tramite posta, di materiale didattico cartaceo agli studenti che non potevano seguire le lezioni in aula. Le prime testimonianze di una simile attività risalgono alla fine dell’Ottocento.
A cavallo fra gli anni ’50 e ’60 vengono inventati i cosiddetti sistemi FaD plurimediali o di seconda generazione, basati sull’uso di materiale a stampa, trasmissioni televisive, registrazioni audio e, successivamente, di software didattico come le video-registrazioni.
La terza generazione, infine, nasce con la diffusione del computer e delle tecnologie informatiche e telematiche. L’apprendimento basato esclusivamente sull’utilizzo del computer è spesso identificato dall’acronimo CBT (Computer Based Training). Pensiamo all’utilizzo di floppy disk, Cd e DVD multimediali.

E-learning e metodo cooperativo: una nuova didattica
L’e-learning, come abbiamo detto, si basa sull’utilizzo di Internet. In particolare, viene utilizzata la piattaforma tecnologica Learning Management System o LMS grazie alla quale lo studente può accedere al corso da qualsiasi computer collegato a Internet, generalmente senza la necessità di scaricare software ad hoc. La piattaforma è un database, un archivio, in cui rimane traccia, ad esempio, della sua frequenza, delle prove di valutazione o dei tempi di fruizione.
La piattaforma però è solo uno degli elementi fondamentali dell’e-learning che porta con sé, proprio per la sua struttura intrinseca, una nuova concezione di didattica.
Infatti e-learning non significa semplicemente riprodurre in un’aula virtuale quello che avviene in classe, le stesse metodologie di insegnamento, ma introduce un nuovo modello di apprendimento: quello cooperativo.
In effetti l’e-learning, come afferma Guglielmo Trentin, ricercatore presso l’Istituto per le Tecnologie Didattiche del CNR di Genova, può essere visto da due angolazioni: quella dell’insegnamento a distanza (o tele-insegnamento) e quella della formazione in rete (o formazione a distanza di terza generazione). Nel primo caso stiamo parlando di sistemi di insegnamento che tendono a riprodurre le lezioni uno-a-molti dell’aula tradizionale (ad esempio il docente parla in video conferenza), mentre la formazione in rete prevede la formazione di una vera e propria comunità che decide, assieme, in modo cooperativo, i temi e le modalità della formazione. Il metodo cooperativo è adatto principalmente ad alunni adulti e il suo punto di forza è appunto l’unità della comunità che dà anche motivazione all’allievo nella prosecuzione del corso.
Si tratta, come è evidente, di un modello educativo faticoso, ma capace di offrire un percorso personalizzato di apprendimento, a seconda del target di riferimento.
La chiave di volta per capire la svolta introdotta dal FaD di terza generazione è comprendere che esso cerca di riproporre anche a distanza, seppure con l’inevitabile mediazione della tecnologia, l’apprendimento come processo sociale. I sistemi FaD di terza generazione vengono, infatti, indicati anche con la sigla on line education (o formazione in rete) perché il processo formativo avviene in rete, attraverso l’interazione dei partecipanti in una vera e propria comunità di apprendimento.
In un processo di e-learning l’attenzione è incentrata sull’utente: il corsista deve giocare un ruolo attivo. Per cui l’e-learning non è solo una somministrazione di materiale didattico in rete, ma utilizza la rete per creare una comunità.

E-learning: modalità

La formazione a distanza di terza generazione usa un sistema di gestione detto ad anello chiuso: il processo di apprendimento è regolato in itinere, mentre si compie, passo a passo, grazie a un continuo monitoraggio e ai suggerimenti e alle richieste degli allievi.
L’e-learning permette agli utenti di interagire come se davvero fossero assieme nello stesso luogo; di fatto sono assieme nello stesso posto: quello dell’apprendimento.
La formazione a distanza di prima e seconda generazione prevedevano un metodo di apprendimento autodidatta: lo studente, armato di buona volontà, seguiva lezioni tramite i materiali cartacei, audiovisivi o digitali. Nell’e-learning nuove figure partecipano all’evento formativo: oltre alla comunità, il tutor. Il suo compito è aiutare gli alunni, sopperire alla mancanza apparente del docente, assisterli nei problemi di tipo tecnico. Un tutor deve possedere competenze didattico/formative abbinate alla conoscenza sia delle tecnologie della comunicazione che delle dinamiche interpersonali. Deve infatti essere un moderatore di discussioni, facilitatore di attività di gruppo, consigliere per i corsisti. E se davvero l’e-learning dispiegasse tutte le sue potenzialità, perché non pensare che quel tutor non possa essere una persona disabile?
Fondamentale, siccome si tratta di un modello di apprendimento basato sulla condivisione e sulla cooperazione, e perché questa non si trasformi in anarchia totale, occorre, all’inizio del corso, stabilire il cosiddetto contratto formativo, in cui vengono esposti i contenuti del corso, gli obiettivi e i metodi.

E-learning e qualità

Perché la qualità dell’insegnamento on line sia alta bisogna valutare:
– i materiali prodotti: devono essere accessibili, di buona qualità, gradevoli, facilmente fruibili e possibilmente corredati da una bibliografia di approfondimento accurata;
– le relazioni tra i corsisti, insegnanti e tutor: all’inizio del corso è bene far familiarizzare i corsisti tra di loro, ridurre il senso di isolamento e stabilire il contratto formativo; il tutor in seguito deve esser a disposizione dei corsisti qualora sorgano problemi e per motivarli e aiutarli.
Ciò che è necessario nell’e-learning è sfruttare l’interattività della tecnologia cioè, in questo caso, non solo la possibilità di consultare materiali on line (come, similmente, consultiamo libri cartacei), ma di interagire con altre persone.
Ritorna, infine, il grande problema dell’accessibilità tecnica: i materiali prodotti possono essere ottimi, le relazioni tra la comunità anche, ma se in pochi possono accedere alla piattaforma, tutto è inutile.

La diffusione dell’e-learning

Secondo le analisi di Osservatorio ANEE/ASSINFORM 2005 e 2006, gli utenti considerano l’e-learning efficace, ma ancora basso è il suo utilizzo. L’apprendimento in aula nel 2004 era pari all’89,3% del campione, seguito dalla lettura di manuali e libri (al 35,4%); l’e-learning invece era a quota 10,3%. Il dato è comunque positivo perché l’apprendimento in aula dal 2003 al 2004 è calato scendendo dal 91,5% all’89,3%, mentre l’uso dell’e-learning, al contrario, è cresciuto passando dall’8,2% al 10,3%.

Gli utenti

– Aziende: all’interno delle aziende l’e-learning è rivolto e usato principalmente dal personale tecnico-amministrativo (35,6%) e dagli impiegati (32,6%);
– Pubbliche Amministrazioni: il questionario è stato inviato a 251 enti. Di questi hanno risposto il 45% degli intervistati. Dai dati emerge che nel 2004 il 33% degli enti intervistati ha usufruito di formazione erogata in e-learning. La quota è salita a 39% nel 2005;
– Università: le ricerche di ANEE/ASSINFORM 2005 e 2006 mettono in luce come nelle Università di tutto il mondo stia crescendo l’utilizzo dell’e-learning. In particolare, in Italia, nel 2006, l’89% delle Università offriva questa possibilità di apprendimento. Per quanto riguarda i percorsi formativi in e-learning “puro” le Università che segnalano tale attività nel proprio portale sono 53 su 77, pari al 68,8% del totale degli atenei. Il miglioramento non riguarda solo il numero di Università che erogano e-learning, ma il modo in cui lo erogano: si nota infatti anche lo sforzo di miglioramenti di servizi e prodotti erogati. La diffusione dell’e-learning propriamente detto risulta quindi in netto aumento rispetto agli anni precedenti, infatti si passa dal 32% di atenei italiani che utilizzavano questa modalità formativa nel 2004 al 57% rilevato nell’indagine del 2005 per arrivare al dato emerso nel 2006, pari al 68,8%. Dal 2003 al 2004, le Università hanno acquistato piattaforme all’esterno in percentuale crescente (17% nel 2003, 38% nel 2004). Se la percentuale di acquisto è calata nel 2005 (35%) è perché le Università si stanno dotando di piattaforme informatiche open source: nel 2003 erano utilizzate per un 3%, nel 2004 sono salite al 24% e nel 2005 a 35%. È aumentata inoltre l’offerta di e-learning: nel 2004 era quasi concentrata totalmente su Università di informatica e lingue mentre nel 2005 quasi tutti gli altri atenei offrono questa possibilità formativa.

Che cosa ostacola la diffusione dell’e-learning?

In generale, si nota come nelle aziende il contatto con l’e-learning sia più frequente. Per le Università e per le scuole di secondo e primo grado invece tale familiarità cala. In particolare, le scuole di primo e secondo grado sono quelle più a digiuno di e-learning e non perché manchi la volontà o l’interesse da parte dei docenti. Essi invece denunciano l’arretratezza della dotazione informatica e i costi elevati di attivazione del servizio. Accanto a queste motivazioni, per quanto riguarda le Università italiane, c’è anche la diffidenza da parte dei docenti verso questo nuovo mezzo di insegnamento, che, ricordiamolo, non è assimilabile all’insegnamento in aula e richiede competenze comunicative e tecniche particolari che spesso sono da acquisire. Cioè quello che occorre è un processo di alfabetizzazione alle nuove tecniche che richiede certamente un discreto periodo di tempo.

