Un “sogno” da vivere e da migliorare
Questo posto è stato anni fa sede di una scuola speciale, di un centro che anche mio figlio ha frequentato. Non funzionava bene ma il posto era (ed è) bellissimo e io l’ho sempre pensato come un luogo adatto per farci una casa, una residenza per i nostri figli, per quel domani che a noi genitori preoccupa tanto e ho spinto anche mio marito perché si andasse in questa direzione. Nonostante questo impegno forte non avrei voluto che mio figlio vivesse in questa casa da subito, era un pensiero che mi attanagliava. Però in un qualche modo noi dovevamo dare l’esempio per cui mio figlio è entrato tra i primi.
La cosa più difficile è stato il prima, il pensiero del distacco; il momento in cui poi l’ho portato è stato meno pesante, anche perché c’erano altri genitori nella mia situazione con cui parlare e confrontarsi. Adesso è una cosa che mi fa stare tranquilla.
Prima di tutto questo è un posto unico, e anche il gruppo è buono. Ci sono cose da migliorare, qualche volta mi arrabbio anch’io per qualche cosa che non funziona ma poi funziona tutto abbastanza bene anche tenendo conto che, come diceva qualcuno, siamo ancora in rodaggio.
È il primo anno, il sogno da vivere esiste già ma si può sempre migliorarlo anche se sono contenta, siamo contenti…
Le attività secondo me sono ancora poche e questo sia per l’organizzazione recente e per la complessità delle disabilità che richiedono un gran lavoro per cogliere gli spunti di interesse da trasformare in piccole proposte.
I nostri ragazzi non si rappresentano, non dicono e non chiedono niente; noi abbiamo il dovere di essere attenti al fatto che le esigenze fondamentali siano accolte, non è un controllo ma proprio l’esercizio del nostro dovere.
Noemi, mamma di Alberto
“Il futuro mi preoccupa
perché è il luogo
dove penso di passare
il resto della mia vita”.
(W. Allen)
La mission di Fa.Di.Vi. può essere ricompresa nella tensione a far sì che ogni soggetto da essa coinvolto si ri-appropri di una visione globale del “dopo di noi” in modo che in nessun caso possa essere ridotto esclusivamente a uno dei suoi principali aspetti: residenziale, patrimoniale, psicologico, culturale.
Tra gli elementi costitutivi dell’associazione hanno un ruolo determinante la costante ricerca di soluzioni volte al superamento dell’autoreferenzialità che connota le tipiche risposte istituzionali e l’impegno per valorizzare tutti i protagonisti della relazione di cura.
I genitori che le hanno dato vita, hanno compreso che perseguire questi obiettivi esige l’esercizio di un pensiero complesso, capace di contenere le implicazioni affettivo-emozionali che s’incontrano nelle difficoltà e di favorire connessioni funzionali tra attese, obiettivi, vincoli, risorse.
Il confronto con lo scenario determinato dalle accresciute attese di vita delle persone con disabilità, ha comportato la disponibilità a lasciarsi interrogare dalle esigenze poste dalle trasformazioni in atto.
La lotta per i diritti alla crescita e all’autodeterminazione di tutte le persone, a prescindere dalla loro condizione, ha reso evidente che era necessario saper individuare le modalità per distinguere e rappresentare, senza contrapposizioni, anche chi vive una disabilità complessa riuscendo a comunicare il senso e il valore universale del confronto con il tema della dipendenza e della sua inevitabilità nelle relazioni umane.
“Prima di scommettere sul futuro
forse qualcuno dovrà immaginarlo!”
(M. Bucchi)
Nella pratica quotidiana è emersa con chiarezza la stretta interdipendenza tra quanti sono coinvolti nei/dai processi di cura e con essa la necessità d’implementare alleanze, generare relazioni di fiducia, costruire saperi condivisi e ricercare/sperimentare azioni in grado di ridurre i carichi di lavoro che la cura continua determina per ciascuno.
Come preparare il “dopo di noi” nel “durante noi” ha richiesto ai genitori di concedersi un nuovo sguardo sulla vita col quale ritrovare il tempo ben oltre la sua ineluttabilità, tornare a riconoscerne lo scorrere e aprirsi al futuro per considerarlo nuovamente come occasione di progettualità.
Ha significato darsi la possibilità d’imparare ad agire non solo sulla base del passato; confrontarsi con l’adultità e l’invecchiamento intesi non più come mero dato biologico; assumersi la faticosa ma necessaria sfida insita nei processi di separazione.
In questi anni il continuo peggioramento del sistema economico-finanziario ha condizionato pesantemente il lavoro sociale e la vita dei/nei Servizi alimentando precarietà, demotivazione e rabbia a causa della reiterata iniquità delle politiche di contenimento della spesa sociale.
