Skip to main content

autore: Autore: a cura di Massimiliano Rubbi

In fatto di cuore

a cura di Massimiliano Rubbi

Negli ultimi tempi, una volta mi venne la voglia di scrivere al signor Puta, per batter cassa. Alcide si sarebbe incaricato di impostare la lettera col prossimo Papaoutah. La roba da scrivere Alcide la teneva in una piccola scatola di biscotti proprio come quella che avevo visto a Branledore, proprio la stessa. Tutti i sergenti raffermati avevano dunque le stesse abitudini. Ma quando mi vide aprire la sua scatola, Alcide ebbe un gesto che mi sorprese per impedirmelo. Ero imbarazzato. Non sapevo perché me lo proibiva, la rimisi sul tavolo. “Ah! aprila va’!” ha detto infine lui.
“Va’ che non fa’ niente!”. Sùbito sul rovescio del coperchio era incollata la foto di una ragazzina. Solo la testa, un volto proprio dolce davvero con lunghi boccoli, come si portavano a quel tempo. Presi carta e penna e rinchiusi in fretta la scatola. Ero molto imbarazzato dalla mia indiscrezione, ma mi chiedevo tuttavia perché la cosa l’aveva tanto sconvolto.
Immaginai sùbito che si doveva trattare di una creatura sua, di cui aveva evitato di parlarmi fin lì. Non chiedevo altro, ma lo sentivo alle mie spalle che cercava di raccontarmi qualcosa su quella foto, con una strana voce che non gli conoscevo ancora. Farfugliava. Non sapevo più dove mettermi, io. Dovevo proprio aiutarlo a farmi le sue confidenze. Per superare il momento non sapevo più da che parte prenderla.
Sarebbe stata una confidenza penosissima da ascoltare, ero sicuro. Non ci tenevo per niente.
“È niente! lo sentii alla fine. È la figlia di mio fratello… Sono morti tutti e due…”
“I genitori?”
“Sì, i genitori…”
“Chi la tira su, allora? Tua madre?” gli ho chiesto io così, per manifestargli il mio interesse.
“Mia madre, ce l’ho più neanche lei…”
“Allora chi?
“Eh ben io!”.
Sogghignava, l’Alcide cremisi, come se avesse fatto qualcosa di assolutamente sconveniente. Si riprese
in fretta:
“Cioè adesso ti spiego… La faccio educare a Bordeaux dalle Suore… Ma non le Suore dei poveri, mi capisci eh!… Dalle Suore ‘bene’… Siccome sono io che me ne occupo, puoi stare tranquillo. Voglio che le manchi niente! Ginette, si chiama… È una ragazzina molto carina… Come sua madre d’altronde… Lei mi scrive, fa progressi, solo che, sai, una retta così, è cara… Soprattutto adesso che ha dieci anni… Mi piacerebbe che imparasse anche il piano… Cosa ne dici te del piano?… Va bene il piano, eh, per le ragazze?… Credi mica?… E l’inglese? È utile anche l’inglese?… Sai l’inglese te?…”.
