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autore: Autore: Valeria Alpi

1. Introduzione

Vivere in una famiglia un’esperienza di disabilità comporta una rielaborazione delle dinamiche familiari, dei ruoli, degli stati emotivi. Spesso la letteratura specializzata, i servizi sociali, gli interventi scolastici ed educativi si concentrano solo sulla persona con disabilità ed eventualmente sui genitori. Dove si collocano invece i fratelli e le sorelle delle persone disabili (definiti col termine inglese siblings)? Che ruolo hanno o possono avere? Quali aspettative, desideri, vissuti, paure, rabbie, gioie esprimono?
Nel dicembre del 2010 è stato organizzato il convegno “Mio fratello è figlio unico. Fratelli e sorelle di persone con disabilità” (11.12.10), promosso dal Comune di San Lazzaro di Savena, dallo Spazio Risorse e Sportello Informahandicap, in collaborazione con la cooperativa sociale Accaparlante. Quella giornata ha voluto dare voce proprio a chi finora è rimasto in qualche modo “dietro le quinte”. La complessità e la ricchezza del tema necessitano di tempi non brevi, ma questo primo appuntamento, attraverso le esperienze dirette degli operatori del settore e le storie di vita, ha fatto emergere suggerimenti e riflessioni che possono costruire le condizioni, anche a livello pratico, per proseguire il lavoro nel tempo e con costanza.
Fermarsi a riflettere sui fratelli e sulle sorelle ha permesso di trovare, dopo quella giornata, anche altre esperienze, altre voci, dirette o indirette (sotto forma di percorsi bibliografici).
Le raccontiamo.

Creare e inventare ausili: per scoprire, imparare e…divertirsi

Di Valeria Alpi

A fine 2006 si è svolta a Bologna la VI edizione di Handimatica, la mostra-convegno nazionale e biennale sulle tecnologie informatiche e telematiche che aiutano l’integrazione scolastica, lavorativa, relazionale delle persone con disabilità. Ogni due anni, per tre giorni consecutivi, il Palazzo dei Congressi si trasforma nel più assortito salone di ritrovati tecnologici, mentre nelle aule si svolgono numerosi seminari di approfondimento. All’interno di una fiera sulle moderne tecnologie e sui più recenti software informatici, ci ha incuriosito il seminario dal titolo “Ausili creativi”, che si proponeva di parlare di ausili costruiti con materiale riciclato. E abbiamo così scoperto come gli ausili possano anche diventare materia di gioco, e possano educare alla conoscenza e all’integrazione attraverso il divertimento, senza necessariamente ricorrere alla tecnologia.
Non sempre i prodotti in commercio nel settore ausili, infatti, sono sufficienti o appropriati: l’adattamento, l’uso creativo o l’invenzione di oggetti, anche attraverso l’utilizzo di materiale povero o riciclato, può offrire un’inaspettata opportunità per promuovere la partecipazione attiva e scoprire potenzialità inattese. L’adattamento forzato della persona disabile a un oggetto prodotto in serie, infatti, può essere limitante. Al contrario, un “ribaltamento” creativo può rappresentare un’opportunità di condivisione tra la persona disabile, la famiglia, gli amici.
Secondo Stefan von Prondzinski, docente di Pedagogia e didattica dell’handicap visivo all’Università di Bolzano, bisognerebbe anche ribaltare il concetto di ausilio comunemente pensato: “Di solito si associa la parola ausilio alla parola disabilità, e se non si è disabili si ritiene di non avere bisogno di ausili. Invece, nella nostra vita quotidiana tutti noi ci serviamo di ausili, proprio perché l’ausilio è una qualunque facilitazione per svolgere meglio le attività quotidiane di qualunque persona. Secondo una scala di definizione, quando un oggetto è molto funzionale, di uso frequente, di facile utilizzo, facilmente reperibile, facile da costruire/attivare, utile a più persone, allora è un ausilio”. Facciamo qualche esempio. Avete presente le bancarelle di dolci nelle sagre e feste di paese? Avete presente quei bastoni di plastica colorati, che terminano con un animale anch’esso di plastica dotato di ruotine al di sotto, e il bastone è un tubo pieno di caramelle? Ebbene, giocare con un bastone di questo tipo può diventare estremamente importante per un bambino piccolo non vedente o ipovedente. Il bastone gli permette di avere uno “spazio di sicurezza” davanti a sé, mentre cammina per esempio in un cortile. Nel cortile o in un parco giochi, il bambino può così provare a muoversi e a scoprire il mondo esterno. Facendo muovere davanti a sé il bastone-gioco, esso andrà a sbattere là dove ci sono degli ostacoli, permettendo al bambino di avere la dimensione dello spazio, degli ostacoli, delle forme intorno a lui. Giocare in questo modo lo aiuterà nell’utilizzo del bastone per non vedenti una volta adulto. Nello stesso tempo, un bastone di questo tipo è e resta un gioco. E come gioco può essere tranquillamente percepito anche dagli altri bambini normodotati, favorendo una più naturale integrazione tra bambini.
Altri esempi di creatività provengono da alcuni genitori: un papà ha costruito una barra braille per il suo bambino non vedente semplicemente utilizzando una barra di alluminio, dei chiodi e degli stuzzicadenti. Mentre altre famiglie hanno costruito delle vere e proprie little rooms attraverso le scatole di cartone reperibili nei supermercati e vari oggetti trovati in casa o nei mercatini cinesi. Una little room diventa così uno spazio sensoriale, una specie di stanza a pavimento delimitata da il cartone, con degli oggetti appesi o incollati, dove il bambino, di solito con deficit sensoriali, può essere lasciato a esplorare le forme, gli odori, la consistenza, la luminosità (alcuni oggetti dei mercatini cinesi, infatti, sono molto luminosi e fosforescenti e un bambino ipovedente può sperimentare le luci e le ombre).
Sugli ausili inventati o modificati in maniera creativa, si sta sperimentando a Ferrara una vera e propria “Banca dati delle idee”, dove le famiglie o le stesse persone disabili mettono in condivisione le idee che hanno escogitato per superare una qualche difficoltà. Come nel caso del bastone-gioco o dei genitori sopra citati, molto spesso la via più utile passa dalle invenzioni semplici. Per spingere un pulsante piccolo, per esempio di un interruttore o anche di un giocattolo, serve un movimento cosiddetto “fine” che non tutti riescono a compiere. In alcune abitazioni, magari anche dotate di impianti di domotica, i pulsanti troppo piccoli sono stati poi “ingranditi” attaccandoci sopra un tappo di sughero. Oppure, basta un po’ di velcro attaccato ai pupazzi per i bambini che hanno difficoltà ad afferrare gli oggetti e, come si suol dire, il gioco è fatto!
Sempre a Ferrara, esiste anche un altro progetto, un “Mercatino sensoriale”, dove le scuole materne della zona mettono in condivisione gli oggetti che sono stati prodotti in modo creativo per i bambini con deficit con il coinvolgimento di tutti i bambini della classe. In una classe, per esempio, è stato costruito un percorso tattile attraverso dei sacchettini di plastica tutti uguali e trasparenti. Ogni sacchettino è stato riempito con un materiale diverso: sassi, erba, polistirolo, carta, spugna, metallo, ecc. I sacchettini sono stati collocati uno di seguito all’altro lungo un tavolo e i bambini sono stati invitati a toccare e a sperimentare. Ciò era utile sia ai bambini non vedenti presenti in aula, sia agli altri bambini, che così sperimentavano insieme ai loro compagni con deficit altre forme di sensorialità, prendendo tutto come un gioco e un divertimento.
Quando questo accade, quando l’ausilio è frutto di creatività, i risultati raggiunti sono molto più significativi rispetto a quando un ausilio, una protesi, una modifica architettonica o una strategia riabilitativa vengono pensati e prescritti unilateralmente dagli esperti in materia.

La prima Classificazione mondiale della disabilità ICF-CY per i bambini di tutto il mondo

Di Valeria Alpi

L’Organizzazione Mondiale della Sanità pubblica la prima Classificazione della disabilità e della salute (ICF-CY) applicabile ai bambini di tutto il mondo.
Per capire l’importanza di questa iniziativa, facciamo un passo indietro. Per chi lavora a contatto con la disabilità, sa che esiste un documento dell’OMS detto ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health), in cui la disabilità viene intesa come la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo e i fattori personali e i fattori ambientali in cui egli vive. Ne consegue che ogni individuo, date le proprie condizioni di salute, può trovarsi in un ambiente con caratteristiche che possono limitare o restringere le proprie capacità funzionali e di partecipazione sociale. L’ICF, correlando la condizione di salute con l’ambiente, promuove un metodo di misurazione della salute, delle capacità e delle difficoltà nella realizzazione di attività che permette di individuare gli ostacoli da rimuovere o gli interventi da effettuare perché l’individuo possa raggiungere il massimo della propria auto-realizzazione. In tal senso l’ICF non riguarda solo le persone con disabilità, ma tutte le persone proprio perché fornisce informazioni che descrivono il funzionamento umano e le sue restrizioni.
Ora, per la prima volta, l’Organizzazione Mondiale della Sanità pubblica la Classificazione del Funzionamento, della disabilità e della salute da applicare a bambini e adolescenti (ICF-CY) di tutto il mondo. Si tratta della prima classificazione derivata direttamente dall’ICF del 2001.
Nel mondo, sia nei Paesi più progrediti che in quelli in via di sviluppo, i diritti dei bambini e soprattutto dei bambini con disabilità possono essere – e spesso sono – calpestati in vari modi: mancanza di cure, abbandono, sfruttamento, discriminazione e mancato accesso ai servizi e all’assistenza.
L’ICF-CY fornisce un linguaggio comune per la definizione dei bisogni dei bambini e delle barriere ambientali che essi incontrano, consentendo di evidenziare il loro diritto a ricevere protezione, accesso alle cure, istruzione e servizi.
Sino a oggi ogni Nazione applicava parametri diversi anche per classificare le stesse disabilità, offrendo così risposte e soluzioni non omogenee.
L’ICF-CY potrà promuovere la salute, lo sviluppo e il benessere dei bambini e degli adolescenti attraverso pratiche, politiche e ricerche che si avvarranno di una struttura concettuale e un linguaggio comuni e condivisi.

L’équipe e il progetto di ricerca
Lo sviluppo dell’ICF-CY è avvenuto nell’arco di 5 anni di ricerche ed è stato organizzato e coordinato da un gruppo di lavoro dell’OMS composto da Rune J. Simeonsson, Matilde Leonardi (Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Besta, Milano), Eva Bjork Akesson, Huib Ten Napel, Judith Hollenweger, Don Lollar e Andrea Martinuzzi (IRCCS “E. Medea” – La Nostra Famiglia, Polo Veneto), in collaborazione con professionisti, genitori, funzionari governativi e ONG di 18 Paesi in tutti i continenti (Australia, Brasile, Cina, Egitto, Germania, Italia, Giappone, Kuwait, Macedonia, Messico, Russia, Sudan, Sud Africa, Svizzera, Svezia, Tailandia, USA e Zambia).
Il risultato raggiunto (è rivoluzionario che Paesi con situazioni così diverse siano riuscite a trovare un accordo che mette il bambino con disabilità al centro di una riflessione complessa) è quindi frutto di un lungo lavoro di ricerca e coordinamento ed è stato finanziato dal National Center on Birth Defects and Developmental Disabilities (Centro Nazionale per i Difetti della Nascita e le Anomalie dello Sviluppo) del Center for Disease Control and Prevention (CDC, Centro per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie), USA.
La presentazione di ICF-CY avverrà a Venezia il 25 e 26 ottobre 2007 durante una Conferenza mondiale di lancio dello strumento OMS, che vede l’Italia – con il supporto della Regione Veneto – promotrice di un approccio nuovo in cui si possa progettare per il bambino un ambiente senza barriere e in cui i suoi diritti siano rispettati.