E-learning e disabilità: qualche esempio

Il primo buon esempio di quello che si può realizzare sfruttando le nuove tecnologie è il progetto “PSELDA – Progetto Sperimentale di e-learning per disabili audiolesi” dell’Università degli Studi di Sannio.
In sintesi, il progetto (avviato nel giugno del 2003) si propone di offrire agli studenti audiolesi del corso di laurea in Ingegneria Informatica la possibilità di seguire le lezioni utilizzando un sistema informatico, accessibile via Internet, corredato da una serie di strumenti di e-learning studiati ad hoc. Per esempio dal sito dell’Università (www.ing.unisannio.it/pselda) è possibile scaricare video in formato .avi con esperti di linguaggio L.I.S. che traducono il contenuto della pagina con il linguaggio dei segni.
Il secondo progetto riguarda non direttamente, ma a ricaduta immediata, gli alunni disabili perché si tratta di due corsi pensati per gli insegnanti di sostegno per aiutarli nell’inserimento scolastico degli studenti disabili. I corsi sono stati promossi, nei primi mesi del 2004, dall’Ufficio scolastico regionale per le Marche e realizzati in collaborazione con le Università di Venezia “Ca’ Foscari” e “Carlo Bo” di Urbino. Si è trattato di un mix di lezioni da seguire tramite Internet e integrate da alcuni incontri in presenza. I due percorsi, iniziati a gennaio 2004 e terminati in dicembre, si chiamavano “Integra” e “Tutor di SOS di Rete”. Integra era pensato per offrire agli insegnanti gli strumenti per gestire la classe in presenza di alunni disabili e Tutor di SOS di Rete per il “lavoro di rete” dei docenti specializzati nelle attività di sostegno.
Risale al 2005, e al Ministro Moratti, l’approvazione, da parte del Comitato dei Ministri per la Società dell’informazione del progetto “Nuove tecnologie e disabilità nella scuola” il cui obiettivo era quello di rendere concretamente accessibili le Ict agli studenti disabili. Il progetto è stato pensato per operare nell’ambito di tre aree: disabilità sensoriale, disabilità motoria e disturbi dell’apprendimento, con particolare riferimento alla dislessia. Quattro obiettivi: l’acquisizione di competenze tecnologiche, il miglioramento della competenza professionale dei docenti, la possibilità di scambio di metodologie tra gli insegnanti, l’annullamento del gap tra gli studenti disabili e gli studenti normodotati.
Da citare, inoltre, è il progetto finanziato dalla Comunità Europea DEA – Digital litEracy open to impAirments di HOC, Politecnico di Milano, Polo Regionale di Como. L’obiettivo del progetto DEA (che risale al 2005) era quello di individuare, catalogare e diffondere buone prassi sviluppate nell’ambito di progetti miranti alla promozione della cultura digitale fra persone disabili. Si tratta di un vero e proprio “raccoglitore” on line di progetti e software per un e-learning accessibile. Nel catalogo è segnalato, per l’Italia, BRIDGE Learning Management System. Bridge è un software dedicato all’erogazione di corsi, sia interamente a distanza che misti con attività d’aula in presenza. Bridge LMS è conforme alle norme internazionali e italiane sull’accessibilità (WCAG, Legge 4/04, DPR 01/03/05 N.75), e il software in questione è stato utilizzato anche dal Tribunale militare e dalla procura militare di Bari per la formazione del personale interno e a tale evento formativo hanno partecipato anche utenti diversamente abili. Come si legge nel sito di Bridge (www.bridge.it) i progettisti e gli sviluppatori, per perseguire l’obiettivo di accessibilità e l’intento di rendere il contenuto informativo, le modalità di navigazione e tutti gli elementi interattivi, fruibili indipendentemente dalle disabilità, hanno sottoposto le funzionalità del programma a test da parte di un panel di utenti diversamente abili. Il test, diretto dalla Fondazione ASPHI onlus (Avviamento e Sviluppo di Progetti per ridurre l’Handicap mediante l’Informatica), ha dato risultati notevolmente positivi e ha consentito di migliorare progressivamente tutte le interfacce.
In Europa ci sono altri esempi positivi. Tra i progetti nati dal 2003, l’anno europeo dedicato alle persone disabili, sono da ricordare anche ELDA – E-learning Disability Access, con Eldanet.org, un portale che offre soluzioni elettroniche per una vasta gamma di disabilità; WAI-NOT, progetto belga con programmi concepiti per bambini e giovani con disabilità intellettive; BluEar, progetto che studia le vie da intraprendere in modo che le persone con problemi di udito non rimangano escluse dall’accesso alle informazioni.

Conclusioni

Occorre fare due ordini di considerazioni: una di carattere tecnico e una a carattere più socio-psicologico.
È chiaro che, perché l’e-learning sia sempre più diffuso ed esprima le sue grandi potenzialità, e perché un numero sempre più elevato di persone disabili possa decidere se avvalersene o meno, occorre lavorare sull’accessibilità della rete e dei personal computer. Occorre anche pensare a piattaforme e programmi educativi che vadano incontro alle esigenze dei singoli utenti. Per questo bisogna incentivare la ricerca e la formazione per studiare nuovi approcci ergonomici che facciano sentire il disabile al proprio posto, confortevolmente e in modo recettivo. Allo stesso modo, nel campo dei dispositivi hardware di ausilio è auspicabile una diminuzione dei prezzi e una maggiore disponibilità delle soluzioni per ogni tipo di disabilità.
Allo stesso modo occorre formare i docenti e informare gli studenti di questa possibilità. Infatti al momento attuale l’opportunità di formazione offerta dall’e-learning è colta ancora da un numero limitato – seppure in continua crescita – di studenti disabili. Ciò potrebbe dipendere sia dalla difficoltà di accesso alle piattaforme, sia dai costi come anche dalla mancanza di informazione e dalla scarsa alfabetizzazione informatica.
Il secondo ordine di considerazioni riguarda invece la psicologia dell’utente: va valutato come viene vissuta dalla persona disabile la situazione di e-learning; rimanere a casa, magari seguiti da un tutor in presenza, può essere ritenuto un vantaggio da alcuni, mentre da altri può essere percepito come un isolamento doloroso dalla comunità.
A questo proposito, Andrea Canevaro parlando delle nuove tecnologie nell’ambito di Handimatica 2002, sottolineava l’utilità delle nuove tecnologie seppure con qualche “ma”: il telelavoro infatti è rifiutato da una parte di disabili che lo vedono come un elemento “ghettizzante” e non come una possibilità. Sotto lo stesso giudizio negativo potrebbe ricadere anche l’e-learning che ha sì il pregio di superare barriere e limitazioni di ordine logistico ma, allo stesso tempo, può anche determinare l’isolamento dell’individuo.
Infine rimane da dire che, anche se l’e-learning può rappresentare un valido strumento per agevolare tante persone, tuttavia le strategie “pure” di formazione in rete non sempre sono proponibili. Ecco perché ultimamente si sono avviate sperimentazioni centrate su approcci misti (presenza/distanza), cioè su una formazione che alterna momenti formativi in presenza e di attività in rete. Questo permetterebbe in alcuni casi anche di risolvere il problema dell’isolamento reintroducendo in parte l’elemento di contatto umano che in rete, necessariamente, va perduto.
 

4. L’entrata di Odisseo nella sala di Alcínoo

Ma quando l’ottavo anno arrivò, compiendo il suo giro,
allora [Calipso] mi comandò con premura d’andarmene,
per comando di Zeus, o forse cambiò la sua mente:
mi fece partire su zattera dai molti legami, molto mi diede,
pane e dolce vino, e mi vestì di vesti immortali;
un vento mi mandò dietro propizio e piacevole.
Per diciassette giorni navigai, attraversando l’abisso,
al diciottesimo apparvero i monti ombrosi
dell’isola vostra: si rallegrò il mio cuore,
infelice! Invece dovevo incontrare di nuovo gran pianto,
che mi mandò Poseidone Enosíctono.
Scagliandomi contro i venti, inceppò il mio cammino,
sollevò un mare orrendo, mai l’onda lasciava
di trascinarmi qua e là, gemente sopra la zattera.
Poi il turbine me la sconnesse; e io allora
nuotando, attraversai questo mare, fin che la terra
vostra m’avvicinarono il vento e l’acqua, spingendomi.
E mentre tentavo l’approdo, mi sbatté l’onda a riva,
contro l’immane scogliera, in un luogo pauroso.
Strappato di là, ripresi a nuotare finché raggiunsi
un fiume, e qui mi parve il luogo migliore,
privo di rocce; ed era al riparo dal vento:
là caddi svenuto.
(Libro Settimo)

L’episodio cantato da Omero nel Libro Settimo dell’Odissea narra delle difficoltà che Ulisse ha dovuto affrontare per giungere a terra. Una terribile tempesta si è abbattuta su di lui. Miracolosamente è giunto a riva dopo mille ostacoli. Il suo faticoso approdo si può paragonare alla difficoltà di accesso di molti utenti ai siti Internet.
Accessibilità significa rendere possibile la consultazione, la fruizione e l’uso della Rete a tutti: sia per chi non ha proprio l’ultimo modello di pc, sia per persone con diverse abilità.
È come quando si parla di barriere architettoniche in riferimento a tutti quegli ostacoli che si incontrano in edifici e arredi urbani: scalini, marciapiedi troppo stretti, buche, servizi igienici non adeguati. Lo stesso vale per Internet: ci sono ostacoli che non permettono a tutti di usufruire di un mezzo che può, se usato in modo corretto, facilitare la vita. Ad esempio tramite Internet si può prenotare un biglietto ferroviario o aereo; si può comprare un biglietto per un concerto; si possono spedire telegrammi e lettere; si può comunicare con tutto il mondo con i programmi di video conferenza e messaggeria istantanea; si possono pagare le bollette e acquistare film o canzoni o album musicali; si può fare la spesa; si possono seguire le lezioni dell’Università. Tutte queste possibilità dovrebbero essere alla portata di tutti.

L’accessibilità

L’accessibilità è un tema di cui si dibatte da qualche anno ma molte persone ancora non ne sono molto informate. L’accesso delle pagine Internet dipende da diversi motivi: motivi legati all’interfaccia grafica; motivi legati al contenuto delle pagine.
Nel nostro caso specifico a ciò si aggiunge un ulteriore problema: la difficoltà di utilizzare il personal computer. La soluzione è dotare le persone diversamente abili di ausili adatti al proprio caso. Un ausilio è un aiuto: con ausilio intendiamo indicare un sistema di hardware o software che riduce la menomazione, la disabilità o l’handicap della persona e le permette l’interazione con l’esterno. Gli ausili possono essere sommariamente classificati a seconda della tipologia di disabilità che aiutano a superare:
– ausili per disabili motori, cioè per quelle persone che hanno difficoltà nell’uso di mouse e tastiera. Ad esempio le tastiere speciali o anche l’accesso facilitato attivabile in ogni pc dal “pannello di controllo”;
– ausili per disabili visivi, cioè per chi non vede o vede poco. È il caso della sintesi vocale o di sistemi di ingrandimento della pagina;
– ausili per disabili uditivi, vale a dire per chi non può sentire. In questo caso, ad esempio, esistono riconoscitori del parlato, strumenti informatici in grado di ascoltare e trascrivere le parole pronunciate dall’uomo;
– ausili per disabili cognitivi: possiamo far rientrare in questa tipologia chi presenta disturbi dell’attenzione, disturbi del linguaggio (ad esempio la dislessia o la discalcolia), e disturbi neurologici. In linea generale questi utenti possono fare uso (o l’insegnante per loro) di tastiere facilitate (ad esempio con tasti colorati, ingranditi e le lettere in ordine alfabetico), di tavolette sensibili (costituite da una base piana sensibile al tatto e da una serie di fogli intercambiabili), dello schermo tattile utilizzato anche da disabili motori.
È chiaro, ogni persona ha proprie peculiarità e le caratteristiche del soggetto portano a fabbricare ausili diversi e specifici per ciascuno. Non si tratta quindi di prodotti fatti in serie ma di sistemi studiati ad hoc. Ad occuparsene, nella Regione Emilia Romagna, è l’Ausilioteca di Bologna AIAS (www.ausilioteca.org).
Si tratta del primo gradino. Perché una volta dotati del giusto ausilio occorre che il web sia stato strutturato in modo adeguato.
Esistono indicazioni concrete per sviluppatori e grafici. Il documento più famoso (e il primo formulato) è quello che contiene le raccomandazioni sull’accessibilità: le Web Content Accessibility Guidelines 1.0 (WCAG 1.0) emanate dal W3C. A capo del W3C (ossia del World Wild Web Consortium c’è il fondatore di Internet, Tim Berners-Lee. Citiamo inoltre anche la Comunicazione della Comunità europea eEurope 2002 che riporta alcuni brevi consigli per rendere accessibili i siti delle pubbliche amministrazioni ma valevoli per qualsiasi sito Internet. In Italia l’ultima legge emanata è la cosiddetta “Legge Stanca” del 2004.
Infine, l’accessibilità non dipende solo da questioni di tipo tecnico, e quindi da demandare ai web master e ai web designer, ma coinvolge anche chi si occupa di scrivere e organizzare i contenuti dei siti. Quella che, insomma, è citata in causa è la capacità di offrire testi scritti in modo corretto, comprensibile e adeguato all’utente.

