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Autore: admin

…E Amici tutti voi. I ragazzi presentano il Centro

Altre storie, racconti, esperienze dalla realtà dei Centri Diurni per disabili del Distretto di Sassuolo, provincia di Modena

“Sono molto eccitato al pensiero di introdurvi in quella che è la mia grande famiglia del Centro e di tutti i personaggi che vi circolano dentro. Il Centro ha una lunga storia. Io ne so qualcosa, perché è ormai da 10 anni che vengo ogni settimana dal lunedì al venerdì, esclusi i periodi festivi.
Durante questi 10 anni, ho conosciuto tante persone. Molti sono andati via e li ho salutati con grande dispiacere, ma altri sono rimasti qui con me e di questo ne sono fiero e felice.
In questa presentazione del Centro vi dirò che spesso è come essere a teatro: ci sono tanti personaggi, strani, simpatici, matterelli, testoni, efficienti, buoni e cattivi, calmi e agitati, belli e brutti, alti e bassi, magri e grassi, lenti e veloci, allegri e tristi.
Insomma, al Centro c’è di tutto un po’. Ci sono giorni di festa e di allegria; altri sono più malinconici e tristi; altri ancora sono monotoni; oppure ci sono giorni dinamici e scattanti.
Spesso si ride e io faccio arrabbiare quasi tutti gli operatori (ma sempre per scherzo, o quasi!). Diciamo che sono lo sciacallo per eccellenza. Cosa vuol dire sciacallo? Meglio non commentare, posso solo dire a voi lettori che questa parola ci fa fare tante risate …”
Wainer

“Oggi vorrei parlare di Walter.
Mi è simpatico, perché ha bei capelli, due occhi, il collo e la bocca (anche se gli mancano alcuni denti).
Ha le orecchie talmente grandi che ci si può attaccare lo zaino.
Anche se rompe, gli voglio bene così così: va bene lo stesso”.
Alessandro

“Io, invece, vorrei parlare di Betta.
È molto bella.
Mi piace, perché è sorridente: mi fa tanta compagnia. Vorrei dire qualcosina anche di Carlo.
Lui mi è simpatico, perché mi sorride.
Urla troppo quando arriva il babbo”.
Alessia

“Finalmente tocca a me che sono Walter.
Io parlerò dei miei soggetti quasi preferiti: Paolo e Leo. Riguardo a Paolo vorrei esprimere la mia gioia quando si incavola come una bestia.
La sua collera mi ricorda Gesù sulla croce.
E poi Leo assomiglia a Burt dei Simpson”.
Walter

Il Centro come una casa

Quando una persona, conosciuta o meno che sia, apre la porta di un Centro, viene salutata con il “Ciao”; una parola che esprime l’accoglienza, che dà il benvenuto all’interno di un gruppo allargato.
Qualcuno poi arriva subito per prenderla per mano o per dire: “Ho fatto io da mangiare, va bene? Sono brava? Ho fatto i piselli”; e per chiederle se rimane per il pranzo; qualcun altro chiede a un educatore: “Chi è questa persona?”. Arriva Aldo ridendo, battendo le mani e abbracciando chi è entrato…
Alle pareti delle stanze vi sono quadri, oggetti, decorazioni capaci di esprimere il “frutto” della vita che si svolge nei diversi spazi. Qui ragazzi ed educatori svolgono attività di diverso tipo, nel salone centrale si accolgono le persone che arrivano; in un momento successivo lo stesso salone diventa laboratorio creativo, laboratorio per l’attività di musica o lo spazio in cui si svolgono giochi di gruppo. Poi c’è la cucina dove una volta alla settimana viene preparato il pranzo per tutte le persone del Centro e la sala da pranzo dove viene consumato il pasto meridiano.
Un’altra stanza che si nota è quella del relax o stanza morbida, dove si svolge nel primo pomeriggio il relax o durante la mattinata l’attività di rilassamento e di massaggio.
Lara dice: “Il Centro è una casa, mi piace fare le passeggiate, mi piacciono tutti e imparare”.
In effetti il Centro Diurno è come una casa, non mancano quindi luoghi come i bagni, gli arredi e le dotazioni per la cura della persona e scaffali pieni di diversi generi alimentari.
Come in ogni casa si possono constatare limiti e anche desiderare miglioramenti; a questo proposito Giuseppe dice: “Vorrei buttare giù la parete che separa la cucina dalla sala da pranzo per avere più spazio e stare più larghi”.

Lo stare insieme
Ciò che riempie gli spazi fisici sono le persone con le loro relazioni. Infatti nell’organizzazione dei gruppi di attività si pone attenzione alla possibilità di integrazione fra i ragazzi, alle abilità di ciascuno ma anche alla rete relazionale presente fra i componenti stessi.
Monica spiega: “Veniamo al Centro per stare assieme con gli amici, mi piace uscire all’aperto, mangiare, dormire, giocare, chiacchierare..”.
Ogni Centro è caratterizzato da un gruppo eterogeneo di ragazzi; ciascun ospite predilige o meno la relazione con altri ospiti, o per indole o per abitudini di comportamento; da queste differenze emergono relazioni di amicizia, così come quando Sandra accarezzando il viso di Walter gli chiede: “Stai male? Io sono un’infermiera”.
Oppure quando Irene chiede a Gianni: “È bella la radio? Così va bene la radio? È qua!”.
A volte si presentano relazioni di antipatia che scatenano momenti di acceso confronto e così capita spesso che Simona urli contro Irene, ad esempio, perché l’una vuole la porta aperta e l’altra la vuole chiudere.
Angelo trattiene per un braccio una educatrice e canticchia un motivo; l’educatrice prova a seguirlo ma lui dice “No, o”; e ricomincia a canticchiare; un’altra educatrice intuisce il motivo e glielo canta; Angelo sorride contento e dice: “E poi?”.
Dai dialoghi e dalle affermazioni che spesso si ascoltano dai ragazzi emerge che fare o non fare una attività diventa rilevante in funzione delle persone con cui si può stare insieme.
Monica dice: “Mi piace venire al Centro perché sto in compagnia, perché conosco anche delle altre persone”; e a conferma di ciò che significa stare insieme aggiunge: “Mi piace disegnare, mangiare, stare con voi”.
Lorenzo dice: “Mi piace venire al Centro. Trovo persone che mi capiscono: forse voi mi capite più di quanto mi capisco io…”.
Rita dice: “Mi piace venire al Centro perché conosco altra gente, gli amici, conosco tutti. Guardiamo la televisione, facciamo ginnastica”. Monica con prontezza la corregge: “Si chiama rilassamento”. Rita continua: “A volte mi piace scherzare e ridere, a volte rimango seria; a volte mi piace andare fuori altre volte mi piace rimanere anche dentro”.
L’organizzazione del mattino prevede che ci si suddivida in gruppi di attività. Occorre sottolineare che la scelta delle attività a livello generale avviene a inizio anno per quelle che hanno una cadenza prestabilita (ad esempio la ginnastica, la piscina, i mercati, ecc.). Per altre attività che non si svolgono in un giorno predefinito della settimana la proposta di partecipare viene fatta alla persona a inizio settimana o giornalmente.
A volte infatti la programmazione giornaliera viene discussa e, se possibile, ridefinita con i ragazzi, in quanto non sempre hanno voglia di partecipare alle attività previste.
Dalle frasi che seguono si può capire come vengono trascorsi i momenti prima dell’inizio delle diverse attività. Rita dice: “Non mi piace andare fuori perché fa freddo; mi piace andare al mare”; e continua “A me non piace apparecchiare”.
Irene dice che le piace venire al Centro e aggiunge: “Mi piace cucinare, andare in serra no, ci vado solo in inverno; che schifo la serra, io voglio andare fuori a mangiare, a cena”.
A sua volta Moreno dice: “Non mi piace cucinare, fare i compiti”; e Sandra: “Mi piacerebbe suonare la pianola”.
L’organizzazione del pomeriggio è dinamica e flessibile, consente a chi desidera riposare di farlo, c’è chi svolge attività ludiche in piccolo gruppo e chi svolge alcune commissioni.

(fare box)
L’organizzazione
Alla fine dell’anno gli Educatori e il Coordinatore si riuniscono per svolgere due giornate di programmazione per l’anno successivo in cui si discutono gli obiettivi generali del Centro, quelli specifici per ogni attività e per ogni ragazzo. Viene quindi stabilita un’organizzazione generale del Centro anche in relazione alle attività che ciascun ragazzo svolgerà nell’arco dell’anno.
Gli Educatori e il Coordinatore si incontrano settimanalmente nelle riunioni di équipe dove viene discussa e approntata la programmazione settimanale. Questo strumento è a disposizione anche dei ragazzi che possono consultarla da soli o con l’aiuto degli educatori e serve per definire l’organizzazione giornaliera di una settimana stabilendo i nomi degli educatori e dei ragazzi che svolgeranno una determinata attività piuttosto che un’altra.

Il Centro come luogo di incontro
Le relazioni agite nello svolgersi della giornata del Centro sono metaforicamente degli incontri ove educatore ed educando si riconoscono e si comprendono, prima di ogni altra determinazione di ruoli e di competenze, come umane esistenze che si incontrano nella dimensione educativa.
In questa dimensione educativa, l’educatore rappresenta il ponte, ove ogni passo e ogni passante è diverso dal precedente e dai passati, di qui l’importanza di cogliere le differenze che le persone ci portano.
Da una parte c’è il punto di vista dei ragazzi. Silvana dice di Federica (educatrice): “Sono una delle sue amiche”.
Angelo invece dice: “Le educatrici sono tutte belle e anche i miei amici e anche io sono bello”.
Enrica dice delle proprie educatrici: “Gli voglio bene, altroché!”. Alessandro dice delle educatrici: “Voglio bene a tutte!”.
Irene dice: “Vincenzo mi è simpatico perché ha i baffi”.
Dall’altra c’è il punto di vista dell’educatore così come afferma Francesca raccontando che “la scelta di diventare educatore professionale è stata maturata dal desiderio di fare un lavoro basato sulla relazione e finalizzato al cambiamento, nel senso di accompagnare le persone in un percorso di crescita”.
Per Gledys “l’aspettativa più importante è quella di un continuo confronto con gli altri operatori e i ragazzi e soprattutto di una continua crescita insieme a loro”.
Antonella poi dice: “Questo, fra i lavori che ho svolto, è il più gratificante; ho sempre desiderato svolgerlo e ho intrapreso gli studi necessari. Quando torno a casa al termine della giornata mi sento realizzata. Dopo 3 anni di presenza in questo Centro ogni giorno imparo qualcosa di nuovo”.
Grazia osserva: “La vita familiare in un Centro Diurno è sempre piena di sorprese”.
È importante per l’educatore cogliere le novità, i piccoli cambiamenti e valorizzarli, per ampliare il campo di esperienza di ciascuno, rimanendo la bussola che indica la direzione verso la quale si sta viaggiando.
Così come i Servizi anche l’agire dell’educatore è cambiato passando dal buon senso alla riflessione e rielaborazione del proprio operato. Infatti, Rossana dice che “per svolgere questo lavoro l’educatore deve riuscire a mettersi in discussione ed evitare, ad esempio, di sostituirsi all’altro nelle cose che può fare; occorre saper leggere i bisogni per attuare strategie di intervento, occorre saper ascoltare in modo empatico, avere capacità di improvvisazione per gestire le novità, gli imprevisti”.
Rimane comunque indispensabile la motivazione e il desiderio di incontrare l’altro così come racconta Vincenzo: “Capita a tutti, a un certo punto della propria vita, di porsi la fatidica domanda: cosa farò da grande? Le parole di John Keats riassumono brevemente la risposta: ‘Chiamate, vi prego, il mondo La valle di Fare Anima. Allora scoprirete a cose serve il mondo’”.*
(*Questa frase è raccolta dalle prime pagine del libro di Michele Pansini, Vite comuni, Pesaro, 1998).

Le attività
Le attività che scandiscono la vita del Centro sono gli strumenti attraverso i quali si agisce questa dimensione educativa, sono le regole, il dove, il come, il quando, due o più persone agiscono una relazione e con essa strategie per raggiungere gli obiettivi che si sono prefissati.
Le attività si prendono cura delle abilità delle persone cercando di migliorarle, di farle sviluppare, nel rispetto della loro diversità.

Attività educative sulle autonomie personali e relative al benessere psicofisico
L’autonomia personale riguarda le diverse azioni quotidiane relative al mangiare, al vestirsi, alla cura dell’igiene; l’obiettivo generale è l’acquisizione di piccole o grandi autonomie relative al prendersi cura di sé (attraverso per esempio l’attività di Beauty), così come dice Francesca (educatrice): “Il lavoro dell’educatore tante volte consiste in piccoli gesti quotidiani, […] che contribuiscono al benessere delle persone e al raggiungimento di obiettivi”.
Queste attività hanno inoltre l’obiettivo di sviluppare il benessere psicofisico della persona e intervengono su quegli aspetti che riguardano principalmente il corpo, l’igiene, il movimento, il rilassamento; per questo vengono proposte Ginnastica, Piscina, Rilassamento e Massaggio, che aiutano la persona a stare meglio da un punto di vista sia fisico che mentale. In questo ambito di intervento vengono racchiuse anche le attività di tipo ludico-motorie che promuovono le abilità motorie; in queste attività si cerca di trasformare gli esercizi di movimento, che a volte sono meccanici e ripetitivi, in una situazione di gioco, piacevolezza e scambio con gli altri.
Mirko dice: “Da gennaio andrò in piscina”; Alessia dice: “Quando viene più caldo tutti i giorni andrò in piscina; in palestra, Francesco (l’istruttore) forse mi aiuterà quando salto dalla panchina; in gennaio vado in piscina a Modena dai pompieri e vado in palestra e sono contenta; tutti i giorni in gennaio vado in piscina al venerdì”.
“Mi piace quando si va a Sassuolo e quando si fa l’idromassaggio ai piedi, quando si va in palestra; quando c’è caldo si va in piscina e amici tutti voi”. Questo sostiene Giuseppe.

Attività educative sulle abilità relazionali e di integrazione con il contesto sociale
Le abilità interpersonali coinvolgono le varie dimensioni in cui ogni utente sta con gli altri all’interno e all’esterno del Centro. Per alcuni sarà importante acquisire la capacità di accorgersi della vicinanza dell’altro, acquisire capacità di vivere nel contesto del Centro; per altri risulterà importante acquisire delle autonomie significative anche in contesti esterni. Per questo vengono proposte attività quali Riordino degli spazi del Centro, Spesa, Colazione al bar,Mercato, Passeggiate, Gite, Soggiorni.
Un aspetto infatti che si ritiene importante perseguire è l’integrazione delle persone nel contesto territoriale, per migliorare le loro capacità relazionali in situazioni nuove, ma anche perché il Centro non rimanga una realtà isolata dal territorio ove abitano gli utenti stessi.
Vi sono poi attività che promuovono le abilità relazionali di ciascuno e che favoriscono nell’utente l’apertura verso l’altro utilizzando il tramite della musica, del contatto con un animale come il cane o il cavallo (attività di Canto, di Ippoterapia, di Pet-therapy).
Grazia dice: “Credo che il Centro sia la vita sociale dell’utente, quella che occupa la maggior parte del suo tempo”.
Federico dice: “Vengo al Centro a lavorare; ho degli amici; quando sono qua lavo i piatti, sparecchio, faccio la mensa, spazzo, facciamo le passeggiate, la biblioteca, la palestra, la piscina; mi piace venire al Centro per le fanciulle”.
Angelo dice: “Al mercoledì mattina ci sono i cani, non mi ricordo come si chiamano”.
Mirco risponde: “Uno si chiama Pumbaa e uno Milka, ma è un po’ difficile capire chi è il maschio e chi la femmina”.
“Anche a Lauro piace giocare con Pumbaa; Lauro non si esprime verbalmente per cui noi (gli operatori) gli abbiamo posto le domande alla quali lui ha risposto con un sì o con un no”.

Attività educative sulle abilità linguistiche e comunicative
Comunicare i propri bisogni, comprendere parole, frasi, fare domande: per le persone disabili sono
autonomie che consentono di interagire con l’ambiente e di limitare la dipendenza dall’educatore.
Per questo vengono sviluppate attività che coinvolgono le competenze comunicative e
cognitive di ciascuno.  
Come il Laboratorio di scrittura e lettura (viene letto il giornale e viene utilizzato il computer), come la Compilazione del diario giornaliero, la compilazione del Quaderno delle firme di presenza; una parte di queste attività si svolge anche in biblioteca per favorire comunque l’integrazione degli utenti nel contesto sociale. All’interno dei momenti dedicati alla lettura si lavora per sviluppare la capacità di riconoscere il significato delle parole e per allargare il campo delle conoscenze personali.
Francesca, educatrice, dice: “Sto acquisendo quella familiarità con le persone che consente di capire i loro linguaggi”.
Wainer fra i suoi racconti scrive: “Quali sono i miei sogni? Scrivere libri, vorrei un ufficio dove lavorare con una segretaria e un computer”.

Attività educative sulle abilità manuali, manipolative ed espressive
Lo svolgimento di queste attività, più di altre, richiede la definizione di un setting che definisce uno spazio, un tempo e un compito da svolgere. Il risultato dell’attività non è solo il prodotto realizzato, ma è anche quella soddisfazione, quella stima di sé, che si prova quando si realizza e si completa un oggetto. Il gesto, il segno, la traccia lasciata su un materiale, sono manifestazioni concrete dell’esperienza, sono appigli che aiutano la memoria a ricordare.
Vengono così proposte attività quali Laboratorio pratico-manuale, creativo e di pittura, il Laboratorio di cucina.
Alessandro racconta: “Mi piace tutto (riferito alle attività del Centro), soprattutto disegnare. Poi ascolto la musica, laboratorio di cucina”.
Un discorso a parte deve essere fatto per il Laboratorio di serra e vivaismo, o Pollice verde, nato inizialmente come spazio utilizzato per la formazione di ragazzi inseriti poi in contesti lavorativi. L’attività all’interno del laboratorio si è andata via via modificando in relazione anche ai bisogni e alle abilità dei ragazzi che vi partecipavano. Attualmente i Centri che utilizzano il laboratorio situato presso il Centro “Non ti scordar di me” (ex Casa Fantini) hanno cercato di diversificare le coltivazioni per stimolare la curiosità dei ragazzi anche attraverso la cura di piantine di uso comune
(basilico, rosmarino, ecc.); non si lavora quindi sulla quantità e, soprattutto, ciascun ragazzo vi partecipa secondo le proprie capacità con il rischio di dimezzare il numero delle piante che arrivano sul nostro banchetto del mercato. Inoltre, si è scelto di iniziare proprio dalla nascita della piantina che viene seminata, innaffiata e curata dai ragazzi che spesso manifestano un autentico interesse verso la crescita di questa e un investimento affettivo: la comparsa del germoglio è un risultato estremamente gratificante.

Attività di svago
Vi sono poi attività che, pur intervenendo su diverse delle aree sopraccitate, in realtà vengono proposte alle persone in momenti in cui non si sentono di impegnarsi in attività particolari, ma desiderano solo rilassarsi così come afferma Angelo che preferisce “fare un castamaz” (cioè niente).
Succede infatti che alcuni ragazzi chiedano di essere lasciati tranquilli e di poter ascoltare la musica che preferiscono o di guardare un bel film oppure i mondiali di calcio.