Mi son messo a guardarlo molto più da vicino l’Alcide, via via che confessava la colpa di non essere abbastanza generoso, con i suoi baffetti impomatati, le sopracciglia da eccentrico, la pelle calcinata. Il pudico Alcide! Quante ne aveva dovuto fare di economie sulla sua paga striminzita… sui suoi premi d’arruolamento da fame e il piccolo commercio clandestino… per mesi, per anni, in quell’infernale Topo!… Non sapevo cosa rispondergli io, non ero molto competente, ma mi superava talmente in fatto di cuore che diventai tutto rosso… In confronto all’Alcide, non ero che un cafone impotente io, grossolano e fatuo ero… Non si poteva smarronare. Era chiaro.
Non osavo più parlargli, mi sentivo all’improvviso totalmente indegno di parlargli. Io che ancora ieri lo trascuravo e perfino lo disprezzavo un po’, Alcide.
“Non ho avuto fortuna”, proseguiva lui, senza rendersi conto che mi imbarazzava con le sue confidenze.
“Immàginati che due anni fa lei ha avuto la paralisi infantile… Figùrati… Tu sai cos’è la paralisi infanti-
le?”.
Mi spiegò allora che la gamba sinistra della bambina continuava a essere atrofizzata e che seguiva una
cura con l’elettricità a Bordeaux, da uno specialista.
“È una cosa che si guarisce, tu credi?…” si inquietava lui.
Gli assicurai che si aggiustava benissimo, proprio completamente col tempo e l’elettricità. Parlava della
madre che era morta e della malattia della piccola con molte precauzioni. Aveva paura, anche di lonta-
no, di farle del male.
“Sei stato a vederla dopo la malattia?”
“No… ero qui.”
“Ci andrai presto?”
“Credo che non potrò prima di tre anni… Tu capisci, qui faccio un po’ di commercio… Allora questo l’aiuta un po’… Se prendo un congedo adesso, al ritorno il posto sarebbe preso… soprattutto con quell’altra carogna…”.
Così, Alcide aveva fatto domanda per raddoppiare il soggiorno, per farsi sei anni di fila a Topo, invece dei tre, per la nipotina di cui non possedeva che qualche lettera e il ritrattino.
“Quel che mi dispiace” riprese lui quando ci coricammo “è che lei laggiù non ha nessuno per le vacan-
ze… È dura per una bambina…”.
Evidentemente Alcide faceva evoluzioni nel sublime come se fosse casa sua, per così dire con familiarità, dava del tu agli angeli, ’sto ragazzo, e aveva l’aria di niente. Aveva offerto quasi senza un dubbio a una ragazzina vagamente apparentata anni di tortura, l’annichilimento della sua povera vita in quella torrida monotonia, senza condizioni, senza mercanteggiare, senz’altro interesse che quello del suo buon cuore. Offriva a quella ragazzina lontana tanta tenerezza da rifare il mondo intero e questo non si
vedeva.
S’addormentò di colpo, alla luce della candela. Finì che mi alzai per guardare bene i suoi tratti alla luce.
Dormiva come tutti. Aveva l’aria proprio normale.
Però non sarebbe poi tanto male se ci fosse qualcosa per distinguere i buoni dai cattivi.
(Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte)