Testi prodotti per il web

Un testo in Internet si legge in modo diverso da un testo cartaceo: il lettore in genere ha fretta e comunque ci si affatica a stare davanti a uno schermo per troppo tempo.
Un testo prodotto per il web deve essere (come qualsiasi testo che è riservato a un pubblico generalizzato):
– corretto: niente errori grammaticali;
– leggibile: dipende dalla lunghezza delle parole misurate in sillabe e dalla lunghezza delle frasi misurata in parole;
– comprensibile.
I primi studi sulla leggibilità risalgono ai primi anni del Novecento. Questi studi hanno dimostrato che più una frase è corta, e contiene al suo interno parole corte, più è leggibile. Le parole corte, infatti, solitamente sono quelle più familiari, quindi più usate, cioè più facili (cane, gatto, topo, casa, vado, sono, ho); le frasi più corte sono più facili da capire perché contengono meno parole e quindi, di solito, un solo concetto. Sul web occorre evitare di usare frasi lunghissime, magari piene di subordinate, e parole difficili.
È chiaro che qui stiamo parlando di siti a carattere informativo escludendo tutti quelli a carattere artistico come diari personali e siti di poesie e letteratura in generale: in questo caso il testo avrà delle caratteristiche tutte sue che non ci interessa trattare in questo momento.
Un testo leggibile contiene parole che appartengono al vocabolario di base. A introdurre questo concetto è stato per la prima volta Tullio De Mauro. Il vocabolario di base è composto da 7.050 parole circa e comprende:
– vocabolario fondamentale (2000 parole circa): quelle comprensibili senza problemi dal 79% della popolazione;
– vocabolario di alto uso (2.750 parole ca);
– vocabolario di alta disponibilità (2.300 ca): parole che può accadere di non dire o scrivere mai, ma che sono legate a esperienze note a tutti (ad es. abbagliante, zuppa) e che tutti comprendiamo.
Esiste la possibilità di vedere se davvero il proprio testo risulta molto o poco leggibile da parte dell’utente. Gli studi sulla leggibilità infatti si sono tradotti in vere e proprie formule matematiche. Il programma Eulogos Censor (www.eulogos.org) si basa proprio sul vocabolario di base di De Mauro. Si può spedire al sito un testo in formato .txt e l’elaboratore confronterà frasi e parole con le parole del vocabolario di base e dirà per chi e quanto è comprensibile quello che abbiamo scritto (per chi ha una licenza elementare o media o un diploma superiore o una laurea).
La leggibilità di un testo dipende non solo dalla lunghezza delle parole e delle frasi ma è connessa anche alla grafica, al layout della pagina.
Inoltre, un testo leggibile deve essere organizzato in modo da aiutare il lettore nella sua decodifica. Un testo è più leggibile se:
– l’autore usa titoli e sottotitoli che dividono il testo in modo logico e in porzioni coerenti di contenuto;
– il testo è diviso in paragrafi. Ogni paragrafo tratta un concetto e ogni paragrafo non contiene più di dieci righe;
– le frasi non sono troppo ravvicinate tra di loro, né troppo distanziate (stiamo parlando di interlinea cioè la distanza delle frasi tra di loro);
– le frasi contengono una media di 10/12 parole ciascuna.
Sulla leggibilità influiscono altri fattori. Ad esempio l’uso di attributi di testo come il grassetto o il corsivo oppure l’uso dei colori e la scelta del font: esistono infatti tipi di carattere (come ad esempio il “Verdana” o il “Georgia”, nati apposta per il web mentre altri, come il “Times New Roman” sono stati pensati per il cartaceo).
Infine, abbiamo detto che un testo dovrebbe essere comprensibile. Un testo comprensibile è senz’altro un testo leggibile, ma non solo. La comprensibilità infatti dipende da come un testo è organizzato logicamente e concettualmente. Per scrivere un testo di questo tipo bisogna mettere in atto quella che si chiama scrittura controllata perché l’autore si mette nei panni del lettore e si chiede come quel lettore fruisce del testo. Quali sono le sue abilità linguistiche? Che tipo di scolarità ha? Che cosa conosce dell’argomento che noi trattiamo? I concetti che esprimiamo sono chiari e legati in modo logico oppure sono slegati e incomprensibili? Per mettere in atto questo tipo di scrittura occorre un ottimo autocontrollo su noi stessi: potremmo anche essere chiamati a rinunciare al nostro stile personale di scrittura per raggiungere l’obiettivo della comprensibilità.

Accessibilità per chi?

Una recente indagine Istat fotografa la situazione della disabilità in Italia. L’indagine, i cui risultati sono stati resi noti nel 2005, è stata condotta nel 2004 nell’ambito del “Sistema di Informazione statistica sulle Disabilità” (www.disabilitaincifre.it), progetto nato da una convenzione tra l’Istat e il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali.
Il campione, intervistato telefonicamente, era di 1.632 persone tra i 6 e i 67 anni che rappresentano una popolazione di 1 milione 641 mila individui della stessa fascia di età.
Secondo gli studi dell’Istituto di ricerca, complessivamente poco più di un quarto delle persone di 6-67 anni con disabilità utilizza il personal computer: in percentuale sono il 27,4% del campione analizzato (contro il 46,9% della popolazione della stessa fascia di età).
La quota scende ulteriormente tra le persone con il massimo grado di disabilità (19,4%), per le persone “confinate” (2,8%), per quelle con problemi mentali (13,7%) e per coloro che riferiscono problemi sensoriali e motori (16,9%).
Sarebbe interessante poter effettuare uno studio che metta in relazione accessibilità e disabilità per vedere se quel 27,4% (i disabili che usano il pc) si alzerebbe in modo significativo.

Accessibile chi?

Per concludere questa sommaria panoramica sull’accessibilità, ci possiamo domandare quali siti abbiano l’obbligo di essere accessibili. Per democrazia dovremmo rispondere che tutti lo devono essere, tuttavia è giusto a mio parere lasciare libertà ai programmatori di sperimentare anche soluzioni ardite (magari con la possibilità di visitare comunque questi siti tramite un formato “solo testo”).
In linea di principio comunque, esistono siti che sono obbligati a essere accessibili. Patrizia Bertini, che da anni si occupa di accessibilità, afferma che accessibili dovrebbero esserlo (e al 100%) i siti di pubblica utilità cioè quelli che offrono la possibilità di compiere operazioni on line che altrimenti richiederebbero un’azione fisica da parte degli utenti. Per essere più specifici:
– siti della Pubblica Amministrazione, in quanto è diritto di ogni cittadino poter accedere alle informazioni offerte da Comuni ed Enti statali;
– siti bancari, in quanto l’e-banking permette a molti utenti disabili di essere indipendenti nella gestione patrimoniale e consente loro una riservatezza che prima non potevano avere;
– siti di e-commerce fondamentali, come i supermercati che risolvono numerosi problemi di vita quotidiana a molte persone disabili (e non);
– siti di booking on line, che permettono di acquistare biglietti aerei, ferroviari o prenotare alberghi o altri servizi online;
– siti sanitari, in quanto le ASL sono Enti che lavorano a stretto contatto con il mondo dei disabili e hanno la necessità di velocizzare e migliorare la comunicazione e i servizi ai cittadini attraverso la Rete;
– siti di e-learning, perché l’apprendimento e la formazione sono un diritto dei cittadini.
I siti che abbiamo elencato sono davvero tutti accessibili? Un po’ di strada è stata fatta, ma tantissima ne resta da fare. Già nel numero 1 del 2005 di “HP-Accaparlante” Nicola Rabbi aveva indagato in questa direzione con il suo Disabili 1.0 – Servizi, relazioni sociali, barriere: Internet per i disabili. Rabbi aveva citato, tra gli altri, i dati dell’ Rapporto delle città digitali in Italia e un’indagine della Nielsen/NetRatings in cui si affermava che l’attenzione delle pubbliche amministrazioni al sito era aumentato (maggiori erano gli aggiornamenti giornalieri, la modulistica on line, la possibilità di scrivere agli amministratori), ma che ancora pochissime permettevano all’utente di effettuare delle operazioni come i pagamenti dei bollettini o tasse. Inoltre, pochissime amministrazioni si sono poste il problema dell’accessibilità. Anche consultando il 9° Rapporto delle città digitali in Italia, pubblicato a un anno di distanza, non si notano sostanziali cambiamenti.
In particolare, anche se il Codice dell’amministrazione digitale ha ribadito l’importanza dell’accessibilità, nella maggior parte dei casi questa rimane lettera morta: sono accessibili solo 13 regioni su 20, vale a dire il 65%; il 33% circa dei siti delle Province e il 30,1% dei siti dei Comuni capoluogo (con più di 40.00 abitanti). La percentuale scende nel caso dei Comuni più piccoli (da 5.000 a 40.000 abitanti) perché sono accessibili solo il 17% dei siti.
Tuttavia dobbiamo rilevare che un aumento c’è stato, ed è stato anche rilevante: confrontando i dati del 2006 con quelli di due anni prima, notiamo che nel 2004 erano accessibili 6 regioni su 14, mentre ora lo sono 13 regioni su 20. Analogamente sono aumentati anche i siti accessibili di Province e Comuni sopra i 40.000 abitanti: per le Province si è trattato di un aumento del 150% circa; per i Comuni capoluogo del 100%. In parole più semplici, dal 2004 sono quasi triplicate le Province che offrono siti accessibili e sono raddoppiati i siti accessibili di Comuni con più di 40.000 abitanti e delle regioni.
È chiaro, il miglioramento non deve coprire la realtà dei fatti: per la maggior parte dei casi i siti della Pubblica Amministrazione rimangono inaccessibili.
Sono solo pochi anni che si parla seriamente di accessibilità e ancora non si è sviluppata una mentalità favorevole. Per molti realizzare un sito accessibile significa spendere di più, cosa non vera se si pensa all’accessibilità sin da primi momenti della progettazione, evitando di rifare tutto o parti intere dei siti e dei portali in seguito. Maggiore accessibilità inoltre significa raggiungere un numero sempre più elevato di utenti (non solo disabili ma anche chi ha connessioni più lente ad esempio), il che rappresenta senza dubbio un vantaggio e non un danno. Inoltre, in una società che si basa sulla diffusione dell’informazione e della conoscenza come è il mondo attuale nel quale viviamo è diritto imprescindibile di ognuno di noi poter accedere a quelle informazioni.