… E le famiglie…

Fra le attività che i Centri svolgono c’è un grande lavoro di tessitura di rapporti con le famiglie dei ragazzi. Di modi nei quali si realizzano questi scambi con le famiglie ce ne sono tanti: telefonate, incontri individuali, riunioni plenarie, ecc.
Ciò che il Servizio Sociale/Salute disabili ha sempre sostenuto come elemento fondamentale del lavoro dei Centri, condiviso e attuato dagli Educatori e da me come Coordinatrice, è il confronto, l’ascolto, l’accoglienza verso le famiglie. Le famiglie sono il contesto principale in cui vive il ragazzo e per questo credo che sia importante considerarle come interlocutore fondamentale del Centro nelle riflessioni sul ragazzo e sul lavoro che svolgiamo.
A volte succede che i ragazzi al Centro mettano in atto comportamenti diversi da quelli che attuano con i propri genitori: questo significa che il ragazzo distingue il contesto familiare, dove richiede un certo tipo di relazione, da un contesto di vita sociale dove agisce altri modelli comportamentali.
A me è successo di scoprire, vedendo una diapositiva di mio figlio, che a scuola si veste da solo mentre a casa mi dice che non è capace.
Quasi quattro anni fa ho iniziato il mio lavoro come Coordinatrice dei Centri qualche mese dopo il mio rientro al lavoro dopo la maternità. Essere genitori non significa capire il vissuto di tutti gli altri; ciascuno vive la propria esperienza come unica e irripetibile, ma le riflessioni fatte con gli educatori e il mio essere mamma mi hanno probabilmente aiutato a chiedermi se forse un genitore avesse bisogno di qualcosa di più che di parole, per sapere cosa fa e come sta il proprio figlio al Centro.
All’interno del lavoro dei Centri vi è una grande attenzione alla documentazione, … parole scritte, … parole raccontate. Quest’anno però nei tre Centri di Sassuolo abbiamo scelto di presentare le nostre attività utilizzando poche parole e molte immagini, e infatti la diapositiva o il video hanno permesso ai familiari di vedere i loro figli senza essere visti e di constatare direttamente con i propri occhi. Anche per noi che ci siamo visti, guardando in qualche modo dall’esterno la nostra relazione con i ragazzi, è stata un’esperienza emozionante.
A proposito dell’utilità di questi mezzi, la sorella di Luigi mi racconta che, prima di visitare il Centro che avrebbe potuto frequentare il fratello, temeva che questo fosse un luogo “ospedaliero” e che invece ne è rimasta piacevolmente impressionata. Mi racconta inoltre che la necessità della famiglia da cui è nata la richiesta di inserimento di Luigi al Centro era sì di un sollievo, ma l’intento era anche quello di proporre al fratello un altro contesto di vita e di relazioni; poi, la sorella, dice che ha avuto l’impressione che Luigi stia bene al Centro anche attraverso le immagini e i suoni del video, utilizzato per presentare le attività durante la riunione plenaria con i familiari.

Testo tratto da:
Lorenzo Morini, Paola Perdetti, Giulia Manzini
… E Amici tutti voi. Storie dei Centri Diurni per disabili del Distretto di Sassuolo
Con il contributo di Piero Zaghi
Pubblicazione a cura di Azienda USL di Modena, Distretto di Sassuolo e Gulliver Cooperativa Sociale s.c.a.r.l. In collaborazione con i Comuni di Fiorano Modenese, Formigine, Frassinoro, Maranello, Montefiorino, Palavano, Prignano sulla Secchia, Sassuolo (Luglio 2004)

Impressioni e progetti dal Madagascar

Ogni viaggio è un’esperienza personale pressoché irraccontabile, e molto spesso quel che si racconta, tornando a casa, ai genitori e agli amici è solo la parte già tradotta del percorso. Impressi invece in diversi codici, chimici, fisici e psichici, stanno nel nostro corpo, sulla nostra pelle, tutta una serie di messaggi che si traducono col tempo, con la riflessione o per caso, per associazione. Il nostro compito in quanto viaggiatori dedicati allo studio, alla ricerca di possibili collaborazioni, era appunto quello di immagazzinare impressioni e rilasciarle poi col tempo, perché possano dare a qualcun altro la voglia di partire e quella di unirsi nel cooperare, nel cercare di ridurre l’enorme divario tra i nord e i sud di questa palla volante.
Voglio dirvi cosa: non vorrei trasmettere al ritorno da questo viaggio nel cuore dell’infinito, nel cuore del Madagascar, la mia disperazione, il mio profondo senso di impotenza, né l’odio provato davanti agli sfruttatori palesi e occulti di tanta straboccante bellezza, né il disprezzo per gli altri viaggiatori bianchi alla ricerca di un ricordino, di un’esperienza eccitante; né l’orrore, nemmeno l’orrore per la sporcizia e la paura fisica scioccante del contagio. Nessuna di queste cose vorrei trasmettervi.
Come non mi piacerebbe raccontarvi del nostro arrivo il giorno di Natale in un villaggio di case di fango a bordo di un gigantesco fuoristrada dal colore rosso sgargiante, più alto degli spioventi di quei tetti di paglia, quando subito circondati da una ventina di creature vestite di stracci, sotto una pioggia scrosciante, ci siamo accorti di non avere nemmeno un dono. Nemmeno il carbone che qui diamo ai bambini cattivi per la Befana.
D’altro vi vorrei parlare: degli orizzonti infiammati di sole e dei miraggi della barriera corallina e delle donne giovani piene di inebriante candore e delle colonne di baobab nella sabbia e delle narici divaricate e dei toraci lucidi e grondanti dei portatori scalzi di pousse pousse, il risciò locale. E degli incontri insospettati al mattino coi colori impressionanti degli uccelli e delle strane piante dalle forme sconosciute e delle foreste spontanee di mango nella stagione dei frutti maturi gialloarancio, e dell’incontro coi serpenti nella notte e le forme di roccia strapiombante e l’antica terra madre, vagina Africa.
Eppure mi accorgo, scrivendovi, dell’impossibilità di dire e non dire, di spiegare e scomporre, meglio sarebbe essere un colabrodo di esperienze di odori, canzoni, ritmi, voglie, sortilegi, angosce e sorrisi splendenti di un mondo che ancora sorride alla vita come un regalo grande da godere.

Il Progetto Antsirabe

La realtà del Madagascar ha un estremo bisogno di sostegno, soprattutto oggi che si stanno creando le condizioni per uno sviluppo reale. Partendo da queste premesse, il progetto Antsirabe, nato tra l’Italia e il Madagascar sulla base di un lungo rapporto di conoscenza e amicizia, si propone di potenziare tale sostegno per costruire modelli facilmente riproducibili, partendo proprio dalle vastissime risorse del paese. Infatti, per non commettere gli stessi errori del passato, sarà necessario coniugare l’offerta di capacità e conoscenza con una volontà profonda di autonomia e innovazione.
La popolazione malgascia (15 milioni di abitanti circa) è costituita prevalentemente da ragazzi e ragazze molto giovani (14 anni è l’età media) alle prese con la sopravvivenza, costretti a vivere in condizioni di povertà assoluta in ragione dello sviluppo inesistente, dell’assoluta mancanza di controllo sulle tecnologie e sui metodi per lo sviluppo e per la crescita. Il Madagascar è infatti collocato alla 152esima posizione nell’elenco dei paesi sviluppati e questo nonostante sia in realtà un giacimento di risorse inestimabili. Le condizioni di vita non permettono un controllo sulle malattie e le epidemie sono frequenti: malaria, tubercolosi, colera e anche la lebbra nel sud del paese. Inoltre, la poverissima isola vive in uno stato di dipendenza dai sistemi occidentali senza poter intraprendere un suo percorso evolutivo. I tentativi di autogoverno e autodeterminazione restano ancor oggi precari e inconcludenti e legati all’erogazione del credito della Banca Mondiale.
L’informazione e la cultura non sono considerati strumenti di crescita, non esiste una vera e propria editoria malgascia. Di conseguenza, la cultura, la storia e la lingua delle 11 etnie che compongono il popolo malgascio non vengono insegnate e chi va a scuola è costretto a studiare un’altra lingua, dato che non esistono libri di testo. Questo il quadro della situazione del Madagascar.
La richiesta che ci arriva da quella terra, e a cui il progetto Antsirabe cercherà di rispondere, è dunque costruire un modello di sviluppo imitabile che porti a dei risultati in breve tempo.
Gli obiettivi generali del progetto rientrano dunque in quattro ambiti: diffondere l’educazione nelle aree rurali; migliorare l’alimentazione dei giovani malgasci; realizzare un programma d’igiene per le famiglie; migliorare la condizione delle abitazioni, primo luogo di educazione. Tutto questo a partire dall’iniziativa di Jean François Ratsimbazafy e della gente della provincia di Antsirabe che hanno messo a disposizione la loro terra e la terra delle loro famiglie (si tratta di un’unità di circa 4 ettari, più altre due di circa 40 ettari su cui lavorare) per iniziare a uscire dal buio della denutrizione, dalla condanna delle malattie, dalla congiura dell’ignoranza.
Si tratta di aiutarli a mettere in piedi, con sistemi e tecnologie innovativi, un modello di quattro unità correlate e ripetibili in varie parti del paese. Precisamente: un’unità di produzione agro-alimentare; un’unità di trasformazione, conservazione e stoccaggio dei prodotti agricoli; un’unità di villaggio rurale biodinamico a elevato tasso di autonomia; una unità educativa e di apprendimento professionale. Ciascuna delle unità di progetto deve essere pensata per essere un modello riproducibile ad alto contenuto innovativo sia nella ricerca dei materiali sia nell’utilizzazione delle risorse e nell’impatto ambientale: ecco gli obiettivi pratici che J. François ha proposto nell’incontro di Roma del giugno 2005. La consapevolezza alla base del progetto è che, imparando dagli errori fatti in occidente, è inutile costringere i paesi poveri a ripercorrere le fasi più remote dello sviluppo tecnologico ma è possibile immaginare uno scambio globale, un riequilibrio del sistema su basi biodinamiche: infatti, è importante puntare su un modello di sviluppo basato sulla democrazia partecipata, attraverso la condivisione di ciascuna fase del progetto.
Conseguentemente, altri obiettivi saranno quelli di coordinarsi con altri progetti di sviluppo in Italia e stabilire una rete di informativa solidale: auspicabilmente, si pensa di progettare entro il 2006 e realizzare entro il 2008.
Tra l’altro, la situazione attuale presenta alcuni elementi di positività che potranno facilitare l’avvio del progetto: esiste già un progetto di adozione, sostenuto dal MAIS di Roma sul quale si potranno integrare gli altri interventi; la motivazione in Madagascar è attualmente molto forte; esiste un gruppo di interesse composto da persone preparate e disposte a dare un contributo ed effettuare verifiche.
L’intervento che si vuole proporre sarà integrato nella realtà malgascia, pur volendo inserire metodi e tecnologie alternative: in realtà il modello di progettazione partecipata è stato adottato in Europa sulla spinta delle realtà in sviluppo in tutto il Terzo Mondo, dove condividere ha rappresentato per secoli una priorità necessaria. Inoltre, introdurre un modello di casa e dei modelli di agricoltura e consumo alternativi in una terra in cui l’uomo bianco, lo straniero, il Vasaha, ha incendiato e desertificato oltre la metà dell’isola, impone delle responsabilità nuove di immaginazione oltre che tecnologiche. Pannelli solari, energie pulite e reintegro del grande patrimonio biologico risultano dei passaggi obbligati, senza dimenticare che certe espressioni possono avere scarso significato rispetto alla vita delle persone.
La scelta di operare ascoltando le richieste dal basso si propone dunque di incontrare e interpretare le esigenze di innovazione e di autonomia di cui è portatore J.F. Ratsimbazafy per conto della gente malgascia. Non ci può infatti essere uno sviluppo reale se non si riesce a coniugare le necessità di emancipazione dalla povertà con la tutela e la conservazione del patrimonio naturale. Scambiare conoscenze e affinare competenze è l’unica modalità praticabile, abbandonando il solito atteggiamento predatorio tipico della nostra gente.

Per l’adozione a distanza contattare:
MAIS – Movimento per l’Autosviluppo Internazionale nella Solidarietà
Associazione di volontariato ONLUS
via Ettore Ciccotti, 10
00179 Roma
Tel/fax (+39) 06/788.61.63
E-mail: mais@mais-onlus.org

Per il Progetto Antsirabe
Marcello Anastasio
marcamarc@hotmail.it

Mio figlio? No, la 104 no!

Elisabetta, insegnante in una prima elementare di una provincia toscana e la sua esperienza.
“Iniziamo l’anno con una riunione con i genitori. Non conosciamo ancora i bambini, abbiamo soltanto l’elenco dei nomi e con quelli incontriamo le famiglie. Mancano due giorni e i loro bambini faranno l’ingresso nella scuola primaria. Un’esperienza certamente nuova per i bambini. Ma anche per i genitori. Non tutti hanno confidenza con l’ambiente, non tutti hanno bambini che già frequentano. Per molti è un momento importante, vissuto anche con una certa emozione. I loro bambini stanno diventando grandi.
È un lunedì pomeriggio: un’aula gremita di genitori (alle prime riunioni ci sono sempre tutti, poi con l’andare del tempo si perdono per via), noi insegnanti spieghiamo alcune regole di base per cominciare; iniziamo a buttare le basi per instaurare un rapporto che sia di reciproca fiducia con le famiglie. Finisce la riunione e tutti i genitori salutano ringraziando e se ne vanno. Rimane sul fondo dell’aula una mamma. Impacciata e insicura si avvicina a noi due. Siamo entrambe nuove della scuola, non abitiamo in quel paese e non conosciamo nessuno. Un buon punto di partenza. La mamma si accosta a me per presentare il suo bambino. ‘Sa, è un po’ particolare’, mi dice. Capiamo l’impaccio della signora e ci mettiamo in ascolto. Ci presenta brevemente il bambino dicendoci che vive alcuni stati d’ansia; soprattutto quando si deve allontanare dalla mamma. Che dovevamo imparare a prenderlo con dolcezza e calma.
La mamma se ne va. Rimaniamo un po’ perplesse. Ci sembra un quadro così confuso… Ma evitiamo di farci idee prima di conoscerlo.
Passano i due giorni che ci separano dall’inizio scuola e quel mercoledì mattina arriviamo pronte per questo nuovo incontro. Eccoli. Sono tanti visi un po’ impauriti, un po’ incuriositi e un po’ felici di essere cresciuti. Entriamo nella nostra aula: l’abbiamo preparata per accoglierli al meglio. I genitori entrano e accompagnano i bambini fino al banco e poi li salutiamo tutti insieme. E c’è lui. Le crisi cominciano. Sono davvero crisi profonde, pianti, conati di vomito, urla. La mamma non riesca ad allontanarsi. Rimane in classe. Poi riusciamo con una specie di raggiro a farla andare. Sono passate due ore.
La situazione non migliora per almeno un mese. Ancora una fatica terribile a salutare la mamma, a rimanere in classe. Un’incapacità a comprendere che la scuola è l’ambiente in cui deve imparare a convivere per un bel po’ di anni. Dobbiamo adoperarci per farlo stare bene. Questo ci mette in discussione. Ci richiama a inventare strategie, modi per accogliere tutte le sue difficoltà. Forse questo significa anche ripensare tanti atteggiamenti, tante attività ormai abitudinarie.
Passano i giorni, i mesi. Indirizziamo la famiglia ai servizi di neuropsichiatria infantile: il bambino vive un disagio ‘non normale’, ha bisogno di aiuto. Di un aiuto esperto. La sua ansia gli impedisce di rimanere anche solo dieci minuti seduto alla sua sedia. Figuriamoci se riesce a seguire, anche solo in parte, le attività che vengono proposte ai bambini. Zero! Zero assoluto. Siamo in difficoltà; sì, noi insegnanti ci riconosciamo in una grande difficoltà. Viviamo l’impaccio di non sapere come fare per aiutarlo.
Il bambino ha delle carenze evidenti. Ora supera il distacco dalla mamma, non scappa più, rimane nello spazio classe. Ma evidenzia comunque mancanze notevoli dal punto di vista dell’apprendimento. Ha problemi di produzione linguistica e, ancor più, di comprensione. Carenze di logica. Insomma, senza entrare nel dettaglio… deve essere seguito. Per il suo bene. Abbiamo bisogno anche noi di aiuto: dobbiamo parlare tutti la stessa lingua con lui, abbiamo bisogno di lavorare congiuntamente alla famiglia.
Riusciamo a ottenere, con grande fatica, che il bambino sia seguito dalla neuropsichiatra del distretto sanitario. E dopo un po’ di tempo ci incontriamo insieme alla mamma (il papà non viene mai agli incontri che chiediamo alla famiglia). Come previsto, la dottoressa ci fa un quadro della situazione abbastanza grave. Non si tratta solo di una difficoltà di ansia da distacco dalla mamma, come ci era stato segnalato dalla famiglia. È un situazione ben più complessa. C’è dell’altro.
Senza specificare diagnosi, non è la sede, la dottoressa sostiene la necessità di una certificazione. Il bambino ha bisogno di un sostegno. Propone una certificazione in fascia B (copertura dal 50 al 75%). La mamma rimane interdetta. Sembra accettare, seppur a fatica, la situazione del figlio. Sembra comprendere una necessità oggettiva, per il bene del suo bambino.
Noi insegnati spieghiamo come non si tratti di un marchio indelebile, anzi non è proprio da vedere la certificazione come un marchio. Nessuno dei bambini saprà che l’insegnante nuova è insegnante di suo figlio. Si struttureranno attività che ‘fanno bene a lui’ ma per tutti. Si lavorerà per piccoli gruppi. La mamma accetta. Si rimanda comunque a un incontro tra dottoressa e genitori, entrambi però. Nel frattempo insistiamo per poter dare lavori differenziati al bambino che deve ancora acquisire tutti i prerequisiti per l’acquisizione delle abilità della letto-scrittura e del calcolo matematico. La mamma a grande fatica accetta, anche su parere molto favorevole della neuropsichiatra (non ha senso procedere con il programma come gli altri se ancora deve acquisire i prerequisiti necessari).
Ritorniamo al nostro lavorio di classe, barcamenandoci, alla meglio tra le esigenze di tutti i bambini: tutti diversi, tutti con bisogni speciali e specifici. Aspettiamo fiduciosi una risposta affermativa da parte dei genitori: speriamo che accettino la certificazione per il figlio.
La mamma una mattina all’uscita da scuola chiede di incontrarci, vuole aggiornarci su alcune questioni. Le diamo un appuntamento speranzose. È lunedì pomeriggio, siamo in orario da programmazione; ci siamo tutte: insegnanti di classe e la collega specialista di lingua inglese. Sorpresa per noi è incontrare il padre, che sappiamo essere un osso duro, non facile da convincere.
E infatti. Le nostre speranze vanno in fumo. ‘Di certificazione, non se ne parla proprio’. ‘Abbiamo cresciuto due figli più grandi e cresciamo anche questo’ e soprattutto ‘Mio figlio certificato con la legge 104? Neanche a parlarne’.
Ecco dove sta il problema. Non viene assolutamente accettato dai genitori di intervenire sul figlio con una legge riservata all’handicap. No. Proprio no. È un marchio che i genitori non vogliono per il loro figlio. ‘Non ci interessa che nostro figlio diventi uno scienziato, ma handicappato proprio no’. Cerchiamo di spiegare come la legge 104 sia una legge che tuteli situazioni di necessità e che certificarlo non vuol dire automaticamente chiedere un qualche grado di invalidità, con tutto quello che ne consegue. Ma non c’è proprio nulla da fare.
Non accettano alcuna etichetta. Loro figlio non appartiene a quella categoria. Non riusciamo neppure a interloquire più di tanto. È fuori discussione.”
Un’esperienza raccontata da una voce, quella di Elisabetta, insegnante elementare immaginaria ma nei cui panni, credo, si possano trovare molti insegnanti: storia vera, senza luogo e senza tempo, con nomi fasulli e particolari presi in qua e in là da tante situazioni diverse, messe insieme per rendere il quadro di una situazione nella quale si trovano molti insegnanti ma anche molti genitori.
Evidentemente la famiglia fatica ad accettare. C’è una difficoltà della scuola a rispondere adeguatamente a un problema oggettivo: per avere un aiuto, un appoggio che sia qualificato, bisogna inevitabilmente ricorrere a una legge quadro sull’handicap. Ed è anche comprensibile la fatica della famiglia a mettere in atto un processo di questo tipo. Probabilmente si tratta anche di una questione che ha radici ben più profonde da ricercare altrove, al di là dalla legge che, di per sé, dice tutto e niente.
Evidentemente nella nostra cultura un bambino a cui è affiancato l’insegnante di sostegno, è un bambino a cui viene puntato il dito. Gli viene riconosciuta una qualche differenza (oltre a quelle visibili, manifeste e innegabili) troppo diversa. Quel bambino è l’handicappato della classe. E probabilmente, anche se le insegnanti saranno bravissime a gestire la situazione, sarà un processo quasi inevitabile, con l’andar del tempo. Anche laddove il contesto classe cresca in modo armonico e non sia un luogo discriminante, sappiamo come a casa i bambini sentano dai genitori, dai nonni, dagli zii definizioni diverse. Quello resterà il bambino disabile, handicappato. Del resto, che dire? Ha l’insegnante di sostegno. E questo nella nostra scuola è un marchio. Probabilmente la difficoltà di questi bambini andrebbe affrontata in modo diverso, meno stigmatizzante. La fatica dei genitori a mettere la firma su un certificato che quasi inevitabilmente determinerà tutto questo credo sia più che comprensibile. Dice bene la mamma quando dice “Non voglio e non pretendo che mio figlio diventi uno scienziato!”. Le aspettative non sono per forza aspettative di una vita fatta di studio e di scienza. Questi genitori, quando pensano alla vita del loro bambino, rimangono con i piedi per terra, forse troppo, e l’unica cosa che a loro ora interessa è che non sia riconosciuto come “un diverso”. E questo, credo, ci dovrebbe mettere tutti, chi più chi meno, un po’ in discussione. Come mamme, come padri ma anche come insegnanti e come compagni di classe.

