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Autore: admin

Lettere al direttore

Salve signor Claudio,
le scrivo dalla Calabria. Ho 37 anni e sono affetto da amiotrofia muscolare spinale II.
Sono tetraplegico.
Abito in un piccolo comune e mi conoscono, ammirano, compatiscono e vogliono bene, tutti.
Sto chiedendo da tempo all’amministrazione comunale un lavoro e finalmente “pare” che ci sia in progetto l’apertura di uno sportello per affrontare il problema del disagio giovanile.
Si sono presentate a casa due signore (una che lavora a contatto con le carceri minorili, l’altra un’assistente sociale) e vorrebbero usare la mia situazione come esempio da dare ai ragazzi. Vorrebbero fare un vero e proprio servizio giornalistico su di me.
Secondo lei è giusto?
Vorrei un consiglio su cosa fare.
Grazie.
Spero diventeremo amici.
Romano

Caro Romano,
intanto grazie per avermi scritto. Mi ha fatto molto piacere.
Allora, vengo subito al dunque: credo che tu debba cogliere questa opportunità e, cogliendola, dare ad altre persone l’occasione per avvicinarsi a un mondo che probabilmente conoscono poco o male. Capisco o immagino i tuoi dubbi: non si tratterà di fare di me una sorta di esempio, guida, di oggetto-spettacolo e, in quanto tale, male interpretato, compatito, ecc. ecc.? Questo rischio c’è sempre, e lo vivo spesso direttamente, tenendo continuamente incontri, lezioni, interviste. Ma il gioco vale la candela, se gestito e giocato con intelligenza e, non lo nego, furbizia, da parte tua. Credo che tu debba valutare che senso le persone che vogliono coinvolgerti intendono dare al servizio, se è quello di interrogare gli altri su delle questioni o puntare “solo” al cuore, ossia a una cosa dal respiro breve. Dimmi se queste poche parole ti sono d’aiuto. Aspetto una tua risposta per continuare il confronto su una cosa che, lo capisco, solleva dei dubbi da parte tua e non è affatto innocente né semplice.
Grazie ancora e buon tutto.
Un caro saluto. Claudio
Caro Claudio,
grazie e te per avermi risposto. Spero tanto che inizi tra noi un lungo e proficuo scambio di impressioni.
Io ho per natura ho un carattere timido ed estroverso. Ma questo, col tempo, ho cercato, e cerco sempre, di “combatterlo”… Forse proprio in forza dell’essere “diversabile”. Cioè, provo a spiegarmi: forse l’essere disabile mi ha condizionato portandomi ad accentuare la timidezza. Poi, per una sorta di orgoglio o di contrasto, per qualche tempo vedevo il dover espormi come un modo per dimostrare e dimostrarmi che non mi facevo condizionare dal mio handicap.
Adesso, ti confido, non mi interessa più. Non vorrei sempre dover combattere per “dimostrare che”. Accettare serenamente il mio handicap vuol dire vivere serenamente il mio essere un diversabile. Non un genio, né un fenomeno da circo che si sente addosso o la curiosità o la compassione degli altri…
Vorrei precisarti meglio la questione di cui ti parlavo nella e-mail precedente, così da darti un quadro più chiaro. Io credo che in loro (nelle persone che mi hanno proposto la cosa) ci sia della buona volontà di usare la mia storia per far capire a chi ha 15 anni, magari circondato di ogni bene e che è insoddisfatto, come il mio vivere possa dare qualche insegnamento.
La tua riflessione, le tue parole, il tuo consiglio mi sono utilissimi.
Però vorrei precisare che: non ritengo di esser nulla di “speciale”, sono uno come tanti, ho pregi e difetti, vizi e virtù, ho i miei giorni di nervosismo e di serenità, i miei hobby e le mie passioni come quelli di tanti. Tutto qui… non so cosa se ne possa tirar fuori.
Poi, caro Claudio, mi preme pure sottolineare un altro punto. Io voglio un lavoro! Non voglio solo esser presentato agli altri, ma mi serve un posto. So usare il computer e spero che questo progetto sia basato su quello, dare lavoro.
Per 7 estati (2 mesi all’anno) sono stato inserito in un progetto per il quale ho fatto lavoretti col pc. Poi l’estate scorsa non vi sono stato inserito, nonostante un’assicurazione circa l’esserne parte.
Beh, intanto ti ringrazio e ti terrò informato.
Grazie e a presto.
Romano
Ciao Claudio.
Ho letto il “tuo” libro: Lettere imprudenti sulla diversità. Conversazioni con i lettori del Messaggero di Sant’Antonio (Effatà Editrice, 2009).
Farti i complimenti è scontato; avrai avuto riscontri molto abbondanti e più qualificati dei miei.
Che i tuoi articoli fossero “OK!” lo sapevo; mi ha però sorpreso però un altro fatto.
Ho scritto “tuo” tra virgolette non a caso. Senza offesa (anzi… è una considerazione positiva), il libro non mi sembra tanto tuo, ma degli “altri” che ti hanno risposto.
Mi ha impressionato come le tue considerazioni, che vertono fondamentalmente sulla diversabilità, abbiano scaturito un ventaglio di contesti umani estremamente diversificato, con uno spessore emotivo ed esistenziale, molto vario.
Immaginando di togliere i tuoi articoli dal libro, mi restava un caleidoscopio affascinante che potrebbe far nascere una rete di “storie” imprevedibile.
Il tutto avendo come leva causale comune la diversabilità; fattore che è considerato (come sai bene) minoritario, marginale.
Ogni lettera da te ricevuta apriva un mondo denso di “vita”, di storie incarnate, di emozioni magari sopite, o esplosive nella loro calda realtà (lieta o drammatica).
Una tua osservazione, a volte su un fenomeno banale, apriva un orizzonte ricolmo di “umanità” spesso repressa (magari anche sconosciuta a chi la riusciva a esprimere), che, comunque, comunicava (sic!) la dignità e il valore di ogni vita esistente.
Queste sono le mie impressioni “a caldo” dopo la lettura del libro. Ma ci rifletterò e ti riscriverò.
Ciao.
Silvio (Vallini)

Dare spazio alla bellezza

L’incontro fa parte delle iniziative mensili organizzate dalla commissione e dallo sportello e hanno come obiettivi prioritari quelli di: promuovere l’integrazione personale e sociale delle persone con difficoltà visiva; combattere l’isolamento agevolando i contatti tra vedenti e non vedenti e condividere le buone prassi; concorrere a favorire il superamento delle barriere, sia di quelle reali che di quelle psicologiche.
L’evento prevedeva la lettura di testi riguardanti il tema della bellezza, tratti da vari autori: Dario Fo, Erri De Luca, Fabrizio De André, Italo Calvino solo per citarne alcuni.
Vi proponiamo un’intervista a Lina Di Ridolfo, coordinatrice dei volontari dello sportello CIAO, che ci aiuta a capire meglio il rapporto tra bellezza e disabilità.

Come è avvenuta la scelta dei brani?
Innanzitutto siamo partiti da un brano di Calvino: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo tutti insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio” (I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano 2006, p. 164).
Poi ci siamo rifatti all’identità che Platone istituisce tra bello e bene: il bene è bello, anzi è il “vero” bello, e il bello, per essere veramente tale, deve avere a che fare con il bene, altrimenti è satanico. Viviamo in un mondo brutto e sporco e infelice: cercare la bellezza, dovunque si manifesti, darle spazio, significa trovare una pausa nell’inferno dei viventi, respirare una boccata d’aria pura. Quindi abbiamo cercato le varie manifestazioni della bellezza: la donna, la poesia, la città, l’istruzione, la democrazia, la libertà.

Secondo voi c’è ancora un nesso tra bellezza e disabilità? E qual è?
Ciò che spinge l’uomo fuori dalla caverna in cui siamo imprigionati dalla nascita, secondo Platone, è Eros, l’Amore per la bellezza. Il primo grado di bellezza da cui è attratto Eros è la bellezza dei corpi, segue la bellezza delle anime, quella delle leggi e delle istituzioni e, infine, la bellezza in sé che è solo dell’idea del Bene. La vera bellezza, quella che non muta, che dura nel tempo è la bellezza interiore.
Un percorso di parole e di emozioni per sconfiggere antiche e moderne forme di negatività.

Quali sono le negatività a cui pensate con maggiore preoccupazione?
La paura, l’intolleranza, il pregiudizio, la violenza contro il diverso da noi e contro la natura, in ultima analisi tutto questo si ritorce contro noi stessi. Soprattutto domina la “negatività” della paura: il timore – angoscia di perdere quello che già si ha fa ossessivamente ricercare la sicurezza anche se spesso “ingannevole”.

Bellezza e disabilità: un problema che riguarda i disabili o un problema di chi guarda i disabili?
Certamente è un problema di chi guarda il disabile, spesso annebbiato da parametri pregiudiziali, che vogliono colui che non possiede o ha ridotte alcune abilità, necessariamente infelice o, peggio, inferiore rispetto ai normodotati. Eppure, conosco molte persone “normali” straordinariamente infelici…
È bene precisare che il tema della bellezza riguarda semplicemente l’umano, indipendentemente da chi guarda chi. E ciò risiede nel fatto che la bellezza è un assetto interiore, ha a che fare con il nostro senso della misura e con la capacità di trasformare ciò che siamo nella realtà in ciò che possiamo essere nella realtà, per come vogliamo e possiamo evolvere nelle nostre qualità.

È possibile educare alla bellezza? Quali strumenti si possono usare?
Innanzitutto, l’istruzione attraverso la scuola pubblica, e poi ogni volta che questo è possibile, “dare spazio” a tutte le occasioni di dialogo “vero”: frequentare luoghi dove si favorisce il confronto e si promuove “l’ascolto” e, soprattutto, si affrontano i problemi comuni e si opera per risolverli “insieme”, esercitando la pazienza e l’umiltà, sapendo che nessuno al mondo possiede il rimedio per essere felici, ma consapevoli che tutti insieme si può approdare a essere meno infelici.

In un mondo in cui i parametri della bellezza sono dettati dalle immagini, come si costruisce i suoi parametri una persona non vedente?
Paradossalmente, forse un non vedente ha un vantaggio: è portato a cogliere sempre la bellezza del cuore e generalmente non si lascia distrarre dall’esteriorità e dall’apparenza, ma non basta avere accesso al mondo delle immagini per comprendere i parametri della bellezza. Alle persone non vedenti, come a quelle vedenti, serve fornire principalmente una conoscenza storica e filosofica dei significati di volta in volta attribuiti a tali parametri. La conoscenza dell’idea del bello nelle immagini e nelle forme della rappresentazione, lungo il corso della storia, è un primo passo essenziale per capire come le immagini rappresentino le idee. L’idea di bello cambia nel tempo, nelle diverse aree geografiche e culture, persino nelle diverse circostanze di vita, poiché l’idea del bello è relativa a una configurazione di forme significative, volte a esprimere un concetto di armonia tra le parti, ma non solo, altrimenti non esisterebbero immagini non gradevoli che pure vengono percepite come belle perché espressive, corrispondenti al vero. Un’educazione estetica utile alla persona non vedente e vedente si basa sulla conoscenza delle categorie di senso attribuito alle immagini. Il resto, ovvero l’appropriazione dei concetti di forma che interessano il riconoscimento delle immagini, è cognizione. Tutto ciò interessa ancor più i sistemi della percezione e significazione delle immagini mentali che si creano in presenza di minorazione visiva: esse maturano attraverso l’esperienza del vero e la pratica della rappresentazione, per effetto di visioni mentali che, arricchite dalla facoltà dell’immaginazione e dalla potenza della metafora, fortificano i molti significati delle forme e ne permettono una estensione di senso. Le immagini del bello, maturate attraverso l’uso compensativo dei sensi residui, ad esempio del tatto vicariante la vista in caso di minorazione visiva, sono immagini che corrispondono a determinate idee codificate del bello; per questo esse devono maturare nella coscienza, sia percettivamente che concettualmente, in un percorso di studio che metta a confronto opere e poetiche diverse, metamorfosi del pensiero e del gusto, e permetta un discorso concreto sui modi della rappresentazione, sulla loro genesi e sul significato introspettivo dell’estetica.

Nota dei curatori: Per la seconda volta affrontiamo il rapporto tra bellezza e disabilità, attraverso lo “sguardo” dei non vedenti. Questo, non perché crediamo sia l’unico modo per affrontare il tema, ma perché riteniamo affascinante scoprire come la mancanza di un senso importante come la vista ci permetta di valorizzare altri aspetti della bellezza.

Ringraziamo Lina e chi con lei organizza eventi di questo tipo, importanti a livello personale per chi vi partecipa ma anche a livello di cambiamento culturale.

Se volete sapete dove trovarci: claudio@accapalante.it.
Lasciate la vostra traccia di bellezza!