Verifiche

Una considerazione a parte merita il capitolo delle verifiche dell’accessibilità dei siti. Una completa analisi di accessibilità si realizza attraverso due modalità:
– verifica tecnica;
– verifica soggettiva di fruibilità con utenti disabili.
La verifica consiste nel controllo che le pagine soddisfino un certo numero di requisiti tecnici e che siano state sviluppate utilizzando tecnologie nelle versioni più recenti. Essa viene effettuata sulla home page e su un significativo numero di altre pagine del sito, servendosi anche di tools automatici (validatori). I risultati dei vari tipi di analisi (manuale/con strumenti automatici), opportunamente interpretati da specialisti, vengono sintetizzati in un rapporto finale di conformità o meno ai requisiti.
La verifica tecnica è indispensabile, ma manca un tassello altrettanto importante: per valutare l’accessibilità di un sito è consigliabile eseguire anche una verifica soggettiva, coinvolgendo anche utenti disabili.
A tal proposito, in un suo intervento pubblico, Massimiliano Martines della Commissione Siti Internet Dell’Unione Italiana Ciechi, lamentava, nel 2004, il fatto che spesso le verifiche si fermassero alla prima fase, quella tecnica. Invece per verificare l’accessibilità di un sito non è sufficiente elaborare i dati di un test, ma è necessaria una verifica insieme alla persona disabile che dovrà effettivamente usufruire di quel sito e che potrà indicare le eventuali modifiche da apportare; il coinvolgimento delle persone disabili è indispensabile altrimenti si rischia di effettuare verifiche poco attendibili.

Un buon esempio

La notizia è di domenica 22 ottobre 2006, pubblicata da Roberto Castaldo nel sito www.webaccessibile.com. Si parla del sito del Comune di Piegaro (PG).
Il sito è conforme alla normativa italiana sull’accessibilità del web. A costruirlo è stata Silvia Bocci. Silvia Bocci è una ragazza affetta da sclerosi multipla. Costruendo il sito ha portato tutta la sua personale esperienza. Si realizza in questo bell’esempio quello che richiedeva Massimiliano Martines e chi, come lui, crede che un prodotto accessibile, per essere tale, debba avvalersi delle proposte e delle riflessioni di utenti disabili che lo andranno poi a utilizzare.

 

3. Ulisse dimenticato

“Di Saturno figliuol, padre de’ numi,
re de’ regnanti”, così a lui rispose
l’occhiazzurra Minerva: “egli era dritto
che colui non vivesse: in simil foggia
pera chïunque in simil foggia vive!
Ma io di doglia per l’egregio Ulisse
mi struggo, lasso! che, da’ suoi lontano,
giorni conduce di rammarco in quella
isola, che del mar giace nel cuore,
e di selve nereggia; isola, dove
soggiorna entro alle sue celle secrete
l’immortal figlia di quel saggio Atlante,
che del mar tutto i più riposti fondi
conosce e regge le colonne immense
che la volta sopportano del cielo.
Pensoso, inconsolabile, l’accorta ninfa il ritiene e con soavi e molli
parolette carezzalo, se mai
potesse Itaca sua trargli dal petto:
ma ei non brama che veder dai tetti
sbalzar della sua dolce Itaca il fumo,
e poi chiuder per sempre al giorno i lumi.
Né commuovere, Olimpio, il cuor ti senti?
Grati d’Ulisse i sagrifici, al greco
Navile appresso, ne’ troiani campi,
non t’eran forse? Onde rancor sì fiero,
Giove, contra lui dunque in te s’alletta?”

(Libro Primo)

Ulisse è scomparso, prigioniero di Calipso e di un mondo che ha regole tutte sue, rischia di essere dimenticato perché nessuno racconta di lui. Nella dimenticanza cadono tutti i problemi, le proposte, le idee che non hanno voce.
E la disabilità ha voce, trova spazio cioè, in tv e nei mass media in genere? E come viene affrontata? A indagare ci ha pensato il rapporto Censis Oltre il Giardino: i disabili e le disabilità in televisione, rilevazione che ha per tema come e quanto la tv racconti di disabilità.
La ricerca è stata pubblicata nel giugno del 2003 e le analisi sono state effettuate nel bimestre compreso tra il 15 febbraio e il 15 aprile 2003. Nella ricerca vengono presi in considerazione indici quali:
– gli spazi (in termini di tempi) dedicati all’argomento;
– la frequenza;
– le reti televisive che se ne sono occupate;
– il tipo di trattamento della notizia;
– il tono.

Spazi

Secondo i dati Censis in televisione, nel periodo esaminato, gli spazi dedicati alla disabilità risultano per un 22,5% dei casi certamente contratti (fino a 1 minuto e 30 secondi); tuttavia nel 25% delle unità d’analisi si arriva a 3’30’’, nel 26,3% a 6’30’’ e un buon 26,3% si assesta oltre i 6’30’’. In generale, nella maggioranza dei casi (51,3%) lo spazio dedicato al tema disabilità è compreso tra i 3 minti mezzo e i 6 minuti e mezzo. Tanto o poco? In sé, considerati i tempi televisivi, sarebbe un buono spazio, ma non dobbiamo dimenticare che le unità d’analisi rilevate sono complessivamente nell’arco di 2 mesi. Ciò vuol dire, in sintesi, che di disabilità non si parla frequentemente; quando accade però il tempo dedicato è dignitoso.

Modi di trattamento della notizia

Si parla di disabilità soprattutto con servizi filmati (47,5%) o dibattiti (33,8%). Viene per un 36% circa usato il genere “storie di vita”, seguito a buona distanza dalle inchieste.
Usare il genere storie di vita significa affrontare la disabilità con il racconto e l’esperienza vissuta. Difatti nelle unità di analisi è quasi sempre presente una persona con disabilità.
Infine, se le persone disabili sono in tv (poco ma con “buoni spazi”) in effetti parlano poco. A parlare, per loro, è spesso il conduttore della trasmissione, ma questo riteniamo sia un comportamento generalizzato che si verifica quasi sempre e con qualsiasi tipo di ospite che non appartenga allo star system dettato da necessità di tempi stretti più che da altre motivazioni.

Di che cosa si parla?

Gli argomenti trattati sono molteplici, specialmente le difficoltà quotidiane. Uno dei temi più trattati rimane quello medico, ossia riabilitazione, percorsi terapeutici, ricerca medica, seguito dal tema delle barriere architettoniche. Non mancano comunque altri argomenti come gli aspetti della vita affettiva, la tecnologia, i problemi ambientali e lavorativi.
Altro aspetto interessante è che si parla di disabilità ma soprattutto per sensibilizzare il vasto pubblico. Non si è ancora arrivati all’ideazione di trasmissioni di servizio indirizzate in maniera specifica alle persone disabili.

Spettacolarizzazione?

Secondo quanto rilevato dal Censis, nelle trasmissioni televisive si tende a non porre eccessiva enfasi sulle dimensioni più esemplari della generosità e dell’abnegazione (creare “eroi di generosità”) né sugli aspetti più tragici. Anzi. Va sottolineato che, in controtendenza con quanto verificato con altri soggetti sociali (immigrati, minori) la cronaca nera è assente. Quando si tratta infatti di cronaca è nella gran parte dei casi cronaca bianca o, addirittura, rosa. Inoltre si cerca di evitare l’informazione estremizzata, drammatizzata, spettacolarizzata.

Spontaneità

Infine, se una trasmissione tende a trattare l’argomento disabilità lo fa per lo più spontaneamente, senza essere spinta da un evento o da una sollecitazione esterna. È per la maggior parte dei casi (70,9%) una scelta autonoma della trasmissione. Sporadica, ma spontanea.

La persona disabile in tv

Proseguendo nell’analisi dei dati scopriamo qual è l’identikit della persona disabile che va in tv:
– maschio (37,7%);
– giovane o adulto;
– affetto prevalentemente da disturbo motorio (48,7% dei casi).
La presenza femminile è ridotta (su sette unità di analisi si rilevano solo cinque casi in cui la persona disabile è donna), come pure i disabili anziani e bambini risultano completamente marginali.
Inoltre sono assenti gli altri generi di deficit, soprattutto la disabilità di tipo intellettivo e relazionale.
Quello che non è rappresentato è evidentemente ciò che più fatichiamo, come società e come singoli, ad accettare. Prima di tutto si tace la realtà della donna disabile: una donna che, come l’uomo, può avere disarmonie fisiche e che comunque si allontana dallo stereotipo di “oggetto perfetto” molto letterario e tipicamente maschilista; rimuoviamo l’immagine di anziani problematici tanto in contrasto con le pubblicità di persone della terza età dai “sorrisi smaglianti” e che sembrano vivere una terza giovinezza. Infine, si dimentica (consapevolmente) il disturbo mentale rispetto al quale la comunicazione sembra addirittura ignorare l’evoluzione della psichiatria moderna.
Quest’ultimo è un problema legato al tipo di “evoluzione” che ha intrapreso la nostra società, al modo che abbiamo di approcciarci alla malattia e alla morte. Il sociologo J. B. Thompson la chiama “dissequestro dell’esperienza”. Thompson, nel suo Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media, afferma che con l’emergere di sistemi di conoscenza specialistica come la medicina e la psichiatria, o istituzioni specializzate come gli ospedali e gli ospizi, certe forme di esperienza sono state allontanate dai luoghi di vita quotidiani e relegate in particolari ambienti: “Per esempio, l’esperienza della malattia cronica (fisica o mentale) o della morte di una persona amata sono regolate sempre più spesso da un insieme di istituzioni specializzate nella cura dei malati e nell’assistenza ai morenti”.
Quindi oggi, per tutti, incappare in casi come i carcerati o malati gravi è un fenomeno sempre più raro.

La parola agli utenti

E le persone disabili che cosa pensano della tv? Sul sito Disabili.com ho chiesto l’opinione degli utilizzatori del Forum. In generale gli utenti hanno riportato l’impressione di una tv che punta maggiormente sulla presentazione di casi limite, magari “strappalacrime” tali da generare un senso di pietà, tenerezza o compassione. In particolare, gli utenti hanno denunciato trasmissioni come C’è posta per te incolpata di aver sfruttato, più volte, ragazzi e ragazze Down a scopi di audience.
L’idea è che si tenda a presentare la persona disabile come vittima da commiserare o proteggere; un essere più debole da difendere. Quello che invece vorrebbero è una tv che sappia parlare dei problemi veri, quotidiani; per questo piacciono trasmissioni di denuncia come Striscia la Notizia o Le Iene capaci di realizzare servizi a partire da denunce dei disabili stessi.
Le trasmissioni in realtà ci sarebbero, ma, come lamentano alcuni, confinate a orari impossibili e proibitivi e per giunta su reti a pagamento.
Infine, è stato denunciato come la persona disabile sia presentata del tutto asessuata: il sesso e la sessualità rimangono un tabù mai superato.

Conclusioni

C’è in generale un malcontento diffuso perché questi “pochi minuti ma buoni” dedicati dalle reti televisive nazionali ai problemi legati alla disabilità non sono sufficienti, tanto più che tali trasmissioni sono più rivolte a chi disabile non è.
Allo stesso modo anche i telespettatori disabili si chiedono come trattare l’argomento, visto che le patologie di cui si potrebbe parlare in modo approfondito e scientifico sono tantissime.
 