L’isola dei normali

    Oggi più che mai il potere dei mass media, della televisione in particolare, di influenzare l’opinione pubblica e di creare correnti di pensiero è così forte da sembrare quasi esclusivo. È soprattutto la televisione a inculcare i modelli che la gente cerca di imitare, ovvero i criteri che definiscono la cosiddetta normalità e, di conseguenza, escludono tutti quelli che non vi si adeguano. Ma si tratta dell’estremizzazione di un fenomeno che è sempre esistito in altre forme. Nell’antica Grecia, per esempio, uno dei fondamenti della cultura di massa era costituito dai poemi di Omero. Nell’Iliade, Tersite è deriso da tutti perché gobbo e storpio, dunque inadatto per la guerra. Oltretutto osa opporsi ad Agamennone dicendo che gli Achei saranno sconfitti. Omero presenta questo antieroe come un personaggio del tutto negativo. Più che una descrizione, ne fa una caricatura: “Era l’uomo più brutto che venne sotto Ilio. Era camuso e zoppo di un piede, le spalle erano torte, curve e cadenti sul petto; il cranio a pera, e radi i capelli” (II, 216-219). Aveva una voce stridula e, oggi diremmo, non sarebbe certo un personaggio telegenico, che “buca il video”. Anzi, Tersite, tra i primi “disabili” della storia della letteratura, svolge un “compito degradato di suscitatore di riso, miserevole contraltare alla prestanza epica dei guerrieri protagonisti, i quali – per statuto sociale e simbolico – non fanno mai ridere, semmai fanno spesso piangere nemici in campo o semplici contraddittori” . È interessante notare, inoltre, che Tersite viene deriso sebbene abbia detto in realtà le stesse cose affermate pochi versi prima dall’eroe Achille. Le stesse parole, pronunciate da un eroe bello, forte e vincente, secondo l’ideale greco della kalokagathìa, e da un inabile alla guerra, brutto e petulante, assumevano valenze completamente diverse agli orecchi dei Greci che le ascoltavano.
Oggi, nella cultura di massa, non è quasi mai la letteratura a creare i personaggi. Quasi sempre questo ruolo è assunto dalla televisione e, in particolare, negli ultimi anni, dai reality shows. Recentemente un articolo proponeva in maniera provocatoria la partecipazione di un disabile a un reality come l’Isola dei Famosi. Temo che un disabile in un reality non sarebbe visto in maniera positiva; farebbe crollare l’audience, a meno di non suscitare nella gente un’ondata di compiaciuto pietismo. Il meccanismo di questi programmi non prevede la presenza di disabili che non potrebbero portare a termine le prove che vengono proposte.
Inoltre, la televisione ha tempi rigorosamente veloci, spesso addirittura frenetici, anche nelle trasmissioni cosiddette “di approfondimento”, con discussioni e dibattiti. Come potrebbe parteciparvi chi non riesce a parlare velocemente? In un dibattito televisivo un silenzio che duri più di un secondo suscita già qualche turbamento. Se poi una persona dovesse impiegare cinque secondi per cominciare a esprimere la sua opinione, sarebbe probabilmente interrotta dal conduttore che, convinto di agire nell’interesse del pubblico, parlerebbe per lei (dicendo, naturalmente, quello che pensa lui). E se addirittura quella persona dovesse impiegare dieci secondi, come resistere alla tentazione di valorizzare l’attesa inserendoci uno spot pubblicitario?
La normalità che in questo modo viene definita è quella della prontezza nello scambio di battute, in un dibattito in cui è raro che gli interlocutori si ascoltino veramente, perché sono piuttosto interessati a far trionfare la loro tesi. La maggior parte delle discussioni televisive è impostata secondo questo modello, che risponde più alla logica dello spettacolo che a quella dell’informazione e dell’approfondimento. Come tra gli eroi dell’Iliade, non ci sono tanto dialoghi quanto alterchi che introducono al duello. Non solo i portatori di deficit, ma quasi tutte le persone sarebbero inadatte o si sentirebbero a disagio a partecipare a questo tipo di dibattiti.
Il modello di normalità così proposto è proprio come un’isola chiusa in se stessa, dove si giocano giochi che non hanno alcun riferimento alla vita vissuta dalle persone reali. Ma proprio ciò rivela che tutti i modelli sono fondamentalmente falsi, perché gli uomini e le donne reali sono sempre portatori di qualche differenza – e, perché no, anche di qualche disabilità – personale.
Se sappiamo accettare noi stessi al di là dei modelli, scopriamo che la vita reale è molto più interessante di uno spettacolo che di reality porta soltanto il nome.

Vito Feninno, www.larepubblicaditersite.it.

Parere Imprudente, sul sito www.superabile.it

Non buttiamoci giù

E la telefonata… oh be’, ha cambiato tutto. Solo quei due o tre minuti. Son successe più cose nella mia testa durante la telefonata che in tutto quel tempo che son stata sul tetto. E non perché c’erano delle brutte notizie, o delle notizie in genere. Matty stava bene. E per forza. Aveva bisogno di assistenza e gliela stavano dando, e non è che potevano avere tanto altro da dirmi, vi pare? Ho tentato di far durare la telefonata di più e devo ammettere che in questo l’infermiere mi ha aiutato, Dio lo benedica. Ma a nessuno veniva in mente qualcosa da dire. Nella giornata, Matty non fa niente, e in quella particolare giornata non aveva fatto niente. Lo avevano portato fuori sulla sua sedia a rotelle, e abbiamo parlato di questo, ma abbiamo parlato soprattutto del tempo e del giardino.
Gli ho detto grazie, ho messo giù il telefono e per un momento son rimasta lì a pensare, cercando di non buttarmi giù. Amore e attenzioni e tutto quanto, le cose che solo una madre ti può dare… alla fine, e per la prima volta in vita sua, vedevo che non gli servivano nemmeno quelle. Di importanza ne avevo né più né meno come il personale della casa di cura. Probabilmente ci sapevo fare un po’ più di loro, ma era soltanto questione di pratica. In quindici giorni avrei potuto insegnargli tutto quello che gli serviva sapere.
Il senso della cosa era che quando sarei morta, per Matty non sarebbe stata una tragedia. E il senso di questo era che la possibilità di cui avevo avuto più paura da quando era nato, non c’era affatto da averne paura. E non so se ora, sapendolo, avevo più o meno voglia di suicidarmi. Non sapevo se tutta la mia vita era stata uno spreco di tempo, oppure no.

(Brano tratto da Nick Hornby, Non buttiamoci giù)

Nick Hornby è conosciuto al pubblico come uno scrittore ironico e anche un po’ cinico. Spesso ha uno stile talmente schietto che diventa spietato. Mi ha colpito questo brano perché senza buonismi, senza politically correct, dice le cose come stanno. Inquadriamo un po’ la situazione. Il romanzo tratta di quattro persone che per motivi diversi si vogliono suicidare buttandosi giù da un palazzo. I  quattro si incontrano in cima al palazzo proprio nel giorno del tentato suicidio, e tramite una serie di battute ironiche e apparentemente “pazze” decidono di rimandare il suicidio e intanto di frequentarsi un po’. Una dei quattro è una madre di un figlio gravemente disabile, sia con deficit fisici che mentali. Una specie di figlio-vegetale. La madre è stanca, non sopporta più il peso di farsi carico di un figlio così. È una donna sola, senza marito, e in tanti anni ha praticamente sacrificato tutta la sua vita per il figlio. Ha vissuto solo con lui e per lui. Quando incontra gli altri protagonisti, dopo il mancato suicidio, viene convinta a prendersi una vacanza e tutti insieme partono per un luogo lontano ed esotico. La madre lascia il figlio in una casa di cura, dove già il figlio è conosciuto, e parte con grossi sensi di colpa. Questo brano racconta della telefonata che la madre fa alla casa di cura durante il periodo della sua vacanza. E della presa di coscienza di una situazione che forse già in cuor suo conosceva, anche prima di distaccarsi dal figlio. Sono frasi brevi, pratiche, essenziali. Probabilmente anche dure, e senza vie d’uscita, come nello stile dell’autore. Ma sono anche frasi di una potenza incredibile, frasi che raccolgono una quantità molto grande di emozioni e di considerazioni non solo personali ma della società nel suo insieme. Trattare il tema del deficit cognitivo è molto complesso, di solito si tende a scrivere di quante risorse comunque ha anche una persona con deficit così gravi. Le famiglie, poi, che già vivono con angoscia il tema del “dopo di noi”, sono portate a cogliere qualsiasi sfumatura che possa indicare un qualche tipo di relazionalità con un figlio anche se gravemente disabile. Molto di rado si trova qualcuno che tratta del tema del deficit mentale descrivendo anche i grossi limiti, la mancanza di relazionalità e la mancanza, purtroppo, di vie d’uscita. Nick Hornby è un romanziere, non si occupa di disabilità, ma ha saputo descriverla, in tutta la sua veridicità. Perché sarebbe assurdo non ammettere che in casi come questi i problemi ci sono, che si fa fatica, che si prova dolore, che si cerca disperatamente un modo per vivere la normalità della disabilità ma che questo modo non esiste. Questo figlio vegeta, e se sta con la madre o con qualcun altro non cambia nulla. O almeno: è impossibile stabilire con certezza se per lui cambia qualcosa. È una persona talmente incapace di mettersi in relazione con gli altri, che non si può sapere se sta meglio con la madre che lo conosce bene o con altra gente. Vive, e basta. Nel senso che sta al mondo, e basta. La madre capisce che il problema del “dopo di noi” in realtà non esiste. Lei è in vacanza, ma la vita del figlio si sta svolgendo esattamente uguale. È una donna che ha messo da parte molto denaro, e sa già di poter pagare la casa di cura anche dopo la sua morte. Quindi se anche lei dovesse morire, il figlio è sistemato.
Eppure, quando tutto sembra andare solo verso il cinismo più bieco, il valore di questo figlio viene recuperato non solo dalla madre (sarebbe troppo ovvio) ma anche dagli altri.
Di ritorno dalla vacanza, i quattro protagonisti ormai sono legati e decidono di incontrarsi periodicamente in casa dell’uno e dell’altro. La prima volta che vanno a casa di questa madre, sono imbarazzati davanti alla presenza del figlio. Imbarazzati, a disagio e anche un po’ schifati. Con la solita schiettezza, pensano che tutto sommato pure loro vorrebbero uccidersi con un figlio del genere. Ma poi questo figlio, questa presenza muta e apparentemente vuota, riesce a conquistare tutti. Man mano l’imbarazzo passa, si crea l’aiuto reciproco, il darsi una mano, il chiacchierare con questo ragazzo pur sapendo di non ricevere risposta, il coinvolgerlo in situazioni divertenti e scherzose. Nonostante le premesse, il romanzo si conclude bene, nessuno si uccide e tutti riescono di nuovo a vivere bene. E vivere bene significa anche vivere con questa persona così disabile, perché parte di quello che la madre e gli amici sono dipende anche da lui.

Vollyamo tutti

Questo progetto, unico nel suo genere in Emilia Romagna e probabilmente non solo, ha come intento quello di dare una reale opportunità di praticare una disciplina sportiva a tutti. La pallavolo è una attività sportiva che per le sue peculiarità può essere giocata senza distinzioni di età o sesso fra i partecipanti e, cosa più importante, da tutti i tipi di disabilità, semplicemente utilizzando dei piccoli accorgimenti e aggiustamenti tecnici. Si cerca così di superare, quello “zoccolo duro” legato a tutti coloro che ritengono il volley una disciplina sportiva troppo difficile da insegnare, perché essa più di altre attività ludiche ricreative richiede all’atleta capacità di coordinamento oculo manuale, oculo podale, conoscenza e gestione dello spazio temporale. Inoltre nel volley non vi sono punti di riferimento, dato che la caratteristica principale del gioco consiste nel mantenere in area il pallone il più a lungo possibile. Bisogna colpire e passare la palla mentre è in aria, prima che tocchi terra. Movimento, non semplice da eseguire, concetto non sempre facile da comprendere per chi presenta gravi problemi a livello logico motorio. Ma a queste difficoltà si può facilmente porre rimedio, giocando inizialmente con dei palloni più leggeri come quelli ad aria, perché impiegano maggior tempo a cadere; questo tipo di esercizio viene svolto per insegnare agli atleti il concetto di tempo, di volo, e di spazio; è possibile giocare con una rete leggermente più bassa, o con un campo che ha dimensioni più piccole o si possono eliminare i gesti tecnici più elaborati da eseguire.
La nostra storia non ha radici molto lontane, se teniamo presente che il suo esordio è avvenuto circa tre anni fa, esattamente il 12 novembre 2003. Diversi sono stati i tecnici che si sono alternati nella direzione del gruppo, e solo attualmente lo staff ha raggiunto una sua stabilità, così come il numero degli atleti si è consolidato nel corso del tempo. Infatti, inizialmente avevamo un numero di giocatori piuttosto ridotto; al momento, invece, registriamo una rosea di atleti abbastanza ampia: all’incirca quattordici. Per un lungo periodo di tempo non abbiamo avuto la possibilità di partecipare a dei tornei venendo meno a una esigenza degli stessi ragazzi. Il semplice allenamento settimanale era diventato per i nostri atleti troppo poco, troppo riduttivo, essi richiedevano a gran voce tute ufficiali, maglie, incontri sportivi con una certa regolarità, insomma tutto come dei veri e propri giocatori. Difficile e complesso era diventato spiegare che prima o poi i loro desideri, i loro sogni si sarebbero realizzati.
Arriviamo così al 30 gennaio 2004, giorno in cui abbiamo affrontato la nostra prima partita a Budrio (BO). Ricordo ancora l’emozione e l’orgoglio che traspariva dal volto dei nostri ragazzi per aver avuto la possibilità di confrontarsi e di sperimentarsi nel gioco contro dei veri avversari; allo stesso modo era possibile leggere nei loro volti una motivata euforia per aver indossato una divisa, che dava loro la possibilità di identificarsi in un gruppo e di  riconoscersi in una squadra. Sono seguiti altri incontri, altre manifestazioni, ricordo quella svoltasi a Monghidoro (BO), e quella avvenuta nel carcere di Bologna. Il fatto di intervenire a tali manifestazioni ha reso possibile che i nostri ragazzi partecipassero con maggior impegno e più motivato interesse agli allenamenti. Non si discuteva, non vi erano più lamentele, si veniva in palestra, si correva, si giocava, e attraverso il gioco esprimevano la loro voglia di stare insieme, di divertirsi, di fare gruppo nel rispetto dei compagni e delle regole. Forse a fatica  avevamo raggiunto uno dei nostri obiettivi principali che non va mai dato per scontato.
I ragazzi che frequentano il nostro corso presentano diverse problematiche e tipologie di disabilità, che vanno dal disagio sociale a difficoltà di tipo fisiche, e a problemi di salute mentale. Essi, non hanno nulla in comune se non la voglia di giocare, di sperimentarsi nelle loro capacità atletiche e relazionali. Non dimentichiamo che il nostro è uno sport di gruppo, difficile da insegnare, per chi non è abituato a comunicare con l’altro. Se vuoi vincere in uno sport di squadra hai bisogno del tuo compagno, altrimenti le possibilità di successo sono molto ridotte. Per questo per gli operatori è fonte di successo il semplice fatto che un ragazzo riesca a passare la palla al suo compagno di squadra anziché voler compiere l’azione completamente da solo senza il sostegno dei suoi amici atleti. Attualmente i nostri allenamenti vengono svolti nella palestra dell’Istituto Aldini. Siamo stati integrati anche in una società sportiva, l’Atletico Monte San Pietro, ma questa è un altra storia, troppo presto, forse per poter essere narrata…

Il laboratorio del Centro 21: diario di un’esperienza teatrale

Il Centro nazionale Trisomia 21, oltre le diversità è un’associazione ONLUS con finalità sociali, didattiche ed assistenziali a carattere di volontariato. Tale associazione ha lo scopo di gestire, senza fine di lucro, un centro della salute per l’inserimento di portatori della sindrome di Down e persone della terza età. Le finalità del centro sono rivolte allo sviluppo delle autonomie lavorative della persona Down, come per esempio: lavori artigianali, stampa di un giornale di informazione, giardinaggio, musica, spettacoli, attività sportive. Il Centro si trova a Idice (BO) in via Emilia (centro21@iperbole.bologna.it).
Nel 2000 il Centro 21 inizia a collaborare con l’Associazione Gibus Teatro per sviluppare un progetto desiderato da lungo tempo: istituire un laboratorio permanente di teatro rivolto ai propri utenti disabili e normodotati . In qualità di attore e pedagogo teatrale mi viene assegnata la conduzione del laboratorio, sotto la direzione di Vladimira Cantoni, regista e presidentessa di Gibus Teatro e la supervisione di Anna Maria Poli, presidentessa del Centro 21, e affiancato da alcuni collaboratori, tutti studenti DAMS interessati al progetto . Per la prima volta nel mio percorso artistico e pedagogico, mi trovavo ad insegnare teatro a persone in situazione di handicap.
Il primo anno di laboratorio si è tenuto da ottobre 2000 a maggio 2001, con frequenza di un incontro a settimana della durata di due ore. I partecipanti sono stati ed 10, di cui 2 normodotati e 8 disabili (6 soggetti affetti da sindrome Down più un caso di ritardo mentale e uno di autismo) ed i collaboratori 8.
Il secondo anno, iniziato ad ottobre 2001 e terminato a maggio 2002, ha avuto una frequenza di due incontri a settimana, ed ha previsto un calendario di prove in vista della presentazione dello spettacolo che si sono svolte nel mese di giugno. I partecipanti sono stati complessivamente 14, di cui 9 avevano già partecipato al laboratorio del primo anno mentre 5 erano nuovi elementi, tutti disabili (quattro con sindrome di Down e un caso di ritardo mentale). Durante l’anno 2 dei partecipanti si sono ritirati dal corso, mentre i collaboratori, inizialmente 10, sono rimasti in 7. Lo spettacolo realizzato, presentato al Festival Dei Teatri di Vita 2002 con il titolo “Di Don Chisciotte ed altre follie”, ha visto la presenza di 15 attori in scena, 9 diversamente abili e 6 normodotati.

 

Teatralizzare lo spazio

Vorrei partire da un lavoro che io chiamo Teatralizzare lo spazio, svolto durante il primo incontro al Centro 21, poiché mi ha colpito quello che è accaduto durante questo esercizio che, più volte ripetuto in altri laboratori di normodotati, ha portato a risultati sorprendenti solamente in questa occasione.
Ho ritenuto opportuno che i partecipanti trasformassero, da subito, la stanza in cui svolgono tutte le altre attività, in un luogo “altro”, creato da loro stessi, in cui potersi mettere in gioco alterando la spazialità e la temporalità quotidiane.
A ciascuno di loro e dei collaboratori, disposti su una fila unica, è stato chiesto di arricchire lo spazio, dopo averlo osservato con cura, posizionandovi, uno alla volta, una sedia all’interno di esso. Per  compiere questa azione è stata concessa loro la massima libertà nei tempi e nelle modalità di esecuzione.
Una cosa molto interessante da notare consiste nel fatto che la maggior parte dei partecipanti ha appoggiato le sedie in maniera particolare (rovesciate a terra o capovolte), seguendo linee spaziali oblique, mentre quasi la totalità dei collaboratori, le ha posizionate normalmente sulle quattro gambe, rivolte verso uno dei punti cardinali.
La cosa  che più mi ha sorpreso si è verificata quando Fabio, uno dei partecipanti, anziché dirigersi verso la fila di sedie, è andato a prendere una scala, appoggiata al muro, in un angolo della stanza.

Fabio parte dalla sua posizione con un grado di concentrazione più elevato degli altri,  attraversa lo spazio zigzagando con scatti improvvisi tra le sedie, in direzione della parete sulla quale poggia l’ultima sedia da posizionare. Improvvisamente si  blocca, direziona lo sguardo in un angolo vuoto della stanza e si dirige verso quello opposto in cui  trova una scala che afferra con decisione. Con tutta sicurezza e nello stupore generale, in un primo momento appoggia a terra i due piedi della scala ancora chiusa, si  ferma proprio sul punto di aprirla e, dopo un secondo di pausa, distende l’attrezzo al suolo. Guarda compiaciuto l’oggetto da lui scelto per alcuni secondi, poi si volta e torna al posto senza mostrare in volto alcuna emozione. 