Uscire dai labirinti

Osservò con diffidenza la sua immagine, finse di non osservarla, sentì che sembrava essere qualcosa che non era. Ne fu spaventato e incuriosito insieme. Arretrò, e così fece la sua immagine, e un po’ per volta scoprì di essere di fronte a se stesso. Cercò di fuggire ma ovunque si volgesse si trovava sempre di fronte a se stesso, era murato da se stesso, era ovunque se stesso, ininterrottamente se stesso, rispecchiato all’infinito nel labirinto.
Avvertì che non esistevano tanti minotauri, ma un minotauro solo, che esisteva un solo essere quale egli era, non un altro prima né un altro dopo di lui, che egli era l’unico, l’escluso e rinchiuso insieme, che il labirinto c’era per causa sua, e questo solo perché era stato messo al mondo, perché l’esistenza d’uno come lui non era consentita dal confine posto tra animale e uomo e fra uomo e dei, affinché il mondo conservi il suo ordine e non divenga labirinto per ricadere nel caos da cui era scaturito; e quando l’avvertì, come percezione senza comprensione, come un’illuminazione senza conoscenza, non come una nozione umana fatta di concetti ma come nozione di minotauro fatta d’immagini e di sensazioni, crollò a terra, e allorché giacque, raggomitolato com’era stato raggomitolato nel corpo di Parsifae, il minotauro sognò di essere un uomo. Sognò un linguaggio, sognò fratellanza, sognò amicizia, sognò sicurezza, sognò amore, vicinanza, calore, e contemporaneamente seppe, sognando, di essere un anormale cui non sarebbe mai stato concesso un linguaggio, mai fratellanza, mai amicizia, mai amore, mai vicinanza, mai calore, sognò come gli esseri umani sognano degli dei, con tristezza d’uomo l’uomo, con tristezza d’animale il minotauro.
(Brano tratto da Friedrich Dürrenmatt, Il minotauro, Milano, Marcos y Marcos, 2005, pp. 59-61)

Il mio “incontro” con Dürrenmatt avvenne tramite un simpaticissimo libro, La morte della Pizia, dove con ironia e arguzia l’autore prendeva in giro i miti greci. Dopo anni di liceo classico fu molto divertente ridere un po’ attraverso la Pizia, senza la seriosità che contraddistingueva i banchi di scuola. Pensavo, quindi, che l’altro libro di Dürrenmatt, Il minotauro, sarebbe stato altrettanto divertente. Invece è un minuscolo libro che lascia un senso di ansia notevole. È la storia del minotauro, quello che tutti abbiamo nell’immaginario. Ma Dürrenmatt rinchiude il minotauro in un labirinto di specchi, come se il minotauro fosse in un enorme luna park. Per molto tempo il minotauro ritiene che tutte le immagini che vede siano altri minotauri come lui, e quindi vive serenamente pensando di essere circondato dai suoi simili. Il brano che propongo qua è il momento del risveglio del minotauro, quando si rende conto di essere solo. Da questo momento in poi il lettore viene condotto a provare compassione per la bestia, nonostante il minotauro, proprio perché bestia, mantiene in tutto il libro l’aspetto anche crudele. È un po’ come nel film Arancia meccanica di Kubrick, dove lo spettatore alla fine si ritrova dalla parte del protagonista Alex, nonostante Alex non sia proprio un esempio di buon comportamento. Quello che mi ha colpito fin da subito in questo piccolo brano, però, è la parola “anormale”. Anormale è stato usato per svariati anni per contraddistinguere chi aveva una disabilità. Chi è disabile non è normale; che poi fa un po’ sorridere che questa tanto vantata normalità sia solo un dato statistico, numerico: la maggioranza delle persone è in un certo modo, se tu non sei così non sei normale. D’altronde, la maggioranza vince, si suol dire. Per la sua anormalità il minotauro non è integrato, è escluso, è isolato. Sogna di essere normale, di avere degli amici, di poter comunicare… Cosa che sogniamo tutti, perché al di là dei deficit derivati dalla patologia, qualche volta tutti quanti siamo stati degli anormali o ci siamo sentiti così, non accettati perché un po’ diversi dagli altri, magari anche solo in una breve fase della nostra vita, penso ad esempio alle famose “compagnie” di amici nel periodo adolescenziale. Ma il brano di Dürrenmatt mi fa pensare alle “condizioni” dell’integrazione: alla fine il minotauro non è stato messo nelle condizioni di provare l’integrazione, è stato escluso a priori perché nato bestia, perché la sua anormalità faceva paura. Da quanti anni andiamo dicendo che si possono in qualche modo superare gli handicap dettati dal deficit creando un contesto di integrazione e fiducia? Resta un sogno come quello del minotauro?

Un fioretto di ragazza, Superabile, Agosto 2012

Arriva sempre un periodo dell’anno dove hanno davvero ragione i Righeira, ovvero quando l’estate sta finendo. Le Paralimpiadi invece stanno iniziando. Diverse volte in questi mesi ho parlato di sport, perché lo ritengo uno strumento importante, se utilizzato correttamente, per avviare un processo di integrazione. Quasi un mese fa dicevo la mia su Oscar Pistorius e la sua sfida, comunque vinta, nella pista dello stadio Olimpico di Londra.

Oggi resto affascinato da un’altra atleta, una ragazza che le sue sfide le sta già vincendo e di cui sentiremo spesso parlare. Sto parlando di Beatrice Vio, Bebe per gli amici, che è stata scelta come tedofora italiana per l’inaugurazione dei giochi paralimpici che partiranno il 29 agosto. La sua storia è vincente di per sé. Bebe ha solo quindici anni, è una schermitrice e non solo. È la prima atleta al mondo che tira di scherma con quattro protesi. Ad undici anni una meningite l’ha costretta ad un ricovero ospedaliero e alla conseguente amputazione delle gambe. Appena fuori dall’ospedale si è ripresa la sua vita con tenacia e con la voglia di rimettersi in gioco, tanto che dopo pochi giorni era di nuovo in pedana a tirare stoccate. Solo che in carrozzina e con delle protesi. Solo per motivi anagrafici non parteciperà alle prossime paralimpiadi londinesi, ma siamo certi che a Rio de Janeiro, nel 2016, la vedremo già sul podio! A sostenerla per il ruolo di tedofora a Londra, si è mosso anche il Parlamento Europeo: centotredici deputati di tutti i ventisette paesi membri si sono schierati dalla sua parte.

Adoro Beatrice perché è l’esempio concreto di tanti temi di cui amo scrivere: dalla voglia di trasformare la sfiga in sfida alla forza integrante presente nello sport, dal superamento delle difficoltà all’importanza della famiglia, dalla cura del proprio corpo fino all’esigenza di non darsi mai per vinti, a costo di sporcarsi le mani e di non riuscire. In una società dove spesso il primo ostacolo viene considerato un limite insormontabile, l’esempio portato da questa ragazzina è rilevante e va raccontato. Perché il limite fa sempre parte della condizione umana.

Bebe è attiva anche nella sensibilizzazione di ragazzi disabili tramite l’associazione art4sport Onlus, fondata dai suoi genitori, che utilizza lo sport come terapia per il recupero fisico e psicologico dei bambini e dei ragazzi portatori di protesi di arto. Mentre le auguriamo di darci grosse soddisfazioni negli anni a venire, a partire dalle paralimpiadi brasiliane, ci gustiamo le sue interviste che testimoniano anche le qualità umane di Beatrice.

Intanto, cari lettori, godiamoci gli ultimi giorni di questa estate… Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)

Un tuffo dove l’acqua è più blu, Superabile, Agosto 2012

"Getta le tue reti/buona pesca ci sarà/ e canta le tue canzoni/ che burrasca calmerà"… Così cantava Pierangelo Bertoli e così ho pensato mentre leggevo un articolo del mio amico Claudio Arrigoni, di recente apparso sul blog del Corriere della Sera Gli invisibili. Gli Italiani, si sa, sono un popolo di poeti e di navigatori, sempre capaci di ingegnarsi e di tirar fuori la loro creatività anche di fronte agli imprevisti e al mare mosso. È proprio quello che sono riusciti a fare sulle meravigliose spiagge della Sicilia la giovane Daniela Rullo e il signor Aurelio, ex pescatore di Salina nelle isole Eolie. Da anni conviventi con la sclerosi multipla i due erano purtroppo costretti a vedere il loro amato mare da lontano, a causa più che della malattia dell’inaccessibilità dei lidi limitrofi.

Come fare a tornare a fare castelli di sabbia, piste, giocare a beach volley e spaparanzarsi al sole? E, soprattutto, come dare a tutti la possibilità di lasciare sotto l’ombrellone la carrozzina e di tuffarsi in mare? Se una cosa non c’è, si sono risposti Daniela e Aurelio, bisogna inventarsela. Così a Milazzo nel 2007 è nata La Fenice, un lido accogliente e accessibile e un’associazione, composta ormai da più di trecento soci, condotta e animata anche da persone con disabilità. Qui non solo è possibile farsi un tuffo dove l’acqua è più blu ma anche guardare il tramonto in compagnia durante le selezioni del Grande Fratello e sorseggiarsi in pieno relax un bel cuba libre con cubetti di ghiaccio… A La Fenice, insomma, non ci si annoia mai e c’è sempre un grande via e vai…Daniela e Aurelio hanno dato vita così, con molta leggerezza, a uno dei principi a me più cari: una location accogliente e accessibile vale per tutti.

Altri lidi sono sorti di recente sull’onda di Daniela e Aurelio, come quello di Giulianova, in Abruzzo e speriamo davvero che presto li seguano in tanti. Scovare soluzioni creative e inaspettate per consentire a tutti una degna abbronzatura è infatti per la maggior parte delle spiagge del Bel Paese ancora a discrezione dei singoli lidi… L’esperienza de La Fenice ci indica però un cambiamento importante: il disabile passa da inciampo e spesa a cliente, con tutto l’indotto che ne deriva. Anche questa, una piccola rivoluzione. Daniela e Aurelio, da bravi poeti, che come ci dice l’etimo della parola sono le "persone che fanno", hanno davvero messo in pratica il mito egizio de La Fenice cantato da Ovidio, Dante e Borges, sono risorti cioè dalle loro ceneri e le hanno trasformate in morbida sabbia. A furia di parlare di mare e di spiagge però ora mi è venuta proprio voglia di andare a farmi un bel tuffo… là, dove l’acqua è più blu… che ne dite? E voi che lidi frequentate? Accessibili o irti di scogli? Scrivetelo a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente

Il diavolo del mare, Superabile, Agosto 2012

E lo chiamavano il "Pistorius degli abissi", poi lo chiamavano "il subacqueo disabile più resistente al mondo", per gli amici era e resta "il diavolo del mare"…ma lui è semplicemente Paolo De Vizzi, trentottenne tarantino, immobilizzato alle gambe dall’età di ventidue anni, che ha sfidato le leggi della fisica immergendosi per venti ore a nove metri di profondità.

Se fuori dall’acqua per una persona con disabilità anche leggere un libro a fumetti, fare fotografie o bersi un caffè in compagnia può risultare difficile, in mare ogni cosa, racconta il nostro subacqueo, è possibile, come rendersi conto che lì sotto, in un luogo apparentemente lontano ed ostile, in realtà non ci sono barriere ma solo mondi da scoprire. Sì, proprio laggiù, in fondo al mar. In acqua, insomma, siamo tutti sullo stesso piano perché, prima di tutto, più liberi.

Ho letto questa notizia su La Gazzetta del Mezzogiorno e l’ho trovata subito molto curiosa, non tanto per il fatto in sé ma per lo spirito con cui Paolo ogni giorno abita e ci racconta del mare.

La vita di un disabile, talvolta, può diventare quella di un pesce fuor d’acqua, privo di spazio e della giusta dose d’ossigeno. Negli abissi invece, ci ricorda l’impresa del nostro "diavolo", i limiti diventano altri come la forza di volontà e la determinazione nell’affrontare sfide prevedibili o inaspettate.

È un vecchio discorso…bisogna modificare il contesto-ambiente per diminuire l’handicap. Un discorso che vale per tutti, dalle Alpi al profondo degli Oceani.

Chissà, caro Lucio Dalla, se quando avevi scritto Com’è profondo il mare, avevi pensato a uno come Paolo….E voi, avete mai avuto il coraggio di immergervi in un mondo senza barriere? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)

La bellezza non visiva: l’estetica delle persone che non vedono

 In questo numero ospitiamo una cara amica, Simona Guida, psicologa della riabilitazione visiva con la quale abbiamo collaborato per due percorsi di formazione presso l’associazione APRI di Torino.
A lei abbiamo chiesto di scrivere un articolo che prende spunto da questa domanda: i non vedenti che percezione hanno della bellezza?