Se si dovesse descrivere Céline con un solo aggettivo, quello più utilizzato sarebbe “nichilista” (o più probabilmente “antisemita”, ma lasciamo chiuso questo capitolo). Credo che il brano riportato, al contrario, sia tra i più toccanti di tutta la letteratura del ’900 – e non è l’unico di questo tipo che si trova nella cavalcata tra gli orrori del “secolo breve”, all’insegna di un linguaggio pirotecnico, che è il Voyage. Il fatto è che per lo scrittore francese la grandezza di cuore si trova spesso (ma non necessariamente) in figure di “diversi”, che viste da fuori denotano abbrutimento e vergogna: la prostituta americana Molly, di cui il protagonista Bardamu dice “per la prima volta un essere umano si interessava a me […], si metteva al posto mio e non mi giudicava dal suo, come tutti gli altri”; Bébert, bambino monello nella misera periferia parigina dell’interguerra; e appunto il sergente Alcide, sepolto a Topo, villaggio sperduto di un’Africa coloniale che pare respingere con il suo cli- ma torrido la stessa presenza umana.
Alcide non corrisponde alle apparenze del benefattore dell’umanità: comanda con pugno di ferro la piccola milizia africana della colonia nelle sue (esilaranti) esercitazioni di guerra immaginaria, ha un conto aperto con il suo superiore, il tenente Grappa, e come accennato nel brano arrotonda un magro stipendio con il contrabbando di tabacco e alcol. Il “cuore d’oro” non è visibile a occhio nudo, ma non è nemmeno frutto necessario di una conoscenza più approfondita, emergendo piuttosto come una “apertura dell’essere” improvvisa e casuale, che solo in alcuni casi si palesa nei nostri rapporti con gli altri. Né, d’altro canto, è il “cuore d’oro” in grado di riscattare un’umanità in preda allo sbando morale e materiale, la “tenerezza” non è in realtà capace di “rifare il mondo intero” e forse nemmeno di generare riconoscenza e affetto in chi la riceve – Bardamu, che lascerà Molly per tornare in Francia e con i suoi sforzi di medico non potrà sottrarre Bébert a una morte precoce per febbre tifoidea, lasciando Topo per risalire il Congo rimugina: “può darsi che niente di tutto quello esista ancora, […], che ci sono solo io a ricordarmi ancora di Alcide… Che anche la nipote l’ha dimenticato”.
Nel rileggere questo testo, mi è venuta in mente la frase attribuita al regista Carlo Mazzacurati, da poco scomparso: “Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile.
Sempre”. Céline disapproverebbe di certo l’idea di dare lezioni a qualcuno, ma se ce n’è una che possiamo prendere da lui è di non stancarci di cercare l’umanità in chi ci circonda e in chi incontriamo, anche nei contesti più degradati, nelle persone apparentemente più lontane da noi e addirittura in apparenza più malvagie o aride. Che poi, malvagie e aride magari vai a scoprire che lo sono davvero. Con tutto quello che ha visto Bardamu mica vi regala illusioni da due franchi, però a non provarci nemmeno i primi a diventare malvagi e aridi a questo mondo non sareste voi?