Una volta ultimata la costruzione del nostro nuovo spazio “scenico”, è stato chiesto a ciascuno di dare una libera interpretazione a quello che era stato creato insieme, in base alle suggestioni che ne avevano ricevuto. I primi a parlare sono stati alcuni dei collaboratori che non sono riusciti a superare la connotazione negativa e stereotipata di disordine e caos, che può possedere una serie di sedie rovesciate su un pavimento.
Come già mi aspettavo, i partecipanti hanno risposto in maniera più originale e profonda, andando ad indagare veramente le emozioni che tale immagine suggeriva loro.

Daniele: Io, in uno spazio così, farei l’amore con una donna.
Francesco: Io, canterei.
Barbara: Eh,…mhh..io, balletto, sì.
Fabio: Mi sebra…mi sebra…ehm…spazza…spazzacamino.
Sara: Io farei…calla…callavolo.

Dopo una prima carrellata di interpretazioni e impressioni, decido di intervenire sulla luminosità dello spazio scenico.

Abbasso l’interruttore della luce e taglio il pavimento della stanza con piccole lame tratteggiate di bianco, che spiovono dalle fessure delle tapparelle che faccio scendere lentamente

Ecco come, con un po’ più di esitazione, si modificano alcune delle interpretazioni date in precedenza dai partecipanti.

Daniele: Comincio, comincio io. Allora vedendo questa stanza qui, mi immaginerei un uomo seduto che canta una canzone a una ragassa, e questa ragassa fa uno spogliarello. Fa uno spogliarello mentre questo cantante seduto canta.
Francesco: mmhh…che gli altri ballano.
Sara: Io ballerei Franchesco.
Fabio: Io, farei quello che dorme, ma che non ha sonno.

Solo dopo questa discussione, attraverso il confronto delle nostre impressioni e delle intenzioni che ci suggerisce la situazione spaziale che abbiamo creato, abbiamo potuto incominciare ad agire questo nostro spazio “teatralizzato”.
La musica ha segnato l’approdo a questa fase, contribuendo ad arricchire emotivamente la motivazione con cui ciascuno sarebbe entrato nello spazio per animarlo della propria presenza.
Carla, la madre di Andrea, uno dei partecipanti affetti da un forte autismo, ha portato un nastro su cui ha registrato suo figlio che suona il pianoforte.

Alla presenza di questa melodia spezzata, lo spazio sembra prendere vita, le note cambiano lentamente sedia sulla quale riposare, accarezzano i pioli di una scala che dà l’idea di essere stata usata per l’ultima volta, avvolta nella penombra che vela i corpi di Sara e Francesco, i primi a danzare insieme in questo spazio, senza alcun timore o imbarazzo, come se quel luogo fosse ciò che rimane del mondo, e loro le ultime creature a popolarlo.

Questo esercizio ha lo scopo di portare i partecipanti a quella che diventa una improvvisazione libera, dove si sviluppano una serie di rapporti di interrelazione. Si interagisce innanzi tutto con uno spazio volutamente alterato nella sua agibilità e con degli elementi praticabili, in questo caso le sedie e la scala. Un altro livello di interazione si instaura tra le persone, che stabiliscono delle relazioni, ciascuno a partire da una propria azione,  scaturita da una suggestione provocata dalla combinazione dello spazio con i suoi elementi, con la luce e la musica.
La prima improvvisazione del laboratorio ci è apparsa molto carica di energia e densa di significati, ma soprattutto vera. Il sovrapporsi delle azioni di ognuno andava a creare dei contrasti molto interessanti e le relazioni che si instauravano tra queste figure pullulavano di una sincerità cruda, messa a nudo senza alcun pudore.
Il lavoro riguardante la “teatralizzazione” dello spazio è stato ripreso nell’ambito dell’incontro seguente nel quale, dopo aver ripetuto la fase di costruzione di una sorta di scenografia mediante l’utilizzo delle sedie e della scala, è stato dato a ciascuno dei partecipanti un elemento di un costume o di  una maschear. La richiesta è stata quella di indossare o calzare tali accessori, prima di entrare nello spazio scenico, e scegliere la posizione e la postura iniziale. Questo avrebbe dovuto già caratterizzare l’entrata di ognuno allontanandolo dal sé di ogni giorno e avvicinandolo ad una prima condizione fittizia di personaggio.
E’ stato di fondamentale importanza cercare di capire che cosa andasse a modificare la presenza ed il contatto con questo nuovo elemento.

Daniele si aggiusta con cura la bombetta che gli ho dato, sposta il bacino in avanti, getta il peso del tronco all’indietro, mima con la mano una pistola, assume uno sguardo minaccioso chiudendo di più un occhio ed inclinando leggermente il capo da un lato. La sua entrata in scena ricorda quella di un gangstar, con camminata  lenta e pausata dai movimenti che esegue con la mano, utilizzata come arma da fuoco.
A Sara ho dato un cappello da marinaretto. Quello che modifica il suo comportamento abituale è la presenza fastidiosa di quell’elemento estraneo che porta sulla sua testa e che continua a mettere, togliere, aggiustare, guardare. Quello che però mi colpisce è la fatica fatta per tenersi quell’oggetto sul capo, uno sforzo che altera a momenti il suo equilibrio e frena i tempi della sua solita camminata.

Quando ognuno ha occupato la sua posizione all’interno della scena, osservo il quadro che si è venuto a creare, notando subito con piacere che alcuni di loro, hanno trovato una loro postura, differente da quella che utilizzano solitamente, legata alle suggestioni derivanti dall’accessorio che indossano, che li ha portati probabilmente ad avvicinarsi ad una loro rappresentazione mentale di un qualche personaggio.
È giunto il momento di aggiungere un altro elemento fondamentale per agire questo spazio, per “teatralizzarlo” ulteriormente: la voce.
Ciascuno dei partecipanti, dalla posizione in cui si trovava, è stato messo nella condizione di utilizzare, a suo piacimento, il materiale drammaturgica che aveva scelto per l’occasione. Così, alcuni hanno cantato un pezzo di una canzone, altri hanno recitato una parte di una poesia, altri ancora hanno letto una frase scritta da loro stessi. Durante questa fase, i partecipanti sono stati sollecitati individualmente ad alzare la voce , a ripetere il testo facendo pause tra una parola e l’altra, ad articolare come meglio potevano, a dilatare e sottolineare alcuni suoni. Terminato questa sorta di lavoro sul singolo, tutti sono stati invitati ad alternarsi nell’esposizione dei propri materiali, con lo scopo di ridurre il più possibile le pause tra l’uno e l’altro, fino quasi ad arrivare a sovrapporsi.
Andrea, non potendo utilizzare la parola, si sarebbe sentito escluso da questa fase del lavoro, per questo è stato fatto accomodare al pianoforte, per accompagnare questo momento con una musica da lui eseguita.

Barbara si alza, avvolta nel suo tutù rosa da ballerina di danza classica, appoggia dolcemente una mano alla scala e inizia a dire una poesia. La voce è molto bassa e nasale, a stento riusciamo a sentire solo la prima parola di ogni verso. Il capo, tendenzialmente tenuto basso, si alza solo a momenti, accompagnato dal movimento di un braccio che compie un leggero slancio in avanti, corrispondente all’incipit di alcune parole, ma il suo sguardo rimane totalmente interiore. La memoria invece non sembra assolutamente provocare alcun problema, dato che Barbara attraversa velocemente varie strofe di quella poesia senza  interruzioni o auto correzioni. Le chiedo di ripetere a voce alta solo il primo verso cercando di fare delle pause tra una parola e l’altra,  prendendo il fiato necessario. Lo sforzo compiuto da Barbara è incredibile, ma la voce ancora fatica ad uscire con più volume dalla sua bocca piccolissima e che si apre minimamente ad ogni suono. Decido allora di farle rivolgere quelle stesse parole a Beatrice, sollecitando la sua attenzione. Il tono cambia e, si colora di molte sfumature, fino a diventare imperativo e portare la voce di Barbara ad alzarsi notevolmente di intensità. Inoltre, l’effetto comico è davvero esilarante, perché Barbara alterna alle parole pompose della poesia i bruschi richiami a Beatrice (“Oh ascolta mo! Dai!” oppure “Ehi! Beatrice! Mi ascolti o fai finta?!”) che la guarda esterrefatta e quasi spaventata.
Sara, seduta vicino a Francesco, lo guarda, e quando le chiedo se vuole dire qualcosa anche lei, dopo un minuto di silenzio, riempito dai suoi continui cambi di espressione, con tutta la dolcezza e la naturalezza possibile dice: “Io  amo Franchesco!”. Inizio a lavorare su questa frase come sulle altre, intervenendo sul volume della voce, e soprattutto sulla scansione e l’articolazione delle parole, stabilendo però già una relazione tra questi due personaggi, dal momento che Sara deve sempre dire la sua frase a Francesco cambiando di volta in volta il contatto fisico con lui (tenendosi per una mano, per entrambe le mani, abbracciandosi, appoggiati di spalle l’uno all’altro,etc.). I risultati ottenuti da Sara, in alcuni minuti di lavoro, sono strabilianti, soprattutto se si pensa che, tra i partecipanti affetti da sindrome di Down, è il caso più grave e che ha scoperto la parola da poco tempo.
Daniele si dirige verso lo stereo, estrae una cassetta dalla tasca e la inserisce nell’apparecchio. Si volta, ci guarda, preme play e ritorna nello spazio cominciando, con le dita, a tenere il tempo di una canzone dance cantata in francese. Con la sua goffa andatura comincia a sondare lo spazio. Poi si ferma di fronte ad una delle collaboratrici, prima con uno sguardo accattivante, poi tendendo la sua mano, con il suo indecifrabile linguaggio delle dita, la invita a ballare. Tenendola per  mano viene verso di me, e ripete lo stesso invito, ci fa disporre ai suoi fianchi e ci guida in un inchino verso un ipotetico pubblico, ripetendo questa procedura per tutti e quattro i lati della stanza. Le sue mani cominciano la loro danza insolita, indicando gli altri, forse invitandoli, fino a che, sempre su indicazione dello stesso Daniele, che oramai riveste la figura di direttore di questa orchestrina danzante, prendiamo gli altri partecipanti per mano. Si viene a formare in tal modo un cerchio che danza imitando i gesti di Daniele, mentre Barbara sale sulla scala, rimasta al centro dello spazio, e, tenendosi saldamente con una mano, getta nell’aria l’altra, che comincia a seguire il tempo della musica. Sull’incalzare del tempo tutti quanti cominciamo a battere le mani sfociando in un meritato applauso rivolto a tutti i partecipanti a quella che è diventata, inaspettatamente, un’improvvisazione collettiva.

Sono bastati questi due incontri a farmi capire che qualsiasi struttura fissa di un esercizio serve ai partecipanti, inizialmente, per dare loro una certa sicurezza iniziale e stimolarli ad agire. Successivamente, però, la loro imprevedibilità e le loro peripezie scardinano da dentro qualsiasi sistema chiuso, alterandone continuamente la forma, espandendone talmente i confini da arrivare a distruggerli. Così ogni indicazione data, ogni traccia da seguire diventa la partenza per un percorso che porterà alla liberazione da ogni schema. E questo capita anche a me, quando lavoro con loro, difficilmente riesco a concludere anche solo un riscaldamento muscolare senza improvvisare sulle loro reazioni continue variazioni. Così, quando Daniele, invece di utilizzare un testo, ha deciso di usufruire di una base musicale per giungere ad una improvvisazione priva della parola, ho lasciato proseguire la cosa, senza quasi accorgermene. Proprio per lasciare ogni libertà di espressione, per non soffocare la sua inventiva ed il suo narcisismo. Per non confezionare nulla in uno schema fisso o in un metodo rigoroso. Forse la verità è che qui, come nel teatro, non c’è metodo da seguire. Ogni giorno impari qualcosa e il giorno dopo sei da capo. Il terreno in cui mi stavo avventurando sarebbe stato quello dell’inatteso e dell’imprevedibile. Avrei insegnato ma anche imparato, avrei dovuto essere disposto ad abbandonare quei meccanismi e quelle logiche che noi chiamiamo “normali”, per conoscere ed acquisire quelle da loro utilizzate. Questa sarebbe stata la condizione per poter creare un vero dialogo tra di noi. E questo il nostro “spazio teatralizzato”, dove tutto è possibile, dove abita lo stupore, dove c’è continua tensione ad un’originalità e non esistono preconcetti. Un luogo dove la creatività, intesa come capacità di vedere nuove relazioni e di rendere esistente qualcosa che non esisteva prima, significa anche deviare da modelli tradizionali di pensiero e comportamento, affrancandosi dai limiti dell’uniformità, liberandosi, realizzandosi, salvandosi, ovvero essendo “diversi”  e imparando a considerare la diversità un valore costruttivo, in cui operano la scoperta e  il miglioramento.

La sfida al limite:un occasione creativa.

 

Il limite fisico, sociale, psicologico o di qualsiasi natura, è un’occasione creativa, è il punto di partenza di un’originalità espressiva e soprattutto il profilo di una identità e quindi va cercato, indagato, conosciuto (3).

Al laboratorio del Centro 21 il limite è stato sempre affrontato, sfidato, trasformato in arte, con volontà, coraggio e sudore da parte di tutti i partecipanti. Nessun esercizio, nessun tipo di lavoro svolto insieme è stato mai preparato appositamente per venire incontro alla loro condizione.

Gli esercizi che propongo loro e che invento, modifico, sviluppo, complico insieme a loro, provengono da un repertorio di esercitazioni svolte durante il mio percorso di attore. Alcuni sono complessi e richiedono molta concentrazione, altri sono molto faticosi e necessitano di un buon allenamento. Non c’è stato alcun tipo di semplificazione e di alleggerimento di queste pratiche, ognuno era libero di arrivare, ogni giorno, dove si sentiva. Questa era la sua sfida personale al limite, intrapresa con una coscienza delle proprie capacità e potenzialità che è andata crescendo nel tempo.

Più volte è stato rimproverato a molti collaboratori di utilizzare un approccio pietistico e di assistenzialismo verso i partecipanti, di aiutare invece di capire, di limitarsi a notare solo i difetti e a correggere gli errori anziché osservare quei modi nuovi di agire, e di agevolare lo sviluppo di quelle potenzialità espressive.
Dove c’è la presenza di un vissuto di carattere assistenziale, e quindi una certa tendenza ad adagiarsi e annullarsi nell’aiuto degli altri, occorre disciplina, per fare in modo che i partecipanti imparino a distinguere il lavoro teatrale dalle altre attività ricreative e lo affrontino con professionalità.
Molti di loro, inizialmente, manifestavano questa tendenza a non spingersi oltre una certa soglia, e a cercare il nostro conforto di fronte ad un compito mai affrontato prima. Inizialmente c’è una coltre di apatia da superare, che se affrontata nella maniera giusta permette a quell’energia potenziale, celata in loro, di sprigionarsi in tutta la sua potenza e a quella volontà di raccontarsi in tutta la poesia del proprio essere, di emergere.

È un periodo molto produttivo, dove si raccoglie ciò che si è seminato a schiena curva e con tanto sudore sulla fronte.
Oggi i ragazzi hanno condotto il training fisico e vocale interamente da soli, passandosi la fiaccola regolarmente, così tutti hanno guidato tutti. Sembrano un corpo solo, un movimento unico con tutte le sue mille sfumature, un suono solo con tutti i suoi armonici. Ho spiato questo avvenimento che è durato più di quaranta minuti senza alcuna interruzione, senza distrazione, non una risata, non uno sbuffo, niente, solo concentrazione e professionalità. […].

Il training che effettuavamo ad ogni incontro, con una durata che variava ogni volta, e che comprendeva un lavoro sul corpo, sulla voce e sulle facoltà mentali (memoria, concentrazione, immaginazione), era il terreno privilegiato per questa sfida lanciata al limite, il luogo in cui poterlo trasformare in altro.
Durante i primi incontri il training veniva affrontato con molta fatica e la spossatezza subentrava dopo pochi minuti, costringendo alcuni partecipanti a fermarsi per riprendere fiato. C’era una sorta di imbarazzo nel compiere il tentativo di misurarsi con quelle difficoltà psico-motorie determinate dall’ handicap. Quello che è stato più volte spiegato loro è che ciò che contava maggiormente era la tensione di quello sforzo impiegato nel tentato superamento del limite piuttosto che il risultato in sé.
Col passare del tempo, dopo esercizi dedicati in maniera specifica all’ equilibrio,  ma soprattutto dopo aver capito che il limite che ognuno ha va messo in gioco e trasformato, come punto di partenza di ogni nostra personale ricerca su noi stessi, ogni situazione che metteva in discussione il proprio equilibrio veniva vissuta come una prova con se stessi, come un’occasione per spingere i limiti del proprio corpo un po’ più in là, oltre la prossima meta.
Sara, che prima si aggrappava alla mia spalla,  di sua iniziativa, per cercare di sollevare la gamba e mantenerla alzata, e non voleva lasciare più la presa, da un po’ di giorni abbandona il mio sostegno ogni qualvolta crede di aver trovato l’equilibrio.
Oggi i ragazzi hanno condotto il training fisico e vocale interamente da soli, passandosi la fiaccola regolarmente, così tutti hanno guidato tutti. Sembrano un corpo solo, un movimento unico con tutte le sue mille sfumature, un suono solo con tutti i suoi armonici. Ho spiato questo avvenimento che è durato più di quaranta minuti senza alcuna interruzione, senza distrazione, , solo concentrazione e professionalità.

La maggior parte dei partecipanti conoscono quali sono i propri limiti, sono coscienti dei rischi che possono correre affaticandosi troppo, ognuno sa quanto può osare. Così molte volte, durante esercitazioni più stancanti, alcuni dei partecipanti si fermavano e uscivano momentaneamente dal lavoro, come può accadere in qualsiasi altro laboratorio dove si lavora con una certa intensità. È capitato però che  qualcuno ignorasse completamente i disturbi che stavano insorgendo in quel momento, colto dalla smania di riuscire a fare sempre di più rispetto agli altri, nel tentativo di voler dimostrare di essere più vicino a noi normodotati che ai compagni disabili.
Il training funzionava molto e cominciava a dare i suoi risultati già dopo qualche mese. Quello che ho sempre apprezzato di questo lavoro è che non si trattava di insegnare loro dei movimenti, delle posture, delle figure, degli esercizi per lavorare con il corpo e con la voce, ma di permettere uno scambio, un dialogo tra i nostri corpi. Così molte volte qualcuno di loro conduceva un riscaldamento vocale basandosi sulle tecniche apprese durante i corsi di canto, un altro proponeva dei passi di danza imparati al corso di ballo, altri ancora mostravano particolari atteggiamenti del corpo e posizioni che a loro sembravano tanto usuali, a noi inimitabili.

Invito Rossella, che durante alcune improvvisazioni si piega fino ad inserire la testa tra le gambe, a proporre le sue figure, che sembrano quelle di una contorsionista, durante il training fisico. Tutti i partecipanti, me incluso, si impegnano ad utilizzare quelle posizioni, per riscaldare i muscoli, fino a dove possono. Mi accorgo di come il corpo di molti di questi attori, proprio perché diverso in alcune caratteristiche che la medicina chiamerebbe malformazioni, possiede delle caratteristiche e gamme di movimento differenti. In questo caso dimostra un’elasticità congenita straordinaria. Io, seppure allenato, non riesco a raggiungere l’estensione dei loro piegamenti con la stessa facilità. Un corpo più flessibile, più elastico, sul quale si può lavorare molto per indagare tutte le sue potenzialità ed esaltarle al meglio.

Con il passare del tempo sono stati i partecipanti stessi a chiederci di essere aiutati a colmare delle lacune nel loro utilizzo del corpo, per affinare dei movimenti, per imparare tutte quelle cose che non sono in grado di fare e che vivono come un deficit. Così, molte volte, durante il training, io stesso o un collaboratore ci dedicavamo interamente ad una persona e al problema che aveva esposto. Tutto questo lavoro sul training e votato al superamento dei propri limiti si è concluso con un risultato sorprendente.
Verso la fine del secondo anno di laboratorio, Andrea, che aveva partecipato anche al primo, durante un momento di distrazione dal lavoro teatrale, ha cantato parte di una canzone.