Per informazioni:
IRCCS “E. Medea” – Associazione La Nostra Famiglia
Cristina Trombetti
Tel/fax 031/87.73.84
E-mail: ufstampa@bp.lnf.it§

Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Besta
Enrica Alessi
Tel 349/079.57.66
E-mail: enricaalessi@alice.it

1l di latte, 1kg di farina, 3 uova…: le ricette per l’integrazione

Quanti di voi, da bambini, non hanno passato ore a controllare la mamma, o la nonna, alle prese coi fornelli, mentre impasta, si infarina, sbatte le uova, mescola gli ingredienti? E quanti non hanno poi inventato “il gioco della cucina”, realizzando, con la fantasia, una copia dei gesti degli adulti?
Beh, io mi divertivo tantissimo. Sia a osservare chi cucinava dentro casa, magari provando a dare una mano, per quel che potevo fare; sia fuori, in cortile, con gli amici, dove contenitori di qualsiasi tipo, anche all’apparenza insignificanti barattoli di yoghurt vuoti, diventavano nelle nostre menti pentole e tegami professionali; dove bastava un po’ di fango e un po’ d’acqua per inventare “deliziosi” manicaretti; dove foglie, bastoncini di legno, ghiaia diventavano decorazioni di zucchero o verdura da accompagnare agli “sformati” di fango.
Quello che sembrava solo un gioco era in realtà una vera e propria palestra per la mente.
Non solo per quanto riguarda la fantasia e la creatività: non dimentichiamo che l’arte del cucinare è anche per gli adulti (e non solo per gli sguardi curiosi dei bambini) un’attività sì di procedure ben precise da seguire, ma anche di invenzione e di creatività.
Si parla di palestra per la mente più che altro perché in cucina, o simulando l’azione di cucinare, si sviluppano alcune abilità: innanzitutto l’osservazione, l’esplorazione e la manipolazione, attraverso l’impiego di tutti i sensi. Inoltre, con l’esercizio di semplici attività manuali e costruttive, si imparano la messa in relazione, in ordine, in corrispondenza; la costruzione e l’uso di simboli e di elementari strumenti di registrazione di ciò che accade; l’uso di misure convenzionali e non convenzionali sui dati dell’esperienza; l’elaborazione e la verifica di previsioni, anticipazioni e ipotesi; la formulazione di piani di azione tenendo conto dei risultati; l’uso di un lessico specifico come strumento per la descrizione e per la riflessione; il ragionamento conseguente per argomentare e per spiegare gli eventi.
Queste abilità servono poi al bambino per tutti i suoi sviluppi futuri, soprattutto per quanto riguarda la sua relazione con gli altri, la sua capacità di interagire, di spiegare a se stesso ciò che gli sta intorno e di essere in grado di spiegarlo ad altri. Queste abilità servono dunque alla sua integrazione.
Per questo, proprio da questa parola, è stava avviata, nel Comune di San Lazzaro di Savena, alle porte di Bologna, una vera e propria cucina didattica. Nei locali di “Habilandia” – nome scelto dal Comune per una sede aperta a tutte le abilità e anche a tutti gli handicap, perché ciascuno di noi sa fare meglio una cosa e peggio un’altra, e ognuno, dentro “Habilandia”, può proporre quello che sa fare e mettersi in gioco in quello che non sa fare – dentro questi locali, dicevamo, è stata innanzitutto attrezzata una cucina accessibile anche a persone con deficit, e poi, tra bicchieri e ciotole colorate, hanno preso il via i laboratori di cucina.
L’obiettivo è realizzare processi di integrazione e anche di sviluppo cognitivo per bambini e ragazzi con deficit di vario tipo, soprattutto intellettivo.
Si parte con un intervento uno a uno, un faccia a faccia tra bambino e operatore. Poi, a seconda del tipo di deficit e della necessità di percorsi integrativi, si coinvolgono per esempio genitori e parenti, ma soprattutto l’intera classe scolastica del bambino. I laboratori di cucina avvengono quindi non solo singolarmente, ma anche a gruppi, tra bambino con deficit e bambini senza deficit, in modo appunto da integrare l’intera classe.
Bambini e ragazzi possono sperimentare le potenzialità didattiche della cucina, rafforzando la relazione tra logica-matematica ed esperienza pratica, come nel caso della misura, del peso e del cronometraggio dei tempi di cottura dei cibi. In questi laboratori vengono inoltre favorite e supportate le competenze pratiche e manuali di ogni partecipante, permettendo grande autonomia. La cucina diventa così un luogo di scambio e di confronto su quesiti e questioni pratiche che si presentano durante la realizzazione di una ricetta.
Per un bambino con deficit intellettivo, la cucina è anche un ambiente dove avere almeno una prima comprensione delle quattro operazioni matematiche, delle sequenze temporali, dell’analisi logica.
Aggiungere un ingrediente a un altro, travasare un ingrediente dal suo contenitore originario a un altro, versare un po’ di un ingrediente da una parte e un po’ da un’altra, dividere un ingrediente in parti più piccole, mescolare, accendere il fuoco, aspettare, ecc. sono attività dove entrano in gioco dimensioni di tipo temporale, come la simultaneità, l’ordine, la successione e la misurazione delle durate.
Con pazienza, i risultati attesi o sperati, ovviamente adattati e dimensionati al tipo di deficit del bambino in questione, arrivano, spesso anche inattesi o insperati. E ciò che si cucina sono vere ricette, veri biscotti, marmellate, cioccolatini, torte… tutte da mangiare e condividere all’interno della classe.

 

Comunità virtuali

Era il 1996 quando un mio caro amico mi fece provare per la prima volta “la ragnatela più grande del mondo”, vale a dire il world wide web, il sistema internet. L’esaltazione per la nuova tecnologia fu immediata, inoltre mi sentivo come un pioniere, dato che le connessioni private ad internet erano ancora molto poche in quegli anni in Italia. Da allora cominciai ad esplorare la Rete in tutte le sue componenti e sfaccettature, mi laureai con una tesi sulla cultura del digitale e poco dopo iniziai a fare la giornalista proprio sul web. Ho visto internet crescere ed espandersi a velocità impressionanti, tanto che sembra regnante oggi un fortunato slogan che recita «chi non c’è, non ci sarà». Come dire che il futuro passa per le autostrade elettroniche e chi non sarà in qualche modo connesso alla Rete globale non avrà accesso agli scambi sociali. Questa evoluzione non è di poco conto e, senza schierarci dalla parte degli apologeti o dei detrattori di internet, è necessario riflettere su alcuni aspetti. La Rete ha sempre cercato di manifestarsi come un grande contenitore e distributore di libertà, dove la democrazia sembra a portata di clic per chiunque e dove tutti possono essere fruitori e/o fornitori di informazioni; una grande comunità che accoglie in modo apparentemente politically correct. Ma è davvero così? Oppure, se è così, quali rischi ci sono? C’è qualcosa che rimane escluso dalla comunità virtuale? E se sì, che cosa?

“(Mi) connetto”, dunque sono

Ai primordi dell’era dei computer una stringa di bit rappresentava generalmente informazioni di tipo numerico. Il bit era la binary digit, la cifra binaria che stava alla base del linguaggio macchinico. Ma negli ultimi venticinque anni sono stati inclusi nel vocabolario binario molto più che semplici numeri. E la digitalizzazione non riguarda più solo l’informatica, ma sta diventando un modo di vivere. Il bit è un modo di essere – profetizza Negroponte, il guru della Rivoluzione Digitale. Da un punto di vista empirico, molti aspetti di ciò che fa parte della cosiddetta cultura sono già stati digitalizzati: nella Rete si trovano intere opere letterarie; quadri famosi di pittori non più in vita e opere d’arte contemporanee di artisti viventi; filmati e video; suoni e concerti; visite virtuali a città, musei, monumenti; possibilità di leggere quotidiani e periodici di tutte le nazioni; accesso a interi archivi bibliotecari; idee, commenti, opinioni personali, storie di vita; corsi e lezioni; boutiques virtuali; commercio elettronico; agenzie di viaggi; servizi meteorologici; mappe stradali, cartine geografiche; dizionari multilingue, dizionari enciclopedici; leggi e codici civili; ricette di cucina da tutto il mondo; concorsi; giochi, divertimenti, gossip, scherzi; medicina, salute, malattia; immersioni subacquee simulate; cimiteri virtuali; messaggi, chiacchiere in tempo reale e newsgroup in differita su ogni tipo di argomento; comunità virtuali; fotografie; oroscopo, astrologia, astronomia; sfilate di moda; sessualità e sesso; farmacie; banche e finanza; religione; politica; archeologia; reti civiche; università; servizi postali e francobolli elettronici; web cam; lavoro e telelavoro; ricordi; fanclub; associazioni di volontariato; terzo settore; videoconferenze; firme
digitali; sport; e così via.
Ciò significa che il cosiddetto ciberspazio non è un luogo completamente inventato, di fantasia, senza riferimenti alla realtà concreta. Il ciberspazio è, piuttosto, il luogo in cui le cose materiali, che nella realtà sono costituite da atomi, vengono dematerializzate e trasformate in bit. Questa trasformazione consente anche di superare tutti quei vincoli – appunto materiali – che fanno parte del nostro quotidiano essere nel mondo. Tempo, spazio e corpo, le classiche e tradizionali categorie che hanno rappresentato da sempre il nostro orientamento nel mondo, non sono più valide nel ciberspazio. La “socialità” digitale è caratterizzata da un’insolita velocità che fa subire allo spazio e al tempo inusuali contrazioni e dilatazioni: lo spazio viene dilatato, e il tempo contratto. Ma il punto significativo, a mio parere, è che ciò che esperiamo non si rapporta più alla scala dimensionale del corpo umano: mente e corpo vengono necessariamente separati. La presenza fisica dei partecipanti a un qualsiasi aspetto della Rete viene messa tra parentesi, omessa o simulata. In un certo senso, è vero, questo ci libera dai vincoli imposti dalla nostra identità fisica. Nella rete siamo più uguali, poiché possiamo ignorare o creare il corpo che appare nel ciberspazio. Ma in un altro senso la qualità dell’incontro umano si restringe. Il corpo secondario o controfigura rivela di noi stessi solo quello che mentalmente vogliamo rivelare. Il contatto corporeo diventa opzionale; non si è costretti a trovarsi faccia a faccia con altri membri della comunità virtuale. Si può vivere la propria esistenza separata senza mai incontrare fisicamente un’altra persona.
Si valicano così i propri limiti, per sentirsi liberi, amplificati, multipli, sperimentali; per esplorare mondi impossibili, o possibili altrimenti, altri spazi dopo lo spazio, altri tempi oltre quello lineare, altre velocità. Gli internauti diventano tanti flâneurs, i passeggiatori metropolitani di cui ci hanno raccontato C. Baudelaire e W. Benjamin, solo che stavolta la città è telematica e digitale, ed essi sono liberi di navigare nello spazio virtuale come tanti nomadi psichici, di essere “uno, nessuno e centomila”, in un grande bricolage di se stessi. Strano Narciso, questo, non trovate? Non sogna più la sua immagine ideale, ma una formula di “riproduzione genetica” all’infinito: ritrovarsi ovunque, demoltiplicato.
C’è tutto un filone di pensiero, guidato dal francese P. Lévy, che considera invece la Rete come un nuovo spazio antropologico, in cui l’uomo e la sua mente e il suo sapere saranno i beni più preziosi e costituiranno una vera e propria “intelligenza collettiva” (o dovremmo dire coscienza connettiva?). Un nuovo spazio in cui si generalizzerà il “penso, dunque sono” in un “noi formiamo un’intelligenza collettiva, dunque esistiamo come comunità significativa”. Dal cogito al cogitamus. Analogamente, vi sono sempre più convinzioni che la comunicazione via web perde sì lo spessore materiale, ma il legame sociale permane, dando vita a reti di “vicinato telematico”, ad amicizie via modem. In definitiva, si pensa, è proprio entro i confini comunicativi resi altamente flessibili e aleatori dalle nuove tecnologie che le persone sfruttano le stesse per creare spazi comunitari condivisi e nuovi legami comunicativi. I legami supportati dalle forme elettroniche della comunicazione non sono in senso classico legami forti, così come quelli tradizionali di tipo familiare, di solidarietà primaria. In contrapposizione a questi, sono piuttosto legami deboli, in quanto fondati sull’istantaneità comunicativa ed un’aleatorietà che li caratterizza come effimeri, instabili, cangianti, contingenti al problema, allo spazio e al tempo. Eppure tale distinzione si stempera dinanzi alla paradossale forza dei legami deboli, che creano nuovi spazi sociali, forme di neo-tribalismo, di teleconvivialità.
Il ciberspazio, dunque, potrebbe diventare (se non lo è già) un luogo costitutivo di senso per l’individuo, la sua identità e personalità. Ma può uno scenario digitale, dove digitale – per definizione – vuol dire numero, quantità, leggerezza dal peso gravitazionale, dare un senso alla vita delle persone, vita che è materia, qualità, storia, sapere, pesantezza dei corpi? Il senso di comunità e di appartenenza sono, a mio parere, fortemente analogici e non digitali. Laddove per analogico intendo un forte legame con la materia e con i corpi. Nelle forme di comunità online si viene a perdere quella solidarietà inestricabile tra mente e corpo che fa essere un individuo un’entità specifica e unica, irripetibile e speciale. Nel caso, poi, in cui il corpo fosse quello di una persona disabile, che cosa succede?