A voi la lettura e, se volete, un commento a claudio@accaparlante.it.
L’esperienza estetica possiede grande potere nello stimolare e nell’influenzare i meccanismi di piacere/dispiacere nell’uomo, i quali sono alla base della sua motivazione personale.
Proviamo a pensare all’importanza dell’esperienza del bello e del sublime nella natura e nell’arte, ossia all’importanza dell’esperienza estetica così come la definisce Baumgarten nel 1735, il primo filosofo che, come poi Kant, utilizzò questo termine. Esaminiamo la natura profonda delle parole, partendo dall’etimologia del termine “estetica”, ossia il greco aisthanomai, cioè percepisco con i sensi, e aisthesis, cioè sensazione. La filosofia di Baumgarten riserva all’estetica il campo delle conoscenze che, provenendoci dalle percezioni sensoriali, non hanno per oggetto idee sempre chiare e distinte ma stimolano notevolmente l’ideazione. Nella storia dell’estetica filosofica si sono susseguite numerose teorie del bello (simmetria delle parti, armonia delle forme, apollineo/dionisiaco, ecc.), le quali vi hanno o meno accostato come imprescindibili anche il buono e il giusto, ossia alle categorie sensibili del bello hanno aggiunto le categorie etiche, morali, del buono e del giusto. Alcune hanno contemplato regole di categorizzazione standard di bello/buono/giusto, altre hanno introdotto la validità unica e irripetibile del giudizio soggettivo di bello/buono/giusto. Dall’estetica si arriva all’etica, termine introdotto nel linguaggio filosofico da Aristotele (dal greco ethos, comportamento, costume) a indicare quella parte della filosofia che studia la condotta dell’uomo. Dunque, la stretta connessione tra potere del bello e comportamento dell’uomo è evidente non solo dall’analisi della nostra vicenda quotidiana, ma è messa in evidenza dalla stessa antica disciplina filosofica e dalla lunga sapienza insita nell’etimologia delle parole, che vede nel termine est-etica l’inclusione del termine etica. Dall’etica all’estetica o dall’estetica all’etica? Siamo sull’uovo e la gallina.
Il bello e il brutto entrano dentro di noi attraverso i nostri sensi e le emozioni che essi suscitano. Il nostro attuale modo di vivere è, più che in ogni altra antecedente epoca storica, assolutamente visuocentrico, visuoabusante, visual-oriented in maniera pervasiva. Ciò avviene perché la vista è la modalità sensoriale più rapida e comoda che possiamo utilizzare per conoscere il mondo, in quanto essa lo processa in simultanea (e non in successione), con bassissimi costi in energia attentiva e in tempo impiegato a carico dell’osservatore. Infatti, se noi dovessimo conoscere il contenuto di una stanza con il tatto, anziché con un solo e rapido sguardo, dovremmo innanzitutto unirvi il movimento (utilizzeremmo cioè l’aptica, poiché il tatto statico, quello senza il movimento, ci consente di conoscere solo due attributi della materia, la temperatura e il peso). Inoltre, dovremmo impiegare perlomeno qualche minuto per esplorare tattilmente l’intero perimetro, nonchè le persone e gli oggetti dalla stanza contenuti. Sicché noi utilizziamo la vista per tutto, essendo essa così veloce, completa e sintetica. La impieghiamo anche per ciò cui essa non è espressamente vocata: mangiamo con gli occhi, ascoltiamo la musica guardandone i video prima ancora della fruizione acustica, scegliamo un abito o un tessuto spesso valutandolo solo per come viene esposto in vetrina (accorgendoci dopo averlo indossato, dalle sensazioni tattili della nostra pelle, di aver acquistato un tessuto ruvido, pruriginoso e assolutamente inindossabile!). Possiamo, dunque, affermare di vivere in una cultura prevalentemente visiva, caratterizzata da una semeiotica prevalentemente visiva. Le nostre città, i nostri servizi, la diffusione delle informazioni di ogni genere avviene prevalentemente attraverso canali visivi (segnali, cartelloni, manifesti, segni grafici e scritte di vario genere, murales, graffiti, ecc.). Detto ciò, è pur vero che noi siamo esseri più autenticamente polisensoriali, e non soltanto vedenti; usciamo dalla “fabbrica” perfettamente programmati per conoscere e provare piacere (le due principali funzioni del nostro sistema multisensoriale) sia grazie al senso della vista, che a quello del tatto, dell’udito, dell’olfatto (il gusto ci vede tutti sempre ampiamente allenati!).
Che caratteristiche assume il senso estetico di chi non utilizza percezioni visive per fare entrare dentro ai suoi pensieri e alle sue emozioni il mondo sensibile? In realtà, così come le persone non vedenti e ipovedenti, anche i vedenti sanno riconoscere una bella voce e subirne il fascino, essere deliziati o disgustati da un buon profumo o da un odore sgradevole, conoscere la soddisfazione e pacificazione del gusto, riconoscere la conturbanza di un tocco e il garbo di una carezza o il piacere di stretta di mano. Il mondo portato ai sensi non visivi, il mondo tattile, uditivo, olfattivo, gustativo stimola e risveglia la costituzionale natura polisensoriale dell’uomo, ne affina le capacità di riconoscimento e localizzazione tattile, uditiva, olfattiva, nonché educa all’estetica non visiva, di cui tengono conto anche le persone che vedono, benché in maniera molto ridotta e generalmente grossolana, essendo massicciamente concentrate sull’estetica visiva. Ma noi siamo tutti, vedenti, non vedenti e ipovedenti, predisposti a percepire di percepire, predisposti cioè esteticamente. Ciascuno di noi è aesthetikos, cioè capace di sentire, con quella serenità che la natura ci insegna, che prescinde dall’ordine dei valori, confronti, giudizi, pregiudizi, ansie, frustrazioni culturali, che innescano invece lo stato patologico.
In una recente ricerca ho somministrato a 20 persone non vedenti adulte (congenite e divenute) un breve questionario esplorativo sull’estetica, il quale conteneva 12 domande, le cui risposte sono state successivamente catalogate in vari raggruppamenti. Alla domanda “Quando per te una cosa è bella” sono state date 6 risposte alle categorie fisiche, 8 a quelle morali, 6 a entrambe; alla domanda “Quando per te una cosa è brutta” sono state date 4 risposte alle categorie fisiche, 10 a quelle morali e 6 d entrambe; alla domanda “Quando per te una persona è bella” si contano 0 risposte alle categorie fisiche, 16 a quelle morali e 4 ad entrambe; alla domanda “Quando per te una persona è brutta” 2 risposte alle categorie fisiche, 16 a quelle morali e 2 a entrambe. Alle domande inerenti l’individuazione di caratteristiche sensoriali specifiche di cose e persone belle e brutte, sono state attribuite grandi valenze alle caratteristiche uditive (soprattutto “una bella voce”) e tattili per le persone, mentre per le cose grande rilievo ha assunto prima la tattilità e poi l’aspetto olfattivo (buono o cattivo odore, dalla grande capacità di attirare o respingere). Ancora, alla richiesta di individuare qualcosa di emblematico per le cose e per le persone belle, prevalgono nella bruttezza le caratteristiche fisiche per le cose, mentre per le persone quelle morali, e successivamente tanto quelle fisiche quanto quelle morali nella bellezza di cose e persone.
In generale, il campione esaminato sembra prediligere nettamente le categorie morali su quelle fisiche nella definizione di un personale vissuto di bellezza e bruttezza, in particolare se riferito alle persone rispetto alle cose. Ancora, sembra che una “bella o brutta voce” rappresenti una sorta di giunzione tra etica ed estetica. È infine sorprendente constatare come, nelle persone che hanno acquisito la disabilità visiva in epoche successive alla nascita, avvenga una graduale conversione alle caratteristiche sensoriali non visive quali parametri estetici, a ennesima dimostrazione della straordinaria plasticità dell’essere umano e della ricchezza della sua innata polisensorialità quale presupposto per la conoscenza e il piacere.

Progetto rugby, uno sport per tutti

“Abbiamo sempre pensato che giocare insieme e divertirci fosse la cosa più importante e il sorriso di tanti bambini e alcune bambine ce lo conferma a ogni allenamento o partita che disputiamo. Il rugby nelle sue caratteristiche di gioco di squadra unisce queste semplici cose”.

 La “propaganda” del rugby ha come punto di forza la possibilità di accogliere al suo interno ogni tipologia d’individuo “alti, bassi, grossi, magri” e questo perché per la peculiarità del gioco c’è veramente un ruolo per ciascuno, e viene descritto come “uno sport per tutti”.
In quest’ottica, essendo promotore della disciplina sportiva, il Rugby Reggio ha accolto la logica dell’universalità, accettando all’interno del club tutti coloro ne facciano richiesta. Inoltre, abbiamo accolto nelle nostre squadre anche persone con svantaggi fisici, psichici e difficoltà di inserimento sociale. A dire il vero il motore iniziale è stato quello dell’inclusione: ragazzi ingiustamente rifiutati da società sportive con velleità di successo trovavano uno spazio di gioco all’interno delle nostre squadre seguendo il principio della solidarietà.
Il crescente numero di partecipanti alle nostre attività in contesto scolastico ed extra-scolastico (scuole primarie, secondarie di primo grado e superiori, allenamenti nel campo di gioco) e il consolidarsi della loro permanenza all’interno del gruppo ha fatto fare alla nostra società quello che, alla luce della nostra esperienza, chiamiamo un salto di qualità.
Abbiamo quindi spostato l’intervento da una logica di inclusione a una logica di integrazione.
Cioè si è passati da un mero accogliere tutti (che implicava un adattamento dei soggetti alle caratteristiche del gioco, delle sue regole e di quelle della società) a una curiosità verso i singoli soggetti, facendo diventare le caratteristiche di ciascuno una risorsa per tutti, e ad allenare i ragazzi a vedere nello sport, come nella vita, la differenza come risorsa e non come handicap.
Il primo passo è stato costituire un’équipe psico-pedagogica composta da: Stefania Giansoldati, coordinatrice, allenatrice, educatore motorio-sportivo C.O.N.I; Alessandro Lasagni, allenatore, psicologo; Pasquale Commisso, allenatore, counselor, educatore professionale presso l’Ausl di Modena.
Al fine di programmare interventi più efficaci, l’équipe ha diviso il “Progetto rugby: uno sport per tutti” in tre sotto-progetti che riguardano in particolare gli stranieri e i soggetti svantaggiati: il “Progetto Stranieri” e il “Progetto Svantaggio”, e il “Progetto di Continuità con gli enti del territorio”.
 
Progetto stranieri: “stranieri come portatori di cultura”
L’integrazione succitata aderisce a regole ferree, non più stranieri che devono assorbire cultura, modo, linguaggio e regole del posto che li ospita ma stranieri che portano una cultura, un modo, un linguaggio e in base a queste imparano l’importanza di aderire alle regole del gioco. Un piccolostratagemma ci ha permesso di entrare un po’ di più nelle peculiarità dei singoli, abbiamo cominciato ad appendere cartelloni dove si scrivono le caratteristiche dei soggetti (alto, grosso, giovane, vecchio, biondo, castano, ecc.), gli attrezzi di gioco (palla, magliette, calze, ecc.), e “gioco a rugby perché…” nelle diverse lingue dei giocatori che militano nelle diverse categorie.
Grazie a questo progetto negli anni scorsi la squadra seniores ha organizzato cene a tema (argentine, samoane, ecc.) che hanno avuto il meritato successo.
Progetto svantaggio: “ l’armonia della squadra passa dalle caratteristiche del singolo”
In questo diventa indispensabile l’osservazione del singolo soggetto e, con l’aiuto dei genitori, la costruzione di una diagnosi delle abilità residue portandoci così alla costruzione di un progetto personalizzato.
Un impegno apparentemente gravoso che ci ha allenato a usare linguaggi e tecniche diverse e a ricordarci che per raggiungere l’armonia della squadra nel suo insieme non si può che passare dalle caratteristiche del singolo.
Al fine di promuovere lo sport attraverso il gioco del rugby, con finalità sociali e non solo di mera propaganda riportiamo i motivi che ci spingono a proporre i nostri progetti.
Sempre più spesso si riscontra nei bambini una grande voglia di contatto fisico che di frequente si manifesta con atteggiamenti molto aggressivi e di difficile controllo. La proibizione, il più delle volte, ha risultati solo a breve termine e quindi noi educatori (insegnanti e allenatori) cerchiamo metodi didattici che favoriscano una graduale presa di coscienza, da parte dell’allievo basata sul fare, sulla sperimentazione concreta. Cerchiamo di far gradualmente prendere coscienza delle situazioni conflittuali nelle quali il ragazzo si viene a trovare, sulla capacità di capire e utilizzare le proprie risorse e sulla presa di coscienza dei propri limitie del significato della convivenza, in modo che l’allievo interiorizzi modalità adeguate di comportamento.
Il gioco del rugby permette di partire da una situazione-gioco molto naturale per i bambini: giocare a palla, correre, buttarsi a terra, spingersi, per poi essere aiutati a elaborare regole di gioco e di rispetto per l’altro compagno o avversario che sia. In questo modo si soddisfa il bisogno di contatto fisico del bambino, in qualche misura liberatorio, all’interno di una situazione controllata dall’adulto che lo sostiene nella fase di superamento dell’egocentrismo infantile. Parallelamente attraverso l’attenzione ai suggerimenti, gli incitamenti, le esortazioni dei compagni e dell’allenatore/insegnante si rinforza la capacità di ascolto.
Il gioco del rugby, come molti giochi di squadra, aiuta a conquistare il concetto di spazioe ditempo,in relazione a se stessi, agli altri e al contesto in cui l’allievo è inserito.
Infine non va dimenticato l’aspetto “promozionale” di uno sport ancora poco conosciuto anche se presente e radicato nel territorio della nostra provincia.
In questa logica è compito dell’allenatore fornire a ogni educatore interessato gli strumenti e la consulenza adeguata per continuare autonomamente l’attività.
Progetto di continuità con gli enti del territorio
Il progetto continua nell’idea dell’integrazione-gioco:
  • estendendolo alle scuole del territorio, oltre che ai soggetti portatori di un qualsivoglia svantaggio;
  • entrando nelle realtà educative principali, che sono la scuola e la famiglia;
  • cercando altresì di migliorare l’offerta motorio-sportiva delle nostre realtà territoriali;
  • generando una sorta di continuità educativo-sportiva per la fascia di età 6-12 anni, grazie alle attività invernali ed estive della nostra associazione.
È così iniziata una vera interazione (nel territorio di Reggio Emilia) tra alcune Scuole primarie, i Gruppi Educativi Territoriali e la A.S.D. Rugby Reggio.
L’idea è quella di dare una continuità e far crescere questa collaborazione/interazione; questo potrà verificarsi unicamente con la disponibilità delle necessarie risorse economiche.