Rossella ha deciso di portare il karaoke a laboratorio. Accettando questa sua iniziativa, è stato trascurato per un giorno il lavoro che stavamo svolgendo per dedicarci al canto. Ciascuno dei partecipanti ha scelto una canzone ed ha aspettato il suo turno. Questo ha permesso di verificare come cambiasse la voce durante quello che poteva essere inteso come un gioco, rispetto al lavoro teatrale. In effetti, la voce di Rossella, rispetto agli altri, cambiava di parecchio. Mentre, quando si lavora, c’è tutta una serie di inibizioni che quasi non permette alla voce nemmeno di uscire, in quest’ambito più ludico, questa acquista volume, intensità e tono. Inoltre utilizza, in questo caso, un’espressività nelle tonalità molto marcata. Se Rossella stupisce per questi cambiamenti Andrea regala qualcosa che nella vita si vede una volta sola. In quella sala, sulle dolci note della Ninna nanna del Cavallino  si compie quello che potrebbe essere definito come un miracolo. Andrea prende in mano il microfono, segue con gli occhi le parole del testo e comincia a scandirle con il movimento della bocca che si dilata sempre di più.  Improvvisamente comincia a uscire il suono di quelle parole. Una voce limpida, fresca, rimasta inutilizzata per dieci anni riempie la sala, invade i nostri sensi e quelli dei partecipanti. Si crea il silenzio più totale, è solo questa voce a prendere forma, come se fosse una presenza che per un istante popola questo spazio per poi scomparire nuovamente nel nulla. Questa apparizione sonora dura meno di un minuto, sufficiente a gettare tutti nell’incredulità e nel  silenzio. Sembra che nessuno voglia più parlare perché la sua voce non inquini lo stesso spazio in cui si è rivelata quella di Andrea, come un tesoro celato, un enigma svelato, una scoperta che ha dell’incredibile.

Dal laboratorio alla scena

Nel secondo anno di laboratorio, abbiamo deciso di lavorare alla produzione di uno spettacolo, come verifica del percorso biennale svolto e come ulteriore stimolo alla creazione per i partecipanti. Ho pensato di lavorare con delle suggestioni forti, utilizzando dei testi crudi e aperti all’esplorazione dei caratteri umani, ma soprattutto, che potessero esaltare, in tutti i suoi aspetti, il comportamento scenico di questi attori, che ritenevo teatralmente efficace. Durante le improvvisazioni abbiamo utilizzato molto il tema contenitore del circo. Questo, per via del suo potenziale evocativo e fantastico, che invogliava i partecipanti a voler esplorare caratteri e personaggi che possiedono abilità straordinarie, e che di conseguenza li portava a sfidare in continuazione i propri limiti, e a coinvogliare in queste figure tra il poetico ed il grottesco, tutta l’originalità e l’efficacia del loro agire in scena.
L’idea era quella di presentare uno studio su alcuni frammenti di F. Wedekind e G.Buchner,  di compiere un indagine dei caratteri e dei vizi umani che nei due drammaturghi tedeschi compaiono metaforizzati sotto forma di animali. Si trattava quindi di lavorare principalmente sulla metamorfosi e sul doppio, dato che ogni personaggio del circo era anche un vizio, un carattere, un tipo umano, identificato nell’animale che doveva evocare.
Nell’assegnare queste figure agli attori, abbiamo cercato di rispettare una sorta di coerenza nella fisicità e negli atteggiamenti naturali del corpo di ognuno, cercando di scoprire quale fosse la “bestia” che vive dentro ciascuno di loro. Questo lavoro di ricerca, ha fatto intuire ai partecipanti che non si trattava semplicemente di rendere l’effetto di un animale attraverso la sua imitazione, ma che bisognava percepirne l’essenza e viverla come linea guida del proprio personaggio circense, mediante l’utilizzo di una particolare qualità del movimento, di una specifica temperatura energetica, di un tono muscolare differente, etc.
Il procedimento di costruzione del personaggio era tutt’altro che semplice, poiché si articolava sul triplice livello persona-personaggio del circo-risultato personaggio/animale.
Completata questa fase di lavoro inerente al personaggio, ci siamo potuti dedicare al montaggio di alcune sequenze, provenienti dalle improvvisazioni, che delineavano i rapporti e le dinamiche di relazione di queste figure. Mancava però una sorta di referente interno che fungesse da motore delle azioni fisiche e da linea guida. Ho deciso quindi di inserirmi come attore nelle scene che stavamo costruendo, dopo averle osservate e guidate come regista, per dare ulteriori sviluppi e per permettere agli attori di andare più in profondità in ogni loro azione e relazione, nochè per scandire il giusto ritmo all’andamento dello spettacolo.

Così, per la prima volta, mi sono sentito veramente a disagio, come un debuttante capitato per caso in mezzo ad una troupe di attori professionisti ed esperti. Scomparivo letteralmente dalla scena, inghiottito dalla loro presenza scenica così forte, così difficile da sostenere o contrastare.
Ho dovuto lavorare intensamente ed al massimo delle mie capacità, e ricordo che al termine di ogni sessione di lavoro ero esausto. Per mia fortuna non sono solo io ad aver provato queste sensazioni, altri prima di me hanno riportato queste affermazioni, dopo aver lavorato al fianco di attori diversamente abili. […] possiedono un’energia e una coscienza espressiva che un normodotato raggiunge solo con molto lavoro. Tengono avvinto lo spettatore, ma al tempo stesso mantengono una chiara “umiltà” […] (4).[…] Stare vicino ad un attore portatore di handicap è massacrante, perché ha una forza scenica, una verità dell’agire teatrale enorme. […] in loro c’è una capacità di essere autentici. C’è una tale forza di segno scenico che determina un territorio tutto “in salita” […] (5).

Dopo una serie di prove guidate, in cui si testavano i tempi di intervento di ognuno, si è passati alla ripetizione filata dell’intera scena, che ha assunto la durata di circa trenta minuti.
Ci sono state difficoltà iniziali legate alla memorizzazione, non tanto delle partiture, ma dei tempi di esecuzione di queste. Una volta che tali tempi sono stati assimilati, però, il ritmo e l’energia dell’intera scena sono stati sempre sostenuti con grande impegno, dimostrando un alto livello di professionalità.
Per ottenere questo, è stato indispensabile creare una rete di forti stimoli all’azione, che scandivano i tempi di intervento dei personaggi, i cambiamenti spaziali, le pause, l’incalzare del ritmo, le impennate di intensità etc.
Questi impulsi venivano dati da alcuni gesti decisi e da vocalità marcate, come fossero dei segnali conosciuti e condivisi solo dagli attori in scena, che venivano assimilati a tal punto che la risposta risultava automatica.
Quando ogni attore ha imparato a decifrare i segni che scandiscono i tempi e le variazioni della sua partitura, questa rete di segnali si estende automaticamente all’insieme dell’agire scenico di tutti i personaggi, e l’impulso si trasmette da uno stimolo all’altro. Così, un mio gesto si ripercuote sullo spostamento spaziale di un altro personaggio, che a sua volta determina il movimento di un altro, che a sua volta va a innescare la dinamica di relazione tra altri due ancora e così via.
È stato interessante notare come questi attori rispondano meglio proprio a tutti quegli impulsi più sofisticati e meno visibili che si annidano in un cambio di intensità della voce o del tono muscolare, per esempio, piuttosto che ad altri più espliciti. Pare che questi segnali, rintracciabili nelle variazioni energetiche di chi sta agendo in scena, siano più consoni alla loro qualità di percezione, in maniera direttamente proporzionale alla gravità dell’handicap.
Questi attori riescono a captare la preparazione dinamica ad un’azione, e ritrovano gli stimoli per il loro agire in quei momenti di passaggio dall’intenzione all’azione, nei Sats, come li ha definiti Eugenio Barba (6)a proposito del lavoro con i suoi attori.

È incredibile vedere come Sara, che a volte non sembra dare il minimo accenno di risposta quando la si chiama per nome,  così isolata nel suo continuo muovere la bocca, sempre un passo avanti agli altri nel cerchio,  percepisca il mio cambio di tono della voce e compia il suo salto iniziale per avanzare verso il centro. Oppure come, addirittura, avverta il mio ondeggiare del bacino e risponda con il gesto che ha memorizzato e che non ha mai omesso di eseguire.

Tutti gli attori avevano lavorato sodo, ma, soprattutto, era stato speso molto tempo affinché ciascuno di loro fosse cosciente del complesso percorso di costruzione del personaggio intrapreso, delle dinamiche di relazione con gli altri attori, nonché dei significati che il proprio intervento arrecava all’intera scena.
Questo per evitare che lo spettatore, anche solo per un istante, potesse percepire una sensazione di diversità esibita in scena, o di fatica fatta da un attore disabile per imitarne uno normodotato, che non era certo quello che accadeva nello spettacolo e in tutto il nostro lavoro. Così, attraverso la consapevolezza e l’energia degli attori, la nostra è stata una  performance di grande efficacia che non solo ha valorizzato le qualità degli interpreti ma ha colpito il pubblico “come un pugno allo stomaco”, riuscendo a trasmettere un flusso di emozioni forti e autentiche, insieme a un messaggio critico nei confronti di una società che, vergognosamente, tende ancora alla ghettizzazione dell’handicap.

L’handicap non consente trucchi; svela e denuda, e ci costringe molto spesso a fare i conti con la nostra cattiva coscienza di spettatori, di critici, di studiosi, con le nostre cattive abitudini mentali (7).

3. Cfr. Eleonora Fumagalli, in F. Silvestri, Differenze a teatro, in Teatri delle diversità, Pesaro, Edizioni Associazione nuove catarsi, n.19 , 2001, p. 46.

4. P. G. Nosari  (a cura di), Non faccio diversità,  Intervista a Pippo Delbono, in Hystrio, trimestrale di teatro e spettacolo, anno XV n. 2 , 2002, p. 29.

6. Regista teatrale e fondatore dell’ Odin Teatret (DK) nonché teorico dell’Antropologia Teatrale. Cfr. E.Barba, La canoa di carta, Bologna, Il Mulino, 1993, p.87.

7. D. Seragnoli, Ascoltare l’altro, in in E.Pozzi, V.Minoia, Di alcuni Teatri delle diversità, Pesaro, ANC Edizioni, 1999, p. 34.

I principi dell’antropologia teatrale

Uno strumento di analisi sulla diversità e le arti performative

L’antropologia teatrale è lo studio de comportamento dell’essere umano che utilizza la sua presenza fisica e mentale secondo principi diversi da quelli della vita quotidiana in una situazione di rappresentazione organizzata. In questa utilizzazione extra-quotidiana del corpo si rintracciano alcuni principi pre-espressivi ricorrenti e transculturali, che regolano e determinano la presenza scenica dell’attore, ancora prima che egli manifesti una qualsiasi intenzione ad esprimere.
Vorei utilizzare l’antropologia teatrale, in particolare la teoria sui principi pre-espressivi, come linea guida della mia indagine, come solido impianto teorico dal quale poter estrapolare quei concetti in grado di spiegare, almeno in parte, alcune delle costanti presenti nel comportamento scenico degli attori in situazione di handicap, per la maggior parte affetti da sindrome di Down, autismo e ritardo mentale, con i quali ho avuto l’occasione di lavorare, nei due anni in cui ho condotto un laboratorio teatrale presso il Centro 21.
La prima domanda che mi sono posto osservando le loro azioni è stata infatti questa: perché la loro presenza scenica è così forte? Perché la loro espressività mi cattura così tanto? In che modo riescono a godere della mia più elevata attenzione e della più intensa partecipazione emotiva ancora prima di voler intenzionalmente esprimere qualcosa? Perché tanta “seduzione” in ogni piccolo gesto o azione? Come posso spiegare quella sensazione di palpitante attesa che mi invade appena si presentano sulla scena?
L’attesa di essere stupiti dal loro agire sembrerebbe quasi una condizione garantita loro a priori, come innata. Per trovare una risposta occorre cercare una spiegazione che fondi le proprie motivazioni non esclusivamente sul piano emotivo ma su un approccio interessato alle questioni che riguardano l’arte dell’attore, e quindi gli studi sul corpo, il movimento e l’espressione delle emozioni.
Il corpo dell’attore in scena è un corpo “altro”, che utilizza delle logiche differenti da quelle comuni, che non opera nell’ambito della quotidianità ma utilizza tecniche “extra-quotidiane”, che è pronto a evocare presenze e a farsi veicolo di significati: insomma un corpo trasformato che cattura l’attenzione dello spettatore ancora prima di agire.
Certo uno spettatore che non abbia liberato il suo sguardo da preconcetti di ordine culturale e sociale, e che, di conseguenza, non sia pronto ad accettare la diversità in quanto tale, potrebbe, in maniera assai riduttiva, attribuire quel livello particolare di attenzione e tensione, alla visione in scena di un corpo diverso, che possiede una fisicità differente dalla norma. Tutta la suggestione coinciderebbe perciò con l’esperienza della diversità.
Ma la questione riguardante la presenza scenica di questi attori è di certo più sofisticata e, di conseguenza, merita di essere approfondita, proprio per contrastare questa visione, purtroppo comune, che si ha nei confronti della diversità “messa in scena”. 
In questo caso, l’antropologia teatrale può fornire, a mio avviso, un aiuto molto prezioso a tale proposito, poiché permette di compiere un’indagine specifica dell’utilizzo extra-quotidiano del corpo-mente dell’attore o di chi chiunque agisca di fronte ad uno spettatore, come nel caso del laboratorio teatrale del Centro 21, un contesto in cui la persona disabile è portata nella condizione di esprimersi di fronte ad altri individui diversamente abili e normodotati. 
La considerazione principale da cui possiamo partire per questa ricerca è la condizione di “pre-espressività” che sembra essere connaturata alla condizione fisica e mentale dell’attore in situazione di handicap, in grado di applicare naturalmente quei principi individuati dall’antropologia teatrale e che  producono quelle tensioni organiche e quindi quella qualità di energia che rende il corpo dell’attore vivo e teatralmente deciso. In realtà questi principi sono già rintracciabili nel comportamento che regola il suo agire quotidiano,  ma  con il passaggio ad una pratica extra-quotidiana, assumono una straordinaria valenza di presenza scenica.

Equilibrio

L’equilibrio del corpo umano è una funzione del complesso sistema di leve composto dalle ossa, dalle articolazioni e dai muscoli. Si possono distinguere principalmente due tipi di equilibrio: quello statico, tipico della situazione eretta simmetrica, che richiede un minimo sforzo muscolare, e quello dinamico, che mette i muscoli in azione per conservare la posa eretta..
Questo secondo tipo di equilibrio richiede uno sforzo fisico maggiore ed una dilatazione delle tensioni corporee che sottolineano la presenza dell’attore, prima ancora che egli passi allo stadio dell’espressione intenzionale e individualizzata.
L’attore abbandona l’equilibrio cosiddetto normale, che regola il comportamento di tutti i giorni, modificando il suo modo di camminare e di spostarsi nello spazio, alterando anche la maniera di stare immobile, alla ricerca di un equilibrio “di lusso”, e di un’immobilità che genera, in chi guarda, una sensazione di movimento.
L’equilibrio è messo in azione e le opposizioni delle differenti tensioni del corpo raccontano già una storia.
Sebbene la fisicità di molte persone Down possa dare, in un primo momento, l’idea di una stazione eretta molto stabile e ben ancorata al suolo, in verità, le forze che agiscono per mantenere questa situazione sono sempre in azione ed esprimono uno sforzo superiore alla norma. Per esempio, osservando individualmente i partecipanti al laboratorio del Centro 21, si ha come l’impressione che ognuno abbia trovato la sua posizione eretta prendendo coscienza delle tensioni che operano nel proprio corpo e accomodandosi sullo sforzo minore. Di fatto, ognuno ha una postura  molto differente dall’altro: chi piega molto le gambe e divarica i piedi, chi tiene tutto il peso verso il basso, compresa la testa, chi appare sbilanciato all’indietro, chi sta più rigido etc. I casi più gravi invece, non sono mai del tutto immobili nella stazione eretta, ma compiono delle continue correzioni e dei minimi aggiustamenti che, talvolta, assumono il carattere di oscillazione armonica; l’impressione è quella di un equilibrio dinamico-ondulatorio. Quando poi l’equilibrio viene messo in azione e addirittura sfidato durante il training (allenamento fisico-vocale e psico-sensoriale che precede il lavoro teatrale di improvvisazione e costruzione delle azioni sceniche), le forze che operano compiono uno sforzo talvolta inverosimile, creando tensioni così forti che, in virtù di questo spreco di energia, esaltano la presenza del corpo. Lavorando sul disequilibrio congenito si scoprono nuove valenze comunicative e si comincia a considerare gli sforzi compiuti, non più solamente come deficit e malfunzionamenti muscolari, ma come un potente mezzo di espressione, capace di catturare l’attenzione in modo non ordinario, al fine di manifestare la propria esistenza.
Ad esempio, Barbara, una delle partecipanti,  prima durante le improvvisazioni, e poi nel personaggio che ha scelto di esplorare, quello della ballerina, ha deciso di utilizzare alcuni passi ed evoluzioni studiati a danza.
Quando la osservo nei suoi movimenti, è la danza di quell’equilibrio, continuamente messo in discussione, che mi cattura, è l’energia sprigionata da quell’enorme sforzo, teso alla rottura degli automatismi, derivati, nella maggior parte, dalla costrizione dell’ handicap, che rivela tutta la vita di quel corpo.
Andrea, un ragazzo affetto da un grave autismo, ha deciso di lavorare sulla figura del funambolo, di conseguenza, durante le improvvisazioni, percorre un filo steso a terra. Non riuscendo a liberarsi dalla lentezza di ogni suo movimento, si trova costretto a controllare maggiormente ogni muscolo per mantenere la situazione di equilibrio, nella precarietà dettata da questa particolare condizione. La concentrazione raggiunta sul filo immaginario, da cui deriva questa sua qualità di equilibrio, è strabiliante. Durante un esercizio in cui viene chiesto a tutti i partecipanti, normodotati compresi, di percorrere il filo ad occhi chiusi, appuriamo che Andrea è quello che ha compiuto il tragitto più lungo. Non solo, il suo modo di gestire l’equilibrio ha creato una particolare tensione negli osservatori, che hanno realmente sentito la paura che Andrea cadesse da un momento all’altro.
A volte è un cambiamento di altezza a mettere in moto queste dinamiche. Per esempio, durante un’esercitazione sulla narrazione, sono intervenuto chiedendo ai partecipanti di salire su una sedia per continuare il proprio racconto. La qualità del narrare è cambiata, nonché l’attenzione suscitata in noi osservatori. Questo perché la fatica nel mantenersi stabili sulla sedia ha conferito forza e sfumature anche alle parole, oltre che alla qualità della presenza del narratore.

Opposizione  e  negazione
Il corpo dell’attore è un luogo in cui si scontrano forze e tensioni contrapposte e la resistenza che nasce da queste opposizioni conferisce ad ogni movimento una maggiore densità energetica.
Inoltre, attraverso la dilatazione dell’azione nello spazio, l’attore riesce ad attirare maggiormente l’attenzione dello spettatore e a guidarla verso la comprensione dell’azione compiuta. Quest’ultima quindi, nel suo svilupparsi e nel suo compiersi, non segue le logiche e le direzioni che apparterrebbero alla quotidianità. Il disegno dell’azione può intraprendere una direzione opposta rispetto al punto di arrivo prefissato, sottostando ai cambi direzionali e spaziali dettati dalle forze in atto.
Quando osservo i partecipanti, soprattutto quelli affetti da sindrome di Down, compiere un’ azione, o una sequenza di azioni in scena, soprattutto  non c’è mai niente di scontato, compresi l’inizio ed il termine della medesima. Il movimento è sempre molto dilatato nello spazio e nel tempo, segue cambi improvvisi di direzione e di intensità, il suo inizio difficilmente riesce a farci intravedere la fine o ipotizzare uno sviluppo dell’azione. Queste opposizioni, questi contrasti sono presenti anche nell’agire comune delle persone disabili e caratterizzano il loro pensiero in atto. Molte volte, durante l’esecuzione di una qualsiasi azione, può accadere che intervenga una sorta di auto-correzione. Il partecipante può cercare di nascondere il suo intervento correttivo, in questo caso si avrà una ripercussione comunque percepibile a livello dell’azione, che subirà dei cambi improvvisi. Egli,  sfidando le sue inibizioni iniziali e le sue resistenze corporee, lottando contro i suoi blocchi emotivi e le differenti tensioni interne, fa defluire, nell’azione che sta compiendo, l’opposizione fra forze contrastanti. In tal modo andrà a creare delle sequenze di opposizioni in tutto il suo corpo e dei cambiamenti improvvisi di direzione nella linea della sua azione.
Queste opposizioni che giocano nel corpo-mente dell’attore diversamente abile, comportano una dilatazione energetica del corpo che rinforza la sua presenza scenica. Inoltre, così facendo, l’azione può cominciare nella direzione opposta, cambiare rotta, essere dilatata e ritmata diversamente. L’effetto è quello di non rendere immediatamente leggibile l’intenzione di chi sta eseguendo una determinata azione eludendone pertanto la prevedibilità. Azioni con ritmi propri, sequenze ripetitive, nei cui cambi impercettibili si annidano piccole epifanie, brusche accelerazioni, lunghe pause, frenetiche tirate, perdita di orientamento, salti emozionali. Tutto questo, cucito armoniosamente in ogni partitura individuale, ed animato da repentini sbalzi di energia, genera una forte tensione in chi osserva il lavoro di questi attori.
Ricordo, ad esempio, la sequenza messa in atto da Fabio, uno dei partecipanti, nata dalle forze contrapposte che, da un lato, lo spingevano a voler recitare una poesia a memoria, dall’altro, lo frenavano e lo spingevano verso altre soluzioni. Così Fabio rinunciò a pronunciare le parole di quella poesia e la fece vivere nel suo corpo, tramite una sequenza di gesti contrastanti,  accompagnata da sonorità echeggianti.
Un’altra sequenza interessante a tale proposito fu quella eseguita da Andrea durante un esercizio per variare le posture dei personaggi, che consisteva nel trovare modi diversi di sedersi e sbilanciarsi fino a cadere dalla sedia. Andrea dilatò anzitutto i tempi dell’esercizio, che regolò sulla base di una sua particolare logica di manifestare le intenzioni. Gli impulsi al movimento, all’azione, al cambiamento coesistevano perciò in lui con le intenzioni di sedersi, appoggiarsi, sostare. Così, appena Andrea trovava una situazione minima di stasi, la rimetteva immediatamente in discussione, facendo giocare queste opposizioni nei dettagli dei movimenti delle dita, nello sguardo, nelle impercettibili oscillazioni di equilibrio. Andrea tornò poi al posto senza essere riuscito a trovare un modo di sedersi. Erano passati effettivamente più di dieci minuti, a me sono sembrati secondi.
L’errore può avere delle ripercussioni negative sull’autostima di un attore Disabile, ma se esorcizzato e trasformato può portare a nuove soluzioni, rivelando il fascino dell’inatteso.

