A dieci anni sognavo di diventare archeologa, a tredici di fare l’architetto, a diciotto la guardia forestale, ora sono abbondantemente dentro agli “enta”, e faccio l’educatrice alla Cooperativa Sociale Labirinto di Pesaro: chi l’avrebbe mai detto?

Credo, in parte, di aver realizzato i miei sogni precedenti, scavo in profondità nelle vite delle persone alla ricerca della loro storia, di come vogliono, vorrebbero, o dovrebbero vivere, decodifico stili comunicativi diversi e non convenzionali, curo, o almeno ci provo, la natura umana, nella sua fase di evoluzione e di involuzione.

Sono un’assistente sociale, ma ho lavorato sempre come educatrice nel settore della disabilità, per lo più con persone adulte, per lo più in strutture residenziali, preferibilmente case, progettandone non tanto la planimetria quanto il pensiero educativo.

Esperienza fondante del mio percorso professionale sono stati gli otto anni nella Comunità Socio Educativa Riabilitativa “Giona”, vi ho lavorato in qualità di educatrice e coordinatrice, ma soprattutto “Giona” ha lavorato in me, facendomi comprendere come concretamente persone diversabili adulte, con alle spalle decenni di istituto, potevano finalmente vivere in una casa, in pochi, in un clima familiare, integrati nel contesto cittadino e aspirare allo status di cittadini e non più di malati.

A “Giona” si cerca di creare un clima familiare e la possibilità che le persone si sentano come a casa loro, con stanze proprie, cucina interna, frequentata da amici, insomma il più possibile simile alla casa di ognuno di noi.

Questa è vita, ed è la vita di persone con nome, cognome e storia, che si intesse con quella di chi in quel luogo vi lavora, ed è il racconto di persone che non sono eterne e neanche immutabili, come alle volte ci piacerebbe pensare… E allora “Giona” non sperimenta solo la vita ma anche la vecchiaia, la malattia, la morte.

Ho scritto proprio perché sentivo che questa esperienza vissuta nella e dalla Comunità “Giona” potesse essere svilita, fraintesa, ingigantita o accantonata.

Avevo l’impressione che accompagnare nella fase terminale della loro vita Alberto e Lorentina, due persone che vi abitavano, potesse essere percepita dagli stessi educatori e da chi viene a contatto con questa realtà, come qualcosa di anomalo, fuori dal proprio lavoro, che si fa più per bontà d’animo o perché non si riesce a evitare.

Ho accompagnato Alberto in tutto il suo percorso, fino al rientro in famiglia per morire con gli affetti più cari; di Lorentina invece ho visto l’inizio del suo lento e inesorabile peggioramento, poi altri colleghi, che a differenza mia hanno continuato a lavorare a “Giona”, l’hanno accompagnata nelle fasi finali.

Ho chiesto chi di loro fosse disponibile a raccontarmi la propria esperienza, il fare, il sentire… Volevo recuperare il vissuto di chi era con Lorentina, cercavo analogie con quanto avevo sperimentato personalmente con Alberto, cercavo risposte, cercavo di razionalizzare le esperienze, cercavo e cerco di capire tutt’ora se da educatori sia possibile accompagnare una persona diversabile nell’invecchiamento, nella malattia e nella morte.

Ci compete? Con quale senso? Con quale modo?

Chi di voi non ha giocato, o continua a giocare, con il caleidoscopio?

Caleidoscopio: dal greco kalòs, bello, eîdos, figura, e skopèō, guardare.

Un tubo con tre specchietti in croce, meglio a triangolo, e qualche pezzetto di plastica colorata, basta metterlo controluce e ruotarlo per vedere figure magnifiche e sempre diverse.

Questo strumento mi ritornò alla mente qualche anno fa, quando nel mio lavoro di educatrice si presentò una sfida nuova, complessa, inaspettata.