Nonostante ciò si è avvertita con determinazione l’importanza di non far prevalere la rinuncia e/o il vittimismo sulla volontà di rEsistere.
Si è così andati a caccia d’idee per costruire il “futuro del possibile” attraverso molteplici occasioni d’incontro, confronto e scambio a livello locale e nazionale.
Questi elementi hanno preceduto, accompagnato e connotato la costruzione fisica e psicologica di una struttura residenziale che all’impegno terapeutico-riabilitativo sapesse associare le qualità di una casa per il futuro delle persone che vi sarebbero andate a vivere: uno spazio/tempo nel quale realizzare un’innovativa esperienza di coprogettazione e partecipazione delle famiglie al lavoro professionale di cura. Un ambiente di vita inserito nel proprio contesto e caratterizzato dal rispetto per le diverse soggettività presenti; dalla costante ricerca d’apertura al territorio; dallo sviluppo e dall’accoglienza di esperienze di cittadinanza attiva; dall’offerta di proposte in grado di promuovere la cultura dell’incontro e dell’integrazione.
“Non ricerchi ora le risposte
che non possono esserle date…
Ora viva le domande.
Forse così, a poco a poco…
si troverà…
a vivere le risposte”.
(R.M. Rilke)
Per affrontare la pluridimensionalità di quest’impegno non era sufficiente appellarsi all’idealità, né contare sulle spinte dettate dal bisogno. Non ci si poteva permettere di cadere nell’improvvisazione, né di affidarsi alla rassicurante illusione di un’onnipotente programmazione.
I costi emotivi e l’energia impiegate per reperire le risorse economiche, tollerare i tempi della burocrazia senza cadere nello sconforto, sostenere il confronto con i diversi aspetti tecnici del progetto, sono solo alcuni degli elementi che richiedevano“investimenti” in un lavoro di crescita individuale e collettiva che potenziasse l’ascolto attivo, le competenze relazionali, la capacità di comunicazione e quella di so-stare nell’incertezza.
In questo quadro la formazione si è rivelata uno strumento strategico per sostenere e alimentare un processo nel quale i genitori, i figli, gli operatori professionali, i familiari, i volontari, i servizi, le istituzioni, provassero a uscire da rigide e stereotipate rappresentazioni di ruolo/intervento per individuare opportunità di collaborazione, riflessione e progettazione.
Il compito che ci è stato affidato è stato quello di organizzare percorsi formativi ed eventi culturali che facilitassero l’incontro e la possibilità di trascendere le rispettive particolarità per diventare capaci di pensare i punti di vista dell’altro, costruire ipotesi per condividere il futuro e stare insieme nella diversità.
Abbiamo interpretato questo mandato partendo dall’idea che solo imparando a so-stare nelle relazioni ci si può ri-conoscere e scoprire come far nascere le “proprie” soluzioni.
In ogni circostanza abbiamo promosso un atteggiamento che suggeriva a ognuno di non andare all’inseguimento di risposte preconfezionate ma alla ricerca delle domande che emergono nelle/dalle relazioni, perché solo dalle domande possono scaturire innovazioni utili ad aprire nuove strade anche in situazioni considerate comunemente immodificabili.
Con ogni proposta abbiamo cercato di stressare le idee, le parole, per verificarne i limiti ed estenderne i confini affinché occuparsi di progetti di vita non diventi adempimento burocratico ma occasione per esercitare la creatività pedagogica e l’immaginazione sociale.
Durante gli incontri è stata utilizzata una metodologia attiva per favorire il coinvolgimento dei partecipanti e assumere il contributo di ciascuno come risorsa per l’apprendimento.
Attraverso diverse modalità sono stati attrezzati contesti esperienziali nei quali potersi mettere in gioco per favorire l’ascolto, gli scambi e la coesistenza di punti di vista plurimi.
Quest’approccio ha permesso a ognuno di potersi rispecchiare e confrontare con gli altri non solo attraverso i ruoli consueti ma come individui che hanno vissuto e vivono esperienze comuni che si possono raccontare per ri-conoscersi e sviluppare relazioni di fiducia.
Grazie a esso è stato possibile ascoltare ed essere ascoltati in un clima favorevole, nel quale non contava cercare/trovare soluzioni immediate ai problemi ma prioritariamente scoprire le proprie e altrui risorse per affrontarli positivaMente. La disponibilità a cambiare, a discutere/mettersi in discussione è diventata così occasione per incontrare rappresentazioni di Sé/ degli Altri/ delle situazioni ritenute fino a quel momento impensabili.