Omissione

Il principio dell’omissione si collega ai precedenti, poiché permette di omettere alcuni elementi di una sequenza, regolata da un gioco di opposizioni, per metterne in evidenza altri. È una semplificazione che elimina i tratti accessori di un’azione. Si compie un assorbimento e un trattenimento dell’energia necessaria per un’azione più ampia, concentrandola in un limitata porzione dello spazio. Questa è una condizione necessaria per giungere alla sintesi, rafforzando la presenza dell’attore in scena. Negli attori del laboratorio l’omissione interviene in maniera naturale, come conseguenza di ciò che appare come errore. Spesso accade che chi sta compiendo un azione eviti alcuni passaggi e sottragga alcuni elementi, che magari noi riteniamo fondamentali e necessari a tratteggiare quella determinata azione, per dilatarne altri che, altrimenti, rimarrebbero impercettibili.
Ad esempio, durante una sua improvvisazione, Francesca traccia un figura nello spazio utilizzando una particolare danza delle braccia. Solo dopo alcuni minuti capiamo che si tratta di un fiore, ovvero solo quando arriviamo a comprendere che alcuni tratti distintivi di tale immagine sono stati volutamente omessi. Le mani smettevano a tratti di tracciare le linee immaginarie nello spazio, ma l’immagine del fiore veniva completata con i movimenti della bocca e tramite una brevissima danza sul posto. Un soffio completava l’opera, dopo di che la sequenza ricominciava, con delle piccole variazioni. Alcuni istanti più tardi, quando la danza si fa più sostenuta, Francesca si avvicina ad Andrea e, anche in questo caso, capiamo solo dopo, e con molta difficoltà, quale azione stia compiendo. A noi sembra che Francesca, stia divorando il cuore di Andrea, che improvvisamente fa battere nelle sue mani e successivamente ingoia, mimando accuratamente e più volte la sequenza. Quello che veniva omesso era il passaggio necessario ad impossessarsi del cuore di Andrea. In realtà, successivamente ho capito che questo momento era stato tradotto da Francesca non in un’azione mimica ma nel suo inspirare profondamente a bocca aperta. Inoltre fu difficile anche capire che quello che Francesca teneva in mano poteva essere un cuore  ancora vivo, proprio perché ne aveva dilatato gli intervalli del battito eccessivamente, ingannando i nostri sensi.
Ancora più interessante è quello che accade quando i partecipanti vengono indotti a trattenere l’energia, evitando di convogliarla in una miriade di gesti per rendere manifesta la loro presenza, concentrandola in piccole azioni limitate nello spazio. La carica energetica da utilizzare resta quella che verrebbe impiegata per compiere una azione molto faticosa e che necessiterebbe di un’ ampia porzione di spazio. Occorre ribadire che i soggetti Down, già normalmente, fanno fatica a controllare gesti incondizionati e tic nervosi o a liberarsi da certe posture o atteggiamenti di fondo. Questo implica che, avendo bisogno di scaricare parecchie tensioni, sono soliti compiere delle piccole azioni, a volte quasi impercettibili, ed alcuni gesti di adattamento (2). Ovviamente, tutto questo comporta anche una difficoltà nel raggiungere un’ adeguata  concentrazione e nel tenere viva l’attenzione richiesta.
Così, quando il partecipante è portato a trattenere l’energia, dovrà controllare, nella sua postura, e in ogni suo gesto, il flusso energetico che vi scorre, cercando di gestirlo al meglio, affinché solo la sua immobilità ed il suo sguardo, raggiungano una buona presenza scenica. Naturalmente, tante sono le difficoltà per alcuni, come sorprendenti i risultati di altri, come nel caso di Francesca, che ha una capacità sbalorditiva nel gestire la sua carica energetica.
Ogni sua improvvisazione solista infatti assomiglia ad una vera e propria dimostrazione di come si trattiene e si scarica energia attraverso il corpo. Non c’è un’esuberanza nel movimento del corpo che danza, tutto è omesso e concentrato in gesti danzati in maniera impercettibile e contenenti una smisurata quantità di energia. Una sua danza assomiglia ad una sorta di trance e dura più di venti minuti. Quando questa energia, trattenuta fino allo stremo, diventa incontrollabile, un urlo, di una potenza dirompente, ne permette la scarica. Francesca è sfinita al termine di queste sue performance e si risiede. Con un’ intensità massima, in un’attività minima, ci ha rivelato il fascino dell’omissione e del trattenimento.

Equivalenza

L’arte dell’attore, in tutte le sue codificazioni, può essere considerata come un metodo per evitare gli automatismi della vita quotidiana, creando degli equivalenti. Al contrario dell’imitazione, si cerca di rendere la realtà attraverso un suo sistema equivalente.
Quando si gestiscono delle improvvisazioni al laboratorio, si cerca di creare un contesto in cui tutti gli attori, sia i collaboratori normodotati che i partecipanti in situazione di handicap, riescano ad operare ed interagire con i significati che emergono dall’interazione fra gli attori e dall’apporto dei vari elementi che entrano a far parte di un’improvvisazione. Si intende principalmente: lo spazio scenico con tutti gli eventuali elementi scenografici (praticabili inclusi), gli oggetti, la musica, gli strumenti utilizzati in scena, i costumi, le luci.
Le azioni che i partecipanti trovano non sono mai imitazioni del reale, ma si presentano già come degli equivalenti reali e concreti, che si trascinano dietro una vasta gamma di significati, e sono strettamente legati al contesto originario dell’improvvisazione, permettendo perciò, a chi osserva, di percepirne il senso.
Quando chiesi a Fabio e a Michele di lavorare con i loro personaggi, rispettivamente il domatore e Il leone, ad una sequenza che mostrasse i rapporti di forza tra l’uomo e la bestia, la ragione e l’istinto, non mi accorsi subito che stavo parlando di cose astratte. Notai parecchie incertezze in loro e molta inibizione inizialmente. Poi, capii, che dovevo utilizzare uno stimolo che servisse loro per creare un equivalente reale di quei concetti. Così diedi un cerchio da ginnastica ritmica a Fabio, feci togliere la maglietta a Michele e li tranquillizzai, dicendo che tutto ciò che volevo vedere erano i loro personaggi giocare insieme, senza mai staccare i piedi da terra e toccarsi. Il risultato fu davvero ottimo. Quello che si percepiva erano i rapporti di forza e di potere che animavano i personaggi, evocando il pericolo incombente della belva, pronta ad attaccare, e la sua successiva sottomissione da parte dell’uomo. In questo modo, i significati, che prima cercavo, si concretizzavano e si rafforzavano nel contesto dell’intera scena.

Energia

L’energia generalmente è definita come vigore fisico, fermezza di carattere e risolutezza nell’azione, volontà e capacità di agire. Un attore deve imparare a modellare questa energia per poter agire e manifestare in maniera efficace la sua presenza scenica. Tutte le tecniche extra-quotidiane, a differenza di quelle quotidiane, dove prevale la tendenza al minimo sforzo, si basano su uno spreco di energia, suggerendo il principio del massimo impiego energetico per un minimo risultato.
Le due ore di durata del laboratorio costituiscono per i partecipanti una attività molto stancante. Date le loro difficoltà, l’affaticamento e la spossatezza subentrano molto prima, talvolta anche dopo pochi minuti di attività, costringendo alcuni di loro a interrompere per riprendere il fiato.
Eppure in due anni di attività si sono verificati dei netti miglioramenti e tutti i partecipanti, esclusi episodi ormai sempre più rari, riescono a sostenere queste due ore e ad uscirne pieni di vitalità. Questo, a mio avviso, è potuto accadere perché, durante il lavoro svolto finora, questi attori hanno imparato a gestire le proprie risorse energetiche quantitativamente e qualitativamente. Bisogna considerare che, in loro, questo spreco di energia è evidente, poiché anche un’attività che richiede un minimo impiego di forze diventa una difficoltà da superare. Se questo surplus di energia si produce già nelle azioni quotidiane, una volta “educato”, nell’ambito del lavoro teatrale intrapreso, ed assimilato nel loro comportamento scenico, può rivelare tutta la sua efficacia.
Tutti i partecipanti hanno acquisito una consapevolezza delle loro qualità energetiche, esplorandone la vasta gamma di temperature, arrivando a capire quale utilizzare per ottenere la massima efficacia in ogni contesto. In molti di loro si avverte la compresenza di questi poli energetici e la capacità di mostrare il proprio doppio.
Il loro agire in scena è dominato da una linea morbida, leggera nel movimento, da una qualità dolce, tenera, da un’ armonia che viene continuamente spezzata da brusche rotture, che rendono l’azione  pesante, frenetico, mentre il gesto tende alla durezza, allo sfogo, alla disorganicità. Un continuo giocare tra gli opposti, una continua metamorfosi, una compresenza di temperature energetiche antitetiche, che conferisce una particolare qualità alla presenza scenica. Sembra quasi di vedere, messa in pratica, la “tecnica dei contrasti”, che caratterizzava la recitazione nella commedia dell’arte. Questa tecnica veniva utilizzata non soltanto a livello “interattorico”, come opposizione, ad esempio, fra lo stile degli Zanni e quello degli Innamorati, ma anche a livello infra-attorico, e cioè appunto all’interno dello stile recitativo di uno stesso attore. Tali contrasti possono essere visti come modi opposti di utilizzare le energie a livello pre-espressivo.
Mi viene in mente Michele quando entra nel personaggio di Maciste. Ciò che colpisce è la tensione muscolare del suo corpo, l’impressione di una possanza che lo inchioda al terreno, lo sforzo che colora la sua pelle di rosso fuoco, in contrapposizione al suo sguardo che rimane dolce, da cui traspare timore e allo stesso tempo compiacimento della sua forza fisica.
La stessa cosa accade quando si presenta come la figura del leone, digrignando i denti e facendo echeggiare il suo fragoroso ruggito, ostentando il petto e battendo gravemente i piedi a terra, ma mantenendo pur sempre quell’atteggiamento di sconfitto, di “anima del circo” che verrà sacrificato per sfamare la povera famiglia circense.
Questi sono solo alcuni esempi tratti direttamente dal diario di lavoro di quell’esperienza, che possono dimostrarsi utili per comprendere meglio la natura di questi principi appena citati, ed introdurci in quella rete di complessi meccanismi che regola il comportamento dell’attore, ed in questo caso di un attore che si trova ad affrontare una realtà fatta di difficoltà quotidiane, e che scopre il segreto e trova la forza per superarle sulla scena, un luogo che per la sua finzione dichiarata, nasconde a volte una verità più profonda.

2.Cfr. P.Ekman, W.V. Friesen, The Repertoire of Nonverbal behaviour, 1969, in “Semiotica”, I pp.49-98. (citato da P.E.Ricci Bitti, a cura di, Regolazione delle emozioni e Arti-terapie, Roma, Carocci editore, 1998, pp. 20-22.).

Sulla scena della diversità

Percorsi di ricerca teatrale con persone in situazione di hasndicap

Sempre più convegni, tavole rotonde, rassegne, festival ed iniziative sociali ed artistiche sono dedicate oggi al tema del teatro & handicap. Al teatro ed alle arti performative è stata da sempre riconosciuta una funzione catartica e terapeutica, oltre che a quella di strumento sociale.  Da questi aspetti dell’arte scenica derivano termini molto in voga attualmente e attorno ai quali si è creato un alone di ambiguità tra cui: teatro terapia, teatro sociale, teatri delle diversità . Sta di fatto che, dalle prime esperienze di teatro a contatto con le sfere del disagio sia psichico che fisico, avvenute in Italia negli anni settanta, questo fenomeno ha subito una crescita esponenziale, ed oggi sono molteplici le realtà che operano in questo settore. Da un lato c’è un interesse da parte di registi e uomini di teatro verso la diversità, come terreno di ricerca artistica e come fonte creativa, dall’altro c’è l’intenzione da parte delle strutture che operano nel sociale di educare e riabilitare i propri utenti attraverso la pratica delle arti sceniche, o più semplicemente e saggiamente di dare la possibilità anche a chi vive una condizione di marginalità e diversità di esprimersi in scena e di apprendere un arte ed un mestiere. Così, si moltiplicano tra le attività delle organizzazioni di volontariato, delle cooperative sociali e dei centri diurni, quelle legate al teatro o alla danza, e sempre più teatri, compagnie e registi, collaborano con queste per ideare e sviluppare progetti artistici. Anche nelle scuole, sono sempre di più i laboratori artistici a carattere integrato, caratterizzati quindi dalla compartecipazione di persone in situazione di handicap e normodotati.
In Italia negli ultimi anni sono nate compagnie teatrali e di danza integrate o costituite interamente da persone in situazione di handicap, che esulano dal contesto terapeutico e che si dedicano a portare avanti una ricerca artistica e a creare e distribuire spettacoli di alto livello. Nel resto dell’Europa queste compagnie esistevano da più tempo ed in molti casi, sono servite da esempio e da stimolo di confronto e di crescita per le realtà nostrane, attraverso scambi di lavoro e progetti internazionali.
Grazie a questo fermento ed all’accresciuto interesse per questi teatri, sono nati anche una serie di convegni nazionali sul tema, progetti di finanziamento speciali, rassegne e festival dedicati ai teatri della diversità e i primi corsi fi formazione e scuole per operatori nel teatro sociale.
Personalmente, in qualità di attore, pedagogo e ricercatore teatrale, ho avuto modo di avvicinarmi a questo terreno nel 2000, quando ho iniziato a condurre un laboratorio biennale integrato di teatro presso il Centro Trisomia 21 di Idice, in provincia di Bologna.  Quest’occasione mi ha spinto ad approfondire quest’ambito, compiendo delle indagini sul territorio di Bologna e provincia, per verificare quante e quali realtà svolgessero attività di teatro o di danza con persone in situazione di handicap, e a formulare una serie di osservazioni e teorie sul comportamento scenico degli attori diversamente abili con i quali stavo lavoravo.  Inoltre, ho potuto conservare l’esperienza di quei due anni di laboratorio nel mio diario di lavoro, il quale si è rivelato uno strumento molto utile per trarre ulteriori considerazioni e raccontare come è stato sfidato, affrontato e superato il limite dettato dall’handicap e come la diversità sia stata un occasione per creare arte e per instaurare un dialogo alla pari  tra normodotati e non.

L’ Accademia del Gioco Dimenticato

Il gioco è importante per l’individuo, ma anche per la società a causa delle sue componenti culturali e per i legami che esso crea. Il gioco “soddisfa ideali di espressione e di vita collettiva”. J. Huizinga

“Immaginate per un istante un mondo senza computer, senza televisione, senza playstation, senza videogiochi…”: un’espressione di sconcerto e smarrimento prende forma sul viso di gran parte della classe! Ed ecco che fioccano le proteste: “Maestra, ma neanche la Play? Che noia!”.
Già, una situazione simile è impossibile anche solo da immaginare per i bambini di oggi e probabilmente anche per i più grandi. Ma quando realmente la tecnologia multimediale non esisteva, come si intrattenevano i bambini? Il massimo del divertimento era poter scendere in cortile, tutti insieme! E un piccolo giardino condominiale diventava teatro di infinite possibilità di gioco: nascondino, rubabandiera, i quattro cantoni, strega comanda colori, uno due tre… stella! Erano i giochi di una volta, giochi che Giorgio Reali ha raccolto in un libro dal titolo “Il giardino dei giochi dimenticati”.
Giorgio Reali “ludonauta” convinto, è stato definito da un giornalista il Peter Pan del terzo millennio.
Originario di Merano, arriva a Milano ormai più di quindici anni fa. Tre figli, ragioniere e istruttore di scuola guida part-time, ora giornalista pubblicista, scrittore e ricercatore non solo nel panorama italiano, ha fondato l’Accademia del Gioco Dimenticato.
Studioso di giochi adatti a bambini diversabili con particolare attenzione per i non vedenti, ha una valigia piena di tappi di bottiglia, elastici, biglie, sassi, monete, per giocare a tollini, cacciabiglie, lippa, catapulta, schioppetto e saltafosso.
Un personaggio insomma del tutto particolare e geniale, in una società che ha ormai del tutto perso il rapporto col gioco creativo e agito anche a livello di costruzione personale. Reali ripropone il gioco come forma di svago, di creazione e di esercizio dell’intelligenza (in quanto esso è anche una cosa estremamente seria) ma pure come terapia per il recupero di alcune problematiche legate all’infanzia, legate al mondo della terza età o addirittura a certi tipi di deficit.
L’Accademia del Gioco Dimenticato lavora infatti costantemente alla creazione di supporti, tali da consentire ai bambini diversabili di giocare con gli stessi giochi dei loro coetanei normodotati. Ad esempio, sono stati realizzati: una pista dei tappi rialzata, per permettere anche ai bambini in carrozzina di giocare, e un “nascondino profumato” costituito da 12 o più siepi di rosmarino, maggiorana e così via… che coi suoi aromi e sapori diversi permette l’inserimento nell’attività ricreativa anche dei bambini non vedenti o Down.
E i giochi moderni, allora? Meglio evitarli? Se anche questo fosse possibile, non credo che sarebbe costruttivo. E non credo neppure che la posizione assunta da Giorgio Reali sia contraria alle proposte ludiche dell’era tecnologica. Credo piuttosto sia giusto insegnare ai bambini di oggi che esiste un passato in cui i loro nonni e i loro genitori hanno saputo divertirsi anche senza la playstation, esiste un modo di giocare che non necessita di giocattoli costosi e complicati, ma soprattutto che esiste un tesoro prezioso nascosto in ogni persona, che è la ricchezza della fantasia, della gioia di stare insieme, del condividere con l’altro ciò che si ha e del saper inventare sempre nuove occasioni per essere felici.

Ecco allora alcune proposte pratiche di gioco consigliate da Giorgio Reali, da poter proporre nelle nostre scuole e da poter insegnare ai nostri bambini:

Memory tattile
I bambini di oggi non sanno più usare il senso del tatto: non ne hanno più bisogno, questo è male poiché tutti i sensi dovrebbero avere armonico sviluppo.
Per stimolare dunque questo "senso in via di estinzione” ho sviluppato un gioco (inizialmente ideato per bambini non vedenti di Bolzano ma che ho visto apprezzato da tutti).
Si prendono 40 tappi grandi (quelli a vite dei succhi di frutta vanno benissimo) si incollano sotto (in coppia) due oggetti: ad esempio due pezzi di stoffa, due pezzi di legno, due fagioli, due bottoni, due pezzi di spago (pensate a quante varianti usando spaghi di diverso spessore).
Il bambino senza girare i tappi (ben disposti a terra in linea di 6/8) deve sentire cosa c’è sotto, se crede di averne individuati due identici deve indicarli al giudice, il quale, senza mostrarli agli altri, deve confermare (o meno) il giudizio. Se sono identici vanno consegnati al bimbo. Il primo che indovina 3 coppie identiche vince.