La vita della rete non è la stessa cosa della rete della vita

Avete presente i disegni dell’artista olandese M. C. Escher, dove tutti gli oggetti raffigurati sono incastrati uno nell’altro e, anzi, è proprio l’uno che crea l’altro? Cioè i contorni di un oggetto determinano l’altro oggetto e viceversa? Questo vuol dire che un oggetto esiste perché esiste l’altro, e non potrebbe esistere senza. Lo stesso meccanismo si può applicare al rapporto corpo/mente. Secondo F. J. Varela, noto esperto di scienze cognitive, tendiamo a pensare che la mente sia nel cervello, nella testa, ma l’ambiente comprende anche il resto dell’organismo: comprende il fatto che il cervello sia intimamente connesso a tutta la muscolatura, all’apparato scheletrico, agli intestini, al sistema immunitario, agli equilibri ormonali e così via. Essa rende il tutto un’unità estremamente compatta. In altre parole, l’organismo, inteso come rete di elementi del tutto co-determinanti, fa in modo che le nostre menti siano letteralmente inscindibili non soltanto dall’ambiente esterno ma anche dal corpo nella sua interezza. La cognizione è sempre un’azione “incarnata”, perché dipende dal tipo di esperienza derivante dal possedere un corpo con diverse capacità senso-motorie.
Ora, è sicuramente vero che una mente che entra in internet si porta con sé tutta una serie di pensieri e di identità che derivano dall’aver vissuto fino a quel momento un’esperienza corporea di un certo tipo. Ma nel caso di una persona disabile, la faccenda mi pare più complessa. Perché per un disabile un corpo con uno o più deficit è un corpo ingombrante e non sempre facile da gestire (o da essere gestito). Frequento ormai da quattro anni un newsgroup di discussione sull’handicap (it.sociale.handicap) e mi è capitato molte volte di conversare a distanza con gravi disabili motori e con persone con deficit dell’udito, della vista, della parola. Tutti quanti, negli anni, si sono mostrati esaltati da internet. Questo mezzo, ma anche questo sistema in cui si entra, permette loro di valicare i limiti della propria fisicità: appositi software consentono ai non vedenti di navigare tra i siti web e di gestire le risorse di rete; chi non può sentire e parlare può invece, con la posta elettronica, digitalizzare tutti i suoi pensieri e comunicare col mondo nello stesso identico modo dei “normodotati”; i disabili motori possono essere dappertutto senza le materiali barriere architettoniche. Senza contare tutti quegli ausili che consentono l’uso del computer anche a chi ad esempio non può usare le braccia, o a chi non riesce a servirsi delle normali tastiere o mouse. Insomma, sembra proprio che la tecnologia sia diventata una vera paladina che cerca di migliorare la qualità della vita alle persone disabili. Si considerino, inoltre, tutti gli studi e gli accordi su come migliorare l’accessibilità al web anche per chi è disabile e ha bisogno di siti costruiti con accorgimenti particolari. Ben venga tutto questo, ben vengano i progressi tecnologici. Ho sempre sostenuto che l’uomo è faber, prima di essere sapiens, quindi la costruzione di strumenti tecnologici è insita nella sua natura, e come finora sono stati utili tutti gli altri strumenti, così pure è e sarà utile la tecnologia digitale. L’importante è che essa venga considerata sempre per quello che è, cioè appunto uno strumento, un mezzo.
C’è un rischio, però, che corre la società contemporanea: la tecnica è così aumentata quantitativamente, al punto da rendersi disponibile per la realizzazione di qualsiasi fine. Allora muta qualitativamente lo scenario: non è più il fine a condizionare la ricerca e l’acquisizione dei mezzi tecnici, ma sarà la cresciuta disponibilità dei mezzi tecnici a dispiegare il ventaglio di qualsivoglia fine che per loro tramite può essere raggiunto. Si ha così l’impressione di avere qualcosa di assoluto, nel senso etimologico del termine: solutus ab, sciolto da ogni legame, da ogni limite e condizionamento. La persona disabile può, in questo modo, “illudersi” che sia sufficiente una mente che funzioni per essere funzionali alla società. E’ questo anche forse alla base dello sviluppo del telelavoro, utile, certo, per alcuni aspetti, ma inutile a livello di integrazione sociale. Ad internet, e alla comunità online, sembra non importare se impieghi troppo tempo a muoverti, a salire le scale, se magari le scale non riesci neppure a farle, se non riesci a parlare, o parli molto lentamente e male al punto che è difficile comprenderti. Non importa se hai bisogno che qualcuno ti accompagni in bagno o che ti aiuti a mangiare. Non importa neppure se per digitare un messaggio sullo schermo impieghi un’ora perché non riesci ad usare le braccia, tanto alla fine il risultato è che il tuo messaggio appare completamente uguale agli altri. L’importante, nella logica di Rete, è che tu sia in grado di produrre bit di informazione, a qualsiasi livello. Così il corpo sta fuori e non ingombra; così la comunità virtuale può accettarti tranquillamente, tanto il tuo corpo non lo vede, non lo tocca e non lo deve portare in giro; così tu – disabile – ti senti accettato e integrato, perché pensi che la gente apprezzi di te quello che sei dentro, e non come sei fuori, e questo tutto sommato è sempre stato il tuo obiettivo.
“L’illusione non si mangia”, diceva la moglie al colonnello in un noto libro di G. Garcia Márquez. “Non si mangia, ma alimenta”, ribatteva il colonnello, in attesa da quindici anni di una pensione che non arrivava mai. Analogamente, la telematica alimenta un senso della vita aggiuntivo, una specie di valore aggiunto. Laddove la vita reale è resa più complessa da qualche problema corporeo, la vita virtuale crea comunque un suo senso e può fare sentire meglio. Ma si tratta di un senso quantitativo (il bit è quantità per definizione), si parla solo di valore di scambio. La vita, quella vera, è qualità, è valore d’uso. Non mi stancherò mai di ripeterlo: comunità per me vuol dire analogico. Cioè vuol dire interazione tra dei corpi materiali. Vuol dire gente che accetta la disabilità nella sua concretezza, che ti porta a fare un giro in città (questa volta reale e non telematica), che ti imbocca se ce n’è bisogno, che ti sorride, ti abbraccia, ti solleva; gente che ti parla più lentamente se devi leggere sulle labbra; gente che prova ad ascoltarti anche se non riesci ad esprimerti bene; gente che prova a farti esperire il mondo, anche se non lo vedi.
Il problema è che la socialità reale e materiale può anche fare male, crea appunto l’handicap, lo svantaggio, la differenza asimmetrica laddove c’è solo un deficit. Trovare il senso di se stessi e della propria vita in una società dove non si sente il contesto di garanzie per poter esprimere quello che veramente si è come corpi, beh… può essere un po’ complicato, mentre il senso digitale appare più democratico, più friendly, più accogliente. Anche se il sistema internet mi pare ancora un po’ lontano dall’essere veramente democratico, basti pensare anche alla differenza di accesso alle risorse tecnologiche tra Nord e Sud del mondo, ma questa è un’altra storia, ed entra solo marginalmente nella dinamica di questo percorso teorico. Il punto è, e qui concludo, che una vera comunità che accoglie dovrebbe consentire l’accesso e l’usabilità non solo alla vit@ che circola nella Rete, ma alla vita nel suo senso più ampio e probabilmente più sacro.

Dialoghi allo sportello

Driinn…driinn…
“Centro Risorse Handicap buongiorno!”
“Ehm… salve… avrei una domanda, ma non so se è il posto giusto e se potete aiutarmi”.
“Mi dica pure, vediamo cosa si può fare”.
“Ecco signorina… signorina, vero? ha una voce così giovane… ecco, dicevo, mio marito fino a qualche anno fa camminava, ma ora a causa di una malattia è costretto a muoversi su una carrozzina. Tutti i vestiti che aveva non vanno più bene, abbiamo dovuto adattarli, accorciarli, sistemarli in base alle ruote della carrozzina. Sa… ci è venuto a costare parecchio… Ecco, ci stavamo chiedendo se le spese della sarta sono deducibili dalle tasse…”
“Signora, mi dispiace, ma purtroppo non è possibile. Lei ha ragione, e ha sollevato un problema che probabilmente è di molte famiglie, ma purtroppo non ci sono leggi al riguardo”.
“Lo immaginavo… sembrava anche a noi una richiesta assurda in partenza… beh, grazie lo stesso e buon lavoro”.
“Grazie a Lei, buona giornata”.
La telefonata è finita. Un’altra persona è stata registrata come utente del nostro sportello informahandicap. Ma poi ci si ripensa, si parla tra colleghi: non si può fare davvero nulla per la richiesta di questa signora? Si prova a porre il quesito ai “piani alti”, magari si riesce a creare un precedente, magari si riesce a far rientrare le spese di sartoria nel bando dei contributi regionali per l’autonomia della vita della persona disabile. Oppure non si ottiene nulla, come in questo caso. Ciò che conta, però, è che ormai il contatto si è avuto, la relazione si è instaurata. Una storia di vita di una persona, di una famiglia, è entrata a far parte della vita dello sportello informahandicap.

Non si tratta solo di informazioni
La difficoltà più grande che si riscontra è che spesso non si lavora con pure informazioni. Si parte, è vero, da una domanda, cioè da un’informazione che viene richiesta, la quale si tradurrà in una risposta, cioè in una informazione che viene data. E apparentemente la procedura è quasi meccanica, di causa-effetto, di stimolo-risposta. Ma dietro alla pura informazione si nasconde tutto un reticolato di richieste, di aspettative, di emotività, di vita vissuta, che portano a tante situazioni diverse. Capita a volte che le persone arrivino al nostro sportello dopo parecchie telefonate ad altri uffici. Infatti, in un momento storico in cui tutti i teorici della comunicazione sono convinti che non si possa sfuggire all’informazione, che vi siamo immersi come in un grande liquido amniotico, in realtà non è sempre così immediato ricevere o trovare proprio l’informazione che interessa e che è utile, se non indispensabile. Una volta trovato il nostro sportello, si pretende di essere approdati in un porto sicuro, e non ci si limita quindi a chiedere solo informazioni, ma si cerca anche comprensione, ascolto, solidarietà, empatia. Altre volte le persone arrivano invece direttamente da noi, come primo contatto, e se dopo aver posto la loro domanda e ottenuta una risposta restano soddisfatte, si crea un percorso di fedeltà, per cui queste persone continuano a telefonare più volte nel corso dei mesi, con quesiti sempre diversi. E dopo un po’, al di là delle risposte ai quesiti, si cerca anche il semplice surplus di chiacchierata, il semplice “Salve, sono il signor***, si ricorda di me?” “Certo!”. E allora non ci si sente più solo un utente tra i tanti, ma una persona vera e propria.
Può succedere, però, che a volte non si riesca a rispondere ai quesiti, semplicemente perché l’informazione cercata non esiste. O meglio: non esiste l’aiuto cercato. Capita che si rivolgano a noi persone con problemi di rapporto di lavoro, laddove non sono ad esempio rispettate le ore di permesso in caso di handicap, o con liti condominiali in corso sull’installazione di un ascensore. In questi casi è difficile intervenire nella risoluzione delle domande, e il semplice ascolto dei problemi e la solidarietà dimostrata spesso non sono sufficienti a soddisfare l’utenza. Altre volte, invece, si sa già in partenza, sia da parte dell’utente che da parte dell’operatore, che la risposta non esiste, ma basta in questi casi lo sfogo, la condivisione di una situazione di difficoltà.

Dall’informazione al surplus di conoscenze
La complessità delle domande che riceviamo ogni giorno allo sportello informahandicap e la diversità delle modalità con cui le richieste giungono a noi ci mostrano quotidianamente che anche da parte nostra non è da ricercare solo la pura informazione. Certo, per uno sportello che vuole informare il cittadino disabile sulle opportunità che gli spettano di diritto, la quantità di informazioni è un po’ il nucleo centrale. Ma i dialoghi allo sportello non si esauriscono nel momento del contatto con l’utenza. Continuano, dietro le quinte, e sono una risorsa indispensabile per l’aggiornamento sia documentativo che mentale delle persone che lavorano a contatto col pubblico. Le richieste ci arrivano o con la presenza delle persone che fisicamente si recano al nostro sportello, o tramite telefono, o tramite e-mail. Nel primo caso, quale che sia la richiesta e il grado pregresso di conoscenza dell’utente, è più facile ragionare, capire bene la domanda, vagliare le soluzioni; inoltre intervengono tutti quegli elementi di comunicazione pragmatica, come le espressioni del viso, i toni della voce, i gesti; ed intervengono anche gli elementi più concreti e di immediato impatto, come il fare fotocopie, distribuire guide fiscali, fornire il modulo per i bandi-contributi. Per telefono risulta a volte un po’ più difficile capire esattamente qual è il nucleo della richiesta, e si ha un po’ meno tempo per parlare, anche se tanti rapporti di fedeltà sono nati proprio al telefono; via e-mail a volte è tutto più facile, perché chi usa la posta elettronica magari si intende anche di navigazione in internet, e quindi gli si possono fornire informazioni reperibili anche online, ma spesso è più difficile, perché la domanda può non essere precisa e si devono chiedere chiarimenti. Ad ogni modo, si impara a gestire più piani comunicativi, a diversi livelli e con diverse modalità. E dopo che l’informazione viene data, ci resta un background di esperienza vissuta proprio nella modalità di fornire la specifica informazione. A volte, inoltre, l’informazione non è subito disponibile, ma va ricercata. Può capitare che servano anche dei giorni per fare telefonate, controllare le fonti, indagare su cose di cui non siamo perfettamente sicuri. E anche in questo caso – e soprattutto in questo caso – dopo avere fornito l’informazione, la ricerca che è stata compiuta servirà ad aggiornare il nostro materiale documentativo. Spesso, infatti, è proprio in base alle richieste dell’utenza che si può verificare quanto e come il materiale conoscitivo che abbiamo sia corretto e sufficiente. E da lì, poi, si andrà a colmare le lacune, o adattare ciò che già si possiede in forme più facilmente comunicabili.