Non potevo continuare a guardare le cose con gli stessi occhi, dovevo adottare punti di vista differenti, scoprire nuovi orizzonti del mio agire educativo cercando sempre e comunque il bello di questo lavoro.

La sfida in questione riguardava accompagnare Alberto durante la malattia e la morte.

Alberto proveniva da un grazioso borgo del Montefeltro e malgrado anni di peregrinazione istituzionalizzata per l’Italia aveva mantenuto il suo dialetto e la sua schiettezza, era un gran camminatore, amante dei bambini e da loro corrisposto, pigro nei doveri, celere nei piaceri.

Era capace di porti domande apparentemente banali e di facile soluzione: “Bela, la puzzla quanto appuzzisce?” (Bella, la puzzola quanto puzza?)

Difficile rispondergli immediatamente e con scioltezza, avresti voluto averla lì una puzzla per constatarne e misurarne l’odore insieme a lui. Chissà cosa avrebbero detto i colleghi.

Non era l’unico a occuparsi di natura, anche Lorentina, coinquilina di Alberto, esclamava: “Guarda quanto sono carini i girini, hanno gli occhi verdi!”. Anche questo andava appurato empiricamente.

Lorentina, nata in un arroccato paesino nella valle del Metauro, come Alberto è stata una pluridecennale frequentatrice di istituti, meritevoli, se non altro, di averle forgiato un bel caratterino da prima donna: decisa, risoluta, mai arrendevole, il colore preferito il rosso, era sempre all’attacco, era sempre ovunque, grazie al suo carattere raggiunse una bella autonomia. 

Alberto e Lorentina, in salute e malattia, hanno trascorso gli ultimi anni della loro vita nella Comunità Socio Educativa Riabilitativa “Giona” a Pesaro, per gli amanti delle sigle CoSER., Comune PU.

“Giona” apre nel ’98, con l’intento di dare una casa a persone adulte con handicap psico-fisici medio-gravi fortemente istituzionalizzate, prive di un adeguato sostegno familiare, personale educativo a 360°, intento a superare la schizofrenica distinzione di ruoli tra infermieri, assistenti, educatori presente negli istituti, su concezione di malato-sano, sporco-pulito, animatore-educatore… la persona è una!

Progetto pilota per la Regione Marche, testa d’ariete per la residenzialità marchigiana e non solo, “Giona” per anni cresce in quel processo educativo teso a venir fuori, a trasformare, a rendersi visibile. 

Una casa appunto, nel centro della città, con porte e finestre aperte, per condividere vita e regole: cucina interna che permette all’utenza di scegliere cosa mangiare confrontandosi con le diete alimentari, le capacità culinarie dell’educatore, la dispensa, i soldi disponibili;  invitare amici e parenti a pranzo o cena; fare la doccia con l’aiuto dell’educatore; dormire sotto lo stesso tetto; mangiare allo stesso tavolo; avere la propria stanza e i propri oggetti; andare a fare la spesa, al mare, in vacanza, dal dottore, a una mostra, al cinema, dalla parrucchiera…; prendere medicine; rifare i letti; stendere i panni; curarsi; arrabbiarsi; svegliarsi, dormire e ancora risvegliarsi, per un’altra giornata mai uguale alla precedente.

Emozionante vero? Semplicemente vita! 

In tutto questo turbinio di casa e di cose, con continui scambi tra il dentro e il fuori della Comunità, gli anni passano, i giovani educatori crescono e gli adulti utenti invecchiano.

Quel processo di “uscita”, di venir fuori dal proprio bozzo per trasformarsi ed esprimere tutte le potenzialità delle persone e del progetto, sembra quasi arrestarsi o meglio ancora fare dietro front.

Malattia, vecchiaia, morte, non più handicap, diventano ora il limite per utente ed educatore.

La vita cambia, e a grandi linee incontri più spesso il dottore che gli amici, frequenti più policlinici che pizzerie, prendi più ambulanze che autobus.