2. L’avventura del Ciclope

Ma quando al Ciclope intorno al cuore il vino fu sceso,
allora io gli parlai con parole di miele:
“Ciclope, domandi il mio nome glorioso? Ma certo,
lo dirò; e tu dammi il dono ospitale come hai promesso.
Nessuno ho nome: Nessuno mi chiamano
madre e padre e tutti quanti i compagni”.
Così dicevo; e subito mi rispondeva con cuore spietato:
“Nessuno mangerò per ultimo, dopo i compagni;
gli altri prima; questo sarà il dono ospitale”.                […]

Allora il palo caccia sotto la molta brace,
finché fu rovente, e con parole a tutti i compagni
facevo coraggio, perché nessuno, atterrito, si ritirasse.
[…]
Essi, alzando il palo puntito d’ulivo,
nell’occhio lo spinsero: e io premendo da sopra
giravo, come un uomo col trapano un asse navale
trapana;
[…]
Paurosamente gemette, n’urlò tutta intorno la roccia;
atterriti balzammo indietro: esso il tizzone strappò dall’occhio, grondante di sangue,
e lo scagliò lontano da sé, agitando le braccia,
e i ciclopi chiamava gridando, che in giro
vivevano nelle spelonche e sulle cime ventose.
E udendo il grido quelli accorrevano in folla, chi di qua, chi di là;
e stando intorno alla grotta chiedevano che cosa volesse:“Perché, Polifemo, con tanto strazio hai gridato
nella notte ambrosia, e ci hai fatto svegliare?
forse qualche mortale ti ruba, tuo malgrado, le pecore?
o t’ammazza qualcuno con la forza o l’inganno?”.
E a loro dall’antro rispose Polifemo gagliardo:
“Nessuno, amici, m’uccide d’inganno e con la forza”.
E quelli in risposta parole fugaci dicevano:
“Se dunque nessuno ti fa violenza e sei solo,
dal male che ti manda il gran Zeus non c’è scampo;
piuttosto prega il padre tuo Poseidone sovrano”.
Così dicevano andandosene: e il mio cuore rideva,
come l’aveva ingannato il nome e la buona trovata.

(Libro Nono)

 

Ulisse per ingannare il Ciclope cannibale che gli ha divorato i compagni e che rifiuta il dono dell’ospitalità così caro ai Greci, utilizza un gioco di parole. Finge di chiamarsi “Nessuno”. Così trova scampo alla furia degli altri Ciclopi e, infine, riesce a salvarsi.

Abbiamo scelto questo episodio perché sottolinea quanto le “parole” siano importanti; ciò che diciamo, e magari senza che noi ce ne rendiamo conto, determina delle conseguenze attorno a noi. Inoltre, il modo in cui ci esprimiamo è una diretta conseguenza del nostro modo di pensare. Studiando il vocabolario impiegato in una certa cultura per trasmettere informazioni o addirittura per denominare alcuni gruppi, si rintracciano e scoprono quali stereotipi sono vivi in quella società.

Che cosa sono gli stereotipi?

Luciano Arcuri nel suo Percezione e cognizione sociale. Manuale di psicologia sociale definisce gli stereotipi come: “Sistemi concettuali che ci permettono di semplificare le nostre rappresentazioni soprattutto quando esse hanno a che fare con l’ambigua, sfuggente e spesso cangiante realtà delle categorie sociali. A questi sistemi, qualche volta semplici, altre volte semplificatori, ma non di rado semplicistici, gli psicologi hanno dato il nome di stereotipi”.
Gli stereotipi sono cioè un mezzo per classificare in modo veloce (e quindi, per forza di cose, approssimativo) la complessa realtà che ci circonda.

Come agiscono gli stereotipi?

In questo caso scomodiamo Walter Lippmann, un altro grande studioso, che nel 1922 scrisse L’Opinione Pubblica, libro in cui, per primo, si interrogò sulla formazione delle opinioni. Per Lippmann molte delle decisioni che vengono prese dalle persone sono basate su “preconcezioni”, ossia su stereotipi. Gli stereotipi semplificano i fatti perché si propongono di rappresentare gruppi e non individui: in questo modo non rendono giustizia alla specificità dei singoli che vengono assimilati in un’immagine globale; inoltre gli stereotipi portano a interpretazioni errate degli individui anche quando esiste un contatto diretto con questi: se ci si aspetta, ad esempio, che una persona sia “fredda” perché appartiene al gruppo dei settentrionali, questo ci porterà a riconoscere la freddezza in tutti i comportamenti messi in atto dai settentrionali.
Cosa dice, in sostanza, Lippmann sugli stereotipi? Che sono pericolosi perché ci rimandano un’immagine distorta della realtà anche quando noi quella realtà la conosciamo per esperienza diretta. Un esempio: ci hanno sempre detto che le persone meridionali sono spiritose ma sfaticate. Nel posto in cui lavoriamo arriva una nuova collega che proviene dal Sud. Capita che un giorno ci dica che è stanca e non ha proprio voglia di far nulla. Ecco che per noi lo stereotipo si attiva. Non giustifichiamo la nostra collega pensando che forse può essere stata male di notte e non aver chiuso occhio, ma attiviamo quello che pensiamo delle persone meridionali: senz’altro anche lei è una sfaticata.

Come si trasmettono gli stereotipi?

Sempre Arcuri afferma che il più importante veicolo di trasmissione degli stereotipi è quello linguistico.
Per questo l’episodio di Ulisse è tanto importante per noi: lo è perché ci permette di parlare di stereotipi, di classificazione della realtà, di termini. Nel nostro caso specifico: è la stessa cosa definire una persona disabile piuttosto che handicappata o diversamente abile, o non normodotata? E poi, che cosa significano normale e anormale?
Claudio Imprudente, presidente del Centro Documentazione Handicap di Bologna, propose, più di otto anni fa, il termine diversabile per sostituire tutti gli altri. L’idea di Imprudente era al tempo stesso dare una sferzata di ottimismo e sottolineare, della persona non normodotata, la diversa abilità posseduta piuttosto che il deficit, ovvero la mancanza di qualche abilità rispetto ai normodotati. Era un mezzo per ribaltare la prospettiva generale e avviare un percorso culturale in cui superare gli handicap derivanti dai deficit significa inventare qualcosa di nuovo anziché imitare la normalità.
Esistono due classi di parole per designare la persona con deficit. Quelle che appartengono alla prima classe (ad es. handicappato, portatore di handicap, persone in situazione di handicap) evidenziano l’handicap; quelle che rientrano nella seconda (disabile, non vedente, motu-leso, eccetera) evidenziano il deficit.
È in questa logica che si inserisce la necessità di pensare a come definiamo le persone, a che etichette gli applichiamo addosso. Questa è una considerazione che vale in generale: è importante evitare termini che contengono una qualche forma di giudizio. Sarebbe più produttivo abbandonare l’opinione di diverso e anomalo come qualcosa di deviante e peggiore e rivalutare la diversità (che ciascuno di noi possiede) come un valore o più semplicemente, come una possibilità.
Saper usare le parole, coniarne di nuove che siano meno “handicappanti” per chi già vive un disagio, non significa però e non deve significare rifiutare la realtà, evitare di accettare una diversa abilità del proprio corpo o della propria mente: questo sarebbe pericolosissimo perché significherebbe non somministrare le cure necessarie e attuare in tempo la giusta prevenzione, così come rallentare lo sviluppo della ricerca medica.
Se l’idea, propositiva, di Claudio Imprudente è stata salutata con entusiasmo da alcuni, c’è anche chi non è d’accordo: nel Forum del sito web Disabili.com in cui ho postato alcuni messaggi e nel quale ho raccolto qualche opinione, c’è stato chi ha dichiarato che è stanco di dover veder cambiare, e per moda, il modo in cui il disabile definisce se stesso o gli altri definiscono lui.
In effetti se le parole possono essere mezzi attraverso i quali ci mettiamo in relazione con gli altri, esse possono diventare anche “gabbie” quando le definizioni si fanno troppo strette, ossia quando con una definizione, con un termine, ci illudiamo di poter cogliere tutta la realtà e le sue infinite sfumature.
Ecco cosa dice a questo proposito Franco Bomprezzi, 50 anni, giornalista, ex-responsabile editoriale del portale Inail Superabile.it dedicato al mondo della disabilità: “Non esistono le persone disabili. Esistono le persone. I singoli, ognuno con la propria realtà, le personali aspettative di vita, i differenti livelli di cultura e di censo”.
Quando non ci troviamo in un contesto medico e quindi non stiamo parlando di malattie o cure, dovremmo abbandonare la nostra smania di “riassumere” tutta una persona in simboli, categorie o classificazioni. Per Bomprezzi definire qualcuno come “persona disabile” non è un progresso. In ambito medico parlare di Down, tetraplegico, spastico aiuta a definire la condizione fisica e a circoscrivere l’intervento. Al di fuori di un contesto simile occorrerebbe abbandonare sia termini come “handicappato” che “disabile” o “persona diversamente abile”. “Persona disabile” è addirittura un paradosso per Bomprezzi: sembra sottointendere l’esistenza di un grande insieme, quello delle “persone abili” di cui le “persone disabili” sono un sottoinsieme modificato. Hanno in comune qualcosa ma mancano di qualcos’altro. Ci si dimentica che l’insieme è formato invece dalle Persone e che esistono tanti sottoinsiemi quante sono le caratteristiche intellettuali, fisiche e morali degli individui.
Bomprezzi afferma che la disabilità trova una sua collocazione accettabile (per la società) solo in contesti codificati e previsti: i posteggi riservati, gli scivoli, la segnaletica di riferimento. Codici di civiltà, dal punto di vista del rispetto dei diritti, ma contemporaneamente segnalatori di diversità, in buona misura ghettizzanti, separatori sociali. E lo stesso può valere per i termini. Per quelli cosiddetti politically correct.
Anche per Andrea Canevaro, docente di Pedagogia Speciale all’Università di Bologna, ciò che occorre evitare è cadere nella logica dell’etichettamento, vale a dire, usare classificazioni stereotipanti; allo stesso tempo però è da rifiutare anche la logica, opposta, di chi vuole “normalizzare” tutto. “Normalizzare” significa ritenere che siamo tutti uguali senza alcuna diversità. Questo porterebbe a appiattire il reale che è molto più complesso e variegato. L’etichettatura dunque è negativa se è imbalsamare una persona in un destino; è sensata se delinea tutte le caratteristiche dell’individuo.

 

Ulisse nel mondo della comunicazione, Disabilità e rapporto con Internet, mass media e pubblicità

a cura di Annalisa Ghiretti

Annalisa Ghiretti è nata a Parma 28 anni fa.
È giornalista pubblicista dal 2003.
Lavora attualmente come responsabile dell’Ufficio Stampa del Comune di Traversetolo (PR).
Ha alle spalle una lunga collaborazione con la Gazzetta di Parma.
Nel 2006 ha pubblicato il libro Le professioni della Scrittura. Opportunità, consigli, indirizzi, edito da Ialweb.
Ha collaborato come tutor per diversi corsi sulla scrittura professionale con l’Università di San Marino e Bologna.