Storie di vita in una cartellina
Un giorno, terminato l’orario di lavoro allo sportello informahandicap, sono tornata a casa con una cartellina dove dentro avevo riposto le richieste inevase, quelle che dal giorno dopo avrei cercato di risolvere attraverso altre telefonate e indagini. E mentre ero in macchina, pensavo al fatto che dentro la borsa stavo portando con me delle vere e proprie storie di vita. Perché ciò che arriva a uno sportello informahandicap – lo ripetiamo – è un pezzettino di racconto di se stessi, della propria storia nel mondo della disabilità. Sia che le persone si sfoghino, sia che si mantengano invece molto restie nel raccontare, evidenziano comunque un loro vissuto specifico e unico. Certi genitori non dicono mai, neppure su richiesta, qual è la malattia del figlio, qual è il tipo di disabilità. Questo può ad esempio mostrare il solito problema dell’accettazione della disabilità, sia in se stessi, che nel tessuto sociale. O magari hanno già dovuto passare attraverso tante visite, tanti uffici, forse tante umiliazioni o disillusioni e non vogliono più parlarne con gli estranei. Altre volte la rabbia emerge, soprattutto quando è il disabile stesso a parlare, e i racconti si fanno coloriti e a volte anche un po’ violenti. Spesso invece si riesce anche a sorridere e a scherzare sui problemi che si sono incontrati nel corso degli anni, per sdrammatizzare una vita comunque non sempre facile. A volte emerge il grosso problema del “dopo di noi”, presente purtroppo ovunque ci sia una persona disabile. Gli utenti sono i più svariati, perché non ci sono solo disabili, o familiari di disabili, ma anche amici, o educatori ed operatori assistenziali. E le richieste non provengono solo da Bologna e dintorni, ma anche dalle altre regioni, perché spesso sono studenti disabili che vogliono venire a studiare a Bologna, oppure gruppi di turisti che vengono in visita nella nostra città. Bologna è considerata una grande meta turistica e culturale, e anche una città in grado di soddisfare il pubblico disabile (purtroppo non è sempre così). A volte ci contattano gli enti locali di altre regioni per confrontare le modalità con cui si fa fronte ai bisogni dell’utenza. Attraverso tutti questi svariati dialoghi, con le più svariate persone, si riesce a capire cosa non funziona e cosa potrebbe (e dovrebbe) essere migliorato. Ma soprattutto ci si trova, alla fine, ad essere sociologi e psicologi della cultura dell’handicap. Una responsabilità non da poco! Tante volte sono giunti i ringraziamenti per il nostro lavoro, un signore anziano ci ha anche mandato una bella lettera scritta a mano, con la calligrafia di un tempo, per dire “grazie del servizio che fate”; e una signora davvero gentilissima una volta mi è andata a comprare delle caramelle, solo perché l’avevo aiutata a compilare un modulo. E tanti sono stati i sorrisi e le strette di mano. Accanto a questi elementi positivi, anche i negativi, come le frasi “ma voi cosa ci state a fare se non potete risolvermi questo problema?”. Ma sempre e comunque storie di vita, che restano nel nostro archivio. Un’ultima nota di colore, il Centro Risorse Handicap è anche internazionale: una volta, infatti, un gruppo di sei persone giapponesi è venuto in visita al nostro sportello per documentarsi sulle associazioni che organizzano viaggi per disabili, in modo da esportare il modello nel loro Paese. Sayonara, dunque, arrivederci e grazie della visita al nostro sportello, da qualunque parte del mondo veniate.

La storia di Redattore Sociale

Prende il via con questo numero di HP-Accaparlante una rubrica dedicata all’informazione sociale. Con tale espressione si intendono tutte quelle notizie che nei vari mass media (quotidiani, televisioni, radio, siti internet) trattano “eventi sociali” legati alle varie forme del disagio e della marginalità (ad esempio immigrazione, handicap, minori, anziani, senza fissa dimora, tossicodipendenza…). Ma in che quantità e in che modo viene prodotta l’informazione sociale? Cercheremo, nel corso dei mesi, di analizzarne i vari aspetti, quantitativi e qualitativi, prestando un’attenzione particolare alle tematiche dell’handicap. Questa volta iniziamo parlando di “Redattore Sociale”, il primo e tuttora unico seminario di formazione sociale per giornalisti che ogni anno, dal 1994 ad oggi, viene organizzato dal C.N.C.A. – Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza in collaborazione con l’Agenzia di stampa Redattore Sociale (www.redattoresociale.it). Da nove anni i maggiori professionisti del giornalismo, gli addetti al lavoro della comunicazione sociale, i protagonisti del no-profit e chiunque sia interessato, si riuniscono per tre giorni alla Comunità Capodarco di Fermo (AP) per fare il punto sullo stato dell’informazione sociale in Italia. Gli aspetti che emergono sempre ad ogni incontro sono essenzialmente due: la scarsità di questo tipo di informazione, vale a dire che le notizie sociali compaiono di rado sui mass media, e se lo fanno hanno comunque uno spazio ridotto e marginale; oppure, le notizie sociali compaiono e hanno anche ampio risalto, ma solo per fare sensazionalismo e scalpore. Pensate ad esempio a come viene reso giornalisticamente un fatto di cronaca con un genitore che uccide un figlio, e a come la stessa notizia assume invece toni diversi se il figlio è disabile. La parola “disabile” o “handicappato” compare già nei titoli e diventa il punto chiave della vicenda, spostando l’attenzione non sul fatto in sé già grave (un genitore che uccide un figlio) ma sull’handicap e il disagio sociale. Disagio però raccontato in maniera rischiosa, cioè col pericolo di alimentare o addirittura generare stereotipi e pregiudizi. E’ proprio sulla prevenzione di questi rischi che si concentra, allora, il lavoro di Redattore Sociale, cercando di avvicinare il giornalismo a un modo di fare informazione diverso ma fondamentale, e ad approfondire al tempo stesso il contatto e il rapporto tra gli operatori della comunicazione e gli operatori del no-profit (spesso è necessario che anch’essi siano formati ad informare). Al recente seminario svoltosi nel dicembre 2002 e intitolato “Maschere” è emerso un punto chiave dell’informazione sociale: i nudi fatti non si danno mai. Nel costruire e raccontare una notizia sociale influiscono troppi fattori: il contesto, la disponibilità delle fonti informative, la cultura di chi scrive o filma, la necessità di descrivere i sentimenti dei protagonisti, le sensazioni e i pensieri stessi del giornalista, il linguaggio, i filtri applicati, gli strumenti… Insomma, l’informazione sociale rischia di diventare una maschera sul volto dei fatti. Anziché assumere, invece, quella che dovrebbe essere una vera e propria funzione pedagogica: una corretta e neutra informazione sociale servirebbe, infatti, a produrre probabilmente maggiore sensibilità e una “sana” cultura della diversità. Redattore Sociale cerca di fornire gli strumenti necessari ad un’informazione il più possibile divulgativa, documentativa e educativa, partendo da quello che forse è il punto più difficile: cambiare la forma mentis di chi fa informazione e uscire dalla logica del mercato, delle vendite e dell’audience. Troppo difficile? Forse. Però dal 1994 ad oggi le edizioni dei seminari si sono svolte con sempre maggiore successo di pubblico e di visibilità, segno evidente che di informazione sociale se ne sente il bisogno.

Il sociale attraverso le canzoni

Il sociale attraverso le canzoni “Racconti di vita”, in onda su Rai Tre, suggerisce nuovi approcci all’informazione sociale.
"Dalle canzoni si possono ricavare stimoli importanti e momenti

 

di riflessione, soprattutto perché una canzone evoca in pochi minuti quello che avrebbe bisogno di essere comunicato in ore di dibattito”. Giovanni Anversa, conduttore e ideatore di “Racconti di vita”, la trasmissione di Rai Tre dedicata alle tematiche sociali, in onda tutte le domeniche alle ore 12.30, esordisce così nell’intervista che gli abbiamo rivolto. Protagonisti della nuova edizione settimanale del programma, partita a novembre 2002, sono infatti una canzone, il suo cantautore italiano e alcune storie di vita reale che si confrontano e si intrecciano con le suggestioni offerte dal testo. Ecco allora, ad esempio, che si può parlare di condizioni di vita in carcere partendo da Aria di Daniele Silvestri, o dei problemi dell’essere giovani oggi con Bene bene male male di Piero Pelù. "E’ un modo di procedere che ha trovato molti consensi – prosegue Anversa – sia nel pubblico, sia nei cantanti stessi, che hanno così la possibilità di uscire dal cliché dell’ospite musicale e mostrarsi sotto una luce diversa, farsi vedere come persone con proprie emozioni, sentimenti, rabbia". Un modo di procedere che permette di trattare l’informazione sociale sotto forma di racconto (il racconto delle canzoni e il racconto delle persone), e mantenersi un po’ più estranei ai rischi di stereotipizzazione e strumentalizzazione che questo tipo di informazione spesso comporta. "L’informazione sociale – spiega Anversa – è ormai fondamentale e a mio parere non è più un tipo di informazione marginale, che non trova spazio nei mass media tradizionali. Ormai è ‘uscita dal ghetto’ e, anzi, deve diventare l’asse portante del servizio pubblico. Bisogna capire però come farla. Io credo nella capacità e nell’utilità di raccontare esperienze che possono poi diventare esemplari. Si tratta, inoltre, di un tipo di informazione che non può e non deve provenire solo dagli operatori della comunicazione. Occorre un terreno condiviso coi protagonisti del vario associazionismo e una sinergia tra tutte le forze in causa che operano nel sociale”.

 

Raccontare la disabilità

Anche la disabilità viene portata sullo schermo televisivo attraverso le canzoni e i racconti di vita. Ma ciò che permette alla trasmissione di Giovanni Anversa di non cadere in stereotipi, o in fenomeni di pietismo e spettacolarizzazione, è il suo essere una trasmissione “normale” e non “dedicata a”. Non ci sono puntate sulle persone disabili, puntate apposta per loro. Le canzoni suggeriscono di volta in volta tematiche di vita quotidiana come il lavoro, l’amore, la famiglia, la guerra, ecc. E all’interno di queste tematiche possono essere inserite o meno anche le persone disabili, che raccontano le difficoltà o i successi negli stessi ambiti. Si tratta di un cambio di prospettiva molto importante, perché permette di uscire dalla logica dell’assistenzialismo. Per fare un esempio, non si tratta di porre il problema del lavoro solo come obbligo di inserire anche le persone disabili, di trovare ausili e contesti per permettere anche a loro di lavorare, ma si può dedicare una puntata al problema dei posti di lavoro o della sicurezza dei posti di lavoro in genere, come tema che attraversa la vita di tutti e quindi, perché no, anche quella delle persone disabili. La disabilità viene in questo modo inserita nella vita normale e non confinata in discorsi a parte. Inoltre "Quando si parla di disabilità – puntualizza il conduttore – non ci sono solo scale, carrozzine, assistenza. C’è anche la parte ludica e la voglia di divertirsi. Certo, questo non significa che è tutto normale, la disabilità c’è e ce ne sono tante diverse, e va spiegata, va raccontata. Credo che sia molto importante ascoltare e stare accanto a persone che la disabilità la vivono, e che sono riuscite a metabolizzarla non solo a livello personale ma anche culturale. Così come è importante avere sempre contatti con gli opinion leaders dell’associazionismo". Proprio con uno di essi, Franco Bomprezzi, e in collaborazione col Segretariato Sociale Rai, Giovanni Anversa ha scritto un codice etico su come fare informazione sulla disabilità senza cadere in stereotipi (il testo è consultabile sul sito internet del Segretariato Sociale www.segretariatosociale.rai.it, nella sezione codici). Tra le varie norme indicate, c’è la necessità culturale di rendere normale l’accesso: ciò significa che le persone disabili hanno diritto ad essere inserite in televisione, o come protagonisti, o come pubblico, non perché esiste una certa percentuale di quote riservate, ma semplicemente perché è del tutto normale che anche una persona disabile partecipi a quiz, show, spettacoli e a dibattiti in cui la disabilità può anche non essere il punto chiave. Non mostrare una persona disabile “in vetrina”, solo vittima o solo eroe, ma raccontare la disabilità attraverso percorsi del tutto normali, può essere molto utile per passare da una logica di tutela a una logica di vera integrazione, perché anche se è vero – come sostiene Anversa – «che un cittadino oggi, grazie alle tante fonti di informazione e alle nuove tecnologie, ha modo di costruirsi una propria cultura della diversità senza necessariamente passare dal servizio pubblico televisivo", è pur vero che la tv resta il mezzo di comunicazione di massa per eccellenza. E anche se esistono varie realtà impegnate quotidianamente nel processo di produzione di un cambiamento culturale, la televisione rimane per molti il mezzo principale per vedere l’altro da sé.