“La speranza non spera nulla.
La speranza crea restando sospesa
al di sopra della realtà, senza ignorarla
e fa emergere la realtà ancora inedita”.
(M. Zambrano)
I problemi non sono scomparsi di colpo, “miracolosamente”… Sono le persone che, aprendosi al cambiamento, si sono concesse di spostare la propria posizione esistenziale nei confronti dei problemi e nello spostamento hanno spesso ritrovato la forza e il coraggio di essere ancora propositive affrontando anche i contenuti più tecnici libere da preoccupazioni “scolastiche”.
Ecco una breve descrizione di alcune esperienze tra quelle ideate/realizzate in questi anni.
“Educare, Riabilitare, Curare senza perdere la tenerezza” ha favorito esperienze di ascolto e contatto attraverso il lavoro corporeo perché chi cura possa imparare a darsi il permesso di aver cura di sé e scoprire opportunità per sostenere il benEssere e la qualità della vita nelle situazioni di cronicità. “Previsioni per Tempo” ha proposto di ri-trovare il futuro attraverso temi quali gli strumenti di garanzia e promozione della dignità delle persone con disabilità quando diventano adulte/anziane; la ricerca di sinergie e articolazioni tra la pedagogia dei genitori e quella prodotta nei Servizi; l’individuazione/ riconoscimento delle figure in grado di “sostituire” i genitori alla loro scomparsa. “Immagini nel/del Tempo” ha promosso l’utilizzo degli strumenti audiovisivi per costruire memoria e documentazione delle persone coinvolte nei processi di cura; la raccolta e la produzione di una memoria dei loro tempi di vita; l’utilizzo di materiali audiovisivi come strumento di riflessione e crescita personale/professionale; la capacità di comunicare attraverso le immagini. “I.S.D.N. Immagini, Storie, Differenti Narrazioni” ha permesso di costruire un percorso di riflessione operativa sulle rappresentazioni mentali e sull’immagine della disabilità prodotta attraverso diverse forme espressive come cinema, musica, letteratura. “Gestione e mediazione dei conflitti” ha contribuito a fornire maggiori strumenti per saper riconoscere e gestire i conflitti; trasformare le rigidità comportamentali e le conflittualità in occasioni di dialogo; considerare la diversità un valore che stimola riflessione e genera confronto; facilitare il dibattito nel suo alternarsi tra passione e ragione; migliorare la capacità di ascolto e con essa una maggiore attenzione/rispetto delle differenti sensibilità.
“Il rimedio all’imprevedibilità della sorte,
nella caotica incertezza del futuro
è la facoltà di fare e mantenere le promesse”.
(H. Arendt)
L’interpretazione professionale che abbiamo fatto nostra considera la formazione un’esperienza evolutiva, uno strumento al servizio dell’elaborazione di strategie d’apprendimento consapevole e non una semplice trasmissione d’informazioni e/o tecniche.
In un mondo liquido, a “bassa configurazione”, persone e organizzazioni desiderano ricevere risposte definitive, certezze e capacità risolutive per affrontare i problemi.
Noi crediamo invece che non basti acquisire conoscenze ma occorra sviluppare competenze, la prima delle quali è apprendere ad apprendere.
In una realtà associativa come Fa.Di.Vi., che si occupa di cercare risposte al difficile, delicato, intimo tema esistenziale del “dopo di noi”, il primo obiettivo che ci siamo posti è stato quello di rendere esprimibile, nelle sue diverse forme, il vissuto di ciascuno di fronte all’incognita del futuro, all’ansia generata dall’attesa del momento in cui non si sarà più in grado di “prendersi cura”.
Abbiamo cercato di evitare che la formazione fosse caricata di eccesive aspettative precisando che gli oggetti che affrontavamo riguardano l’esistenza in tutte le sue dimensioni e che esistere richiede un apprendimento continuo che non può essere mai considerato concluso.
Quando tutto ciò si colloca poi in un contesto di ulteriore complessità come quello determinato dalla disabilità e dalla contemporanea condivisione di responsabilità educative con figure professionali, “aderire all’esistenza” significa una volta di più accettare di vivere nell’incertezza.
La situazione comunitaria richiede inoltre d’imparare a con-Vivere, condizione che implica il ri-conoscimento dei propri limiti e con essi l’accettazione delle ambivalenze, delle contraddizioni e dei conflitti che via via si presentano, senza la pretesa di poterli superare una volta per tutte.
In questi anni Fa.Di.Vi. ha raggiunto risultati strutturali eclatanti e ha prodotto uno sforzo culturale che si è tradotto in una significativa rete di relazioni istituzionali; tuttavia i successi ottenuti non diminuiscono la consapevolezza della quantità di lavoro ancora da compiere.