1. Introduzione

Il lavoro proposto vuole essere un viaggio nel mondo della disabilità e della comunicazione. Ho voluto esplorare, proprio come Ulisse fu un esploratore, suo malgrado, diversi aspetti del mondo “comunicazione” legato alla disabilità: Internet, ausili e accessibilità; i mass media e la loro rappresentazione delle diverse abilità; la pubblicità “sociale”; le possibilità dell’e-learning; la riflessione sui termini che ogni giorno utilizziamo per definire le persone disabili.
A guidare il lettore in questo viaggio che tocca diverse terre e diversi argomenti non poteva che essere l’eroe dell’Odissea di Omero. Gli articoli che ho scritto sono infatti introdotti da brani tratti dal poema greco. Tali brani divengono metafore capaci di suggerire un discorso che va oltre, e spazia su argomenti a volte anche lontanissimi tra loro, ma legati a un’unica matrice: il mondo della comunicazione e il suo conflittuale rapporto con la disabilità.
Prima di lasciare il lettore alle prossime pagine vorrei poter ringraziare due persone: Nicola Rabbi, che mi ha supportato in questo lavoro, e il prof. Paolo Bollini. Fu lui a mettermi in contatto con la redazione della rivista “HP-Accaparlante” e a darmi questa possibilità di esplorare, come Ulisse, mondi distanti e mondi nuovi, ma soprattutto di mettere alla prova le mie capacità. Paolo è scomparso improvvisamente mentre questa monografia era solo una bozza. I suoi suggerimenti sono stati preziosissimi come preziosissima, se pur troppo breve, è stata la sua amicizia sempre onesta, disinteressata e generosa.
 

Eutanasia, risponde una lettrice – Superabile, maggio 2011 – 2

Avevo scritto, nel primo articolo di maggio 2011, in relazione a eutanasia e testamento biologico, che la semplificazione dell’argomento non contribuisce alla sua soluzione. Elena, in risposta al mio articolo, contribuisce ad alimentare un confronto che è quello cui solitamente non ci è dato di assistere nei canali di comunicazione tradizionali, generalisti, televisivi, ecc. A lei la parola e i miei ringraziamenti più che sentiti.

Caro Claudio,

Ti scrivo a commento del tuo articolo sul testamento biologico. La cosa che apprezzo di più nei tuoi scritti è che sei uno dei pochi nel nostro paese a non voler imporre la propria opinione, a metterla addirittura in secondo piano rispetto ai fatti o al pensiero altrui.
Io credo che sia impossibile, e che sarà sempre così, raggiungere l’unanimità di opinioni in un ambito così delicato, questo però non vuol dire che non sia necessario trattare l’argomento.
Una doverosa premessa, forse l’unica cosa su cui siamo tutti d’accordo: il fatto che l’accanimento terapeutico (anche qui si potrebbero perdere secoli a tracciare un confine tra cura ed accanimento) sia sbagliato ed immorale, in quanto non tiene conto del corso naturale della vita che prevede una nascita e una morte. Alcune considerazioni: ritengo sbagliato che il testamento biologico venga fatto prima che si ponga il problema. Una persona giovane, nel pieno della salute e delle forze, si farà inevitabilmente condizionare dalla paura della sofferenza, dall’incertezza riguardo alla condizione di stato vegetativo (non è chiaro cosa e come si riesca a percepire), dalla consapevolezza di divenire un peso per i propri familiari che dovranno assisterla per anni. Sono tutte ipotesi che quando stai bene sembrano così orribili da dare per scontato che la soluzione migliore sia l’eutanasia. Un esempio pratico, anche se all’inverso, è l’aborto cosiddetto terapeutico: quante coppie spaventate dall’esito di un esame che mostra una malformazione decidono di abortire? Sono sicure che loro e il loro bambino vivrebbero una vita infelice, e questa soluzione sembra loro la migliore. Ma non sempre è così, come tu sai bene. Se io oggi chiedessi a 100 persone se preferiscono diventare tetraplegici o morire, sono sicura che almeno 90 sceglierebbero la seconda alternativa, principalmente perché non sanno che anche se hai un deficit  fisico non è detto che tu non possa avere amicizie, relazioni, soddisfazioni umane e professionali.
Trovo che i due casi più famosi, emblematici e discussi nel nostro paese siano profondamente diversi, anche se spesso vengono trattati allo stesso modo.
Eluana Englaro era in stato vegetativo permanente, prima dell’incidente aveva espresso chiaramente e fermamente la sua opinione, ma non sappiamo cosa sentisse o percepisse quando era in coma, non possiamo sapere se avesse cambiato idea. Capisco il padre, preoccupato solo di realizzare la volontà della figlia ed impossibilitato ad elaborare il lutto fino a quando non fosse davvero morta. Ma ho avuto la fortuna di conoscere una persona nelle sue stesse condizioni, e la mia impressione è che un certo livello di coscienza comunque ci sia, la persona che ho conosciuto percepiva chiaramente quando entravo nella sua stanza, si notava da piccole cose come un minimo movimento degli occhi o dall’accelerazione del battito cardiaco. Le ipotesi sono due: se chi è in stato vegetativo permanente sa di essere vivo l’eutanasia è perlomeno ingiusta. Se non si rende conto di essere in vita, a cosa gioverebbe invece la sua morte? E poi nemmeno i neonati riescono ad elaborare pensieri complessi, ma a nessuno viene in mente che la loro vita sia priva di senso. In molti sostengono che una vita come quella non ha dignità, ma a togliere la dignità alla vita non è stata la malattia, ma la completa mancanza di assistenza da parte dello stato, che lascia tutto sulle spalle delle famiglie, e ti assicuro che è un compito davvero gravoso. Molto diverso invece il caso del sig. Welby. Lui ha chiesto e scelto consapevolmente la morte dopo essere stato per molto anni completamente paralizzato. La sua è una scelta libera e personale, quindi rispettabile. Ma anche qui, se dovessimo fare una legge, dove porremmo il limite? Chiunque chieda di morire deve essere assistito medicalmente? Se una persona depressa un giorno chiedesse aiuto per farla finita, ne avrebbe meno "diritto" di lui? A parte il fatto che secondo me una società che parla di "diritto alla morte" è fondamentalmente malata, anche in questo caso, mi è impossibile non chiedermi quanto abbia inciso nella sua decisione la consapevolezza di essere un "peso" per la moglie e l’inevitabile senso di colpa che ne conseguiva. Mi risuonano nella mente le parole di Madre Teresa. Durante una lunga intervista il giornalista le ha chiesto cosa pensasse dell’eutanasia. Lei ha risposto che l’aborto è una piaga sociale e iniziato a spiegare tutto quello che stava facendo per combatterlo. Il giornalista, dolcemente, le fa notare che la sua domanda era sull’eutanasia, e la Madre, sgranando i suoi occhi da bambina, chiede con candore cosa fosse. Le spiegano che alcune persone molto malate chiedono di porre fine alle loro sofferenze. Madre Teresa è stata un attimo in silenzio, poi ha risposto che le Missionarie della Carità assistono ogni giorno malati terminali ma nessuno ha mai espresso il desiderio di anticipare la sua morte, e questo perché si sentono amati. Nessuno se si sente amato desidera morire.
Mi dispiace, non riesco ad essere obiettiva come te, il mio intento era elencare una serie di punti di vista per rendere più completa la riflessione sull’eutanasia ma vedo che si capisce apertamente la mia posizione. Mi rendo conto che sia facile parlare per chi, come me, non si trova in quella situazione, spero di non aver mancato di rispetto a nessuno con le mie opinioni.
Con stima ed affetto.
Elena

Se volete rispondere, scrivete a: claudio@accaparlante.it 
 

La disabilità “normale” – Il Messaggero di Sant’Antonio, giugno 2011

Il 21 marzo scorso si è svolta la Giornata mondiale delle persone con sindrome di Down. Filo conduttore quest’anno, almeno in Italia, è stato «lo sport per tutti», visto come potente motore d’integrazione sociale, svincolato dalle «incrostazioni» che tendono a ridurlo a qualcosa di molto meno «colorato» e piacevole di quanto potrebbe essere. Questo perché la maggioranza delle persone associa lo sport per disabili ad atleti professionisti che rispettano standard di eccellenza e tensione agonistica molto vicini a quelli degli sportivi normodotati.
A Roma, intanto, è stato presentato un vademecum, a cura di Fisdir (Federazione italiana sport disabilità intellettiva e relazionale) e CoorDown (Coordinamento nazionale associazioni delle persone con sindrome di Down), dal titolo «Orientamenti sulla pratica sportiva per gli atleti con sindrome di Down». Va ricordato che CoorDown, a fine 2010, si è aggiudicato il primo premio della terza edizione del «Pubblicità Progresso Onp Award», assegnato al miglior spot di comunicazione sociale.
 
Dallo sport alla tv: la nuova frontiera dell’handicap passa per il concetto di «normalità». Si intitola Something special out and about (qualcosa di speciale in giro) il programma per la prima infanzia trasmesso ormai da diversi anni sulla BBC. Fulcro della trasmissione sono alcuni bambini con disabilità – perlopiù affetti da sindrome di Down – chiamati a intrattenere i giovani spettatori.
Questo format televisivo prevede che le persone disabili figurino come animatori, cioè che siano loro a «fare qualcosa per» e non a «ricevere qualcosa da».
Come scrive nel suo blog Matteo Schianchi, in relazione alla trasmissione inglese: «Quando si mostra la disabilità al di fuori dei codici (cui siamo più abituati, ndr) che in fin dei conti producono sottocultura, la si può mostrare come dimensione che fa parte del mondo. La rappresentazione della disabilità può diventare ordinaria e abituale senza dover essere necessariamente un evento speciale, con ospiti speciali, storie speciali e straordinarie».
 
La notizia e il commento di Schianchi mi sono tornati in mente quando, pochi giorni dopo la Giornata mondiale delle persone con sindrome di Down, in una domenica qualsiasi, mi sono trovato in un normalissimo bar di provincia, popolato da anziani che si dividevano tra le immagini delle partite di calcio e vivaci match di tresette. Qualche metro più in là, seduta a un tavolo del locale, c’era una coppia di ragazzi Down che si scambiavano baci.
La cosa interessante era che quei vecchini a loro non prestavano attenzione, come probabilmente avrebbero fatto con qualsiasi altra coppia che avesse scelto quel luogo per passare un po’ di tempo in intimità. Ho pensato che la scena sarebbe stata perfetta per uno spot d’integrazione. Era anche un’ottima notizia, sebbene non «facesse notizia» nemmeno per i presenti. Questa, dunque, la sua forza: non essere informazione, ma unicamente realtà (però è stato difficile resistere alla tentazione di filmare col telefonino).
È anche tra questi due poli che si gioca il destino della disabilità: da un lato una realtà che sappia riconoscere come normale, e quindi anche «ignorare», in senso positivo, la diversità. Dall’altro un ambito delle rappresentazioni che aiuti a creare le condizioni per cui questo possa avvenire. Tanto la realtà quanto la rappresentazione che se ne può dare, in un rapporto di collaborazione felice, possono darci esempi di quanto sia assurdo stabilire confini, limiti, divieti. Soprattutto se a determinarli è sempre la «parte sana» della società.

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Eutanasia. Giudicare? No, grazie – Superabile, maggio 2011 – 1

A volte si verificano concentrazioni di fatti che, pur essendo casuali (le concentrazioni, non i fatti), a noi sembrano evidenziare legami, destini comuni e ci spingono a cercare associazioni di vario tipo tra gli eventi stessi. Insomma, dovremmo poter prendere atto soltanto dell’involontarietà di questi "appuntamenti di accidenti", e invece siamo invogliati a costruire dei discorsi a partire da frammenti di senso (o di fatti).