Memory acustico.
Gioco simile ma "costruito” con barattoli: si devono fare 20 coppie di barattoli contenenti (due a due) gli stessi materiali (due tappi, due sassetti, un po’ di sabbia, di riso, di pasta ecc.)

Anche in questo caso, quando il bimbo "crede” di aver individuato due barattoli che producono lo stesso rumore, li segnala ai giudici i quali verificano l’esattezza della scelta (se sono identici li consegna al bimbo).  Anche in questo caso chi indovina tre coppie vince.

Il gioco dei tappi con pista rialzata
Cos’è
Semplicemente usare i tappi della birra come fossero biglie: mettendo dentro un disegno (meglio se la faccia di un ciclista o calciatore)
Ora i bambini d’oggi sono delicati, quindi la corona del tappo può fare bua ai ditini, quindi consigliamo (sigh!) quelli di plastica.

Regolamento
Con strisce di cartone si traccia una pista rialzata (perché in genere si fa a terra) con dei gessetti (o pezzetto di mattone) larga circa 10 cm. e lunga almeno 10 mt., in modo da permettere anche ai bambini in carrozzina di giocare; nelle curve esterne si mettono dei sassetti a mo’ di paracarro. A sorteggio si decide chi parte per primo e questo fa tre tiri badando di non uscire dalle righe (in tal caso deve tornare da dove aveva tirato). Quando tutti hanno fatto i tre tiri (sempre per opposizione delle dita: pollice-indice, pollice-medio o indice-pollice, il tappo non va mai lanciato o spinto) si parte dal primo ma solo con un colpo e così via.
Il giocatore successivo può chiedere lo spostamento dei tappi avanti a lui ai bordi della pista.

Le pulci
Cos’è
Un gioco antico praticato con dei bottoni facendoli saltare per spinta ai bordi.
Regolamento
In genere si posizionano alcuni tappi (grandi, quelli dei vasi dei sottaceti) rovesciati, dando a ognuno un numero. Ogni bambino deve entrare nel tappo facendo saltare la pulce, solo dopo averlo fatto può impegnare il secondo tappo e così via fino all’ultimo.
Un altro modo simpatico è quello di un percorso simile a quello dei tappi con penalità per chi "esce..”

Le biglie
Il cerchio (o il triangolo)
Si traccia (con del gesso se sull’asfalto o con un bastoncino se su terra) il segno scelto (che deve essere abbastanza grande) poi si stabilisce quante biglie si mettono in palio (almeno 5).
Sperando di essere in 5 bimbi nel cerchio vi sono dunque 25 biglie, quindi tutti usando il boccione (la biglia grossa) da almeno 4 metri si cerca di fare uscire più biglie possibili dal cerchio.
Stabilita la classifica di merito (parte chi ne ha ciccate fuori di più) parte la gara vera: il migliore cicca di nuovo ma questa volta le biglie che escono sono vinte. La gara finisce quando non vi sono più biglie nel segno. 
Cicca spanna
Altro gioco "storico”: ogni bimbo tira una biglia non troppo distante né troppo vicino, il secondo cerca di ciccarla con la propria ma badando che si fermi entro la distanza di una spanna (se rotola più avanti nessuno ha vinto, se ci riesce è sua).
Se il secondo giocatore è maldestro e la biglia si ferma entro una spanna senza ciccare è persa.

La buca
Gioco da fare solo in cortili con terra: si scava una buca, sul bordo si posano le biglie da mettere in palio, poi da almeno 2 metri si tirano le proprie biglie badando di ciccarle in buca senza che la nostra vada giù. Se ci riusciamo sono vinte, se la nostra cade dentro dobbiamo metterla in palio. Ovviamente ognuno ha un tiro a turno.

La Lippa (s’cianco nizza, maz e pindol a secondo delle regioni)
Cos’è
La lippa è un gioco abbastanza moderno, in quanto dalle ricerche effettuate (in particolare in un quadro molto famoso dipinto nel 1500 da Brueghel non vi appare a differenza di 54 altri giochi dell’epoca).
È un gioco universale poiché praticato dai bambini di tutta Europa: come tutti i giochi da strada sono estremamente semplici da realizzare ma, come altri degli anni’50 piuttosto pericolosi. Com’è la lippa? È formata da due pezzi di legno (ricavati preferibilmente dal manico di un badile ma anche da quello di una scopa).
Si tagliano due pezzi, uno forma la mazza (lunghezza 50 cm.) e uno, la lippa, di solo 10 cm. ben appuntito da entrambi i lati.

Regolamento
Il gioco consiste nel colpire la punta (con il pezzo a terra) e colpirlo nuovamente al volo cercando di lanciarlo più lontano possibile. In genere si sceglieva una strada non molto trafficata e i monelli dovevano mandarla più lontano possibile dopo 5 o 10 colpi. Ovviamente come tutti i giochi hanno molte varianti, la più simpatica è quello del cappello: si giocava in due, il secondo monello si piazzava a circa 20 mt. e cercava di raccogliere la lippa al volo fermandosi però entro 3 passi dalla presa.
Un altro modo molto diffuso è quello di tracciare 3 grandi cerchi (10 mt. diametro) distanti fra di loro 30 mt. Il lanciatore doveva mandare la lippa nel centro sperando che il difensore avversario piazzato al centro di esso non riuscisse a rilanciarla in quello di partenza.
In tal caso il lanciatore era eliminato. Vinceva chi riusciva a completare indenne il tracciato completo.

Gli accademici della lippa:
Il presidio della lippa si trova a Mede Lomellina (PV) dove la Pro Loco diretta dal Sig. Boccalari organizza da anni la più importante gara che si svolge in Italia (oltre 100 partecipanti). Anche a Segusino (BL) a ferragosto si organizza una gara di maz e pindol nell’ambito del palio dei quartieri.
 

Il giorno dei giorni

Quel giorno tanto atteso finalmente è arrivato. Il giorno dei giorni, per tutto il movimento degli “altri sportivi” è stato il 10 marzo 2006, quando la freccia scoccata dalla campionessa olimpica Paola Fantato, nello Stadio Olimpico di Torino, ha infranto il gigantesco muro dando inizio alla cerimonia d’apertura dei IX Giochi Paralimpici Invernali. Io, come molti altri italiani, non sono riuscito ad andare a Torino e tutto quello che ho vissuto di questa Olimpiade l’ho percepito da casa o qualche tempo dopo, dai racconti di quelli che c’erano stati da spettatori o protagonisti. Inutile dire che questi giochi hanno rappresentato una svolta: adesso posso parlare a chiunque di un atleta disabile senza rischiare di  non essere compreso, o rischiare di vedere qualcuno perplesso nel riconoscere la stessa importanza di un altro campione. La prova di tutto questo l’ho avuta la scorsa settimana: mi trovavo in una scuola dell’Appennino bolognese, durante un incontro del Progetto Calamaio: avevo di fronte un gruppo di ragazzi di prima media, e come spesso ci capita, ci ritroviamo a parlare di sport, di quello che praticano loro e di quello fatto da noi; di solito lo stupore dei ragazzi è quando scoprono che anche un ragazzo disabile, che magari fa fatica a muovere un muscolo può praticare sport come loro; stavolta invece lo stupore è stato nostro nel vedere che, grazie alle Paralimpiadi, qualcuno di loro conosceva già tutte queste cose. Parecchie sono state le vittorie, soprattutto quelle dell’organizzazione che dopo dei magnifici Giochi Olimpici ha messo in piedi una magnifica edizione dei giochi Paralimpici. Una delle passate sere ho avuto la fortuna di dividere la tavola con gli atleti italiani, vera sorpresa di questa edizione, e cioè la milanese Silvia Parente che ha conquistato ben quattro medaglie tra cui una d’oro, nella categoria Blind (non vedenti) in ciascuna disciplina dello sci alpino (libera, gigante, slalom speciale e supergigante) e la sua guida e mio concittadino bolognese Lorenzo Migliari. Ero ansioso di conoscere da loro le emozioni di chi aveva vissuto questo evento da protagonista. Dello loro parole mi hanno colpito soprattutto la descrizione delle emozioni che loro sentivano nella gente che li circondava, nello spirito del villaggio olimpico, nell’incontro con gli altri atleti avversari delle altre nazioni o atleti dei Giochi Olimpici, con i quali dividevano i campi d’allenamento. Devo dire che quelle loro parole erano una piacevole conferma di quello che avevo percepito anche io a casa, dalla tv, nelle trasmissioni che avevano anticipato e accompagnato i giochi. Vi cito un esempio: in una trasmissione di approfondimento, proprio in chiusura dei Giochi Olimpici, dove si tiravano le somme di una Olimpiade negativa per il nostro sci alpino, in un commento del nostro attuale più celebrato atleta dello sci, Giorgio Rocca, si sentì dire: “Speriamo che gli atleti paralimpici risollevino l’onore della  nostra disciplina, che noi non siamo riusciti a difendere!”. Sicuramente io ero uno spettatore favorito, visto che ormai da molti anni mi occupo di sport e disabilità, però credo che a tutti sia stato chiaro che per Rocca i colleghi paralimpici erano compagni di nazionale come lui, avevano diviso i campi di gara e allenamento, le responsabilità e la gloria. E grazie a quell’augurio di Rocca è stato proprio lo sci alpino a conquistare le otto medaglie che hanno portato l’Italia sul nono gradino paralimpico migliorando il dodicesimo posto della precedente edizione di Salt Lake City del 2002. Cos’altro ricordare di questa Paralimpiade? Sempre dal racconto di Lorenzo Migliari: l’urlo ITALIA dei trentamila dello Stadio Olimpico, all’ingresso della nostra nazionale durante la sfilata della cerimonia d’apertura, la fredda Torino trasformata per alcune settimane in un caloroso centro del mondo, gli spalti gremiti dai bambini delle scuole Italiane (più di 25.000) che hanno assistito ai giochi, il fragore dei tifosi nello stadio del ghiaccio, nell’accogliere il primo, degli unici due goal segnati, dalla nostra nazionale di Ice Sledge Hockey al debutto in una Paralimpiade (pensate avevano iniziato ad allenarsi assieme solo da 5 mesi!) e quei cinque centimetri quadrati conquistati al calcio, nella Gazzetta dello Sport del lunedì, che raccontavano l’oro paralimpico di Silvia e Lorenzo nel Gigante. Naturalmente c’è stato anche qualcosa che non ha funzionato e penso soprattutto al comportamento dei media, una cerimonia d’apertura interrotta a pochi minuti dalla fine, da Rai Due, per trasmettere dei cartoni animati, l’acquisto della Rai dei diritti televisivi, poi venduti non avendo nessuna diretta di gare sulla Rai e solo una breve trasmissione giornaliera in orario improponibile e anche il fatto che Mediaset non abbia dato nessuna notizia sulle nostre medaglie!

Insomma tante luci e qualche ombra.

“Che siamo dentro
il Giorno dei Giorni
… fatto per vivere…
il Giorno dei Giorni
… tutto da fare e niente da perdere….
… senza più limite…
il Giorno dei Giorni
… attimi e secoli, lacrime e brividi…”

Citando Luciano Ligabue che ha accompagnato con la sua canzone la cerimonia d’apertura.
Grazie Torino, ora è tutto nelle nostre mani.

Storie di Calamai e di altre creature straordinarie: un convegno a novembre

Due giornate per riflettere
L’Associazione Centro Documentazione Handicap e la Cooperativa Accaparlante festeggeranno il ventesimo compleanno del Progetto Calamaio con un appuntamento “di studio e gioco” che si terrà il 24 e il 25 novembre a Bologna.
Due giornate in cui riflettere su questa esperienza in modo pubblico e condiviso con l’idea di riprendere in mano il patrimonio costituito da questi anni di incontri di animazione e formazione sulla cultura della diversità e di rileggerlo alla luce dell’oggi, dei cambiamenti che sono così incisivamente entrati nella società e quindi nella scuola.
Vent’anni di lavoro nelle scuole e nelle realtà associative a partire dall’idea di fondo che la persona disabile nei contesti di vita di cui fa parte (la scuola ma non solo), può svolgere un ruolo educativo forte attraverso la messa in gioco della propria esperienza e l’esercizio di una responsabilità che non è solo acquisizione personale ma bene comune.
A partire da questa specificità il Progetto Calamaio si è inserito con intenzionalità nello storico, e mai scontato, passaggio che vede la persona disabile da oggetto passivo e destinatario di cure a soggetto attivo, produttore di cultura, motore di un cambiamento che è prima di tutto nell’immagine mentale e sociale della disabilità.
È un impegno che contrasta i destini segnati e richiama la centralità della relazione educativa e della capacità organizzativa.

Vent’anni di incontri nelle scuole
Più di tremila incontri con e sulla diversità in tutta Italia, condotti da operatori ed educatori disabili e non, che da “colleghi” lavorano insieme.
Incontri pensati ed elaborati intorno a un tavolo di lavoro dove vengono messi in comune idee, conoscenze, strumenti, esperienze.
In questo procedere condiviso crediamo si possano ritrovare quei tratti di particolare incisività e quella forza di gruppo che sono anche gli elementi di riconoscibilità e di specificità.
Lo stile dialogico, aperto, sdrammatizzante degli incontri, si accompagna alla ricerca di strumenti e mediatori organizzativi che rimangano e strutturino cambiamento anche oltre l’intervento dell’équipe esterna.
È quindi una proposta di riflessione educativa che non mette a tacere le differenze individuali, né le difficoltà, ma le utilizza in maniera creativa con l’obiettivo di fare toccare in modo tangibile e coinvolgente come, per un’integrazione non fittizia, sia necessario smontare l’identificazione della disabilità come problema per ritrovarne le possibilità, le risorse, le aperture.
Una metodologia di lavoro del gruppo e nel gruppo che attraverso la partecipazione, anche di ordine emotivo, vuole favorire le condizioni per collegare idee e apprendimenti che non riguardano più e solo il/la bambino/a, la ragazza o il ragazzo con un deficit ma tutti, coetanei e adulti.

Ripensare oggi a questa esperienza significa per noi…
Ripensare oggi a questa esperienza significa per noi riflettere in modo pubblico su quanto si è prodotto, in noi e fuori da noi, rispetto alle attese dell’inizio, ai desideri e agli obiettivi che hanno caratterizzato negli anni gli interventi e i percorsi realizzati; costruire uno spazio di condivisione con chi insieme a noi e da posizioni diverse (persona disabile, insegnante, educatore, genitore, compagno di scuola) ha costruito un pezzo di questa esperienza; incontrare e far incontrare gli “altri animali straordinari” che come il Progetto Calamaio hanno tentato, sperimentato modi di una comunità di vita e di apprendimento attenta, rispettosa, in grado di accogliere e sostenere le singole identità; pensare con il contributo di molti a come andare avanti, quali direzioni rafforzare, quali condizioni per strutturare situazioni di integrazione stabile, quali innovazioni ricercare…

Un percorso per confrontare pensieri e valutazioni
Il Progetto Calamaio non è fatto solo dalle persone che compongono l’équipe di lavoro, ma si integra e si arricchisce dell’apporto dei vari interlocutori che, da ruoli e posizioni diverse, condividono l’esperienza degli incontri di lavoro. Insegnanti, bambini e ragazzi, genitori, educatori sociali: sono stati questi soggetti che, disponibili a incrociare la propria esperienza con quella portata dagli educatori/animatori del Calamaio, hanno reso ogni volta diversa questa opportunità di confronto e rielaborazione.
Affinché l’appuntamento di novembre possa essere quindi uno spazio/tempo costruito insieme a queste voci, abbiamo pensato fosse importante includere tutte quelle persone che hanno rappresentato e rappresentano, per noi e per il nostro percorso di evoluzione, un punto di riferimento importante sul piano della relazione e dell’affetto, ma anche e soprattutto sul piano della condivisione di idee e riflessioni.
Per questo, i mesi di preparazione hanno visto la costituzione di alcuni tavoli di lavoro tematici con l’obiettivo di compiere un lavoro di analisi e valutazioni da portare all’appuntamento di novembre.
Analisi e valutazioni che già nei primi giri di discussione hanno messo l’accento sulla necessità di tenere insieme gli elementi di memoria (storia, identità, stile) e di nuova progettualità, dove il termine “nuova” non vuole richiamare una generica volontà di cambiare per cambiare, ma una necessità di rendere maggiormente capaci interventi di questa natura, di dare strumenti di continuità a chi, nelle classi, tutti i giorni vive e opera.
Solo investendo in questa direzione il Progetto Calamaio può diventare una risorsa non solo legata al momento esperienziale in classe, ma si rende fruibile in più momenti, si fa più metodo, strumento didattico, diventa occasione di scambio e di lavoro di rete, utile anche per creare alleanze che vadano oltre il momento prettamente scolastico.

Per informazioni:
Sandra Negri
tel. 051/641.50.05 fax 051/641.50.55
calamaio@accaparlante.it
sandra@accaparlante.it

Se vuoi essere aggiornato sulle novità del Progetto Calamaio iscriviti alla mailing list, mandando un’e-mail a sympa@liste.retelilliput.org, con oggetto: subscribe progetto_calamaio.

 

Un palcoscenico con altri mezzi per registi, attori, tecnici e pubblico – utenti o meno

L’integrazione, come dimostra la monografia di questo numero, può essere raggiunta anche (forse, anzi, più facilmente) su un palco teatrale. Dal 1998 il Cambridge Arts Theatre, nella celebre città universitaria inglese, organizza corsi estivi in cui ragazzi udenti e non udenti lavorano insieme, davanti e dietro le quinte, per creare e mettere in scena una rappresentazione teatrale che possa rivolgersi a un pubblico ugualmente misto, senza per questo risultare “d’avanguardia”. Documentazione su questa importante esperienza è disponibile sul sito web del teatro, www.cambridgeartstheatre.com, nella sezione Education & Community Archive. La prossima estate la scuola si trasferirà nel prestigioso Theatre Royal di York, fondato nel 1744.
Su questa forma di teatro integrato, non molto praticata in Italia, abbiamo intervistato Roberta Hamond, curatrice del progetto.

Può descrivere che cos’è la Deaf and Hearing Summer School (“Scuola estiva per sordi e udenti?”)
Gli obiettivi della Deaf and Hearing Summer School sono:

  • offrire una scuola estiva bilingue di dieci giorni all’anno che assicuri teatro professionistico tradizionale a livello nazionale, come risorsa accessibile a giovani sordi e udenti;
  • offrire a giovani sordi e udenti l’opportunità di lavorare con tecnici e registi professionisti, in uno spazio teatrale professionale;
  • creare una stimolante opera teatrale integrata per giovani, basata su una forte interpretazione di gruppo;
  • procurare eventi sociali pienamente integrati per giovani sordi e udenti in un ambiente sicuro ma indipendente;
  • offrire una base di addestramento per attori e registi sordi, interpreti e mediatori di BSL (British Sign Language – Lingua Britannica dei Segni) a livello sia giovanile che adulto;
  • fornire l’opportunità a giovani di esplorare il teatro “accessibile” da prospettive di pubblico ed esibizione.

Qual è il ruolo della Lingua dei Segni nel teatro per sordi e udenti?
La scuola estiva è un progetto bilingue, e quindi la Lingua Britannica dei Segni e l’inglese sono utilizzati alla pari per sviluppare una nuova opera teatrale. La nostra attuale direttrice artistica è sorda, e usa sia la BSL che l’inglese per comunicare. Il suo regista associato è un attore/interprete udente. Impieghiamo anche tre interpreti teatrali pienamente qualificati e fino a dieci facilitatori drammaturgici con livello 2 o più di BSL, per garantire che i nostri 30 esecutori sordi e udenti possano comunicare tra loro in gruppi piccoli come quelli necessari durante il processo di invenzione.
Abbiamo anche dieci giovani che lavorano sul lato tecnico nella gestione di illuminazione, suono, design e palcoscenico. In genere da tre a quattro di questi giovani sono sordi, lavorano in tutti i campi (incluso il suono) e quindi utilizzeremo fino a tre interpreti dietro le quinte durante i laboratori e le prove, a seconda delle scelte fatte dai ragazzi sordi.
L’esibizione completa non utilizza un interprete tradizionale al lato del palco, perché la pièce tende a essere accessibile sia in BSL che in inglese. Ogni segno e discorso nell’esibizione sarà fornito dagli esecutori – sia sordi che udenti – assistiti da proiezioni, sottotitoli, suoni e video.