L’arte di migliorarsi: lo studio “Creativity Explored” di San Francisco

di Massimiliano Rubbi

Per le persone con disabilità, l’attività di creazione artistica non è solo un’opportunità di realizzazione personale e relazione sociale, che migliora loro stesse, ma può dare origine a opere dal pieno valore estetico, che migliorano il mondo. Questo attestano i 35 anni di esperienza di“Creativity Explored”,uno studio/galleria d’arte di San Francisco in cui ogni giorno circa 85 artisti con disabilità dello sviluppo, in continua(ma non totale)rotazione, si mettono alla prova in diversi ambiti delle arti visive, utilizzando le risorse fornite da altri artisti-insegnanti, per creare opere che li rappresentino e possano costituire oggetto di interesse per gli appassionati. Abbiamo parlato di questa esperienza“dove l’arte cambia le vite”,con particolare successo, con Ann Kappes, responsabile per la concessione dei diritti d’autore, e Paul Moshammer, direttore dello studio di Creativity Explored.

Una comunità artistica
Creativity Explored è stata fondata nel 1983 da Florence Ludins-Katz and Elias Katz, una coppia newyorkese cui si deve la creazione di diverse esperienze pionieristiche nel campo del connubio arte/ disabilità, tra cui il Creative Growth di Oakland, sempre in California, fondato nel 1974 e probabilmente il più antico studio artistico dedicato a persone con disabilità. Kappes collega la nascita di Creativity Explored alla deistituzionalizzazione delle persone con disabilità adottata in quegli stessi anni dallo Stato della California, con la conseguente emersione di molte persone che trovavano un posto nella società. Partito come piccolo studio in poco più di una stanza, Creativity Explored si è ampliato nel tempo con un secondo studio nel 1995 e poi, nel 2001, con l’aggiunta dell’attuale galleria aperta, in cui a un allestimento professionale delle opere si affianca per i visitatori la possibilità di vedere gli artisti al lavoro. Da un lato, le attività proposte sono “personalizzate per i singoli”, come sottolinea Moshammer: Creativity Explored fornisce infatti alle persone con disabilità i materiali, le attrezzature e l’insegnamento delle competenze per la- vorare in diversi ambiti, dalla pittura tradizionale alla scultura e alla computer art – ed è possibile cimentarsi con una di queste forme artistiche un giorno e con un’altra il giorno seguente. I programmi offerti dalla struttura, aperti a persone con disabilità dello sviluppo con ogni grado di competenza artistica (unico vincolo richiesto è la maggiore età), riflettono un’ampia varietà di opzioni temporali: si va dai “programmi di transizione”, che consentono ai nuovi interessati un primo contatto per un paio d’ore alla settimana, fino alla possibilità offerta ad alcuni di svolgere la propria attività artistica entro Creativity Explored per decenni (Moshammer precisa comunque che la maggior parte degli artisti richiede circa un anno per sviluppare e affinare il proprio stile personale).
D’altro canto, l’organizzazione non rispecchia l’idea della creazione artistica come processo individuale: un aspetto essenziale della valenza relazionale che Creativity Explored riveste per i suoi artisti sta nella possibilità di lavorare insieme, traendo spunti gli uni dagli altri, e anche nella presenza di visitatori che entrano in galleria, a cui gli artisti, “se sono in vena”, possono illustrare le proprie creazioni. Di qui anche la scelta di affiancare sempre più, al “classico” rapporto tra artisti insegnanti (reclutati dall’esterno) e studenti con disabilità, forme laboratoriali come la “classe del sabato”, in cui sono gli stessi artisti studenti a guidare gli altri partecipanti, avvalendosi dello staff interno come supporto meramente pratico.
Moshammer cita come esempio Andrew Li, artista specializzato in sculture di carta (“è in grado di creare bellissimi animali di carta in mezz’ora”), che ha avuto appunto modo di condurre laboratori per condividere con altri la propria peculiare tecnica.
La combinazione di libertà individuale e dimensione collettiva genera quello che Moshammer definisce “sentimento di famiglia, di comunità” tra gli artisti, che dona loro fiducia in se stessi anche in altri ambiti della vita personale, e in alcuni casi rende per loro Creativity Explored qualcosa di più che una fase determinata del proprio percorso formativo: si può citare l’esempio di Peter Cordova, che per cinque pomeriggi a settimana lavora in un supermercato della catena Safeway, ma che continua a passare tutte le mattine nello studio di Creativity Explored per creare disegni e sculture, per non perdere “la parte migliore della sua giornata”.