Prima le polemiche innescate dagli interventi a "Vieni via con me" di Mina Welby e di Beppino Englaro; pochi giorni dopo la morte di Mario Monicelli, suicida a 95 anni d’età, per quanto gravemente malato, anzi forse anche per quello (peraltro, proprio in questi giorni è in discussione in Parlamento l’ultimo disegno di legge proposto dalla maggioranza in tema di testamento biologico, idratazione e alimentazione, ecc). Ecco il precipitare degli eventi di cui parlavamo sopra. Casi slegati, ma simili e che hanno dato a due fazioni opposte l’ennesima occasione per scontrarsi attraverso critiche aspre, frutto di ragionamenti almeno in parte strumentali.

Innanzitutto a Fazio e Saviano vorrei riconoscere il merito di aver compreso l’importanza di un tema come quello dell’eutanasia, che chiama in causa molteplici aspetti di noi come individui singoli e di noi come individui che appartengono ad una società. Anzi, lo vedremo, è proprio ragionando sul rapporto tra queste due istanze (singolo e collettività) che a mio avviso si può rilanciare il dibattito. Se si chiama in causa il divino, o qualcosa che da noi in qualche modo prescinde, mi sembra impossibile ritrovarsi su un terreno comune. Che, sia detto di sfuggita, è ciò che tuttora rende impraticabile la definizione e l’approvazione di una legge che tuteli i diritti e i doveri di chi si trova di fronte ad una scelta o, comunque, dentro una situazione come quella vissuta dalle famiglie Welby, Englaro e da tutte le altre persone di cui i quotidiani italiani ci hanno messo o rimesso al corrente. Dando vita, così, ad una guerra di "casi umani" a mio avviso un po’ penosa e irrispettosa degli stessi.

L’argomento attiene all’idea di libertà, di laicità, di autodeterminazione, di autonomia del singolo, del rapporto tra se stessi e gli altri. Quindi presuppone e rimanda ad un’idea di legge, di Stato, di convivenza tra cittadini, di rapporto tra legislazione e scienza, di organizzazione di servizi sanitari. E altro ancora. Notate, ad esempio, che le critiche seguite alla serata di "Vieni via con me" non riguardavano solo il contenuto, il cuore degli argomenti, ma si è subito allargata ai meccanismi, ai tempi, agli spazi e alle regole ai quali la tv dovrebbe attenersi (già oggi o, in futuro, a seguito di eventuali modifiche dei regolamenti). In questo caso, avanzando la richiesta, molto poco convincente, opportuna e praticabile, a mio avviso, che se in un programma si è espresso A, allora la volta successiva, se non immediatamente a latere, debba potersi esprimere anche B.

Sono a favore del testamento biologico, quel documento che potrebbe garantire il rispetto della propria volontà in materia di trattamento medico anche nel caso in cui non si sia più in grado di comunicarla agli altri. Sono a favore del riconoscimento di un limite oltre il quale una cura si configura come irragionevole accanimento terapeutico e del diritto del singolo a determinare lui quel livello, sostenuto dai consigli consapevoli di un medico e secondo procedure che si possono pensare, valutando anche modelli esteri già operanti. Perché nemmeno su questi due ambiti (e strumenti), che tra tanti mi sembrano appartenere ad un territorio meno conflittuale, si riesce a predisporre in breve tempo una legge che contribuisca a fare almeno un po’ di chiarezza?

Sono personalmente contrario all’eutanasia, almeno nella misura in cui io non "sfrutterei" questa forma di "libertà". Ma posso dirmi teoricamente a favore della stessa. Se questa è frutto di una scelta la cui determinazione non può che derivare, dipendere anche dalla qualità, dalla quantità, dalla forza, dalla debolezza dei rapporti tra gli individui, si giunge ad un punto in cui è davvero pericoloso, e a suo modo violento, esprimere un giudizio di valore su vicende che riguardano altre persone. La morte di una persona è una scelta di vita, anche perché essa chiama in causa la vita degli altri, e questo rapporto non può essere solo di dipendenza negativa («non mi "ammazzo" o non mi "faccio ammazzare", perché gli altri sono ancora vivi»), ma anche di (in)dipendenza positiva. Come se poi tutto l’onere della decisione dovesse ricadere o ricada effettivamente su chi soffre il dolore fisico o l’inutilità di un trattamento e non anche su chi "assiste" il diretto interessato (nel senso del prendersi cura ed essere testimone partecipe di quell’evento). Come se la realtà non fosse più complicata, sottile, sfuggente e le scelte non fossero costruzioni me risultati collettivi, pur restando la vita, in ultima istanza, nella disponibilità dell’individuo e il "diritto alla vita" pertinente alle singole persone (con le dovute differenze per chi, legittimamente, ritenga la propria vita un bene "indisponibile").

Non riconoscere tutte queste implicazioni significa semplificare la questione (è questo il rischio, nonostante il numero e la coralità degli interventi a mezzo stampa possa dare l’illusione di un confronto aperto e profondo tra posizioni diverse) e semplificarla non aiuta ad approssimare una soluzione. Per evitare questo rischio ritengo che l’unica possibilità sia quella di partire da se stessi e riconoscere la fondatezza piena delle proprie idee e, allo stesso tempo, essere in grado di "allontanarci da noi", porci ad una distanza tale da consentirci il rispetto delle scelte altrui.

Vito Mancuso, in "Che cosa vuol dire morire" (Einaudi, 2010) scrive "Ogni essere umano adulto responsabile ha il diritto di dire l’ultima parola sulla sua vita". Assumiamolo come punto di partenza per arrivare ad una soluzione che non obblighi "qualcuno a", non delinei o, peggio, imponga percorsi rigidi e automatici, ma che piuttosto metta i singoli e coloro che con essi sono in rapporto nella "condizione di". E’ la natura delle cose a richiederlo.

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Claudio Imprudente
 

Il valore di un confine – Il Messaggero di sant’Antonio, maggio 2011

Più volte ho riflettuto, anche in queste pagine, sulla sofferenza (e la sua percezione), descrivendola come risultato di associazioni improprie tra elementi (Disabilità non fa rima con solitudine, «Messaggero di sant’Antonio» novembre 2008) o come una prospettiva grazie alla quale ci possiamo riappropriare di una capacità «visionaria» per intendere e modellare la realtà (La fragilità visionaria, «Messaggero di sant’Antonio» maggio 2010).
Ma cosa dire rispetto alla condivisione della sofferenza?
Nadia mi ha scritto di M. e della sua volontà di vivere il dolore da solo: «Non so nulla di che cosa possa voler dire sperimentare ciò che lui soffre. Questo potrebbe rappresentare una distanza incolmabile? Ma, considerata la nostra specifica unicità, sarebbe mai possibile partecipare del vissuto altrui? Sarebbe tremendo e, direi, andrebbe contro ciò che mi pare l’originalità (il segno, l’orma interiore) dell’essere persona, ossia la possibilità – o quasi necessità – costitutiva del rivolgersi al “tu”. In una cecità subita o scelta, senza lo sguardo altrui, che cosa potrebbe restarci se non il deserto?».

Rispondo che non si tratta di stabilire che cosa si perde nei casi in cui non è possibile essere o rendere partecipi di qualcosa che riguarda altri o noi.
Le cose non sono a senso unico.
Le cose, nostro malgrado, sono mobili, mutevoli. Non c’è un’essenza da rispettare o smentire. Non ci sono terreni da conoscere necessariamente. Se M. viveva quel dolore in modo non condiviso, a un certo punto occorreva prendere solo atto di quel che diceva e desiderava. E forse trarre una lezione anche da questo.
Nadia, ancora, chiede: «Tu scrivi in un modo molto intenso. Non ho facile accesso alla tua scrittura, ma ci provo. È come una sfida a rompere, a primavera, delle zolle indurite e resistenti. Perché mi sono messa in mente di rispondere, tuo tramite, a M.? Forse non so misurarmi con la malattia. Irrazionalmente la temo. Mi chiedo: è rifiuto della fragilità il mio? Il tuo dire mi ha indicato di scavare più a fondo. La sottintesa intenzione del “dare” viene messa in discussione quando tu dici che non si tratta di “stabilire che cosa si perde”. Si tratta forse di oltrepassare sia termini di “gestione” che di “giudizio”? Ma allora… è il caso di scrivere a M.?».

È vero: a volte le parole e i pensieri sono come zolle dure in primavera, che vanno «forzate» per essere attraversate, piegate, avvicinate. E, nel mio caso, tanto più la situazione è così, quanto più sento un argomento difficile, non solo da scrivere e descrivere, ma anche soltanto da pensare. Non solo difficile per il ragionamento, quindi, ma anche rispetto alla capacità di affrontarlo, di «arrivarci» con il sentire. Lì si creano dubbi e incertezze che la scrittura deve cercare di mimare e riportare, anche «indurendosi», se necessario. In una realtà inafferrabile non possiamo muoverci come se essa non fosse tale. Il rischio è che questo atteggiamento, a sua volta, produca incertezze. Agendo diversamente, però, rischiamo proprio di non capirla affatto questa realtà e di produrre solo incomprensioni o ferite nel confronto con gli altri.
Il punto, allora, è che non possiamo contare che su «conquiste» parziali: ci viene chiesto di abbandonare di continuo posizioni per occuparne altre. Questo non vuol dire smentire noi stessi o quello che sta davanti a noi o, appunto, costringerci all’inazione. Vuol dire provare a costruire e ricostruire un rapporto più intenso con le cose e con le persone, affinché comprendiamo che non abbiamo di fronte dei monoliti, non stiamo interpretando e parlando a dei minerali.
Ma non era di «semplice» sofferenza che dovevamo discutere?
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.
 