Quando della disabilità si può anche sorridere

Siamo abituati ad associare le vignette satiriche e umoristiche di noti disegnatori come Altan, Staino, Bozzetto, Silver…, alle situazioni della politica o del costume. Dalle pagine dei quotidiani e dei periodici, le vignette deridono i nostri politici e fanno battute sarcastiche sui nuovi fenomeni culturali e societari: sono lì, a descrivere l’attualità, sempre a passo coi tempi. Non sempre fanno ridere, non sempre vogliono fare ridere. Di solito ci soffermiamo a guardarle perché attraverso pochi tocchi di matita riusciamo comunque a farci un’idea delle novità del mondo, e spesso sappiamo, guardandole, che sotto all’invenzione umoristica c’è una realtà fin troppo vera. Di solito disegnano anche il livello dei nostri successi o insuccessi culturali, i nostri stereotipi e pregiudizi. E’ un modo di fare informazione, se ci pensiamo bene. Cosa succede allora se le vignette incontrano la disabilità? Succede che si crea un tipo di informazione sociale del tutto originale, dimostrando come sia possibile coniugare temi seri con il sorriso. E’ quanto ha fatto “DM”, la rivista edita dalla UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), nel corso di questi ultimi nove anni. Dal 1995 ad oggi, infatti, molti numeri della rivista hanno dedicato la quarta di copertina a vignette realizzate appositamente per DM dai maggiori disegnatori umoristici, affrontando di volta in volta, con l’arma dell’ironia, i pregiudizi, la disinformazione e l’indifferenza nei confronti della disabilità. Non solo: in alcune vignette è il personaggio disabile che autoironizza su se stesso. Nata quasi per caso da un’intervista con Bruno Bozzetto, la rubrica delle “Grandi vignette di DM” è diventata via via un fenomeno sempre più interessante. E l’attenzione verso questa iniziativa è stata sempre più calorosa da parte delle persone disabili, dei loro parenti e amici, di chi lavora con e per la disabilità, ma anche dei tanti “non addetti ai lavori”. Circa una trentina le vignette realizzate fino ad oggi (ma l’iniziativa continua e ci aspettiamo ancora tante occasioni per sorridere): ad esempio c’è il Bobo di Sergio Staino, nei panni di un pirata, senza una gamba e senza una mano, con un occhio bendato, e sulla spalla un pappagallo, che dice a una bambina “Io portatore di handicap?!? Ma che cavolo dici?!? Non vedi che è un pappagallo?”; c’è il personaggio tipico di Altan, seduto questa volta su una carrozzina elettrica equipaggiata della più moderna tecnologia, che dice “Maledetta tecnologia: adesso mi tocca di andare da qualche parte”; c’è un vigile di Zap&Ida che multa un signore in carrozzina perché si trova a transitare in una zona pedonale; c’è il mitico Signor Linea, il personaggio che ha animato tanti “caroselli” televisivi in passato, che grazie alla penna di Osvaldo Cavandoli mostra un uomo in carrozzina che comincia a spingere le ruote sempre più velocemente distanziando e costringendo alla corsa il suo accompagnatore. Nessuno dei disegnatori contattati da DM, salvo rarissime eccezioni, si era mai confrontato con il tema della disabilità: “Abbiamo visto l’imbarazzo di personaggi navigati – racconta Stefano Borgato, responsabile dell’ufficio stampa della UILDM – nell’affrontare temi mai trattati prima, timorosi, come degli scolari, di offendere la sensibilità di qualcuno. Ma poi abbiamo anche raccolto la soddisfazione di avere sperimentato e di esserci riusciti. Quello che ci ha stupito è stato vedere come la maggior parte di questi disegnatori andasse a toccare temi centrali del nostro lavoro quotidiano, veri ‘tic’ e luoghi comuni del mondo della disabilità, senza alcuna ‘imbeccata’ da parte nostra”. Le vignette oggi sono tutte disponibili in Internet, nel sito della UILDM, al seguente indirizzo: www.uildm.org/dossier/vignette/index.htm. Ma sono anche “in tour” per l’Italia. Dopo essere state, infatti, protagoniste anche di magliette di successo e di calendari, a settembre le vignette sono apparse per la prima volta in mostra a Sovizzo, in provincia di Vicenza, all’interno di “Diversamente arte”, una galleria di pittori disabili. La sezione dedicata a DM era intitolata “Handic-Up: sorriderne si può”, con un evidente gioco di parola dove la “a” di handicap è stata sostituita con una “u” affinché si formasse il termine “up” che in inglese significa “su, sopra”, per indicare la positività al posto dello svantaggio intrinseco nella parola handicap. Stefano Andreoli, redattore di DM e curatore dello spazio espositivo, ha così spiegato il significato dell’iniziativa: “Si tratta di vignette che con ironia e satira affrontano il tema della disabilità in tutte le sue sfumature, dalle barriere architettoniche ai pregiudizi culturali, dallo sport alla vita indipendente, agli eccessi di zelo della burocrazia. Disegni umoristici che, con la loro immediatezza, ricreano e deformano la realtà, contenendo molta più forza comunicativa di decine di editoriali e sono in grado, nello spazio di un istante, di restituire alle persone disabili un’immagine di dignità, proprio grazie all’ironia. Sorriderne si può, dunque, anzi si deve, anche per smantellare il vecchio pregiudizio di chi pensa che dietro l’ironia si nasconda la derisione; al contrario, invece, l’intelligenza del sorriso, proprio grazie alla levità e al fatto di passare prima per il cervello che per il cuore, riesce a comunicare l’idea della disabilità in modo più incisivo, soprattutto in chi non è direttamente coinvolto su questioni così delicate e a volte drammatiche”. Erano già stati in molti, negli anni, a chiedere alla redazione di DM di poter utilizzare le vignette, e dopo il successo della mostra di Sovizzo, si è scatenata una vera e propria “bufera di richieste”, come dice Stefano Borgato. Perciò le vignette saranno ospiti anche a Quarto d’Altino (Venezia), a Parma, a Torino, a Prato e in altri comuni dell’Emilia Romagna, per promuovere manifestazioni ancora tutte da costruire. Un’informazione sociale veicolata con la satira va fatta però con particolare attenzione: potrebbe rischiare, infatti, di diventare “pericolosa” e di far riaffiorare quella “cattiveria” che di solito è il sottofondo alle vignette umoristiche tradizionali. E’ successo questa estate – in maniera decisamente involontaria e inconsapevole – proprio a Bruno Bozzetto, uno dei più “antichi” amici di DM, e uno dei disegnatori e cartoonist italiani più noti. Nel libretto “Vacanze coi fiocchi 2003”, un opuscolo realizzato per la campagna di comunicazione sulla sicurezza nelle strade, e distribuito ai caselli autostradali, è comparsa una sua vignetta con il signor Rossi al volante mentre dice “Chi corre in auto non lo fa perché è in ritardo, ma perché è un ritardato”. Subito l’Anffas (Associazione nazionale famiglie di disabili intellettivi e relazionali) ha mandato agli organi di informazione un acceso comunicato stampa di protesta e di censura. Seguita a ruota dalla Fish (Federazione italiana per il superamento dell’handicap), nel cui comunicato si auspica che i criteri di valutazione e controllo dei testi e delle immagini attinenti a campagne di comunicazione sociale vengano stabiliti in consultazione con le associazioni di categoria. La situazione, ovviamente, è molto diversa rispetto alla storia delle vignette di DM: nel caso di “Vacanze coi fiocchi” non si voleva far sorridere, né sdrammatizzare; l’obiettivo era far riflettere seriamente sulla guida pericolosa, non sulla disabilità, e il fatto che si sia usata una parola della disabilità è un caso. Anche se “ritardato” ormai non si usa quasi più come denigratorio verso persone con deficit mentali, ma è diventata una parola per definire qualsiasi normodotato che si comporti in maniera sciocca. “Certo la battuta è sicuramente infelice – ha commentato la redazione di DM – ma non siamo d’accordo con gli atteggiamenti censori”. Neppure noi siamo d’accordo, ad ogni modo, censura o no, il punto è che è stato dimostrato quanto sia facile per chi fa informazione sociale oltrepassare, anche senza volere, una sorta di confine etico non scritto. Per fortuna alle vignette di DM non è mai successo di oltrepassare il limite, permettendoci di continuare a sorridere con “leggerezza” su situazioni molto serie, senza sentirci in colpa!

Per informazioni: Redazione di DM Via Vergerio, 19/3 35126 Padova Tel. 049/802.10.02 – Fax 049/802.25.09 Sito: www.uildm.org E-mail: redazionedm@uildm.it

I disabili devono “Vincere” e avere “No limits”?

Sul finire del 2003, l’Anno Europeo delle persone disabili, sono uscite nelle edicole, quasi in contemporanea, due nuove riviste che trattano tematiche riguardanti la disabilità. Una si intitola “No Limits”, e viene venduta come supplemento al quotidiano “l’Unità”, ogni terzo sabato del mese, al costo di 2,20 euro (cui si aggiunge un euro per il quotidiano). L’altra si intitola “Vincere”, viene stampata grazie ai contributi della Fondazione di Marcello Dell’Utri, noto esponente del Partito “Forza Italia”, e venduta in edicola ogni mese al costo di 3 euro. Se si tratta di una manovra politica, o di una specie di comportamento politically correct per dimostrare che durante l’Anno Europeo delle persone disabili si è fatto qualcosa da entrambe le parti, cioè dalla Destra e dalla Sinistra, non possiamo saperlo. La redazione di “No Limits”, ad esempio, durante la conferenza stampa di presentazione della rivista, ha dichiarato che si tratta di un’operazione editoriale pensata quando ancora non si parlava di Anno Europeo delle persone disabili. Ad ogni modo, le due riviste sono uscite proprio nel 2003. Entrambe mensili, con un prezzo di copertina simile, e con un titolo che richiama in entrambi i casi all’agonismo, esse destano curiosità e qualche considerazione. “No Limits” si presenta con 64 pagine a colori e 40.000 copie di tiratura a diffusione parziale sul territorio (nel senso che non tutte le edicole ne sono in possesso). Il direttore è Ileana Argentin, delegato del sindaco di Roma per i problemi riguardanti la disabilità, nonché, ella stessa, donna disabile. “Vincere” (che ha anche un sito Internet: www.vinceremese.it) si assesta sulle 130-140 pagine a numero, a colori, con una tiratura di 150.000 copie. Il direttore è Massimo Balletti, giornalista di lunga data che è stato per anni alla guida di diverse testate, tra cui anche “Playboy Italia”, nonché papà di un figlio disabile. In entrambi i casi, quindi, i direttori delle due testate hanno esperienze di vita personale a stretto contatto con il mondo della disabilità. Si tratta, allora, di riviste esclusivamente sulla disabilità e destinate a un pubblico solo disabile (o eventualmente a famigliari di disabili)? Per chi sono state pensate, cosa vogliono trasmettere? E soprattutto: che tipo di informazione sociale veicolano? Sfogliandole e leggendole emergono alcuni dubbi. Partiamo da “Vincere”: a prima vista non è tanto diversa da qualsiasi altro periodico in commercio. Anche la disposizione dei testi e delle immagini è accattivante e intrigante, al contrario di molte riviste di “settore handicap” che di solito sono più spente, opache, e forse troppo specifiche su una sola patologia o su un solo argomento (ad esempio la legislazione, o l’integrazione scolastica di alunni con deficit). Di solito, tra l’altro, le riviste in questo settore sono tutte su abbonamento e, dunque, bisogna avere quel determinato interesse per acquistarle; mentre “Vincere” è in edicola come qualunque altro giornale, e quindi è potenzialmente acquistabile da chiunque. Anche le copertine di entrambi i numeri per ora usciti di “Vincere” si inseriscono perfettamente nella logica delle copertine dei settimanali e dei mensili più noti: “metti una bella donna in prima pagina e venderai più copie”. Nel primo numero c’è Emanuela Folliero, la bella di Retequattro, ritratta seminuda in braccio a un suo caro amico in carrozzina, anch’egli seminudo e fisicamente prestante. Nel secondo numero c’è Sharon Stone in piena forma e bellezza, dopo essersi ripresa da un ictus. All’interno, neanche una (l’abbiamo cercata e non c’era!) pubblicità dedicata alle persone disabili. Di solito le riviste che trattano di disabilità hanno pubblicità di carrozzine, di ausili per la vita indipendente, di adattamenti per auto… Qua nulla di tutto ciò, solo le classiche pagine patinate di qualsiasi altra rivista “normale”. E proprio questo aspetto di normalità gioca a favore di “Vincere”: anche se è una rivista con argomenti “diversi”, vuole essere del tutto “normale” e cerca di non essere ghettizzante. Eppure, come si diceva, gli argomenti sono “diversi” e viene naturale domandarsi se un cittadino normodotato, che non è interessato al mondo della disabilità, comprerà mai questa rivista. E una persona disabile cosa può ricavarne? All’interno di “Vincere” sono predominanti le storie di vita, le storie di persone disabili ritratte sorridenti e vincenti, integrate nel lavoro, negli affetti, nella scuola, nella politica… E anche storie di ospedali che funzionano, di aziende che hanno assunto persone disabili, di centri di riabilitazione efficienti, di case-famiglia per il “dopo di noi”… Certo, alcune informazioni, come sapere che esiste il tal centro di riabilitazione, sono sicuramente utili per un pubblico disabile, ma molte delle informazioni di “Vincere” restano superficiali, poco approfondite, e per trovare davvero le informazioni, se si è disabili, sono più utili le altre riviste di settore. Le storie di vita personale, invece, a parte il tono retorico con cui sono raccontate, possono forse servire a non lasciarsi andare, perché “Vincere” racconta la disabilità in positivo, cioè quello che appunto funziona e quello che si può fare “nonostante il deficit”. Ma anche queste storie, come le informazioni di servizio, sono poco approfondite, restano nella superficialità e nella banalità, e allora ci si chiede cosa resta dopo avere letto “Vincere”, su cosa si è più informati o che cosa ha permesso di riflette su una più giusta cultura della disabilità. “No Limits” si presenta con meno pretese di essere una rivista “per tutti”. Lo sa in partenza, e lo dichiara nel sottotitolo, che è una rivista per chi è disabile. Alcune rubriche, come “L’avvocato risponde” o “L’architetto risponde” trattano di accessibilità o di pensioni di invalidità civile, argomenti sicuramente di categoria. Ma anche in questo caso le notizie sono poco precise. E anche “No Limits” si concentra su storie di vita reale, di persone che sono riuscite a fare mestieri magari insoliti per una persona disabile (o meglio: mestieri che i normodotati giudicano insoliti!) o di persone che sono emerse in una qualche attività sportiva paraolimpica “nonostante il deficit”. Vengono anche descritti casi pratici di vita quotidiana, come il fare la spesa se si è in carrozzina, o come si può rendere una cucina adattata anche a chi ha difficoltà motorie. Una rivista per chi è disabile, insomma, e d’altra parte, essendo venduta come supplemento non obbligatorio, sicuramente verrà richiesta solo da chi è davvero interessato all’argomento della disabilità per qualche motivo personale. Anche “No Limits”, rispetto a altre riviste già esistenti su queste tematiche, non è particolarmente esaustiva, o forse è solo troppo simile a qualcosa che esiste già e ci aspettavamo invece delle novità capaci di farci maggiormente riflettere. Come mai, però, la cultura sulla disabilità deve per forza passare attraverso riviste che probabilmente verranno sfogliate solo da chi disabile lo è già? Se si vuole cambiare questa “famigerata” cultura sulla disabilità non sarebbe meglio parlarne attraverso giornali letti veramente da tutti? Perché, ad esempio, la storia di un uomo tetraplegico che è riuscito a diventare uno stilista di alta moda deve comparire solo su un giornale che tratta di disabilità? Perché non potrebbe parlarne una rivista di moda? Immaginiamo che una rivista di moda, se anche ne parlasse, userebbe toni da eroe. La persona disabile – ormai è una stigmatizzazione di uno scorretto modo di fare informazione sociale – o è solo vittima o è solo eroe. Non dovrebbe, invece, essere così eccezionale il fatto che si parli di uno stilista di moda (anche se disabile) su una rivista di moda. Dovrebbe essere naturale, anzi normale, anzi: la norma. Sarebbe l’occasione per veicolare la diversità attraverso la normalità, senza il bisogno di riviste ad hoc sulla diversità. Leggendo “Vincere” e “No Limits” si ha, invece, l’impressione di rimanere nel “ghetto”, anche se siamo solo all’inizio della loro avventura editoriale, e non sappiamo ancora se un giorno verremo smentiti dai risultati ottenuti da queste due nuove riviste, o se un giorno si riveleranno un flop. Un’ultima considerazione, però, va fatta sui loro titoli: titoli agonistici, come si è detto all’inizio. Perché la persona disabile, per accettarsi e per essere accettata, deve per forza dimostrare di essere vincente, di non avere limiti “nonostante il deficit”? Il problema – è sempre quello da anni e anni di tradizioni culturali – è che la disabilità viene associata allo svantaggio, a una situazione negativa che richiede assistenza più che vera integrazione. Quindi, per cambiare questo atteggiamento mentale, appare indispensabile puntare su ciò che può essere positivo, sulle diverse capacità e abilità che comunque una persona disabile possiede e può esprimere. Il concetto di “diverse abilità”, di disabile come “diversabile”, ha il vantaggio di mettere tutti, normodotati e non, sullo stesso livello: nel senso che qualunque persona umana ha delle abilità in cui eccelle e altre in cui ha bisogno di aiuto, e ognuno di noi ha capacità diverse da quelle degli altri. Non si pensa quasi mai, però, che anche il concetto di “limite” ha la proprietà di unire tutti nello stesso livello: perché ognuno di noi ha dei limiti e siamo tutti imperfetti. Soprattutto, non si pensa quasi mai che dietro al termine diversabile, che ormai piace a molti, c’è inevitabilmente quello di limite: sono le due parti della stessa medaglia, il Giano bifronte della disabilità. E anche se si punta solo su uno dei due aspetti, l’altro è potenzialmente lì, anzi: l’uno non potrebbe esistere senza l’altro. Il vero successo culturale sarebbe veicolare il concetto che si è tutti diversamente abili senza per forza essere o dover dimostrare di essere dei supereroi, e si è tutti pieni di limiti senza per questo essere delle persone solo sfortunate. Quando si racconta, invece, la storia di una persona disabile, se si spiegano i suoi limiti si rischia di diventare patetici e in cerca di compassione, se si raccontano i suoi successi si rischia di mostrare solo la scena esteriore, le luci della ribalta, i sorrisi della vittoria. Bisognerebbe partire dai limiti, accettarli e farli accettare, come una cosa normale, perché è assolutamente normale avere dei propri limiti coi quali fare i conti, scontrarsi, magari anche arrabbiarsi e correre pure il rischio di non riuscire a superarli. E poi, solo poi, passare a lavorare sulle abilità diverse, mostrando che anche in situazioni non facili e drammatiche si può vivere bene, con degli affetti, un lavoro, degli amici, una vita sociale… Se si riuscisse a concepire l’idea che i limiti di una persona disabile sono una cosa del tutto normale e non molto diversa dal fatto che ciascuno di noi ha dei limiti, non ci sarebbe questo bisogno sfrenato di mostrare una vita di vittorie e di successi “nonostante il deficit”. Anche queste vittorie e successi sarebbero normali come nella vita di qualunque altra persona che, anche se non disabile, deve comunque affrontare piccoli problemi quotidiani. E allora saremmo tutti in pareggio, senza vincitori né sconfitti. Ma siamo nell’epoca in cui gli esseri umani vogliono mettersi continuamente alla prova e superare i limiti della propria fisicità (si pensi ad esempio agli sport estremi). Perciò risulta vincente solo l’informazione di chi ha, a sua volta, vinto sui limiti. Accettare un pareggio? Mai! Che tipo di cultura ne emergerà? Paradossalmente, una cultura di lotta, anziché di solidarietà e di piena integrazione e accettazione delle persone disabili. “Vincere” e “No Limits”, allora, sembrano interpretare pienamente lo spirito del tempo, la necessità culturale di mostrarsi superiori ai propri limiti. E pensare che sono due riviste nate con grossi limiti strutturali. La famosa ironia della sorte…