Per saperne di più:
www.rugbyreggio.it

Una casa per volare

Bruna è un’amica del Centro Documentazione Handicap di Bologna.
Un paio di anni fa ci ha telefonato ed è venuta a conoscerci, voleva parlare con Claudio Imprudente per avere un confronto e invitarci ad andare a trovarla in Africa. Ricordo molto bene quel giorno.
Seguiva di un paio di settimane un nostro viaggio a Belgrado, dove ci eravamo recati per parlare di de-istituzionalizzazione e integrazione.
Fu molto interessante perché, mentre raccontavamo a Bruna del grande passo che la Serbia stava facendo decidendo di chiudere gli istituti e perseguire quindi una reale integrazione, lei ci riportò con i piedi per terra con questa frase: “Magari avessimo degli istituti in Tanzania!”.
Una volta ancora, la vita ci mostrava che ha molte più sfumature di quelle che noi immaginiamo e, mescolando le carte in tavola, rivelava che, ciò che da una parte può sembrare un limite all’integrazione e alla dignità personale, da un’altra è una risorsa e uno strumento per accrescere l’accoglienza e l’accettazione.
Ecco allora che il rapporto instaurato con Bruna e l’associazione Nyumba Ali, assume importanza in quanto portatrice di un nuovo punto di vista, di quel caos buono che, mostrando altre sfaccettature della realtà, porta a una visione più completa della vita.
Ma conosciamo un po’ meglio, attraverso il sito e alcune e-mail che ci ha inviato, Bruna e la sua associazione.
“Il nome della nostra Associazione indica il legame tra la realtà italiana e quella tanzaniana. ‘Nyumba’ in kiswahili significa ‘casa’, mentre ‘Ali’ è parola italiana: una casa con le ali, quindi, per far volare in sicurezza anche chi ha solo un sorriso col quale affrontare la vita.
Abbiamo realizzato una casa perché crediamo che la garanzia di cibo, letti e assistenza sia indispensabile, ma vogliamo anche favorire lo sviluppo delle potenzialità rimaste inespresse e il riappropriarsi della dignità di persona, insegnare a leggere, a scrivere, a disegnare, ad avere libertà di espressione”.
L’Associazione nasce dall’intuizione e dalla volontà di Bruna e Lucio “di trascorrere l’ultima parte della loro giovinezza dedicandosi ai più diseredati dei diseredati, alle bambine handicappate di un Paese in cui il valore e i diritti dei bambini, anche maschi, sono in genere misconosciuti.
Nasce così nel 2006, dopo alcuni anni di gestazione, la casa per volare… In poco tempo la famiglia si è allargata, è stato assunto personale locale, che stiamo preparando in modo adeguato. Uno degli obiettivi è infatti quello di rendere in futuro la gestione della casa indipendente dalla presenza dei volontari stranieri dell’Associazione e di convogliare attenzione e opere dei locali sul problema dei bambini con handicap”.
La vita di una casa è fatta soprattutto di storie, quelle delle persone che la abitano e che portano Bruna e i suoi compagni di avventura a incontrare ogni giorno le difficoltà ma anche le speranze di un paese come l’Africa. Attraverso le e-mail che ci inviano da Iringa, anche noi ci sentiamo abitanti di quella casa, conviventi di un mondo che ci appartiene anche se distante.
“Venerdì si presenta al cancello Rosamunda, sorella di Ageni, gonna e maglietta pulite, ai piedi una valigetta tutta rotta. Come la sorella, ha terminato la scuola primaria… È partita dal villaggio per andare a Mbeya, città dove vivono degli zii presso i quali starà presumibilmente per molti anni. Deve prendere la corriera, ma non sa dove andare e non ha il numero di telefono dello zio. Il cervello elabora rapidamente soluzioni che si riveleranno tutte inadeguate. Ageni però ha il numero di cellulare dello zio. Rosamunda non capisce la telefonata, sempre con gli occhi a terra e bisbigli incomprensibili. Interviene Ageni, parla con lo zio e il programma è chiarissimo: Rosamunda deve andare all’incrocio con la strada che porta al villaggio natio, fermarsi a dormire a casa di un certo Focas e l’indomani prendere il bus per Mbeya. E come raggiungerà il villaggio?
Guardo questo piccolo scricciolo spaurito e so che non sarò capace di mandarla via, io vedo una bimba di 13 anni, gli altri una donna capace di badare a se stessa e ai fratelli. Carico la tribù in auto e parto per l’incrocio fatidico, durante la strada Rosamunda parla in continuazione con la sorella, entrambe ridono e si raccontano storie sui fratelli. Raggiungiamo l’incrocio: tre baracche, una adibita a spaccio d’alcool, donne e uomini che ci tempestano di domande, ma Focas dov’è? Racconti di abusi, storie di bambine sfruttate affollano la mia mente. L’affido a una donna (il vecchio vizio di credere che le donne siano sempre migliori), cincischio sotto sguardi che non so interpretare e finalmente arriva Focas, berretto giallo calato a coprire la fronte, oddio non mi fido! Telefoniamo allo zio, lo facciamo parlare con Focas, mi riprendo, saluto tutti e salgo in macchina, ma prima devo pagare il tributo al villaggio: portare in città due “professori” della scuola. Ageni è tranquilla e mi racconta tutti i pettegolezzi della sorella. Che abisso tra Rosamunda che attraversa da sola la Tanzania, sbattuta tra un Focas e l’altro e le nostre tredicenni. Sabato Ageni ha telefonato agli zii, Rosamunda era giunta sana e salva”.
“Sono finalmente stati pubblicati i risultati degli esami dell’ultimo anno della primaria: Ageni è stata promossa e accettata in una delle tre scuole statali che aveva indicato come scelta. Per precauzione l’avevamo iscritta in una scuola privata e aveva già passato l’esame d’ammissione, ma ora che c’è la possibilità di una scuola pubblica semigratuita pensiamo che si debba tentare, domani andremo a visitarla e a prendere tutte le istruzioni del caso… Confesso di temere l’ingresso di Ageni nella secondaria, so che non riuscirò a tacere quando l’insegnante di matematica sosterrà che l’area del triangolo isoscele si trova moltiplicando lato per lato e poi dividendo per due, so che mi verrà mal di fegato, so che non accetterò definizioni sbagliate e l’uso del bastone come prassi didattica quotidiana, so che non riuscirò a fingere rispetto per gli insegnanti, so che combinerò dei guai”.
“Ageni ha superato l’esame di settima e conquistato il diritto di frequentare una secondaria tra quelle da lei indicate: a pagamento solo la divisa e una modesta tassa scolastica. L’istituto pubblico cui è stata assegnata, però, è irraggiungibile sia con la carrozzina sia con il fuoristrada; è tra le carceri e l’ospedale (scelta simbolica?), giù per un dirupo che si può affrontare solo a piedi: da un lato una sbarra, che impedisce di passare davanti alle carceri, dall’altro lo steccato dell’ospedale con un piccolo cancello pedonale.
Perché Ageni ha indicato una scuola irraggiungibile?
Perché l’hanno scelta i compagni, perché è una scuola nuova, perché non c’è un perché.
Bisogna chiedere un cambio d’istituto, senza possibilità di scelta, l’ennesima decisione da prendere in tempi rapidi e senza informazioni: quale scuola? Lontana? Quali e quante barriere? Qualità?Alla fine abbiamo scelto il certo al posto dell’incerto.
Ricordate che Ageni aveva superato l’esame per entrare in una scuola privata? L’abbiamo iscritta lì e solo dopo l’iscrizione abbiamo capito che era molto felice di frequentare quella scuola, prima non aveva mostrato alcun gradimento o desiderio. A settembre, quando l’ho accompagnata a parlare con la preside, mi ha tenuto il muso tutto il giorno, refrattaria, come sempre, a qualsiasi nostro tentativo di comprendere. Ora vivo più serenamente perché ho capito che, anche senza la mia interpretazione, umor nero, silenzi e musi lunghi se ne andranno.
Dopo un notevole salasso economico, la scuola è iniziata e per ora tutto procede bene, molto bene. Ieri Ageni è tornata a casa con un sacco pieno di saponette, matite, penne, quaderni, frutto di una colletta tra tutte le studentesse. È il primo, concreto, gesto d’aiuto che riceviamo da quando siamo qui. Ageni era felice e noi con lei: sapone, penne, quaderni, colletta sono un importante segnale.
Abbiamo scritto una lettera di ringraziamento e ci gustiamo la gioia di ricevere un dono, dopo anni di richieste di tutti i tipi”.“Sahele è un bimbo Down, è venuto da noi l’anno scorso, incontenibile e ingestibile perché la mamma gli lascia fare qualunque cosa purché stia buono. La richiesta: vivere in casa nostra ma l’obiettivo della madre non era l’inserimento, era liberarsi di lui per tutto il giorno e forse per la vita intera. E così Sahele spesso non veniva accompagnato a scuola e la madre, a intervalli regolari piombava a casa nostra con richieste di tutti i tipi. Sahele, come altri bambini, non è amato dalla madre. Dopo varie ricerche abbiamo trovato una scuola-collegio statale per bambini con disabilità mentale e visiva, siamo andati più volte a visitare il centro e ogni volta abbiamo trovato una situazione che in Italia farebbe urlare di protesta, ma che qua è più che accettabile.
Abbiamo caricato in auto Sahele, la mamma, un materasso, un bidone, una zanzariera e siamo andati per il colloquio con lo psicologo che, scoperto che la donna bianca avrebbe pagato la retta, ha accettato l’iscrizione.
E il miracolo: nella scuola-collegio statale si entra senza materasso e senza pagare nulla, solo pochi spiccioli per il barbiere e il sapone! Non è possibile, Lucio e io ci siamo guardati in attesa della richiesta di soldi sotto forma subliminale, niente! Gratuiti persino quaderni, penne e righello, senza il quale non si può imparare nulla.
La mamma se ne va senza salutare e Sahele piange disperato, la mamma lo accompagna in bagno, chiude la porta e se ne va. Siamo ritornati con il materasso e una mamma che sembrava contenta di non avere più un peso da portare.
Per Sahele è iniziata una nuova fase, non sappiamo se meglio o peggio, ma speriamo possa imparare a fare piccoli lavoretti.
Ho sempre creduto nell’istruzione, nella formazione, ho sempre pensato che la scuola sia necessaria come la Costituzione e da quando vivo a Iringa sono ancora più convinta che il senso critico, la curiosità, la conoscenza siano le fondamenta dello sviluppo, qualunque cosa questa parola abusata significhi.
Un abbraccio
Bruna”.

L’esperienza di Bruna, come quella di tutti coloro che vivono realtà di confine, ci porta a confrontare la realtà e l’ideale. Scopriamo così che l’ideale senza la realtà diventa illusione ma la realtà senza l’ideale diventa disperazione. Ecco allora che Bruna, Lucio e la loro Nyumba Ali sono esempio, per tutti noi, di una realtà che vola sulle ali dell’ideale, quello di permettere a tutti una vita dignitosa e integrata.

Via della Casa Comunale N°1

Quando sopravvivi a tutto […] restano veramente poche le cose che possano farci paura, ogni tentativo di essere felice ha il sapore disperato dell’ultima volta e allora ti butti senza chiederti come ne uscirai, perché mal che vada il peggio è già accaduto.
(Stefano Bruccoleri, Via della Casa Comunale N°1, Edizioni Senza Dimora, 2009, pag. 2)
Stefano Bruccoleri è uno scrittore di 42 anni. Oltre a un libro che sta promuovendo in giro per l’Italia, ha un suo blog in internet e svolge anche un’attività di giornalista con una serie di interviste fatte con il telefonino dal nome Ciclo Interviste. Ma ciò che rende particolare l’esperienza di Stefano è che da sei anni non ha un tetto sulla testa e la promozione del suo libro, frutto delle esperienze fatte in questi sei anni e raccontate nel blog, la fa utilizzando come unico mezzo di trasporto una bicicletta attrezzata con un carrellino e una tenda.
Parla con piglio deciso ed estrema consapevolezza del suo ruolo di promotore e scrittore. Racconta nel suo libro vicende degne di Kerouac e lo fa con il linguaggio crudo della strada tipico di scrittori come Bunker e Welsh, pur dichiarando – in un capitolo del libro stesso – che gli scrittori che in qualche modo hanno segnato la sua vita sono altri. Ha una vita dura, ma parla e scrive con molta ironia, senza mai annoiare. Spiega che in America è un’abitudine ormai consolidata per gli homeless avere un blog, ma che in Italia lui è stato il pioniere. Va fiero di questo e per gli altri senza tetto sa di rappresentare qualcuno che in qualche modo ce l’ha fatta. Perché nell’epoca del mito dell’uomo che si è fatto da solo, lui lo è veramente.