Gli aspetti più caldi/sensibili riguardano il tema della corresponsabilità educativa e, ad esso collegato, quello della costruzione/perdita dei legami di fiducia nelle relazioni di cura.
Rispetto a questi temi siamo ancora alle “prove generali” giacché condividere con altri, nella quotidianità, il progetto di vita dei propri figli e affrontare contemporaneamente la sfida della separazione implica un continuo impegno per passare dallo “s-fidarsi” al fidarsi, per dar vita a relazioni non più gravate dal “sospetto” bensì fondate sul reciproco rispetto.
Recuperare il valore educativo della cura; diventare risorse per il territorio; costruire prossimità; sviluppare il capitale sociale per incontrare il mondo e in esso sentirsi collocati nel quadro dei diritti di cui è in possesso ciascun cittadino, possono essere considerati un impegno consolidato, ma la fiducia e la cultura dell’integrazione non si possono affermare per decreto!
Entrambe hanno bisogno d’interpreti e non di anonimi esecutori, di persone che sappiano anche essere “agenti culturali” di cambiamento.
La formazione può offrire il contesto adeguato per provare a esercitare queste competenze.
Accettare di “mettersi in forma” rappresenta in ogni caso un passo importante per incontrare la nostra incompiutezza, comprendere il senso della nostra interdipendenza e non dimenticare mai che
“bisogna sentire molte volte le stesse cose per capirle finalmente per la prima volta…”.
(A. Desjardins)
Un posto per noi
Le nostre storie sono più o meno tutte uguali, quando si arriva al fondo sono tutte uguali.
La differenza può essere nell’età dei nostri figli, la mia ha 42 anni, e nel numero di tessera dell’associazione, la mia è la numero 2 dopo quella di Roberto perché la prima volta che l’ho incontrato ho aderito subito al progetto vedendo la persona che era.
Ho lasciato mia figlia per dieci anni a Osimo, l’unico posto allora dove riuscivano a lavorare con lei. A Genova a quei tempi un posto come quello lo sognavo.
Adesso lo abbiamo trovato un posto per noi.
Giuliano, papà di Susanna
Una famiglia allargata
Conosco Roberto da sempre, veniamo dallo stesso paese. Conoscevo la sua storia e non mi è stato difficile capire, conoscendolo, quale era il progetto a cui aveva dato corpo.
L’esigenza della mia famiglia era quella, simile a quella di tutte le famiglie che ci sono qui, di cercare di capire quale era il modo migliore di assicurare a nostra figlia un domani buono per lei.
Dal punto di vista dell’età, questa idea avrebbe forse potuto essere rimandata ma per un problema legato al trasporto di mia figlia abbiamo avuto l’esigenza di pensarci prima di quanto potevamo prevedere.
Ognuno di noi credo abbia combattuto a lungo prima di decidersi a cercare una soluzione di vita fuori dalla famiglia; ragionando poi non solo con i sentimenti ma anche con l’intelletto abbiamo cominciato a guardarci in giro. Conoscendo Roberto, conoscendo il suo progetto ci siamo convinti non solo che questa fosse una soluzione necessaria ma anche una bella risposta.
Nelle finalità e negli obiettivi ci abbiamo creduto subito, dobbiamo creare una vera e propria famiglia allargata perché l’obiettivo a cui teniamo è lo stesso non solo verso i nostri figli ma per tutti i ragazzi. Abbiamo deciso di fare parte di questo progetto e ci siamo buttati seguendo attivamente l’associazione, prima mia moglie e poi anch’io, dopo essere andato in pensione.
Il progetto non era nuovo solo per noi, era nuovo anche per gli operatori ma anche per i nostri familiari.
Dobbiamo ancora lavorare molto per cambiare la mentalità tutti insieme, operatori e genitori. Talvolta, nell’ansia di essere collaborativi possiamo anche creare disagio, correre il rischio d’interferire… Stiamo cercato di “disciplinarci”.
Piero, papà di Ilaria
Continua a leggere:
- Il futuro del possibile
- 1. Introduzione
- 2. Un sogno da vivere, un progetto da realizzare
- 3. L’orologiaio che regola le bussole: ovvero la formazione come strumento strategico per sostenere il percorso associativo (Pagina attuale)
- 4. L’anello di congiunzione
- 5. Abitare la “giusta” distanza
- 6. Documentazione
- 7. Fa.Di.Vi. e… oltre…
- 8. Per non concludere: imparare a disimparare
- 9. Testimonianze dei genitori