La diversità è glamour…o no?

“Sii quello che vuoi sembrare che sei. Oppure, per dirlo più semplicemente: non immaginare mai né d’essere diversa da quello che può sembrare agli altri che tu sia o possa essere stata o potresti diventare; né diversa da quella che avresti dovuto essere per apparire agli altri diversa”, dice la Duchessa, uno dei personaggi che popolano il Paese delle Meraviglie, ad Alice, nel famoso libro di Lewis Carroll. Alice fatica a trovare una morale in questa frase, perché essa ha qualcosa di simile al paradosso, intendendo per paradosso una situazione davanti alla quale il cervello si “smarrisce” all’interno dei giochi linguistici e figurativi. La stessa sensazione di smarrimento, di situazione paradossale, che tra l’altro si inserisce perfettamente nei concetti di essere, apparire, voler essere e dover apparire, l’hanno provata i lettori di “Panorama” il 26 giugno 2003, quando il noto settimanale italiano ha dedicato la copertina e un lungo servizio giornalistico e fotografico all’elogio della diversità, in occasione dell’Anno Europeo delle persone disabili. Nei giorni seguenti alla pubblicazione, cori di protesta hanno fatto il giro di Internet, inserendosi in quasi tutti i newsgroup e forum che trattano di disabilità. In luglio, poi, le stesse lettere che sono circolate nella Rete sono state riprese in toto da alcuni settimanali cartacei, ad esempio da “Vita”, uno dei magazines del non profit più famosi e attendibili, aggiungendo titoli “ad effetto” per rimarcare addirittura lo “scandalo” di un reportage come quello di “Panorama”. Ma uno degli elementi paradossali risiede nel fatto che le proteste non sono giunte dai lettori diciamo normodotati, bensì dai lettori disabili e dalle associazioni che si occupano di disabilità. Che cosa non ha funzionato, allora, nel tipo di informazione sociale proposto da “Panorama”? Innanzitutto, probabilmente, esiste un errore temporale. Il pezzo giornalistico è stato scritto da una giornalista italiana, Stella Pende, ma le foto che accompagnano il servizio e che sono la parte determinante, non le ha scattate Stella Pende, né qualche altro collaboratore di “Panorama”, né sono state pensate e realizzate per il servizio del settimanale.
Le foto sono frutto di due anni di lavoro di un celebre fotografo francese, Gérard Rancinan, che, insieme alla giornalista Virginie Luc, ha girato il mondo alla ricerca di “handicap” curiosi, strani, di uomini e donne che nonostante i gravi problemi e deformità dei loro corpi sono riusciti ad affermarsi come persone vincenti. Tutte le fotografie e i testi di questi due anni di esperienze verranno pubblicati in un libro che uscirà nel 2004 col titolo “In praise of difference” (in Italia: “Elogio della differenza”).
Quindi, anche se nel servizio di “Panorama” viene specificato che le foto sono di Rancinan e Luc, esse comunque appaiono decontestualizzate dalla funzione originale per la quale sono state scattate. Funzione che si capirà sicuramente meglio quando il libro sarà pronto. Ma si sa che i giornali tendono all’esclusiva, allo scoop, e queste immagini hanno ormai fatto il giro d’Europa. In luglio, servizi analoghi a quello di “Panorama” sono stati pubblicati nel supplemento spagnolo del quotidiano “El-Mundo” (“Magazine” n° 199 del 20 luglio 2003, col titolo discutibile di “Gli irrepetibili”) e in alcune riviste dei Paesi dell’Est. Ma procediamo. Un altro errore probabilmente commesso è di tipo estetico, e anche di conseguenza morale: se ci si pensa, ????? ???? ???? ??????? ??????? ?? ?????? ?????
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???????? ?? ??????? ??????..immagini non parlano da sole. L’immagine fotografica è di solito un’immagine senza codice, o comunque con un codice molto debole. Di conseguenza è un’immagine polisemica, cioè può avere più significati a seconda della soggettività di chi la osserva e la interpreta. L’immagine ha bisogno del contesto affinché la sua interpretazione vada nel senso voluto dall’autore. Una fotografia contiene in sé una vera e propria affermazione visuale di una scelta, di una cultura, di uno stato d’animo… ma da sola non può connotare un messaggio. Eppure in questo caso le immagini hanno parlato, ancora di più delle parole della Pende. Si pensi anche alla campagna pubblicitaria del 1998 intitolata “I girasoli” e realizzata dal fotografo Oliviero Toscani per l’azienda di vestiti Benetton: bambini down e ragazzi con deficit psichici furono ritratti con i loro operatori normodotati in un’esplosione di colori, sorrisi e allegria, griffati ovviamente Benetton. Scattarono subito le polemiche delle associazioni di categoria: lo scandalo era l’aver abusato della disabilità per vendere più magliette. Non si pose mai la questione di come furono realizzate le foto, se questi bambini e ragazzi si divertirono, se si instaurarono belle relazioni sociali. Le immagini (senza contesto) bastarono per scardinare certi stereotipi e per preoccuparsene. Personalmente, la campagna “I girasoli” mi piacque molto, così come mi piace – a questo punto posso anche ammetterlo – il servizio di “Panorama”. Con tutti i difetti e le imperfezioni giornalistiche che ha, mi piace nella misura in cui mi pare rispecchi ciò che questi soggetti fotografati da Rancinan vogliono: cioè essere guardati. Si tratta di persone così lontane da quella che comunemente è chiamata normalità, che sono comunque guardate sempre e da tutti, appena escono di casa. Anziché nascondersi, hanno scelto di mettersi in mostra in tutte le manifestazioni della loro vita, scegliendo mestieri che li portano a contatto col pubblico e con la visibilità. Pascal Kleiman, nato senza braccia, è uno dei dj più famosi di Francia e viene chiamato in parecchi locali e discoteche. Anne Cécile Lequien, che ha subito amputazioni alle braccia e a una gamba, nuota e vince davanti a tutti e in costume da bagno alle Paraolimpiadi. Deb Teighlor fa la modella nonostante i suoi 250 chili. Una delle due gemelle siamesi fa la cantante country. Jennifer Miller, la donna con la barba, oltre a insegnare all’Università, si è già mostrata nuda in diversi giornali. Alison Lapper, nata senza braccia e con le gambe più corte, è oggi un’artista di talento e basta una semplice ricerca in Internet per scovare il suo sito personale (www.alisonlapper.com) dove si trovano molte foto artistiche di lei nuda, alcune anche in compagnia di suo figlio. Sono persone abituate quindi a mostrarsi e che hanno fatto della visibilità la loro vittoria sui deficit. Guardiamo, allora, non c’è niente di male (almeno in questo caso). E intanto auguriamoci che l’Anno Europeo delle persone disabili non produca solo servizi poco esaustivi e polemiche circolari.

Madri disabili: facilitare i gesti quotidiani

Quando la madre disabile viene dimessa dall’ospedale, e torna a casa col proprio bambino, è in quel momento che diventa una mamma “handicappata”, cioè si ritrova a vivere una situazione di handicap nell’occuparsi del figlio.

Quando la madre disabile viene dimessa dall’ospedale, e torna a casa col proprio bambino, è in quel momento che diventa una mamma “handicappata”, cioè si ritrova a vivere una situazione di handicap nell’occuparsi del figlio. Ricordiamo che non esistono persone handicappate in sé! L’handicap è sempre situazionale, dato dall’esterno.
Dopo il parto la madre deve anche prendersi cura di sé, il suo corpo è affaticato e si è indebolito.
Deve organizzare il proprio tempo per occuparsi sia di sé che del bambino. Identificare i gesti di vita quotidiana che potrebbero risultare più difficili, e trovare le soluzioni più adatte, diventa uno stato di necessità per migliorare le condizioni sia della madre che del figlio.
Molto spesso si tratta di “trucchi” semplici, o di “adattamenti” realizzati con mobili comunemente in commercio (e non adattamenti “dedicati alla disabilità”). Altre volte occorre invece un consiglio di un esperto e una soluzione tecnica studiata ad hoc per quella persona, per quel tipo di deficit, per quel tipo di abitazione, ecc.
È importante studiare un percorso di autonomia, perché l’essere (o anche il sentirsi) più autonomi infonde fiducia e aiuta a superare i limiti fisici, psicologici e anche sociali (l’immagine della persona disabile come “non abile” a prendersi cura di un figlio) di cui si è detto.
Dato che in Italia si parla ancora molto poco di genitori disabili, mi sono rivolta a due professioniste straniere che da anni seguono le soluzioni personalizzate a genitori disabili: Marie Ladret, ergoterapeuta dell’“Espace conseil pour l’autonomie en milieu ordinaire de vie (ESCAVIE), e Susan Vincelli, ergoterapeuta del Centro di rieducazione funzionale “Lucie Bruneau”, del Québec (Canada). Dopo qualche scambio di e-mail, ecco un piccolo vademecum con alcuni suggerimenti molto semplici ma utili.