Questo è il tuo primo libro, frutto di una raccolta selezionata del tuo blog. Cosa è per te questo libro?
Il libro è come un mio diario personale. È quello che potresti trovare sul comodino vicino al mio letto se avessi una casa. Leggendolo ci sono le mie esperienze personalissime. Non è scritto in un linguaggio politico, ma ne faccio una questione politica. Per quanto lo stile è quello del diario, nel libro sono raccontate esperienze comuni a molti di quelli che si trovano nella mia condizione di senza dimora.
Essendo qualcosa di così personale, è stato difficile scriverlo?
Scrivere qualcosa di autobiografico è davvero doloroso, un’esperienza allo stesso tempo terapeutica e dolorosa. Io già scrivevo, ma avevo bisogno di non perdere le mie relazioni, il rischio maggiore che si corre quando perdi una casa. Ho aperto allora una finestra sul web, per questo e per sopperire al bisogno di scrivere, di svuotarmi, di reagire allo sconcerto di aver perso casa e lavoro. Ho seguito inizialmente questo impulso.
Cos’è che secondo te colpisce i tuoi lettori invogliandoli a leggerlo?
I lettori sono abbastanza trasversali, ci sono altri senza dimora che lo vedono come un punto di riferimento, ci sono ovviamente le persone che lavorano nel sociale e quindi sensibili a determinate tematiche, ma anche persone comuni, che scoprono di non essere così lontane da me, che io parlo il loro stesso linguaggio e che condividiamo gli stessi riferimenti culturali e sociali. Il muro tra la mia realtà e quello del lettore viene allora completamente infranto. Lo scalone sociale viene a mancare e il lettore viene automaticamente portato a pensare e a esser consapevole che “può capitare anche a me”.
In copertina l’editore è riportato sotto la dicitura Edizioni Senza Dimora. Cosa sono?
Ovviamente non esistono, sono un nome fittizio. Io mi affido per scrivere e comunicare alla semplicità del web. Ma quelli che io considero i miei editori sono proprio le persone che comprano il mio libro e seguono il mio blog. Sono essi stessi che spesso mi danno gli strumenti per accedervi, regalandomi vecchi portatili in disuso, penne internet.
Cosa è cambiato per te da quando sei diventato uno scrittore?
Mentre prima ero vulnerabile in qualche modo, ora i rapporti con gli altri sono paritari. Dall’eterna promessa del “fare” – quel ragazzo ha le capacità, potrebbe fare questo e quello – sono passato ad aver fatto. Pur non essendo diventato uno scrittore attraverso i percorsi consolidati, ma sfruttando quelli laterali della mia situazione e pur non avendo un titolo di studio maggiore alla terza media, sono a tutti gli effetti uno scrittore. Mi sono guadagnato il mio livello di rispetto, ho riscattato la mia dignità attraverso il mio costante lavoro. Se un poliziotto mi ferma, cosa che comunque capita raramente, posso dirgli che sono uno scrittore. E per quanto questi possa reagire in modo un po’ incredulo inizialmente, ho il mio libro con cui dimostrarlo.
Cos’hai trovato nei dormitori e nei centri diurni, quando ti sei trovato senza casa e senza lavoro?
Ho trovato molti poveri come tossicodipendenti o extracomunitari. Ma anche facce pulite: i nuovi poveri. Persone che fino a poco prima avevano una casa, un lavoro, un televisore e una cravatta. I dormitori sono pieni di persone che provengono dalla “normalità” e che improvvisamente l’hanno smarrita. Se non si hanno solide basi familiari, o si è una persona anziana che vive da sola, perdere il lavoro può significare finire in strada.
Com’è il tuo rapporto con gli altri senza tetto?
Il rapporto con gli altri senza dimora è certamente buono e di reciproco rispetto, pur non essendo le uniche persone che frequento. In qualche modo mi vedono come quello arrivato, come un punto di riferimento a cui ispirarsi. In qualche modo la mia personale consacrazione è avvenuta quando sono stato invitato a parlare e presentare il mio libro a una conferenza di responsabilizzazione sugli adulti in difficoltà a Torino. Anche se sulla carta di identità poi ho ancora l’indirizzo fittizio che i senza tetto del comune di Torino hanno e che ha dato il titolo al libro, Via della Casa Comunale N°1.
Ti piace la vita che fai, o vorresti fermarti?
Mi piacerebbe rimbambirmi davanti a un televisore con ai piedi delle belle pantofole di velluto a coste. Ma ciò non è possibile. Ho constatato che i servizi sociali sono pressoché inesistenti e incontattabili e la mia unica fonte di entrata fissa è una pensione per invalidità civile di 200 euro che percepisco perché ho contratto l’HIV. Dovendo contare solo su di me per riscattarmi, non posso quindi fissarmi obiettivi a medio o lungo termine. Pedalo promuovendo il mio libro, ma non so dove sarò tra più di due giorni. Al momento in qualche modo mi sento realizzato: ho la mia autonomia dignitosa e persone che mi accolgono, se non offrendomi ospitalità in casa, cenando con loro in pizzeria.

Musica per tutti: i dispositivi per l’esecuzione e la composizione musicale

Suonare uno strumento è spesso uno dei compiti più complessi per chi presenta gravi deficit a carico degli arti superiori. Le tecnologie assistive permettono tuttavia di superare, almeno in parte, le limitazioni funzionali, consentendo alla persona di poter beneficiare della ricchezza creativa ed espressiva dell’esperienza musicale.
Cominciamo la nostra rassegna con un sistema messo a punto in Australia, Sound House Special Access Kit, composto da una tastiera elettronica a 16 tasti di grandi dimensioni (Banana Keybord) e da un software musicale che permette di accedere a funzioni di riproduzione musicale (ad esempio di brani pre-registrati da utilizzare come base durante l’esecuzione dell’attività) e di memorizzare le esecuzioni dell’utente.
Sound House Special Access Kit è stato applicato in contesti terapeutici e riabilitativi, soprattutto in attività di gruppo. L’abbinamento software e tastiera consente di utilizzare, oltre a suoni di tipo tradizionale (come ad esempio strumenti a fiato e a percussione), anche rumori o altri suoni tipici dei contesti di vita quotidiana; quest’ultima particolarità permette di utilizzare questo strumento anche in altri tipi di attività, oltre a quelle musicali, come ad esempio quelle teatrali.
Il programma in dotazione consente inoltre di visualizzare, durante l’esecuzione musicale, delle immagini che rappresentano visivamente, attraverso dei fuochi d’artificio dinamici, la musica suonata in quel momento con la tastiera. La tastiera può anche essere collegata a sensori esterni.
Simile a una tastiera è anche lo strumento tattile MidiMate (facilmente posizionabile, per le ridotte dimensioni, sul vassoio di una carrozzina) costituito da un box con 8 tasti ricoperti da superfici di materiali diversi che assicurano un’ottima stimolazione sensoriale e si adattano anche alle esigenze di persone con deficit visivo. La tastiera MidiMate funziona come periferica di accesso a una tastiera digitale MIDI (Musical Instrument Digital Interface) che deve essere acquistata separatamente e attraverso la quale è possibile l’esecuzione di una grande varietà di accordi e melodie.
Si adatta, invece, alle esigenze di utenti con gravi limitazioni motorie a carico degli arti superiori Magic Flute, un dispositivo progettato per consentire di suonare musica elettronica dal vivo ad alta qualità professionale.
Magic Flute si compone di un sensore attivabile attraverso il soffio o l’aspirazione e da una centralina dotata di display sulla quale compaiono i comandi (note musicali, tipo di strumento, ecc.) attivabili attraverso il sensore.
Questa modalità di accesso permette di usare Magic Flute, oltre che come strumento musicale accessibile, anche come ausilio per la riabilitazione per permettere a persone con insufficienza polmonare di eseguire esercizi respiratori in modo piacevole e gratificante.
A seconda della forza del soffio o dell’aspirazione, un software specifico (Breath Controller), contenuto nel dispositivo, comunica attraverso un messaggio la forza dell’atto respiratorio valutata su di una scala da 1 a 127.
È invece basato sull’uso di più sensori a pressione (se ne possono collegare fino a 5) Quintet, un prodotto utilizzabile con bambini e adulti che debbano essere familiarizzati con la musica.
Si tratta di un ausilio che riproduce elettronicamente il suono di 32 diversi strumenti musicali e che può essere applicato anche a supporto di percorsi riabilitativi che prevedano un addestramento all’uso dei sensori.
È inoltre possibile utilizzare Quintet per attività musicali di gruppo.
Il software di questo dispositivo mette a disposizione dell’utente una collezione di brani musicali pre-immagazzinata e permette inoltre di registrare e memorizzare le proprie composizioni (sequenze di note o accordi).
Tecnologicamente molto più avanzato è invece il sistema Soundbeam, progettato negli anni ’80 come sistema musicale d’avanguardia impiegabile in performance di danza o in installazioni museali e in seguito utilizzato come supporto terapeutico per persone con disabilità motoria oltre che in casi come l’autismo, la sindrome di Down, la sindrome di Rett e l’Alzheimer.
Il sistema Soundbeam si compone di un sensore che emette degli ultrasuoni in un raggio fino a 6 metri. Gli ultrasuoni intercettano i movimenti della persona (qualunque tipo di movimento) commutandoli in suoni digitali modulati sulla base dell’ampiezza, della velocità e della direzionalità dei movimenti stessi.
Per mezzo di un software questi suoni possono assumere caratteristiche diverse, riproducendo strumenti musicali o altro.
Non si tratta di un vero e proprio strumento musicale, ma di un software accessibile da parte di utenti con gravi deficit motori, il programma SwitchJam, che permette di suonare brani rock, jazz e funk pre-registrati.
Switch Jam è pensato per un uso di gruppo ed è quindi interessante come strumento di didattica inclusiva.
Può essere utilizzato sia con dei sensori esterni connessi al computer, che per mezzo della tastiera riconfigurabile Intellikeys, per la quale fornisce degli overlay (schede applicabili sulla tastiera contenenti un numero variabile di tasti) pronti.

Software per la composizione
Come è noto, attualmente i personal computer, per mezzo di opportuni strumenti di interfaccia sia hardware che software (tastiere speciali, dispositivi di puntamento alternativi al mouse, sistemi a scansione, o altri sistemi come il puntamento oculare) possono essere utilizzati anche nei casi di disabilità motoria gravissima.
Alcuni software sono stati specificamente progettati per essere accessibili per mezzo di sistemi d’accesso alternativi.
È il caso di Compose World Create, un software educativo progettato per essere utilizzato nelle scuole all’interno di percorsi di educazione musicale. Si tratta di un programma che, grazie al suo completo sistema di scansione, è accessibile anche da parte di chi utilizza uno o due sensori per accedere al computer, così come per chi utilizza tastiere riconfigurabili.
Il software dispone inoltre di una sintesi vocale, una funzione particolarmente utile per bambini che presentino oltre al deficit motorio, disturbi della vista o difficoltà di coordinamento oculare.
Il programma, pensato per soddisfare i criteri del curricolo musicale della scuola primaria (esplorazione del ritmo e degli accordi musicali, scrittura di una canzone, narrazione di una storia attraverso la musica) e della secondaria di primo grado, permette di comporre melodie, armonie e ritmi attraverso l’assemblaggio di note e frasi musicali rappresentate, anziché dal consueto sistema di notazione, per mezzo di grafiche semplici e accattivanti che devono essere selezionate e trascinate su di un’apposita griglia.
Citiamo anche il programma E-scape, un software messo a punto dal progetto anglosassone Music Drake, che permette anche a persone con gravi disabilità motorie e con poche conoscenze musicali di comporre e suonare musica in modo indipendente utilizzando come periferica di accesso: uno o più sensori (il programma ne supporta fino a 4), una tastiera, un mouse a trackball a joystick, uno strumento musicale MIDI (come ad esempio tastiere o batterie elettroniche).
Diversamente dal software precedentemente descritto, E-Scape per la varietà e la complessità delle sue funzioni, si presta a essere utilizzato con adulti.
Infine, sempre pensando a un’utenza adulta, ma con minorazioni visive, è in commercio un software, Braille Music Kit, che consente di comporre musica in Braille utilizzando la tastiera del proprio PC. Studiato appositamente per persone cieche e basato sulle regole del Manuale Internazionale di Notazione musicale Braille dell’Unione Mondiale ciechi, Braille Music Editor si compone di diversi moduli che consentono di riconoscere i principali segni musicali in formato Braille, ascoltare la musica che è stata editata, convertire un file musicale scritto in Braille in un altro formato stampabile in nero attraverso il programma Finale, convertire file musicali realizzati con il programma Finale in Braille.

Conclusioni
Riteniamo che le soluzioni indicate, opportunamente valutate sulla base delle caratteristiche della persona, possano essere un mezzo efficace per lo sviluppo di abilità artistico-espressive.
In generale l’adozione di strategie che rendano possibile l’esecuzione autonoma di attività musicali è una strategia in grado di promuove a più livelli la partecipazione della persona, pensiamo ad esempio all’ambito educativo e alla possibilità di proporre a bambini con disabilità motoria e visiva di partecipare alle attività di didattica della musica o alla possibilità di partecipare all’interno della propria comunità ad attività artistiche e musicali di diverso tipo.
Le tecnologie assistive offrono inoltre un valido supporto in ambito riabilitativo, pensiamo al caso della musicoterapica e della terapia occupazionale.
Come si è avuto modo di vedere il confine tra strumenti per la composizione e strumenti per l’esecuzione è molto labile se si fa riferimento all’insieme dei dispositivi elettronico-digitali.
Molti strumenti per l’esecuzione permettono infatti di comporre e viceversa.
Certamente le difficoltà più consistenti si riscontrano nell’esecuzione dal vivo, qualora questa sia affidata a sistemi per loro natura molto lenti, come ad esempio la scansione.
Sistemi di ultima generazione come Soundbeam, che utilizza la motricità residua dell’utente, sembrano in parte superare questo limite, permettendo alle persone con disabilità di eseguire performance musicali ricche e strutturate.
Occorre comunque considerare che questi sistemi richiedono un periodo di addestramento preliminare affinché l’utilizzatore possa al meglio sfruttarne le potenzialità.