Fuori dalla nicchia
Accanto alla produzione artistica, Creativity Explored cura con particolare attenzione la distribuzione delle opere, ben al di là della propria galleria di San Francisco. Lavori realizzati dagli artisti sono stati esposti e venduti in altre gallerie della Bay Area, e in alcuni casi sono stati scelti per mostre personali e collettive in altre zone degli USA (soprattutto nella East Coast) e all’estero (Australia, Nuova Zelanda, Europa); alcune opere sono state realizzate su commissione diretta agli artisti, ad esempio da parte di studi di architettura come elementi di arredo di nuovi spazi pubblici o abitativi. In un ambiente competitivo e volubile come quello del mercato dell’arte contemporanea, è importante notare, come conferma Kappes, che le opere sono apprezzate per il proprio valore artistico, e non in virtù delle finalità solidali della loro origine, benché il successo commerciale produca certo effetti significativi sul percorso personale degli artisti – nelle parole di Moshammer, a volte “i genitori degli artisti entrano in galleria con entusiasmo, quando vedono gli assegni”.
Moshammer racconta come esempio la vicenda di Vincent Jackson, che ha frequentato Creativity Explored sin dai suoi inizi negli anni ’80, dopo un percorso scolastico in cui “non andava bene, gli insegnanti erano arroganti con lui e i compagni lo prendevano in giro”. La pratica artistica gli ha dato crescente fiducia in se stesso, e lo ha reso un “artista rinomato”, che da ben 34 anni continua a svolgere la sua attività nella galleria con buoni risultati commerciali; i suoi grandi ritratti a pastelli ad olio, che richiamano l’arte popolare dell’Oceania filtrata dalle esperienze avanguardistiche e pop del ’900, sono stati esposti in decine di mostre, soprattutto a San Francisco ma anche a New York, in Giappone e in Belgio, e hanno decorato scatole di cioccolatini, borse e vasi. Decisamente niente male, per una persona che a parere di Moshammer stesso “avrebbe fallito in gran parte degli altri lavori”.
Un elemento che contraddistingue il modello di business di Creativity Explored, e che è Kappes a seguire in particolare, è lo sviluppo del licensing, l’utilizzo delle riproduzioni di immagini per finalità commerciali. La promozione in questo senso presso disegnatori di moda e di oggettistica, attuata anche tramite una sezione dedicata del sito www.creativityexplored.org (e favorita da uno stile che in molti casi oscilla tra l’astrattismo e la pop art), ha portato l’arte visiva realizzata in galleria a essere riprodotta su stampe, calendari, cartoline, copertine di libri e CD e magliette, ma anche skateboard e perfino allestimenti per matrimoni, contribuendo in modo rilevante e crescente, accanto alla vendita delle opere originali, ai guadagni degli artisti e della stessa struttura (che garantisce comunque il 50% dei ricavi agli artisti stessi).
Le pratiche educative e commerciali di Creativity Explored hanno attirato l’attenzione di altre realtà analoghe in diverse parti del mondo. Nel settembre 2011, 26 associazioni e fondazioni di varie zone degli USA, dall’Australia e dalla Scozia si sono riunite a San Francisco per la prima “conferenza internazionale su arte e disabilità”, scambiandosi buone pratiche e sfide comuni. Secondo Kappes, anche se questo incontro non ha generato una rete strutturata di centri artistici per persone con disabilità intellettiva, “condividiamo costantemente idee tra noi”. Se in rari casi Creativity Explored, dall’alto di oltre trent’anni di attività, ha svolto il ruolo di modello per la nascita e lo sviluppo di altre esperienze (Moshammer cita un piccolo studio creato recentemente a Santa Cruz, in California), più spesso a risultare efficace è questo più libero scambio di idee, che rispetta le peculiarità di contesti molto di- versi quanto a mondo dell’arte (Kappes fa l’esempio di un recente contatto con l’Indonesia) e anche a caratteristiche personali degli artisti coinvolti – e appare del resto coerente, nel suo procedere per tentativi più che per regole prestabilite, con l’idea di una creatività non “sfruttata” bensì “esplorata”.