La cameretta del bambino

Innanzitutto bisogna che la camera del bambino sia perfettamente accessibile, senza alcun ostacolo che potrebbe mettere in pericolo la madre e il figlio: diminuire quindi i rischi di cadute eliminando ad esempio i tappeti, e rispettare gli spazi di circolazione.
Il letto del bambino deve essere facile da manipolare e a un’altezza adeguata alle proprie esigenze. Una scelta del lettino adattata a se stesse è importante, perché mettere il bambino nel letto è un gesto ripetuto più volte nell’arco di una giornata. La rete del lettino dovrebbe potersi fissare a differenti altezze. Meglio scegliere un letto che abbia delle sponde di facile apertura (ad esempio sponde in tela con chiusura lampo) o comunque preferire dei sistemi di apertura delle sponde che non prevedano la necessità di utilizzare le due mani nello stesso momento.
Se una madre è in carrozzina, si deve posizionare parallela al lettino e l’altezza adattabile della rete non è sufficiente per afferrare il bambino, occorre anche una torsione del busto. Il fatto è che la schiena della madre è fragile al ritorno dal parto, e per evitare queste torsioni sarebbe ideale che la parte sotto il lettino fosse completamente libera in modo da permettere il passaggio della carrozzina: per questo è preferibile un lettino con l’apertura delle sponde laterale.
Esistono anche lettini che hanno l’altezza della rete regolabile elettronicamente attraverso un telecomando, ma si tratta purtroppo di sistemi molto costosi.
Per sollevare il bambino dal letto e trasportarlo, ci sono alcuni trucchi che possono aiutare i genitori disabili. “Acchiappare” il bambino per la tutina può rivelarsi molto pratico; esistono comunque delle amache porta-bambini che permettono di prendere il bambino in tutta sicurezza.
Spesso la mamma in carrozzina afferra il bambino con una sola mano, perché ha bisogno dell’altra mano libera per assicurare il suo equilibrio sulla carrozzina (soprattutto nel periodo post parto quando gli addominali sono deboli). Anche la mamma con difficoltà a deambulare può ugualmente avere bisogno di avere una mano libera per trovare un punto d’appoggio con cui poi farsi forza per sollevare il bambino con l’altra mano.

Il fasciatoio

Il fasciatoio, elemento importante per la cura del bambino, deve avere un’altezza giusta in rapporto alla statura della persona disabile e del suo deficit. Se la persona è in carrozzina, il fasciatoio deve essere sgombro nella parte inferiore in modo da consentire il passaggio delle ginocchia. Anche in questo caso esistono dei fasciatoi regolabili in altezza elettronicamente, ma si tratta sempre di un problema di costi economici.
Un materassino da usare come un fasciatoio posizionato su una scrivania o una tavola qualsiasi, con dei cassetti su un lato in modo da avere vicino tutto l’occorrente, è spesso l’opzione scelta dai genitori in carrozzina, ed è in effetti la più semplice. I fasciatoi tradizionali non permettono il passaggio della carrozzina nella parte inferiore.

Il bagnetto

Il bagno è un momento privilegiato tra la madre e il bambino, ma è ugualmente uno dei momenti più temuti dalle mamme disabili. Infatti esse sono spesso in apprensione, apprensione di solito più legata alla paura che non al deficit!
Esse possono sicuramente utilizzare le vasche da bagno per bebé che si adattano alla vasca da bagno grande. Delle piccole sedie a sdraio da posizionare sul fondo della vasca o della doccia sono una sicurezza supplementare. Esistono anche delle piccole vasche da bagno da posizionare sulla tavola, o su dei cavalletti che facilitano l’accesso in carrozzina.
Quando il bambino diventa grande, alcune mamme con difficoltà a deambulare preferiscono utilizzare la doccia perché il bordo è meno alto e la madre non ha bisogno di sollevare il bambino per farlo uscire.
Il termometro nell’acqua per verificare la temperatura è raccomandato soprattutto se la madre ha delle disfunzioni che riguardano la sensibilità superficiale della pelle.

Nutrire il bambino

L’allattamento

Le madri che hanno una debolezza muscolare a livello delle membra superiori, possono utilizzare dei cuscini di mantenimento o dei cuscini d’allattamento che permettono di mantenere il bambino in una posizione confortevole in tutta sicurezza e di evitare contratture o torsioni.

Dare il biberon

Le persone che hanno una mancanza di forza possono utilizzare dei biberon in plastica, più leggeri e che non si rompono. Per le mamme che hanno delle difficoltà ad afferrare gli oggetti, sono sempre possibili degli adattamenti sul biberon, tipo impugnature speciali, magari con sistemi a strappo. La sterilizzazione dei biberon è più facile a freddo o nel micro-onde. Anche gli scalda biberon elettrici sono più pratici e più sicuri perché evitano di manipolare oggetti bollenti (soprattutto per le persone che hanno delle disfunzioni che riguardano la sensibilità superficiale della pelle).

Lo svezzamento e ilpassaggio al cucchiaino

Le mamme che hanno delle difficoltà ad afferrare gli oggetti possono utilizzare delle posate adattate (ad esempio coi manici grossi, o anche qui con sistemi a strappo), o anche degli anti-scivolo, dei piatti con dei punti d’appoggio, tutti gli ausili di cui la madre magari già si serve abitualmente.

Il seggiolone

La scelta del seggiolone può essere importante soprattutto per le madri in carrozzina. Alcuni modelli di seggiolone hanno i piedi sufficientemente divaricati senza barre trasversali per permettere il passaggio della carrozzina. Esistono dei seggioloni regolabili: la parte in cui far sedere il bambino può essere installata più o meno in alto a seconda dell’altezza della madre e del suo deficit.

Trasportare il bambino

Portare il bambino tra le proprie braccia potrebbe sembrare una cosa del tutto naturale, ma quando la mamma ha già delle difficoltà a spostarsi, questo diventa più complicato e soprattutto più angosciante perché c’è la paura di cadere insieme al bambino.
I porte-enfant, quelli che si attaccano al ventre, possono essere una soluzione per sostenere il bambino, sia che la madre sia in carrozzina oppure no. È più pratico che il sistema di aggancio sia sul davanti e facile da manipolare, magari con sistemi a strappo. Per sollevare il bambino, molti genitori lo afferrano per i vestiti; delle amache porta bambini disponibili sul mercato possono facilitare, come già detto, il trasporto del bambino, soprattutto per sollevarlo dal letto o dal fasciatoio. Il porte-enfant laterale è più pratico quando il bambino cresce: evita la torsione della colonna vertebrale quando si porta il bambino su un lato.

I primi passi

Il momento in cui il bambino comincia a camminare è un momento molto delicato, perché egli tocca tutto e bisogna seguirlo dappertutto, e una mamma con difficoltà a deambulare o in carrozzina non potrà sorvegliarlo così facilmente. Per rimediare a questa difficoltà, alcune mamme utilizzano dei veri e propri “trottatori” in modo che il bambino non cada (i genitori disabili non possono rialzarlo o frenarlo facilmente) e non abbia accesso a tutti gli angoli della casa (dove i bambini amano generalmente andare!).
Per insegnare loro a camminare, esistono delle vere e proprie “bardature” primi passi (che si possono procurare in qualsiasi ipermercato) per mantenere il bambino in equilibrio senza doversi abbassare.

Le uscite

Per il trasporto all’esterno

Le mamme in carrozzina utilizzano spesso il porte-enfant ventrale, così possono tenere il bambino contro di esse e nello stesso tempo spingersi con la carrozzina. Alcune mamme con difficoltà a deambulare preferiscono utilizzare la carrozzina per bambini o il passeggino (mezzi che procurano anche un punto d’appoggio per loro stesse). Esisterebbero anche delle motorizzazioni per le carrozzine e i passeggini in modo da facilitare la spinta nelle salite o il frenaggio nelle discese, ma purtroppo questo tipo di aiuto è molto costoso e non commercializzato in tutti i Paesi.
Una specie di “guinzaglio” è utilizzato quando il bambino cammina: questo gli permette di andare e venire e spostarsi in un perimetro di sicurezza che la mamma può controllare. Questa soluzione è la più prudente quando si è sulla strada, ma può essere utilizzata anche ad esempio in prossimità dell’acqua.

La macchina

Mettere il bambino nel seggiolino dell’auto non è affatto semplice quando un genitore ha un deficit. D’altra parte il seggiolino va utilizzato per questioni di sicurezza. Probabilmente si avrà bisogno di aiuto nel collocare il bambino sull’auto, oppure quando il bambino diventa più grande può salire da solo. Esistono dei seggiolini girevoli che possono facilitare questa operazione, ma questo materiale ha un costo importante e resta un lusso per la maggioranza delle madri.

Serve una “pubblicità sociale” per parlare di sociale?

Si sente sempre dire che viviamo nell’era dell’informazione, che siamo circondati dall’informazione, che è impossibile sfuggire a essa. Si dovrebbe però aggiungere che la vera “realtà” cui non possiamo sottrarci è la pubblicità. In televisione, alla radio, al cinema, nei cartelloni per le vie delle città, sugli autobus, sui sacchetti per la spesa, in internet, sui giornali… ogni giorno riceviamo, anche non volendo e non cercandoli, tantissimi messaggi pubblicitari. Sull’importanza o la non importanza della pubblicità, sulle sue logiche, sul suo potere, sulla sua realizzazione (ormai è una vera e propria gara allo spot più spettacolare, meglio “girato”, più attraente), massmediologi, sociologi, psicologi e marketing managers dibattono costantemente. Non è mia pretesa inserirmi in questo dibattito, ma due pubblicità recenti hanno attirato la mia attenzione, e vale la pena provare a ricavarne qualche considerazione. Un po’ di mesi fa ricevetti il comunicato stampa che annunciava l’avvio di una nuova Pubblicità Progresso, questa volta sul tema della disabilità, cosa che non succedeva da anni (l’ultima Pubblicità Progresso su questa tematica risaliva al 1993). La nuova campagna di “pubblicità sociale”, intitolata “E allora?”, si presentava innanzitutto con un sito internet dedicato, www.eallora.org. Incuriosita, visitai subito il sito web: visi di persone disabili, con deficit intellettivi, apparivano sorridenti e ironici sullo schermo del pc, e una scritta a lato annunciava: “Io mi chiamo Alfonso… Io mi chiamo Ciccio… Io mi chiamo Stefania… E allora?”. Visi che guardavano e in qualche modo “sfidavano” lo spettatore, come a dire: “E allora? Non siamo forse uguali a te? Ti credi tanto diverso?”. Questa campagna si presentava come la più complessa e articolata di tutta la storia di Pubblicità Progresso, in quanto aveva coinvolto diversi media e diverse persone. Il cantautore bolognese Lucio Dalla aveva composto appositamente per la campagna  – e senza profitto – una canzone dal titolo “Per sempre presente”; con questa canzone era stato realizzato un videoclip in cui si mostrava la vita quotidiana e il lavoro delle persone disabili della cooperativa “Solidarietà”; si diceva che il videoclip sarebbe andato in onda nelle reti televisive e nei canali musicali; si prometteva che la pubblicità sarebbe stata diffusa anche in radio, con affissioni stradali, e soprattutto su internet per coinvolgere i più giovani; gli allievi del corso di narrativa del Centro Lab di Roma erano stati invitati a comporre racconti sul tema della disabilità; tutti i racconti erano stati pubblicati on line sul sito della campagna, e lì si poteva votare il racconto preferito e partecipare all’estrazione di premi… Il videoclip (scaricabile gratuitamente, così come anche il file della canzone) peccava un po’ di retorica, come succede spesso quando si vuole fare comunicazione sul sociale, e anche le frasi con cui veniva spiegata la campagna sul sito erano un po’ bordeline tra la ricerca di vera integrazione e il pietismo (sempre rischioso nelle Pubblicità Progresso): “La campagna di comunicazione sociale ‘E allora?’ nasce per sollecitare le persone a tutto ciò che è diverso, anche in senso apparentemente negativo. Scoprire la sensibilità dei disabili e le loro inaspettate capacità, ci insegna che le differenze ci sono, ma che sono i nostri pregiudizi a farle sembrare insormontabili. Comprendere il miracolo e il mistero della vita anche in chi è disabile o disagiato significa cancellare i pregiudizi e imparare a guardare alle persone con tutto il loro bagaglio di dignità e di legittimo desiderio di felicità. Quando capiremo che siamo tutti diversi, nessuno sarà più diverso”. Inaspettate capacità dei disabili? Miracolo e mistero della vita anche in chi è disabile? Non saranno le frasi migliori, ma tutto sommato questa campagna non era affatto male. In qualche modo mostrava la disabilità, ed è giusto mostrarla, perché è inutile continuare a costruire teorizzazioni  sull’integrazione delle persone con deficit senza mai mostrare concretamente ciò di cui si sta parlando. La disabilità nel mondo esiste, tanto vale guardarla, così forse un giorno ci avremo fatto l’abitudine e sapremo cosa fare per essa e come relazionarci con essa, come con qualsiasi altra realtà “normale”. La domanda ora è: vi siete tutti accorti che mesi fa è partita questa campagna di pubblicità sociale? Alcuni amici mi hanno riferito di averla vista al cinema, e personalmente ho visto un giorno un cartellone per le vie della città. Ma in televisione non mi è mai capitato di vederla, per radio non ne ho mai sentito parlare, e anche nei canali musicali non ho mai intravisto il videoclip di Lucio Dalla. Solo qualche portale internet che si occupa di disabilità ha parlato della campagna, o ha pubblicato il link al sito di “E allora?”. Senza tv, che resta comunque il medium di massa per eccellenza, e senza aver coinvolto davvero tutta la rete di internet, ma solo i siti già dedicati all’argomento disabilità, ci si domanda quante persone siano state davvero raggiunte dal messaggio di Pubblicità Progresso. 
Un messaggio che invece, sicuramente, ha raggiunto quasi la totalità degli italiani, è il nuovo spot di Telecom Italia. Per un minuto si vede un ragazzo che “parla” con il linguaggio dei segni delle persone sordo-mute: un minuto di silenzio per lo spettatore, solo le immagini di questo protagonista. Poi, all’improvviso, una voce fuori campo annuncia che il ragazzo sta parlando al telefono! È la nuova tecnologia di Telecom, il videotelefono. Lo spot, progettato dalla nota agenzia Leo Burnett (quella della pubblicità della Breil, tanto per fare un nome), è semplice, pulito, di grande impatto emotivo, bello insomma. In pochi istanti ti ricorda che non tutti riusciamo a comunicare nello stesso modo, che esistono altre forme di comunicazione, che queste forme possono essere integrate e aiutate dalle nuove tecnologie. Non c’è retorica e non si stimola pietà: si mostra solo uno dei casi in cui il videotelefono può essere molto utile. La disabilità, il deficit vengono inseriti in una pubblicità “normale”, non “dedicata a”. Certo, si può obiettare che i canali con cui Telecom può veicolare le sue pubblicità sono più potenti di quelli di Pubblicità Progresso, o sono più “legittimati” ad andare sempre in onda rispetto a un tipo di pubblicità più di nicchia. Si può anche obiettare che Telecom potrebbe aver “sfruttato” la disabilità per vendere di più. Però questo nuovo spot fa riflettere: serve necessariamente una “pubblicità sociale” per parlare di sociale?