Volontari dell’Università di Terni: Simone Fratini, Riccardo Palladino

Assistente tecnico riprese e postproduzione:Marco Coppoli
Montaggio: Francesco Locci
Responsabile e curatrice del progetto:Luana Conti
Produzione: Ce.S.Vol. Terni
Nazionalità: Italia
Anno: 2004
È possibile richiedere il DVD al Ce.S.Vol. di Terni

Indietro con Segre, avanti con Segre: il ruolo del pigiama

La cadenza trimestrale della rivista e l’inaccessibilità strutturale, endemica a determinati film, l’impossibilità di fruirne in Italia e, quindi, di scriverne, diventano involontariamente condizioni che legittimano una certa inattualità di questa rubrica. Raramente potremo godere di una piena contemporaneità tra visione e critica di una pellicola, almeno per quanto riguarda determinati titoli.
Spesso proprio quelli ai quali, fidandoci di quanto scritto da altri (più fortunati di noi), ci piacerebbe dedicare uno spazio di critica e riflessione, perché presumibilmente sono proprio quelli che ci interrogherebbero con maggior forza e ostinazione, con maggiore urgenza e in cui il “potere” del cinema si esprimerebbe in modo più pieno. Insomma, gestiamo una sorta di libertà coatta o, quantomeno, a posteriori: sapendo cosa non posso fare, sapendo che non potrò fare, determino cosa sono libero di fare. Pure una ricerca paziente e testarda e la disponibilità di molti cineasti e case di produzione ci porta a conoscere numerosi lavori, alcuni dei quali davvero significativi e realizzati con grande scrupolo tecnico e formale, altri in cui questo elemento risulta evidentemente meno curato e sviluppato, ma che sono in grado di colpirci, emozionarci, fornirci strumenti di lettura della realtà inaspettati, ispirarci, informarci.
Cito tre film recenti, CIMAP! (di Giovanni Piperno), L’isola dei sordobimbi (di Stefano Cattini) e Allegro Moderato (di Patrizia Santangeli), il quale prosegue un lavoro di documentazione già iniziato, nel 2006, da Il sesto rigo di Raffaella Pusceddu, relativo alle attività e alle personalità dell’orchestra Esagramma di Milano. Però, proprio per riprenderci e sfruttare a pieno (il pieno che ci è consentito) la libertà di cui parlavamo sopra, dedichiamo questa rubrica a un lavoro di qualche anno fa di Daniele Segre, Vestiti di Vita (2004). Precisiamo subito che il film non è di Daniele Segre, quanto il frutto di un’attività laboratoriale collettiva “orchestrata” dal regista piemontese. Il film, infatti, è stato realizzato dagli utenti e dagli operatori del centro diurno “Marco Polo” di Terni secondo le modalità che vedremo successivamente.
Come scrive Stefano Rulli nel libretto che accompagna il DVD di Vestiti di Vita “il cinema è stato in alcuni casi strumento di auto-rappresentazione delle stesse persone con problemi psichici. E qui appare centrale l’esperienza di Daniele Segre che da ManilaPalomaBianca, a Sto lavorando? e A proposito di sentimenti è riuscito a sviluppare un cinema molto intimo e personale proprio nel mettersi a disposizione del mondo ‘altro’ di persone apparentemente incapaci di raccontare se stesse. Trovare un punto di equilibrio artistico tra l’espressione della propria interiorità e il rispetto di quello della persona intervistata, soprattutto se resa più indifesa da una fragilità psichica è un’esperienza ad altissimo rischio”.
Quello che stupisce nei lavori di Segre è proprio la naturalezza con la quale sembra affrontare questo rischio, svolgere gli “argomenti” dei suoi film ed entrare in rapporto con il “materiale umano” che popola e anima i suoi lavori. Che ci si mostrano, che guardiamo nella loro trasparenza. Non ci faccia perdere di vista, questa trasparenza, l’intenso e puntuale lavoro preparatorio sotteso a ognuno dei suoi film. Anzi, spesso palesato dalle scelte di regia e montaggio di Segre, ma che, nonostante o proprio grazie a questo, resta come in secondo piano, lasciando il dato “naturale”, l’oggetto della ripresa/visione in superficie. In questo caso, peraltro, il percorso realizzativo e (post)produttivo è particolarmente articolato e differisce da quello che ha caratterizzato altre pellicole del regista. E torniamo al punto di prima, ovvero alle modalità di realizzazione di Vestiti di Vita, che rappresentano un interessante modello di esperienza di laboratorio, per gli argomenti e la materia trattata, in campo socio-educativo, e per l’approccio metodologico.
Il laboratorio e il video di documentazione finale, come scrive Luana Conti, curatrice del progetto, dovevano “rappresentare un esempio di uso sociale dell’audiovisivo da utilizzare come occasione di formazione per il mondo del volontariato e come stimolo ad aggiornare e sperimentare nuovi e inusuali strumenti di lavoro”.
Segre decide di integrare gli operatori del centro “Marco Polo” con pari trattamento degli utenti all’interno del laboratorio: questa scelta si rivela un elemento fondamentale di tutto il percorso e dello stesso prodotto conclusivo. Propone anche di far ruotare tutto il laboratorio attorno al cambio di abiti e ambienti, suggerendo una lista di oggetti da portare all’interno della sede del centro come possibili “generatori di contesto”. L’idea è quella di smuovere, senza scardinarli, routine, ruoli e immagini consolidati all’interno del centro, introducendo degli “elementi dissonanti” che possano, appunto, innescare dinamiche nuove e imprevedibili. È questa la ragione per cui, nel corso del documentario, vediamo operatori e utenti del “Marco Polo” dapprima in pigiama, poi in abiti civili, poi ancora in eleganti vestiti da sera. Allo stesso tempo, questa scelta fornisce un elemento ritmico evidente e riconoscibile alla narrazione e un cardine al racconto. Si pone, quindi, come creatrice di senso, di significati potenziali, latenti, di contesto e di forma.
Secondo quanto viene ricostruito nel libretto che accompagna il DVD (materiale descrittivo e diario di viaggio molto interessante e stimolante), le riprese sono iniziate in abiti civili, con una “foto di gruppo” dalla quale, uno alla volta, i componenti emergevano per presentarsi e affermarsi come soggetti singoli. Successivamente la presentazione è proseguita in circolo e ognuno ha esposto “ciò che sa fare”, storie quotidiane, passioni, abitudini. Cambiando luogo/scena e indossando il pigiama, ci si è avvicinati ad aspetti più intimi delle persone coinvolte nel laboratorio. “Come ti senti in pigiama? Quali ricordi ti evoca il pigiama? E questo pigiama in particolare?”. Domande semplici che dovevano stimolare ricordi, immagini ed evocare altri luoghi e persone, legami, le difficoltà passate, quelle presenti.
La foto di gruppo in pigiama accompagna poi i partecipanti verso un’altra situazione, la rappresentazione collettiva di vari stati d’animo: il risveglio, la risata, la rabbia, la tristezza. La stanza diventa un luogo carico di emozioni. Una forte energia passa dall’uno all’altro: si crea un terreno di condivisione significativo tra persone che, se quotidianamente convivono, non per questo si “frequentano”, si condividono, si dedicano all’altro. O, meglio, spesso questa condivisione avviene entro strutture, griglie rigide che escludono e proteggono da certi livelli di conoscenza reciproca. Le riprese sono continuate con la sfilata delle donne in pigiama e i commenti degli uomini in fila, pronti ad accoglierle. Poi, in un angolo arredato con un letto, un comodino e un quadro sullo sfondo, a turno i partecipanti hanno raccontato i sogni della notte precedente e quelli più ricorrenti. Anche qui l’intento era quello di cercare, attraverso l’espressione di qualcosa di sé, delle corrispondenze, delle risonanze con e negli altri, un’apertura di se stessi e verso un nuovo rapporto con se stessi. Dall’individuale al collettivo, di nuovo: un girotondo, momento armonico e ludico.
Al centro del cerchio, chiuso dalle mani intrecciate degli altri, ognuno allora trova la forza per dare un nome alle proprie paure e ai propri bisogni. L’ultima serie delle riprese è stata dedicata alle persone in abiti eleganti: dapprima i partecipanti hanno fatto sfoggio delle rispettive mises, poi, dopo una seconda passerella/presentazione, questa volta più convinta, sicura della prima, si è passati alla rievocazione singolare di momenti in cui ci si è vestiti in modo elegante, in occasione di cerimonie, feste, per andare in sala da ballo…
Molto interessante anche il modo in cui è avvenuto il montaggio. Sono state costruite delle cassette individuali dei singoli partecipanti in cui è stato raccolto tutto ciò che, tra le immagini girate, li riguardasse. Questo per più ragioni: fornire agli operatori uno strumento di lavoro, agli utenti uno strumento di autovalutazione e dare a tutti la possibilità di selezionare le proprie parti da inserire nel video finale. In base al girato selezionato dai singoli partecipanti è stato realizzato il montaggio, che doveva cercare di ricavare (ricamare), estrarre una narrazione da materiale in parte frammentario. L’ordine delle riprese non viene rispettato, il video si apre con le scene in pigiama: Segre parte dall’interno e ci mostra gli amici di “Marco Polo” prima nel loro coraggio e nella loro debolezza e solo dopo li contestualizza, quando ormai le notizie sulla loro vita risultano quasi superflue o comunque incapaci di offuscare con qualunque forma di pregiudizio il loro ritratto. In pigiama si annullano ruoli e funzioni: solo dopo si specifica chi è utente e chi operatore e l’orizzontalità veramente praticata nel laboratorio trova la sua rappresentazione metaforica anche alla documentazione.
Ne risulta un lavoro che vive delle sue “imperfezioni”, costruito con soli stacchi, senza artifici eccessivi, senza commento musicale, che si lascia penetrare, vivere e “vitalizzare” dalla realtà, dall’effettività di quanto successo nei tre giorni di riprese e riesce a restituirne la pregnanza, la profondità. Un film intensamente, poeticamente e collettivamente segriano.

Vestiti di Vita
Laboratorio di Daniele Segre al Centro Diurno “Marco Polo” di Terni
Durata: 39’
Realizzato da: gli utenti e gli operatori del centro “Marco Polo”
Riprese audio/video: stagisti volontari dell’Università di Terni: Simone Fratini, Riccardo Palladino
Assistente tecnico riprese e postproduzione: Marco Coppoli
Montaggio: Francesco Locci
Responsabile e curatrice del progetto: Luana Conti
Produzione: Ce.S.Vol. Terni
Nazionalità: Italia
Anno: 2004
È possibile richiedere il DVD al Ce.S.Vol. di Terni

In fondo siamo inutili?