Giorno 5 – il diario di Savigno

Alle 9.30 del mattino io, Roberto, Lucia e Mattias siamo saliti velocemente in macchina,
pronti per andare in tutta fretta a Savigno, tra le colline bolognesi, per incontrare una classe della scuola elementare del paese, nell’ambito del percorso “Bambini di Farina” di cui siamo stati animatori.
Salendo, piano piano, dalla città alle colline si poteva ammirare un paesaggio sempre più bello ad ogni curva…fiori di tutti i colori, prati verdi, file e file di alberi da frutto, albicocche, ciliegi…in breve tempo ci siamo ritrovati catapultati nella primavera. Era davvero tanto, ho pensato, che non vedevo un cielo così azzurro! Quest’aria diversa e leggera, ce lo dicevano le nostre risate, ci stava rendendo diversi e mi ha dato una sensazione di estremo relax. Chissà chi avremmo incontrato di lì a poco?
Arrivati a Savigno, stavano ancora finendo di allestire il mercato, tutto il paese sembrava concentrato lì e faceva un gran caciara, un allegro vociare molto simile a quello che ci ha invaso le orecchie non appena varcata la soglia della scuola. Cominciavo a sentire anche in me un po’ di confusione, un po’ di dubbi e di panico…era da un pezzo infatti che non entravo in una classe, ne sarei ancora stata in grado? Sapevamo in più che per il nostro primo incontro le donne del Semenzaio non avrebbero potuto essere presenti e che questo avrebbe modificato l’andamento dell’incontro stesso. La sfida perciò era quella di trovare un aggancio giusto per introdurre il tema della diversità del pane e delle culture attraverso l’esperienza diretta della nostra diversità… sapevamo che non sarebbe stato facile.
E adesso che cosa succede? Ho pensato, una volta di fronte ai bambini.
La classe, una quarta elementare decisamente vivace, noncurante della campanella e delle grida della maestra, al nostro arrivo si è improvvisamente fermata a guardarci. E da lì, da quel momentaneo istante di silenzio, ci siamo sentiti pronti a cominciare. Una volta trasferiti in aula, in cui ci siamo messi subito in cerchio, pur nel baccano che era già ripreso, un lieve alone d’incertezza si era sparso per il gruppo.
Per sbloccarci abbiamo cominciato così il gioco della carta d’identità, un gioco semplice, il cui scopo è proprio quello di iniziare a conoscersi e a capire che noi diversabili abbiamo dei gusti e degli hobby come ognuno di loro. A questo punto non sono mancate le domande attraverso le quali io e Mattias abbiamo raccontato la nostra storia.
Un altro aspetto interessante, emerso nel gioco, è stato il fatto che alcuni bambini hanno indicato come paese in cui avrebbero voluto vivere proprio il loro paese di origine (Marocco e America Latina), elemento che sapevamo ci sarebbe tornato utile in seguito. A me invece, che sono bolognese, sarebbe tanto piaciuto vivere in Africa, pensate un po’!
Dopo che ci siamo conosciuti, siamo partiti così con un’attività chiamata “scommessa” che ho condotto io stessa. Con l’aiuto di Roberto abbiamo diviso la lavagna in due colonne, scrivendo da una parte ‘’uguale’’ e dall’altra ‘’diversa’; poi ho lanciato la scommessa ai bambini chiedendo loro: Secondo voi io sono uguale o diversa da voi? Tutti hanno risposto “Uguale!” eccetto un bambino di colore, David, la cui mamma proveniva da Santo Domingo. Abbiamo scritto cinque voci per parte e una volta capito che io non ero uguale o diversa ma uguale e diversa dagli altri e che questo vale per tutti, abbiamo preso la palla al balzo dalle parole di David, per cominciare a parlare del pane marocchino Mmsemmen, che prepareremo la prossima volta con le donne del Semenzaio.
“Che tipi di pane conoscete?” Questa la domanda lanciata da Roberto che ha scatenato un girotondo di risposte a mani alzate finché ad un certo punto un bambino ci ha dato la ricetta del pane arabo dicendo che lo mangiava tutti i giorni.
Siamo tutti diversi come le diversità del pane ad esempio quello senza lievito, ragione per cui viene fatto nel caso qualche ospite si trovi a casa tua all’improvviso e ci sia poco tempo per preparare da mangiare.
 

Giorno 4 – il diario di Castelletto

Inzialmente abbiamo salutato le classi e poi abbiamo ripreso la ricetta del Msemmen, un tipo di pane arabo, introdotta nel primo incontro. Mentre Sadia e Siam impastavano i ragazzi facevano delle domande a noi, Tatiana e Mattias, sulle nostre disabilità; si è aperta la discussione circa questo argomento illustrando con le nostre parole il percorso di vita costellato anche di cose positive: Tatiana infatti ha mostrato le sue foto mentre era a cavallo. Intanto abbiamo ultimato, dopo diverse fasi di lavorazione, la preparazione di questo pane particolare e siamo passati alla cottura dividendoci in gruppi di tre per assistere alla fase finale. Interessante è stata la curiosità dei ragazzi di fronte alla cottura diversa da quella comunemente conosciuta, di casa nostra. Nel frattempo, mentre i gruppi si alternavano per la cottura, in classe abbiamo fatto l’attività del “mille più uno”, nella prima, nonostante fosse più rumorosa, siamo riusciti a raggiungere l’obbiettivo prefissato supportati anche da una lite nata tra due ragazzi in classe che si sono insultati. Gli insulti ci sono serviti da pretesto per la discussione sui pregiudizi concludendo che solo con la conoscenza si possono superare.
Nella seconda classe invece c’era una partecipazione più attiva e attenta agli argomenti, hanno fatto molte domande curiose sulla nostra vita e alla fine hanno ammesso che all’inizio avevano paura ed erano imbarazzati nel relazionarsi con persone disabili, però hanno compreso e vissuto che con la conoscenza si possono abbattere i muri della paura e della diffidenza.
Abbiamo concluso con la degustazione di questo pane diverso.
 

Giorno 3 – il diario di Castelletto

Abbiamo incontrato due prime medie di Castelletto. Come prima attività ci siamo presentati con il gioco della carta di identità, abbiamo scritto che cosa ci piace fare, quali sono i nostri sogni, le nostre passioni.
Questa attività nella prima classe è andata molto bene, i ragazzi erano molto curiosi e interessati, c’era anche un alunno arabo che conosceva la preparazione di un particolare tipo di pane e si è sentito coinvolto e questo è stato positivo.
Nella seconda classe abbiamo usato ancora la carta di identità, questa volta erano presenti anche Sadia e Sian con le quali ci siamo confrontati e conosciuti. I ragazzi di questa classe erano abbastanza attenti e interessati alle nostre esperienze di vita. Partendo dalla diversità di ognuno di noi abbiamo introdotto l’attività del msemmen, un tipo di pane arabo, cercando di capire con la classe quali fossero gli ingredienti ( acqua, farina, olio, una briciola di sale ecc). e riflettendo che con ingredienti uguali si possono creare cose diverse. Abbiamo salutato lasciando loro una consegna: scrivere o disegnare qualcosa per raccontare questo primo incontro.
Per Donato, un servitore civile è stato il primo percorso e nonostante le prime incertezze si è presto inserito nel gruppo.
Io (Tatiana) mi sono sentita attiva ed ero molto curiosa perché questo percorso era la prima volta che lo facevo, ho trovato molto interessante e utile unire il lavoro del Calamaio  con l’esperienza di altre persone per di più con una cultura diversa.
Mattias dopo un iniziale diffidenza si è sentito altrettanto soddisfatto ed è convinto di aver lasciato un’impronta indelebile nella crescita di quei bimbi che diverranno gli adulti del domani perché abbiamo dato una dimostrazione pratica che l’integrazione fra culture diverse non solo è possibile, ma porta addirittura ricchezza; infatti come mezzo per farlo comprendere ci siamo serviti di un alimento comune che viene realizzato con metodiche diverse e questo ci fa ben sperare sull’incontro concreto tra persone di etnia diversa
 

Tra le pieghe del lavoro – Superabile, aprile 2011 – 2

La monografia di HP-Accaparlante di settembre 2010 era dedicata all’analisi delle recenti trasformazioni del mondo del lavoro rispetto all’inserimento lavorativo delle persone con disabilità. L’indagine, condotta da Massimiliano Rubbi, faceva emergere, anche attraverso interviste a "datori di lavoro" operanti in settori diversi, un quadro vario, caratterizzato da elementi positivi ed altri, invece, critici e forieri di ulteriori elementi di difficoltà. Un aspetto molto interessante, come scrive l’autore, è che «la disabilità, tanto più quanto è più grave, può essere considerata come il paradigma estremo, e per questo più illuminante, dei limiti del nostro modello economico e lavorativo. (…) L’integrazione lavorativa vista come elemento di realizzazione personale per la persona con disabilità, fuori da ogni logica sia risarcitoria che assistenziale, mette in crisi il concetto di "condizioni di mercato", in base a cui la persona disabile sarebbe semplicemente incollocabile e appunto da risarcire/assistere – ma con questo mina alla base l’idea che, in ambito economico e non solo, ci si possa muovere esclusivamente nei limiti di "ciò che decide il mercato"». Considerazioni molto importanti e suggestive, per approfondire le quali, nella monografia, si possono leggere le parole di esperti come Carlo Lepri, la sindacalista Nina Daita, il massmediologo Sergio Bellucci, il docente universitario Stefano Zamagni e altri ancora.

Ad attualizzare (e "brutalizzare") questo importantissimo discorso, giunge la notizia che l’Italia è stata deferita da parte della Commissione Europea alla Corte di Giustizia continentale perché, pur avendo recepito con il Decreto Legislativo 216/03 la Direttiva 2000/78 del Consiglio Europeo, che aveva stabilito «un quadro per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro», il nostro Paese non ha ancora «una norma generale che imponga al datore di lavoro di prevedere soluzioni ragionevoli per i portatori di qualunque tipo di disabilità e per tutti gli aspetti dell’occupazione». Sono molti gli ambiti in cui l’Italia presenta dei vuoti normativi totali (pensiamo a quello, grave, relativo al reato di tortura, che, di conseguenza, non è previsto dal nostro ordinamento) o, come in questo caso, dei vuoti parziali, delle mancanze, delle disfunzioni che rendono una legge poco chiara ed efficace. E, di conseguenza, rendono un diritto non pienamente esigibile e garantito. Peraltro, sono mancanze meno visibili di un vuoto legislativo totale e particolarmente spiacevoli perché la legge di riferimento più importante in merito all’inserimento lavorativo delle persone disabili ha ormai dodici anni di vita (Legge n° 68 del 1999). Quindi, è a regime da molto tempo (la monografia cui facevo cenno è proprio un viaggio attorno e dentro la "68").

Ulteriore paradosso, di un paese abituato a produrne in quantità (o semplicente ironia della sorte): nello stesso giorno in cui ho letto la notizia del deferimento dell’Italia alla Corte di Giustizia Europea, prendo visione su Youtube di un video di sensibilizzazione recitato dai comici Ale e Franz, su iniziativa di Emergo (il Piano per l’occupazione dei disabili attuato dalla Provincia di Milano, e di Light (un consorzio di cooperative sociali), appena presentato. Il breve video si intitola "Gin e Fizz e la banda della 68" e ci mostra i due gangster, Ale e Franz, mentre cercano di riunire la loro banda, scontrandosi però con l’efficacia della legge "68" che, inesorabilmente, ha colpito ancora: ha trovato per tutti un lavoro regolare. Insomma, come recita il video, li hanno "presi" tutti, non per sbatterli in gattabuia, ma per dare loro un lavoro vero. Per cui, il video, peraltro molto divertente, è sì di sensibilizzazione, ma è come se raccontasse di una realtà che sembra non dover essere "sensibilizzata", in quanto già pronta e funzionante. Ma al di là di questo, lo spot si conclude così: «La legge aiuta le aziende a "prendere" i lavoratori disabili». Occorre, però, capire quanto e come questa e altre leggi aiutino in una scelta che, per tante ragioni, non è semplice, in particolar modo per chi ha, della disabilità, una visione ristretta e una conoscenza che non sia il frutto di un’esperienza concreta. Ragione per cui associare produttività-lavoro a disabilità risulta a tanti un’operazione impropria. E occorre fare attenzione ai dettagli, alle pieghe delle leggi, come il caso del deferimento del nostro Paese dimostra. Ammesso che poi la Corte decida di procedere valutando la decisione della Commissione Europea come legittima. Buon lavoro! E se vi avanza un po’ di tempo, scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook. (Claudio Imprudente)

(18 aprile 2011)