La redazione di HP-Accaparlante si è letteralmente innamorata delle opere prodotte entro Creativity Explored e consultabili sul suo sito web www.creativityexplored.org, al punto da volerne alcune che – per gentile concessione di Creativity Explored e degli artisti – accompagnano la monografia di questo numero.

1. Introduzione

Per un bizzarro scherzo della storia, il decennale dell’approvazione e dell’attuazione della Legge 68 del 12 marzo 1999, pietra miliare per l’inserimento lavorativo delle persone disabili nel nostro Paese, cade nei mesi in cui si dispiega la più terribile crisi economica e occupazionale dal 1929.
Migliaia di aziende che chiudono, altrettante se non di più costrette a ricorrere ad ammortizzatori sociali di lungo periodo e comunque con la prospettiva di non ritornare, nemmeno nel medio termine, ai precedenti volumi di produzione, e naturalmente centinaia di migliaia di lavoratori licenziati o in cassa integrazione. Di fronte a questo vero e proprio sconvolgimento di un intero sistema economico, sembra difficile non considerare l’ultimo dei problemi l’occupazione delle persone con disabilità, incapaci di garantire tout court un adeguato livello di produttività individuale – nonché, secondo fonti di governo molto autorevoli, ostacolo in sé alla competitività del Paese per il loro numero, reale o fittizio che sia. In un mondo economico frutto di una nuova divisione internazionale del lavoro, e per questo più selettivo, l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, salvo forse alcune eccezioni molto particolari, diventerebbe quindi un ricordo, legato a un passato di piena occupazione (peraltro di estensione storica molto breve!) in cui il Welfare State tendeva alla coesione e integrazione sociale anche a discapito della produttività immediata.
Oppure no. La disabilità, tanto più quanto è più grave, può essere considerata come il paradigma estremo, e per questo più illuminante, dei limiti del nostro modello economico e lavorativo. Nel senso più ovvio (ma non poi così ovvio in sé), a chiunque può prospettarsi una disabilità acquisita nel corso della propria vita lavorativa; anche se questo caso non si verifica concretamente, l’effetto proiettivo del “cosa mi succederebbe (sul lavoro) se” agisce comunque sulla sfera psicologica ed emotiva della persona, in termini di investimento sulla dimensione lavorativa entro la propria vita e di giudizio sulla qualità del proprio contesto di lavoro. In un secondo campo, il contatto diretto sul luogo di lavoro con la persona disabile, oltre a spazzare via molti pregiudizi basati sulla non-conoscenza, mette in evidenza i meccanismi adattivi, in termini sia tecnico-fisici che relazionali, che il lavoratore svantaggiato richiede necessariamente per un pieno inserimento lavorativo, ma che sono presenti in forma meno appariscente in tutti i contesti di lavoro e per tutti i suoi membri, incrinando le pretese di “standardizzazione” e di “fungibilità” che le filosofie aziendali possono promuovere all’interno dei medesimi contesti. Infine, in un senso più ampio, l’integrazione lavorativa vista come elemento di realizzazione personale per la persona con disabilità, fuori da ogni logica sia risarcitoria che assistenziale, mette in crisi il concetto di “condizioni di mercato”, in base a cui la persona disabile sarebbe semplicemente incollocabile e appunto da risarcire/assistere – ma con questo mina alla base l’idea che, in ambito economico e non solo, ci si possa muovere esclusivamente nei limiti di “ciò che decide il mercato”. Non è allora eccessivo affermare che l’integrazione nel lavoro delle persone con disabilità solleva problemi che la filosofia del sistema produttivo attuale non può risolvere, ciò che, specie in un momento di crisi economica come quello presente, potrebbe contribuire in modo significativo a spostarne e ridefinirne i confini.
In questa prospettiva, l’inquadramento dell’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, lungi dall’essere questione meramente tecnica e riservata agli addetti ai lavori, abbraccia tutte le dimensioni economiche, dall’assetto produttivo complessivo alla “microfisica del posto di lavoro” determinata dalle relazioni nei singoli contesti, e travalica l’analisi di una singola disposizione giuridica pur importante come la Legge 68. La presente monografia, che non può avere alcuna pretesa di esaustività su un tema così ampio se visto da tale angolazione, prende dunque le mosse da questa indagine sulla “68”, che riguarda tanto la norma quanto la prassi delle politiche pubbliche per l’inserimento lavorativo in Italia, per poi spostarsi su una ricerca che ha coinvolto alcuni contesti aziendali specifici di Bologna e dintorni, e tornare infine a un livello macro interpellando esperti non direttamente afferenti al discorso sull’handicap a proposito degli aspetti tecnologici, economici e filosofici che l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità chiama in causa. I lettori più attenti noteranno che la dialettica tra le diverse posizioni a volte sfocia in contraddizione più o meno aperta, a partire dalle distinzioni, insite probabilmente in ogni concezione dei processi di mutamento sociale, tra massimalismo e riformismo e tra cambiamento spontaneo/deterministico e necessità di azione concreta: non ritengo questo un problema, ma anzi il segnale che guardando con occhi diversi a questo tema si apre un terreno sconosciuto, capace di accogliere proposte e soluzioni diverse tra loro e pertanto ancor più interessante.
Questa monografia si compone quasi esclusivamente di interviste, sicché, giusto per non nascondermi, concludo che a mio avviso la “mano invisibile” ha dimostrato di essere molto più portata al gesto del comando e dell’esclusione, o eventualmente dell’elemosina, rispetto a quello del mutuo sostegno. Di conseguenza, per avere domani una società più inclusiva nella dimensione lavorativa, occorre ripensare oggi a tale dimensione e contribuire attivamente a mutarla su una scala complessiva e internazionale, in particolare contrastando la riduzione del lavoro a merce del tutto analoga agli altri fattori di produzione, sulla scorta di quanto hanno già teorizzato importanti sociologi ed economisti anche in Italia. In questo senso, e non in altri, può essere interpretata una locuzione sempre più diffusa e che altrimenti rischia di ridursi a semplice mantra di vuota auto-convinzione: la “crisi come opportunità”.