Chi di voi, chi di noi almeno una volta nella vita non si è sentito inutile? Inappagato dalla Vita? Inadempiente, incoerente, inconcludente? Chi di tutti noi non ha mai provato quel “non sense” su cui tanti filosofi hanno ragionato e si sono espressi, cercando e continuando a cercare ancora ai giorni nostri il significato dell’Umanità? Del nostro stare al mondo? Per chi? Per cosa? Per quanto e per dove?
Ebbene: c’è un gruppo molto ma molto originale di persone che hanno fatto dell’inutilità il loro leit motiv, il loro principio ispiratore, che hanno risolto ogni dilemma sull’essere e il non essere delle cose e del mondo facendo partire dalla propria condizione di inutilità il senso di tutto, come fosse l’Archè antico da cui ha origine e da cui prendono il via tutte le cose. Con un detto popolare apparentemente semplicistico, ma in realtà molto adeguato al caso, “hanno tagliato la testa al toro” e risposto a ogni dubbio e ricerca cervellotica sull’argomento, della serie: Dove sta il problema? Facciamo dell’Inutilità il senso nella nostra vita. Noi siamo inutili e non solo, ci piace riconoscere di esserlo, e non per falsa modestia o per comodità, ma perché crediamo che solo partendo dal senso della propria inutilità si può scoprire ciò che anche le cose più banali o gli atti più insignificanti in realtà possono restituire molto a noi e alla società.
Così di recente presso la galleria PIVARTE di Via Azzo Gardino 8, a Bologna, si è svolta la mostra degli inUTILI, un gruppo di artisti, un movimento d’arte e di pensiero che ha raccolto e coinvolto le figure più svariate: artisti, designer, architetti, scenografi, dj, scrittori, ma anche “persone altre”, come si sono definite loro stesse, tutti però uniti dalla consapevolezza della propria inUTILITA’ e che con approccio ironico e dissacratorio, e prima di tutto geniale, hanno voluto esprimere il loro disaccordo con quegli aspetti sociali dei nostri giorni dai quali si sentono sempre meno rappresentati: la Necessarietà, l’Urgenza, l’Indispensabilità, il Potere, l’Arrivismo, il Consumismo, l’Apparire e non l’Essere, il Fare a discapito del Vivere.
Queste le parole più pregnanti del loro manifesto che così chiaramente esprime il loro pensiero: “Siamo inUTILI, ne siamo consapevoli. Noi inUTILI persi in un mondo di inUTILI. Noi consapevoli. La percezione della nostra inUTILITA’ ci regala un senso di leggerezza e di benessere ritrovato.
Le stressanti corse quotidiane, l’aggressività verbale, l’individualismo e i modi di essere di questi anni, non ci piacciono.
Non ci piace il consumismo a ogni costo, non ci piace la repentina mutevolezza degli stili e delle mode atta solo a far spendere e comprare. […] Ostacolare, sovvertire, trasformare, entropia. […]
In fondo siamo INUTILI… Noi siamo inUTILI, ma non impotenti e possiamo scegliere, questa è la nostra forza. Anziché azzuffarci verbalmente in sterili scontri faziosi di dichiarazioni politiche o sociali, ci rifugiamo nel bel gioco del paradosso dell’inUTILITA’, con ironia e fare dissacratore. […]
Facciamo opere d’arte, fotografie, pensieri, sculture meccaniche e non, installazioni, scriviamo racconti, dipingiamo, facciamo performance, ci esprimiamo inUTILMENTE, ma con estremo divertimento.
Vogliamo appartenere a un gruppo, il nostro: gli inUTILI, aperto a chiunque voglia riconoscere la propria inUTILITA’, insieme a noi, perché è dalla condivisione delle esperienze e delle competenze che nasce la gioia, il piacere di stare insieme divertendosi, lontani dall’utopia, consapevoli della nostra inUTILITA’.
Portiamo delle maschere, non perché abbiamo qualcosa da nascondere, ma per puro gioco, quello di non prendersi sul serio, con l’intenzione di essere sinceri in un mondo che non lo sa più essere. Almeno ci proviamo”.
Già 25 anni fa un gruppo di disabili era partito dalla propria inutilità per dire la sua sul fatto che tutti siamo inutili e utili… Tutti, disabili e non, possono essere in un modo o nell’altro. E a volte riconoscere la propria inutilità è un punto di partenza per spiccare il volo e non un luogo su cui cadere e arenarsi.
Tutto questo avveniva in un periodo storico che già 15 anni prima aveva iniziato un cambiamento culturale che sosteneva la necessità di essere efficienti, produttivi, lavoratori, veloci, potenti, belli e famosi. Avveniva e avviene perché la persona con disabilità che si mostrava e si mostra tuttora così com’è, che usciva allo scoperto (nel vero senso dell’espressione), con le sue malformazioni fisiche, con la sua difficoltà o incapacità a parlare, con la sua impossibilità a muoversi e a nutrirsi e lavarsi autonomamente, con la sua lentezza, con tutto ciò che non riusciva e non riesce a fare, riconoscendo come prima cosa imprescindibile della propria condizione tutto questo, spiazza. Ecco, una persona con disabilità che dice: “E chi nega tutto questo? Riconosco la mia inutilità e con questa inutilità divento utile agli altri perché voglio contribuire al cambiamento culturale, ma con un’inversione di tendenza, sulla scia di una rivoluzione più che di un andamento lineare rispetto alla concezione produttivistica del proprio posto nel mondo di 40 anni fa”.
Il Progetto Calamaio diceva e continua a dire tuttora: “Siamo certi che l’utilità di ognuno si misura solo concretamente sulla base della produzione personale? Siamo sicuri che se fai sei e se non fai non sei? Fare va di pari passo con essere? Produrre cultura è scrivere trattati o piuttosto dare agli altri la propria esperienza di vita che porta visibilmente nel corpo la fragilità, ma in un modo di essere diverso la propria forza e la certezza che un cambiamento culturale nel campo dell’integrazione è possibile perché il modo di pensare è diverso e con il modo di pensare il modo di vivere?”.
Molto è cambiato, dalla legge 68/99 ad oggi! Negli ultimi anni poi pure il crollo economico ci ha fatto, volenti o nolenti, rallentare i ritmi di vita: meno lavoro, meno soldi, meno corse per gli impegni e per gli acquisti! E in un’epoca di crisi finanziaria in cui la corsa al riciclo e al recupero dei materiali di scarto da cui creare cose nuove e nuove cose ricorda molto quella dei cercatori d’oro, in un’era in cui i mercatini dell’usato nascono e crescono e si riproducono come conigli nei centri delle città e in periferia, in un tempo storico in cui il “tutto torna buono” e ancor più il saggio detto popolare bolognese “tin tin che la so’ la vin” (trad. “tieni tieni che il suo momento per usarlo arriva”) sono diventati fashion, di moda, creando addirittura la corrente Vintage che altro non è che tirar fuori i vestiti della nonna tenuti nel cassettone di famiglia, forse anche l’Inutilità, il Superfluo ritrovano uno spazio, il senso della loro esistenza. Forse in fondo è tutta una contraddizione, un paradosso, una provocazione…
Ritornando ai nostri Artisti inUTILI con cui abbiamo aperto questa riflessione, concludiamo con due aforismi del geniale e molesto Oscar Wilde che già a fine dell’Ottocento disse: “Tutta l’arte è inutile” ma “viviamo in un’epoca in cui il superfluo è la nostra unica necessità”…

Lettere al direttore

Ciao! Ti leggo sempre, quindi mi sembra di conoscerti, spero non ti dispiaccia se ti do del tu (non mi sembri un tipo che si formalizza). Ti scrivo per chiederti un’opinione su un tema che mi sta molto a cuore. Ho fatto la visita per l’invalidità civile e risulto parzialmente invalida al lavoro. IN-VALIDO cioè non valido.
Invece io sono validissima! È vero, ho qualche difficoltà, ma faccio il mio lavoro molto bene, molto meglio dei cosiddetti “normodotati”. Non trovo giusto essere definita così. Non mi piacciono nemmeno altri termini come “disabile” (= non abile). Conosco una giovane mamma con la sclerosi multipla, non è meno abile, è abilissima a crescere suo figlio e lottare con la malattia. Anche portatore di handicap lo trovo inappropriato, per fortuna io sto abbastanza bene ma facendo terapie ho avuto il privilegio di conoscere persone che apparentemente avevano dei limiti fisici davvero gravi ma che non si fermavano di fronte a niente, mentre conosco tantissime persone che fisicamente stanno bene, ma si costruiscono da soli una serie di barriere nella loro mente, creandosi problemi inesistenti e rimanendo imprigionati nelle loro vedute ristrette, nei loro angusti schemi mentali.
Quante persone si rovinano la vita perché si sentono vittime di ingiustizie che sono solo immaginarie (quante liti tra colleghi o tra vicini di casa!), o invidiando chi secondo loro ha più soldi, più successo, vestiti più belli, e quindi non fanno niente se non per un tornaconto personale. Ora va di moda anche il termine “diversamente abile”, ma siamo come dicevo prima, siamo abili allo stesso modo, e poi la parola “diverso” sta assumendo sempre di più una connotazione negativa, con associazioni mentali pericolose (ad esempio straniero=criminale, anziano=inutile, ecc.), infatti anche chi è definito “diversamente abile” è ritenuto inferiore. Siamo tutti diversi gli uni dagli altri, non capisco perché debbano esserci delle parole per distinguerci.
D’altra parte mi rendo conto che almeno per la burocrazia servano delle parole per definire alcune categorie, ma mi chiedo: se quelle esistenti sono scorrette non possiamo inventarne una nuova, più appropriata e meno degradante di quelle esistenti? Se inventano un nuovo telefonino, o creano un nuovo paio di scarpe, subito si inventa un nome favoloso per quello che è solo un oggetto. Le persone non valgono più di un telefonino? Non sono l’unica a pensarla così, infatti in questi giorni è in atto una lodevole iniziativa da parte di alcuni gruppi di giornalisti che chiedono l’abolizione di parole discriminanti come “clandestino”. Tu sei molto conosciuto e stimato, mi farebbe piacere se ti rendessi portavoce di chi chiede solo di dare il giusto peso alle parole, nella speranza che sia il primo passo per abbattere tante barriere.
xxx

Cara xxx,
grazie per la lettera. No, non mi formalizzo e accetto volentieri il tuo “tu” amicale.
Come puoi immaginare sono pienamente d’accordo con quello che dici, e sono (da sempre) l’ultimo a trascurare l’importanza delle parole (anche perché di quelle il mio lavoro vive). Poco fa, in relazione a un fatto televisivo, all’interno di un ragionamento più ampio, ho scritto: “Ora, non voglio insistere troppo su questioni nominali, ma credo sia pacifico che la televisione abbia un enorme potere di influenzare e, cosa forse peggiore, che non dia la possibilità di una risposta esterna immediata; lo spettatore è per certi versi passivo di fronte al flusso di immagini e suoni. […] Credo sia quasi scontato che un programma così pensato e realizzato come il Grande Fratello punti molto, per la sua stessa sopravvivenza, a creare situazioni esasperate (non solo nel senso del litigio), in cui l’insulto è uno degli strumenti privilegiati di relazione e confronto ed è garanzia del mantenimento di tempi, diciamo così, televisivi. È il programma che lo richiede e, indubbiamente, è anche il pubblico a casa ad aspettarselo. Pubblico che, in larga parte, è un pubblico giovanile, per cui più sensibile al tipo di educazione che il mezzo televisivo può veicolare. Ecco che la parola, le espressioni assumono una portata diversa, perché è il contesto stesso a determinare in parte il loro peso. Le parole non sono svincolate dall’esperienza, non hanno quasi mai un significato ‘in sé’. Né lo stesso potere, se pronunciate in situazioni diverse. Ecco, quindi, che la televisione ha, o dovrebbe avere, una percezione più fine delle sue responsabilità. […] L’utilizzo apparentemente innocuo di alcuni termini si rivela per quello che è (una scelta del senso che si vuole comunicare) e descrive in modo vivido la società che ne fa uso”. L’utilizzo di un termine piuttosto che un altro sottintende sempre o contribuisce a formare e rafforzare un (il) pensiero. È un meccanismo reale, effettivo e per questo potenzialmente rischioso.
Ho affrontato spesso l’argomento, vedrai che mi capiterà di scriverne ancora, e poi ancora, e poi ancora… Termino con alcune parole scritte da una collega che affronta la questione in modo anche ironico. Non è proprio aderente a quello che scrivi tu, ma credo che ne condividerai i principi e le ragioni: “Spesso, non si può negarlo, l’espressione diversamente abile funziona, e alle persone che non si trovano a contatto con la disabilità, o a volte anche alle stesse famiglie di persone disabili, apre un mondo fatto di possibilità anziché di negazioni. A volte, però, si tratta di una mera espressione di facciata. È politically correct, anzi è di moda, è trendy. E, nello stesso tempo, è vuota di significati, oppure, ancora peggio, resta ancorata alla cultura del passato, perché indica una persona con deficit, ma non sempre modifica gli aggettivi legati a quella persona. E quindi capita che chi usa ‘diversamente abile’ continui a guardare le persone disabili come dei marziani, provi disgusto vedendole imboccare da altri, non sappia come relazionarsi a loro, se non con un dislivello asimmetrico. […] Allora preferisco chi usa ancora ‘handicappato’, ma lo fa in modo genuino, ruspante, senza ambiguità e sedimenti culturali, solo per indicare una situazione di diversità e che poi accetta la disabilità nella sua concretezza. […] Preferisco ‘handicappato’ se non si porta dietro nulla, piuttosto che ‘diversamente abile’ se questa espressione fa pensare ancora ‘poverino’. Quanto vorrei che non ci fosse bisogno di termini più ‘giusti’ per cambiare la mentalità comune; sarebbe bello cambiarla anche stando sui termini sgradevoli”.
Ciao Claudio,
mi chiamo Claudia e sono un’insegnante di lettere della scuola media xxx. Ho avuto l’immenso piacere di essere presente venerdì scorso al tuo intervento e ti posso dire che mi sono sentita proprio bene: sono tornata a casa molto più leggera e ho cominciato a pensare a “che bel mondo ho visto finora”!
Nella mia classe terza ho il piacere di avere un alunno portatore di handicap, L.: è un ragazzino speciale che ha avuto la fortuna di essere inserito fra ragazzi che lo amano e lo rispettano come individuo unico e irripetibile.
L. però sta crescendo e sente dentro di lui le pulsioni di un preadolescente che manifesta apertamente.
Anche questi atteggiamenti sono compresi dai compagni che hanno imparato ad accettarli. E allora dove sta il problema? La mamma di L. vorrebbe che i compagni lo portassero con loro fuori a mangiare una pizza, al cinema, o a fare una passeggiata ma i ragazzini sono pur sempre preadolescenti e faticano a rendere partecipe L. di questi momenti.
Come si fa quindi a trovare il giusto equilibrio? Come posso aiutare questo mio alunno a crescere bene come gli altri?
Come posso aiutare questa madre che cerca l’accettazione incondizionata, come tutti gli altri genitori, di un figlio?
Ti ringrazio tanto per qualsiasi consiglio tu possa darmi e spero di risentirti presto.
Ciao Claudia
 