Un sito web con giochi davvero speciali

Anche se i bambini hanno una creatività innata, e una fantasia tutta loro, quante volte gli adulti (genitori, insegnanti, educatori, animatori, ecc.) devono inventare un gioco, o cercare dei giochi, per coinvolgere i più piccoli? Il sito web “I giochi di Elio” (www.igiochidielio.it) può essere un’ottima base di partenza per trovare tanti spunti interessanti, come i giochi da tutto il mondo, i giochi delle regioni italiane, i giochi per i viaggi, i giochi per i giorni di pioggia, i giochi di espressione, di movimento, di memoria, da tavolo, a squadre, i giochi per una festa…
La sezione che più ha attirato la mia attenzione riguarda, però, i “Giochi per bambini speciali”, sezione presentata con queste parole dallo stesso Elio Giacone, ideatore e curatore del sito: “In queste pagine potrai trovare giochi per bambini speciali (non vedenti, non udenti, con limitazioni motorie…), bambini in grado di giocare con tutti gli altri purché il gioco abbia determinate caratteristiche. Queste pagine non hanno la pretesa di presentare attività specifiche legate alle differenti limitazioni, ma vogliono semplicemente proporre una serie di giochi realizzabili tutti insieme, giochi in cui le differenze tra i bambini non costituiscano uno svantaggio”. Incuriosita, ho fatto una breve chiacchierata con Elio Giacone. Ecco il risultato.
Come è nata l’idea di una sezione di giochi per “bambini speciali”? Avevi o hai esperienza con bambini disabili?
Dopo il diploma ho frequentato la scuola per educatori specializzati e ho iniziato a lavorare nelle scuole con bambini con diverse tipologie di deficit. Già allora il gioco mi interessava moltissimo (la tesi l’ho fatta sulla scoperta della Natura attraverso il gioco…), e così ho usato proprio il gioco per entrare in contatto coi bimbi e per aiutarli a comunicare con me e con gli altri. Poi, a poco a poco, il gioco ha preso il sopravvento e così il mio lavoro mi ha portato a lavorare non più solo con bimbi speciali, ma un po’ dappertutto, nelle situazioni più disparate. L’esperienza fatta in quei primi anni di lavoro mi è servita, ben mescolata con tutto ciò che ho imparato dopo, a gettare le basi della sezione di giochi per bimbi speciali.

Hai provato,  o fatto provare, effettivamente questi giochi con i bambini? Hai visto se “funzionano” davvero, se i bambini – speciali e non – si divertono tutti insieme?
Gran parte dei giochi li ho collaudati direttamente in questi anni: quelli che mi lasciavano qualche dubbio non li ho inseriti nel sito o, in pochi casi, li ho tolti. La buona riuscita di un gioco dipende da tantissimi fattori diversi, legati al gruppo di bimbi, alle dinamiche che ci sono tra loro, al modo di presentare il gioco e così via…. Il discorso vale anche, ovviamente, per i giochi proposti a bimbi disabili inseriti tra gli altri. I giochi sul sito sono scelti tra quelli che “funzionano” meglio, cercando di evitare i giochi molto semplici o molto conosciuti.

Per inventare o adattare i giochi hai consultato qualche associazione di categoria?
Prima di mettere i giochi sul sito ho cercato la collaborazione o la supervisione di associazioni di categoria reperite su Internet, ma finora non ho ricevuto molto aiuto. Tanti complimenti, tanto interesse per ciò che sto facendo, tante recensioni buone… ma niente di più. Lo stesso vale,
ad esempio, per i giochi provenienti da altri Paesi o per i giochi regionali. Forse è proprio il meccanismo di Internet, il modo consueto di usare la Rete che porta a questo poco scambio. Sto cercando di mettere nel sito le esperienze che ho fatto finora, e che sto facendo, proprio in modo da
poterle condividere con gli altri. Sono sempre molto graditi i consigli, i suggerimenti e i commenti.

Per saperne di più:
www.igiochidielio.it
elio@igiochidielio.it

Mamme. Nessun aggettivo dopo il punto

Madri disabili: percorsi di adeguamento di sé tra difficoltà e soluzioni

Ho pensato molto a come scrivere questa monografia dedicata alle madri disabili.
Sono sociologa di formazione e giornalista di professione, e immaginavo che avrei condotto un lavoro esclusivamente giornalistico, di interviste e raccolta di dati, con qualche spunto per generalizzare le riflessioni in un quadro sociale. Ma questa monografia mi ha coinvolta emotivamente fin dall’inizio, e il lavoro che ne è seguito ha interessato tante altre persone, stimolando tanti dialoghi, tante chiacchiere informali… Alcune considerazioni, che non sarebbero mai emerse dalle interviste tradizionali, sono scaturite invece dal parlare quotidianamente con persone che mi chiedevano come procedeva il lavoro. Perciò ho deciso di raccontare, esattamente, in che modo questa monografia si è sviluppata nel tempo, dicendo da dove sono partita, il perché, che cosa pensava la gente, e così via.
In un certo senso questo è il racconto di una storia.

Perché le madri disabili
Come mai la scelta di questo tema? Per due ordini di fattori, gli uni oggettivi, gli altri soggettivi.
I dati oggettivi. La genitorialità, nel mondo della disabilità, è sempre trattata dal punto di vista di genitori normodotati che hanno figli disabili. Esiste un’ampia letteratura, sia italiana sia straniera, sui genitori con figli disabili, e gli argomenti trattati sono molti: come essere genitori “speciali”, come essere genitori “normali”, come affrontare la delusione sulle aspettative che si nutrono verso i figli, come educare i figli disabili a un percorso di autonomia, come riacquistare e poi saper dare fiducia, come comunicare a un genitore la nascita di un figlio disabile (la prima informazione), e così via.
Quasi niente esiste invece sul tema opposto, su quando cioè a essere disabile è il genitore e non il figlio. Del materiale di approfondimento si trova nella letteratura straniera, ma in Italia – lo ripeto – la produzione è scarsissima. Eppure non si tratta di un tema così insolito, a meno che non lo si creda tale. Le persone disabili che diventano genitori sono davvero tante, più di quante si possa immaginare. Eppure non ci si pensa? Già. Forse l’idea che un genitore disabile possa prendersi cura di un figlio è ancora “strana”, è ancora una “follia”. Per non parlare del fatto che a tutt’oggi, nel 2005!, bisogna continuare a lottare affinché i “normodotati” considerino anche le persone disabili come soggetti di diritto di una propria sessualità. E senza aver compreso questo ragionamento sulla sessualità delle persone disabili (che c’è, esiste e deve esistere, pur nella sua complessità emotiva, psicologica, relazionale, fisica, sociale… ed è inutile che si faccia finta di niente…), è difficile fare quel salto in avanti che permette di pensare anche alla maternità e alla genitorialità di persone con deficit.
Nello stesso tempo, però, non si vogliono negare eventuali difficoltà. Affrontare la condizione di madre per una donna disabile è comunque più complesso che per una donna senza deficit, ed è soprattutto quello che accade dopo il parto a necessitare di un maggior numero di attenzioni. Tornare a casa e trovarsi un neonato fra le braccia, doversi prendere cura di lui, ovvero di qualcuno che è totalmente dipendente da altre persone almeno nei primi anni di vita, non è così semplice. Non è semplice per le donne senza deficit, che comunque vedono sconvolti i loro ritmi di vita (e di sonno!) e si affaticano a seguire costantemente un bambino piccolo. Per le donne disabili è ancora meno semplice.
Si può essere autonome, nella cura del proprio figlio, nonostante i deficit? E in caso contrario, ci si può sentire comunque madri perfettamente adeguate? Quali sono le difficoltà oggettive o le paure che accompagnano l’accudimento del figlio? Come vive la coppia questa situazione? Queste erano le domande principali che mi affollavano la mente quando ho deciso di portare avanti questo lavoro. E a queste cerco di dare una risposta, per avere un po’ di documentazione su un tema così scarsamente trattato.
I dati soggettivi. Sono una donna, e so che anche quando l’idea di un figlio è molto lontana, quando non si hanno le condizioni per mettere in atto il desiderio di un figlio (un compagno, una certa stabilità economica, un posto in cui abitare), quando si è magari deciso che non si vogliono avere bambini o che si vuole aspettare, comunque sia per una donna è difficile eludere il pensiero della maternità. Se per natura o per condizionamenti sociali, non so. Ma è un pensiero che c’è. C’è anche per gli eventuali papà, ovviamente. Ma per una donna è “più” inevitabile. Inoltre, avendo io una disabilità motoria, conosco le ansie che possono accompagnare un percorso di maternità. Volevo, pertanto, parlare con donne disabili che hanno avuto figli, per scoprire quante di queste ansie abbiano un fondamento e quante invece possano essere superate in modo creativo. Tutto questo per fornire modelli ed esempi ad altre donne disabili, e per far capire a chiunque che essere madri disabili non è di per sé una “follia”….

Quello che non troverete (o che troverete in parte)
Non si parlerà dei papà disabili. Non per discriminazione ovviamente, ma solo perché, nei primi anni di vita del bambino, la consuetudine vuole che sia compito della madre occuparsi più strettamente di lui: allattarlo, cambiarlo, vestirlo, dargli da mangiare, lavarlo, portarlo a spasso, ecc. Si tratta di operazioni complicate per le mamme che hanno un deficit. Perciò ci concentreremo su questo, e chissà che in futuro non si possa approfondire il tema dei genitori disabili comprendendo anche i papà.
Non si parlerà di figli divenuti adulti che abbiano avuto uno o entrambi i genitori disabili. Si parlerà, invece, dei figli solo in quanto raccontati dalle madri intervistate. Le interviste fatte a figli ormai grandi, per sapere come abbiano vissuto la situazione di disabilità di un genitore, costituiranno forse un giorno l’argomento di un altro numero monografico di HP-Accaparlante. In bibliografia viene, comunque, indicato materiale di documentazione proprio su questo tema.
Non verranno approfondite le disabilità sensoriali (uditive e visive), se non in bibliografia, e di questo mi dispiace. D’altra parte il presente lavoro vuole essere molto circoscritto. Sono, pertanto, prese in considerazione solo le disabilità motorie (probabilmente perché qui, al Centro Documentazione Handicap di Bologna, ci siamo specializzati sempre di più in questo senso).
Altro tema che resterà escluso è quello della disabilità intellettiva, sebbene vi siano molti casi di maternità tra persone con deficit psichici (derivati purtroppo spessissimo da casi di abusi).
Non si parlerà di sessualità in senso stretto, se non attraverso rimandi bibliografici di documentazione. È evidente che il discorso sulla sessualità dovrebbe precedere quello sulla maternità. Ma con questa monografia si intende indagare il rapporto madre disabile-figlio nel momento in cui il bambino esiste già, lo si è concretamente portato a casa dall’ospedale e lo si deve allevare. Tutto quello che precede è un altro tipo di lavoro, già trattato più volte su “HP-Accaparlante”.
Non si farà una valutazione etica delle scelte. A volte, infatti, la patologia della madre può essere geneticamente trasmessa, con il conseguente aumento delle probabilità di nascita di un figlio disabile. Si tratta di una scelta troppo intima e personale che con intimità va vissuta, senza che sulla coppia incomba la “spada” di giudizi morali.

Bene. Cominciamo.