Che fare?

Alberto e Lorentina sono stati i primi, con tempi e modalità diversi,  a interrogarci sul nostro ruolo e sulla nostra capacità di accompagnarli in questa fase della loro vita, non saranno gli ultimi…

Per saperne di più:

www.labirinto.com

Per altre letture sul tema:

www.accaparlante.it 

Mantenere i legami

Mia figlia era l’unica a essere inserita in un altro residenziale per scelta sua. È una scelta che Sandra ha voluto fare coscientemente perché era stanca di stare a casa. Sentiva il desiderio e la motivazione di uscire di casa. Quindi mi sono dato da fare. Ci è sembrata proprio una bella opportunità per cui abbiamo aderito; è nata l’associazione perché la nostra idea non era solo quella di collocare il figlio quanto quella di poter stare vicino, di mantenere i legami anche quando il figlio vive in una struttura. Abbiamo sentito tutti subito il bisogno di formare un ambiente comune dove riflettere sui problemi, ma anche ricco di rapporti umani per scaricare i momenti di tristezza e partecipare in allegria, di qui l’idea dei nostri mercoledì di ritrovo e incontro. È stato bello, Roberto è un vulcano di idee e soprattutto ci ha sempre trasmesso l’idea che la nostra associazione non deve stare chiusa in se stessa, dobbiamo aprirci e questa è una cosa che condividevo perfettamente. Per questo sono nati tanti contatti, iniziative. Roberto sa creare molte cose e credo che qui tutti abbiamo un senso di riconoscenza verso di lui.

Poi ovviamente ci sono anche le discussioni, i battibecchi; d’altra parte dove c’è una comunità umana queste cose nascono, ci sono. Ma è vita anche quella, non sono cose negative. Forse si stenta a capire che le differenze di opinioni sono una ricchezza perché sono un contributo di idee, uno scambio che oltre a permetterci di conoscerci meglio ci fa realizzare un bilancio più completo dei pro e dei contro e questo è utile per tutti. 

Adesso siamo qui, ho sentito con molto piacere che c’è grande soddisfazione e credo che la misura migliore sia quella data dai ragazzi: infatti quando vengono qualche giorno a casa poi hanno voglia di tornare qui. Dove Sandra era inserita prima le cose andavano bene, qui vanno meglio. 

C’è un buon gruppo di operatori che lavora bene. Il giudizio è molto positivo.

L’associazione si è resa disponibile a collaborare. È molto utile la partecipazione dei genitori. Ovviamente questa integrazione deve essere fatta con intelligenza, bisogna rimanere in una ragionevole misura senza creare invadenze.

Una delle preoccupazioni maggiori come genitori era quella di staccarsi dal figlio, io per la mia esperienza ho cercato di rassicurare dicendo che i ragazzi si adattano molte bene, apprezzano il fatto di avere intorno molte persone, non sempre le stesse facce. 

A casa hanno sempre solo due facce intorno. 

Qui arrivano persone nuove, ospiti, c’è sempre qualcuno che viene, altre famiglie che vengono a vedere, c’è movimento e questo è positivo.

L’attenzione è quella di creare un ambiente di relazione buono per i ragazzi. Noi entriamo anche nei momenti dedicati alla cura e possiamo rischiare di essere inopportuni. Dobbiamo trovare la misura, senza assumere la figura di “guardiano”, negativa perché dimostra una mancanza di fiducia in chi lavora; è importante trasmettere agli operatori un senso di amicizia, di vicinanza positiva. 

È importante che i ragazzi ricevano dall’ambiente, dagli operatori, segni di amore, di vicinanza. E io vedo questi piccoli segni che fanno la differenza, la carezza, l’attenzione a chiudere la finestra se c’è una corrente… Perché per quanto sia grave la situazione la sensibilità di ricevere affetto non è mai persa, anzi se mai è un canale privilegiato.

Mino, papà di Sandra 

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