Cara Claudia,
grazie per avermi scritto e per essere venuta a San Giovanni.
Come saprai, la “richiesta consigli” è sempre un’operazione rischiosa, soprattutto per chi è chiamato a darne…
Il rischio più ovvio è la banalità del consiglio stesso, quello meno innocente la sua totale inefficacia.
Quando si esce dall’ambito scolastico, all’interno del quale magari i rapporti tra alunni funzionano benissimo, scatta spesso un “meccanismo di vergogna” da parte delle persone normodotate, in particolare se si tratta di ragazzi di quell’età (non solo, anzi, ma credo che con i ragazzi questo aspetto possa emergere in modo più evidente). Insomma, la scuola è un ambiente più protetto, per il ragazzo disabile e anche per i suoi compagni.
L’imbarazzo da parte di chi “porta fuori” la persona disabile cresce ancor di più se pensiamo che quelli sono anche gli anni in cui cominciano o si cercano approcci affettivi importanti: la presenza di una persona disabile non contribuisce a rendere l’accompagnatore molto “attraente”. Spesso subentra anche un po’ di disagio verso la persona disabile stessa, per la quale si immagina una vita affettiva e sessuale più complicata e incompleta. E allora si cerca di evitare di metterlo in situazioni (di vita) che presumiamo non abbia la capacità di gestire o con le quali pensiamo non potrà mai confrontarsi. Insomma, contano le idee che uno ha in testa e contano ancor di più quelle che gli altri (normodotati) hanno o che noi presumiamo che abbiano; e contano, ancora, le ipotesi, le immagini che abbiamo della persona con disabilità. Forzare la mano credo sia controproducente, più sensato, forse, è affrontare la questione all’interno della classe, senza vergogne e senza infingimenti. Del resto è l’unica occasione e l’unico ambiente in cui le persone potenzialmente coinvolte in questi “meccanismi” sono compresenti e hanno la possibilità di esprimersi, criticarsi, ecc. in presenza di persone coscienti e consapevoli (come te).
Non lascerei gestire o affrontare la cosa alla sola famiglia: il rischio? Che la soluzione sia, come spesso, capita, il gruppo parrocchiale (senza offesa, spero tu capisca cosa intendo)… se va bene.
Lette queste parole (incerte e parziali e me ne scuso), scrivimi, cerchiamo di continuare il nostro dialogo.
Attendo tue nuove.
Un caro saluto.

Sostenere la genitorialità delle donne non vedenti: l’esperienza di Parigi

Per una persona con una disabilità grave che scelga di dare alla luce un figlio, i comuni dubbi legati alle proprie capacità di interpretare in modo soddisfacente il ruolo di genitore vengono amplificati dalla frequente condizione di dipendenza quotidiana dagli altri, rispetto a cui diviene problematico il prendersi cura del nuovo nato, e da un contesto socio-culturale che associa ancora con molte fatiche tra genitorialità e disabilità, a maggior ragione se a essere in situazione di handicap è la futura madre. Di conseguenza, per i genitori con disabilità risulta molto opportuno un supporto specifico, di carattere operativo ma anche psicologico, che a oggi peraltro non risulta essere previsto, almeno in modo sistematico, nel nostro Paese. Da queste riflessioni è invece nato già nel 1987 a Parigi, all’interno dell’Institut de Puériculture de Paris, il SPPH – Service Périnatal d’aide à la parentalité des Personnes Handicapés, guidato sin dalla nascita dalla puericultrice Edith Thoueille e integrato presso il centro multidisciplinare di protezione materna e infantile del XIV arrondissement.
L’attività del SPPH negli anni si è concentrata soprattutto, ma non esclusivamente, sulle madri non vedenti, per le quali ha di fatto assunto un ruolo a valenza regionale e riceve richieste da molte zone della Francia. Diversi contributi scientifici scritti da o cui ha collaborato Edith Thoueille consentono di descrivere le peculiarità della madre non vedente durante la gravidanza e nel periodo perinatale, e alcune prassi adottate dal SPPH il cui interesse si estende oltre la specificità del deficit visivo.

La puericultura adattata, tra carenze e supplenze
Sin dalla sua costituzione, il servizio si è orientato alla soluzione dei problemi pratici cui una madre non vedente deve fare fronte nel proprio percorso di cura del bambino: di qui, ad esempio, la trascrizione in Braille o la registrazione audio di una parte dei testi utilizzati come guida alla genitorialità, la taratura di siringhe per somministrare medicinali non disponibili in forma galenica industriale utilizzabile, la preparazione di etichette Dymo in Braille per riconoscere le scatole di medicinali e i consigli specifici su come allestire il fasciatoio e lo spazio per il bagnetto. Attraverso una decina di sedute di “puericultura adattata, sia prima che dopo il parto, suggerimenti a carattere operativo vengono trasmessi e servizi concreti forniti alla donna o alla coppia, con particolare attenzione al livello di aiuto che è opportuno garantire: non fare al posto dei genitori, ma cercare insieme la soluzione adattata alle attese di ciascuno utlizzando tutti i supporti possibili. Nel corso degli anni, tuttavia, è emerso come le questioni pratiche non esauriscano le difficoltà cui una donna non vedente deve fare fronte nel proprio percorso verso e dopo la maternità, e si è evidenziata la necessità di un supporto psicologico specifico.
Nella letteratura clinica, un elemento determinante nella costituzione del rapporto tra madre e bambino è costituito dallo sguardo: il primo contatto tra i due elementi della
diade si compie quando la madre vede il feto nello schermo dell’ecografia, il bambino sentito dentro di sé per tanti mesi appare al momento del parto, il bambino concentra il proprio sguardo sulla madre durante l’allattamento al seno e cerca il viso della madre come compensazione all’allontanamento nel periodo dello svezzamento. Nei pochi studi dedicati al caso di madri non vedenti, si è ipotizzato il rischio di evoluzioni autistiche del bambino, il cui sguardo non può essere ricambiato e guidato dalla madre. Le conclusioni di Thoueille sono differenti, ma non ignorano e anzi valorizzano la diversità che caratterizza tutto il periodo perinatale: ad esempio, la madre non vedente percepisce il movimento del feto dentro di sé in media due/tre settimane prima di quella normodotata, e dimostra una attenzione di gran lunga maggiore per le proprie sensazioni durante la gravidanza. Inoltre, quello che la visione, alla nascita e nei giorni successivi, rende un confronto immediato e traumatico tra bambino immaginario e bambino reale, nella puerpera non vedente si costruisce attraverso un’interazione sensoriale più complessa e perciò più graduale (ciò che richiederebbe di consentire alla madre una più lunga permanenza in sala parto, come tempo di conoscenza), e dunque con minori rischi di baby-blues o comunque un suo insorgere più lieve e tardivo. Per converso, il momento dell’ecografia risulta piuttosto frustrante, in quanto la tensione per la possibile prima diagnosi di malformazioni è accentuata dall’impossibilità non solo di vedere lo schermo, ma anche di cogliere elementi visivi capaci di temperare l’inquietudine, come le espressioni dell’ecografista (che non sempre supplisce con una più accurata descrizione verbale); inoltre, l’assenza di contatto visivo con il bambino nei primi giorni dopo il parto appare avere una risonanza emotiva negativa nel ricordo a distanza da parte della madre. A un livello descrivibile con minore precisione ma più profondo, il parto risveglia nella madre non vedente le sensazioni della propria nascita, e di conseguenza le frustrazioni legate alla menomazione, più o meno assorbite in base al vissuto familiare successivo – e non di rado per chi diventa madre oggi la cecità è stata causa di un allontanamento precoce dai genitori per consentire l’educazione in istituti specializzati.
Le osservazioni cliniche di Thoueille, sulla base delle decine di casi analizzati in questi anni, mostrano che l’impossibilità per il bambino di trovare lo sguardo della madre non vedente lo induce sin dai primi giorni di vita ad adottare un
bilinguismo relazionale capace di ripristinare sequenze intersoggettive con la figura primaria di riferimento, senza per questo rinunciare a utilizzare tutte le proprie capacità sensoriali ed esplorative. L’esempio più chiaro di ciò si mostra quando il neonato sta osservando il viso dell’esaminatore e la madre lo chiama: anziché voltarsi verso la voce materna, come in genere avviene, il bambino allunga il braccio verso di essa mantenendo fissi gli occhi su chi lo guarda. Il bambino appare rendersi conto delle sequenze relazionali rese impossibili dall’handicap della madre e svolgere un’azione di supplenza tese a ripristinarle in forma modificata, per esempio guidando la mano e il cucchiaio e ri-orientando il volto quando viene imboccato, con un grado di aiuto crescente nel tempo insieme alle proprie capacità fisiche e interpretative e alla complessità della relazione. Tuttavia, la medesima coscienza dell’interruzione di alcuni canali relazionali consente al figlio, bambino o adolescente, di opporsi alla madre evitando di portare l’aiuto necessario per completare le sequenze intersoggettive modificate, oppure ritardandolo (ad esempio, ci si può nascondere dalla madre semplicemente tramite il silenzio). Il figlio può in ogni caso vivere l’handicap della madre in modi molto diversi, come mostra l’esempio citato da Thoueille di due fratelli adolescenti normodotati: Il più grande non sopporta l’handicap di sua madre, per cui prova vergogna. Per strada, rifiuta di apparire al suo fianco come suo figlio, cambia marciapiede e con ciò non la aiuta. Il secondo invece è molto attento, aiuta sua madre e anche di fronte ai suoi compagni considera come una superiorità avere una madre cieca che supera il proprio handicap. Per questi motivi, oltre che per le dinamiche familiari peculiari che si instaurano per la presenza di cani-guida (che sembrano vivere una depressione molto simile a quella dei fratelli maggiori all’arrivo del neonato in casa) e per il maggiore carico di lavoro di cura ricadente sul coniuge normodotato, i meccanismi di supplenza comunicativa non rendono meno necessario un supporto psicologico specifico.

La prima cosa bella
L’équipe di Edith Thoueille ha riscontrato come un momento molto importante nella costituzione della relazione tra madre e bambino, nelle prime settimane di vita, sia la
Scala di Brazelton (NBAS). Si tratta di una serie di test, ideata dall’omonimo pediatra statunitense nel 1973, con cui, nello stesso momento in cui il medico esaminatore può valutare i comportamenti del neonato in diversi ambiti psico-fisiologici, i genitori vengono accompagnati dall’esaminatore medesimo a comprendere le sue modalità comunicative e di prima esplorazione dell’ambiente circostante. È quest’ultimo l’aspetto che conta: in molti casi, durante lo svolgimento dei test, si registra un momento chiave in cui la madre scopre, a un livello emotivo prima che cognitivo, le capacità del suo bambino, superando il dualismo tra bebé immaginario e bebé reale che l’ha accompagnata sin dal parto. Si parla per questo di un effetto Brazelton che, a prescindere dalla valutazione clinica del neonato, può costituire la prima relazione efficace tra madre e bambino e assume un valore terapeutico per la diade nel suo complesso.
Dal momento che si tratta di un test largamente basato sull’osservazione visiva, Thoueille ne ha elaborato uno
svolgimento trascritto a favore delle madri non vedenti, imperniato sull’attività di un’operatrice che osserva i movimenti del bambino rilevati o attivati dall’esaminatore, e appoggiata al corpo della madre li traduce in stimoli tattili. Con un bel paragone proposto da Thoueille, la trascrittrice è come Sant’Anna nella Sacra Famiglia (Sant’Anna, la Vergine e il Bambino) di Leonardo da Vinci, ossia la figura che contiene tra le sue braccia la Vergine, che a sua volta abbraccia il bambino (che ha tra le mani un agnello, ma questo probabilmente non è pertinente al paragone). Al di là della competenza tecnica molto specifica, la trascrittrice non ha un ruolo facile, anzitutto perché il contatto fisico genera nella madre un transfert materno e una identificazione omosessuale femminile che vanno governati a partire da un’allenaza terapeutica già consolidata; inoltre, è importante che la trascrittrice e l’esaminatore, come del resto prescritto dal corretto svolgimento della scala di Brazelton, si lascino guidare dal bambino piuttosto che applicare una propria griglia di analisi predefinita, contrastando al contempo la possibile percezione ansiogena da parte dei genitori che quello in corso sia un test sull’intelligenza del bambino. L’esperienza maturata in queste trascrizioni è stata molto positiva (e può essere ripetuta più volte nei primissimi mesi di vita), al punto che da un lato Thoueille consiglia di applicarla a fini terapeutici in tutti i casi di genitorializzazione con rischi relazionali, dall’altro è stata adattata anche al contesto degli esami ecografici, che come si è detto possono creare ansia e frustrazione nella gestante non vedente.
Costruzione di professionalità all’interno di un’équipe multidisciplinare non specializzata nel lavoro sull’handicap (in quanto composta di pediatri, puericultrici ed educatrici generiche), attenzione agli aspetti relazionali e psicologici oltre e prima che alle nozioni pratiche di puericultura, capacità di conforto della madre nella costruzione del rapporto con il bambino attraverso l’indicazione delle abilità e dei canali alternativi attivabili dalla diade, senza per questo indulgere ad atteggiamenti eroici (l’handicap non viene meno, e attività come portare il bambino in carrozzina su un marciapiede rimangono irraggiungibili per una madre non vedente): gli spunti dati dal lavoro del SPPH descritto da Edith Thoueille risultano di grande interesse anche al di là del percorso specifico di accompagnamento alla maternità della donna con deficit visivo.