Quali sono le maggiori difficoltà, se ve ne sono, per le persone udenti che si avvicinano a questa forma di rappresentazione? E per quanto riguarda il pubblico?
Abbiamo scoperto che i giovani hanno ben poche difficoltà nel lavorare insieme. I bambini sordi sono abituati a un mondo che sente, e i bambini udenti trovano la Lingua Britannica dei Segni un linguaggio ricco ed eccitante, quando si dà loro l’opportunità di provarlo. E poiché essi hanno il vantaggio di sentire, mentre osservano il regista esprimersi con i segni, hanno presto fiducia nell’imparare gli elementi di base e comunicare. Noi presentiamo anche un allenamento alla consapevolezza della sordità, attraverso giochi drammaturgici e di riscaldamento ogni giorno, e tutta la BSL presentata in questo modo è collegata allo sviluppo dell’esecuzione, e perciò immediatamente pertinente alla situazione. In genere, sono i membri adulti del progetto che possono portare pregiudizi più antichi e paure personali alla miscela; ma l’esuberanza e l’inventiva di tutti i partecipanti più giovani presto infondono ispirazione anche nei più “logori”.
Ci sono, certo, molti livelli diversi di abilità nel linguaggio per sordi e udenti rappresentati nella scuola estiva, e non tutti i nostri bambini sordi usano la Lingua Britannica dei Segni come prima lingua di comunicazione, per cui esaminiamo anche il Sign Supported English [un tipo di lingua segnata che ricalca il parlato e la grammatica orale], la lettura del labiale e le capacità orali.

Questa forma di rappresentazione integrata è mai stata estesa ad attori professionisti, o ad amatori adulti? Quali sono, o potrebbero essere, le cose da modificare passando a un contesto diverso e non “scolastico”?
La scuola estiva sta specificamente tentando di aprire il teatro tradizionale (e perciò predominantemente di ascolto) a giovani sordi e udenti, sviluppando nuovi mezzi di comunicazione che interessino pubblici sia sordi che udenti. C’è ben poca attività di questo tipo al momento nei teatri di ascolto, ma l’Inghilterra ha una comunità davvero crescente di teatro per sordi, che sta lavorando con attori sordi usando la BSL e il teatro visuale per creare opere che siano adatte alla comunità dei sordi.
Io non ho la pretesa di rappresentare la cultura sorda e gli attori sordi. Il mio interesse personale sta nello spostare i confini del teatro tradizionale e delle aspettative del pubblico tradizionale. Credo che il virtuosismo della cultura sorda espressa attraverso la Lingua Britannica dei Segni in un contesto teatrale sia la ragione chiave del successo della scuola estiva negli ultimi sette anni, e questo progetto è guidato dalla convinzione che la diversità culturale, ben fatta, accresce l’esperienza di teatro per i pubblici tradizionali.

Ci può raccontare qualche aneddoto relativo alla sua esperienza?
Il successo della scuola estiva ha significato che ci sono oggi più giovani sordi che desiderano proseguire nel teatro ed esercitarsi per diventare professionisti nell’industria culturale. C’è una grande lacuna nella formazione professionale in quest’area, ma gli atteggiamenti stanno iniziando a cambiare. La televisione sta utilizzando più attori sordi e sta offrendo più interpretariato nella visione. Più opportunità per attori e tecnici sordi miglioreranno la qualità e la professionalità del loro lavoro, rendendo il lavoro integrato più sostenibile. E i futuri partecipanti udenti che hanno sperimentato questo lavoro, porteranno anche una visione più ampia di quanto si può realizzare all’industria. Riporto alcune citazioni da partecipanti sordi e udenti in questi anni:

Partecipanti sordi
“Le persone non sono ciò che immaginavo. Pensavo che avrei solo ricevuto il copione e provato, ma invece abbiamo creato le idee e l’esibizione. È stato fantastico”.
“Pensavo che ci sarebbe stata una rappresentazione orale, ma è stata visuale”.
“Tutti si sono mescolati e hanno dato il loro contributo verso lo spettacolo. Inoltre c’erano altri con la stessa mia sordità”.
“Mi è piaciuto incontrare persone nuove e esplorare nuove tecniche, capacità e consapevolezze drammaturgiche e teatrali”.
“È stato bello poter lavorare in un ambiente positivo, con persone creative e divertendosi così tanto allo stesso tempo”.

Partecipanti udenti
“Mi è piaciuto lavorare in un teatro professionale e avere la possibilità di esibirmi sul palco”.
“Si perde lo stereotipo su di loro e si vede che sono proprio come te”.
“Ciò che mi è piaciuto nel lavorare con bambini sordi e udenti è stata la massa di idee che è saltata fuori!”
“Mi è piaciuto il modo con cui si doveva essere più espressivi”.
“Un fantastico divertimento!”

Quali sviluppi ha in programma, o spera che qualcuno intraprenda, nel teatro per sordi e udenti?
Dopo otto anni, ora abbiamo ex-partecipanti che stanno tornando per sostenere il progetto come volontari adulti. Abbiamo anche attori sordi professionisti, allievi interpreti udenti, insegnanti e molti tecnici (inclusi alcuni tecnici sordi) che lavorano da professionisti. Per me, personalmente, il prossimo passo è una rappresentazione tradizionale pienamente integrata, che non sia guidata dal “problema”. Sto al momento commissionando una commedia ambientata nella cucina di una pasticceria con un cast di otto attori: quattro udenti e quattro sordi. Spero che procurerà lavoro per attori sordi nell’arena tradizionale, e porterà le superbe capacità teatrali della lingua dei segni a un pubblico più ampio.

Per informazioni sulla Summer School:
Roberta Hamond
Theatre Education & Access
Scaldbeck Cottage
Morston, Holt
Norfolk NR25 7BJ
E-mail: roberta@hamond.co.uk

 

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente

Ciao, sono Alessia.
Sono una ragazza di 26 anni, abito a Bovolone in provincia di Verona.
Ho assistito un paio di volte qui nella bassa veronese a degli incontri organizzati dalla comunità Papa Giovanni XXIII dove eri ospite anche tu e dove ho potuto capire che grande uomo sei.
Ti ho rincontrato tra le pagine del libro di Candido Cannavò e fino alla fine il mio pensiero fisso era quello di poterti scrivere.
Sicuramente avrai tante cose da fare e probabilmente ignorerai la mia e-mail ma io ci provo lo stesso […].
Ti descrivo un po’ la mia vita giusto per farti capire chi sono.
Sono una semplice ragazza, faccio l’operaia in una fabbrica di mobili, lavoro che mi aiuta perché vivendo da sola ho dovuto adeguarmi a quello che c’era, anche se la mia passione è sempre stata il sociale […].
Dimenticavo sono anche innamorata… Della vita ovviamente!!!!!!! Per quel poco che conosco di te lasciatelo dire: sei una bella persona e aspetto davvero una tua risposta […].

Con immenso affetto ti ringrazio

Alessia

Cara Alessia, hai mai ascoltato Sergio Endrigo? Forse no, sei troppo giovane. La mia infanzia invece è stata segnata proprio dalla sua musica e appena sento parlare di mobili mi viene in mente una canzone in particolare, il cui testo sembrava una filastrocca e faceva più o meno così: “Per fare un tavolo, ci vuole il legno; per fare il legno, ci vuole l’albero…” e così via. Il testo era di Gianni Rodari, per l’esattezza. L’unica perplessità che mi è sempre rimasta è: perché per fare un tavolo ci vuole un fiore? Credo che ci sia un’attinenza tra il lavoro che svolgi in fabbrica e la tua passione per l’universo del sociale. In fondo una fabbrica di mobili, per quanto oggi il lavoro sia in gran parte meccanizzato, mette in gioco la creatività e la pazienza… quella richiesta affinché tutti i pezzi combacino alla perfezione. E soprattutto bisogna riuscire ad andare oltre il mobile per scoprire la sua identità e la sua funzione. Un mobile infatti può servire per custodire documenti importanti o semplicemente per riporre gli indumenti. Io per esempio ho un vero e proprio scrigno dove nascondo tutti i miei segreti.
Anche chi lavora nel sociale ha bisogno di creatività e pazienza, anzi, sono due elementi fondamentali. Soprattutto, chi opera nel sociale deve necessariamente assumere uno sguardo che vada oltre i problemi contingenti per concentrarsi sugli orizzonti che si possono aprire. È un paragone affascinante, non trovi? Sarebbe carino se esistesse una filastrocca così: “Per fare un educatore ci vuole un calamaio… per fare un calamaio ci vuole l’inchiostro…”. E per fare l’inchiostro che ci vuole? Ci vuole la voglia di sporcarsi!
Buona macchia a tutti!

 

 

 

Ciao da una ragazza ItaloArgentina. Me hanno parlato un sacco di te… mi sono incuriosita e sono stata a girare su internet per trovare qualcosa che mi parle di te!! Sei stato l’altro giorno al Portico (Padova) ho una coppia di amici (Rossella e Dario Galdiolo) che sono stati con te. Grazie per il modo in che fai conoscere alle persone il vero senso della INCAPACITA… lavoro nel campo della salute, sono una psicologa e veramente quegli che siamo chiamati NORMALI siamo i veri incapaci… di dare amore… di guarda con sincerita negli occhi… di aiutare a chi ha bisogno sensa scrupoli… di regalare un sorriso tan solo perche ci siamo trovati… perdiamo il tempo in litigare per cose stupide… si corre tra il soldi e il bissnes… sembra una garra contro il tempo… mannaggia… sarebbe tanto facile capire che il tempo è sempre l’ stesso e che siamo noi chi passiamo… si vive di corsa sempre in fretta… in nome dal amore si amassa, si pissa, si toglie… sembra che non essiste la pace su cuore… infatti, tu sai di questo… solo volevo ringraziarti che atraverso dal umore sai arrivare nel cuore delle gente e magari qualcuno possa fare un CLIK e fermarsi un momento a chiedersi cosa sta facendo della sua vita… ne sono sicura che le tue parole reusciranno a farllo… e uno solo al meno che possa imparare a vivere di altro modo, sensa invidia sensa odio, sensa paura … uno solo che possa trovare luce nel’anima e nello spirito amore la tua misione sara fatta con felicita… Grazie in nome mio, di Rossella e Dario e di tutti noi che siamo UGUALI A TE!!!! Un abbraccio forte forte da stringere l’anima sensa distanze… da qui… da Buenos Aires!!! a presto……. Ciao

Silvina A. Gramaglia

Cara Silvina, ho sempre desiderato ricevere una lettera dall’Argentina! L’Argentina mi fa subito venire in mente una persona che ha segnato la storia del calcio: ovviamente parlo del “pibe de oro”, da me definito anche “la trinità del calcio”, Diego Armando Maradona. Ma al di là delle mie memorie calcistiche, nella tua lettera mi ha colpito in particolare la frase “siamo uguali a te”, perché è esattamente quello che ho detto durante un mio ultimo convegno in Sardegna. Ti racconto com’è andata: la sera prima della partenza ero ospite da una mia amica per fare quattro chiacchiere. Dopo innumerevoli bicchieri di limoncello, a un certo punto le ho detto: “Io e te siamo vagamente uguali”. Da quel momento per tutta la serata abbiamo continuato a giocare sul significato di quella espressione. Il giorno dopo ho preso il mio aereo Bologna-Olbia-Cagliari, e durante i vari convegni a cui ho partecipato ho utilizzato le riflessioni sul “vagamente uguali” che erano scaturite la sera precedente. E qui la sorpresa: subito la stampa si è appropriata dell’espressione, che è stata riportata in alcuni articoli sui giornali locali. Mai avrei pensato che dalla discussione di una serata tra amici potesse nascere un neologismo! Beh, ho già in mente lo “slogan” per il 2007: semplicemente diversi! Che ne pensi?
Un saluto a tutta l’Argentina e soprattutto a Diego Armando!

Il panorama nazionale: esempi e nuove prospettive

Durante l’indagine svolta nel territorio di Bologna e Provincia, ho avuto modo di accorgermi del fatto che molte realtà operavano a distanza di alcuni isolati senza conoscere le rispettive attività. Quello che manca è ancora oggi un filo che colleghi queste esperienze e dei punti di riferimento e di scambio per queste. Questa tendenza si amplifica quando si allarga il campo di indagine al territorio nazionale. Censire e monitorare queste esperienze diventa un compito arduo, anche perché ci si trova di fronte ad una diversa tipologia di utenza e a contesti differenti. Possiamo comunque concentrare l’attenzione su un certo tipo di handicap e riassumere i contesti all’interno dei quali si opera in due principali tendenze.

  • Dal teatro all’handicap: teatri, compagnie teatrali e di danza professioniste, registi, coreografi e uomini di teatro che si avvicinano alle diverse abilità e scelgono di intraprendere un percorso di ricerca artistica  in questo campo, che comporta la costituzione di una compagnia integrata o non e la produzione e circuitazione di spettacoli.
  • Dall’handicap al teatro: enti, associazioni, organizzazioni di volontariato, cooperative sociali che, si avvicinano all’arte performativa per sperimentarne la pratica con i propri utenti disabili, avvalendosi o no di professionisti, con il fine di sperimentazione libera che può prevedere l’allestimento di spettacoli ma non come obiettivo principale.

 

Ovviamente i confini tra queste due categorie sono labili, dato che professionisti del teatro o della danza operano per le strutture sociali che intendono promuovere il teatro o la danza tra le proprie attività e viceversa, educatori, psicoterapeuti, psicologi affiancano il lavoro di registi e coreografi nelle esperienze professioniste che vedono coinvolti attori e danzatori diversamente abili. La seconda classe è però più difficile da censire, dato che è per il suo carattere poco pubblicizzata e si limita spesso agli utenti della struttura stessa, rimanendo in ambito Comunale o provinciale. Nell’ambito del Secondo Convegno Internazionale di Studi “I teatri delle diversità” organizzato dall’Associazione Culturale “Nuove Catarsi” (11) nel 2001 a Cartoceto (Pesaro Urbino) viene presentato il Primo Censimento Nazionale su Teatro e disagio", promosso da ETI (Ente teatrale italiano), dall’Università di Urbino, da ENEA, dalla Cooperativa "Diverse Abilità" insieme alla rivista "Catarsi-Teatri delle diversità".
Questo progetto che ha portato all’edizione di un agenda ragionata delle esperienze di teatro handicap svolte su territorio nazionale e divise per regione e che costituisce il primo reale tentativo di indagare e catalogare le realtà che operano in quest’ambito. Organizzato per la prima volta nel 2000 “I teatri delle diversità” ogni anno programma una serie di incontri di formazione sugli stili di conduzione della ricerca teatrale nel sociale, interventi dei protagonisti delle esperienze sceniche presentate al pubblico, performance, spettacoli laboratori intagrati e film documentari. Basandomi in parte su questa agenda, in parte sulla mia ricerca e sulle mie conoscenze nel settore, vorrei tracciare un quadro di riferimento delle maggiori esperienze presenti tutt’ora su territorio nazionale. Partiamo proprio dalle regione Marche, dove nel 1993 nasce il progetto “Teatro degli esclusi”, un’esperienza portata avanti dal Teatro Pirata di Jesi (AN) in collaborazione con gli operatori e i ragazzi del Centro Sociale Aldo Moro di Fabriano, un centro diurno per portatori di handicap gestito dal Comune di Fabriano.
Per conto dell’Amministrazione Comunale di Fabriano, il teatro Pirata ha sviluppa tutt’oggi  interventi di animazione rivolti a portatori di handicap ed un laboratorio teatrale permanente, riconosciuto dalla Regione Marche come laboratorio pilota relativo al tema del “Teatro e handicap”.Il progetto prevede anche la produzione e la circuitazione di spettacoli realizzati interamente curata, allestita e realizzata dagli stessi partecipanti diversabili (per maggiori informazioni è possibile consultare il sito www.teatropirata.com).
Ci spostiamo in Lazio dove a Roma la compagnia Teatrale Integrata DIVERSE ABILITA’ è attiva dal 1995 prima come laboratorio teatrale protetto, poi come compagnia teatrale professionale, nata da un Progetto Europeo Horizon. Il gruppo, diretto dalla regista Alessandra Panelli  è composto da operatori culturali, registi, attori e tecnici, sta realizzando da oltre sette anni sia attività didattiche e formative che artistiche e teatrali.
Nella stessa città opera anche l’Associazione Fuori contesto, un gruppo dove persone, disabili e non, lavorano insieme con l’intento di realizzare spettacoli che trasmettano messaggi di valore, attraverso emozioni intense nel gesto come nella parola.
Il loro spettacolo “Chi sogna non piglia pesci”, presentato dalla U.I.L.D.M. (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), sezione laziale Onlus, vede in scena venti attori, disabili e non, che nel teatro hanno trovato la motivazione e l’impulso necessario per una partecipazione attiva alla vita sociale. Lo spettacolo ha partecipato alla Rassegna Nazionale ‘Teatri delle Diversità’ della città di Mondragone (rassegna nazionale di opere teatrali ed esperienze artistiche contro l’esclusione e l’emarginazione sociale).
Da segnalare anche il laboratorio teatrale integrato Piero Gabrielli, promosso da Comune di Roma, Teatro di Roma e MIUR (Ministero Istruzione, Università e Ricerca) e coordinato da Roberto Gandini, che svolge laboratori nelle scuole al fine di integrare ragazzi disabili e non attraverso il teatro, corsi di formazione per insegnanti, attori, registi. Dal 1994 ad oggi hanno partecipato alle attività del Gabrielli 8.134 ragazzi di 324 scuole, di cui 1.788 con disabilità, producendo 103 spettacoli che grazie a 264 repliche sono stati visti da 105 mila spettatori.
In Toscana quest’anno Isole comprese teatro di Firenze ha organizzato e promosso il corso di formazione per attori e operatori nel teatro delle diversità. Si tratta di un progetto di attivita’ teatrale ed espressiva con valenza terapeutico- riabilitativa, attraverso tecniche del teatro sociale, rivolto a utenti con disabilita’ psichica e sensoriale dei Centri del Q.4 Albero vivo e Giaggiolo, e 15 allievi attori. Inoltre cura il sottoprogetto "Risvegli” che consiste in un laboratorio teatrale terapeutico per pazienti psichiatrici ,operatori e attori attraverso tecniche del teatro sociale, organizza la rassegna “I teatri dell’anima” ed ha prodotto gli spettacoli Corpo1Prologo (per maggiori informazioni è possibile consultare il sito www.isolecompreseteatro.it). .
Per la Liguria cito invece l’esperienza della Cooperativa Polena di Savona, nata nel 2000 dall’esperienza di un laboratorio teatrale nell’ambito della sezione italiana del progetto Europeo “Horizon” approvato dalla comunità “Redancia”, che si è avvalso della collaborazione di referenti teatrali esterni tra cui: Pippo Delbono e Pepe Robledo (regista e attore della compagnia teatrale Pippo del Bono) e l’Accademia della Follia di Claudio Misculin.
Storica in Piemonte è la ricerca portata avanti dalla Compagnia Stalker Teatro di Torino, che ha sviluppato fin dall’inizio degli anni ottanta un qualificato studio sul linguaggio teatrale a fini socio-terapeutici coordinato con i Servizi Territoriali di Salute Mentale e dell’ex Ospedale Psichiatrico di Collegno/Grugliasco, e che attualmente ha realizzato un progetto pluriennale con gli operatori e gli ospiti del Centro Diurno di Cossato, in provincia di Biella. Un’altra importante e più recente realtà è quella di Voci erranti (associazione onlus con sede a Racconigi –TO, www.vocierranti.org), nata nel 1999 dal  laboratorio teatrale svolto presso il Centro di Incontro “Il Germoglio” (un centro che coniuga l’esperienza quasi decennale proveniente dall’ex manicomio di Racconigi –TO, e dai suoi primi progetti di Comunità Terapeutica con i bisogni e gli spunti originati dalla coeva esperienza del Centro di Salute Mentale di Savigliano -TO), dalla compagnia di attori, registi, animatori ed autori di spettacoli compresa nel Progetto Cantoregi (compagnia teatrale fondata nel 1977 e con sede a Carignano-TO), e che ha portato allo spettacolo Voci Erranti, che da il nome all’Associazione che tutt’oggi porta avanti questo progetto e continua a realizzare spettacoli
Restando nella provincia di Torino, troviamo la compagnia Tribalico, anima autonoma dell’ associazione Au.Di.Do (Autogestione Diversamente Dotati) di Alpignano (TO), che nacse nel 1997 come laboratorio teatrale che intende considerare la diversità una risorsa piuttosto che un limite. Regista della compagnia è l’ attore professionista Alberto Valente; l’autore dei testi teatrali è Salvatore Smedile.Attualmente il gruppo è composto da 13 membri, di cui sei disabili. Gli ultimi spettacoli sono stati Horlandoh (2002), Merville (2004), Rinaldo (2005). Ci muoviamo in direzione est ed in Lombardia incontriamo Il Teatro la Ribalta di Antonio Viganò con sede a Lombardone (LC), che ha il merito di aver instaurato un solido rapporto di collaborazione con la compagnia francese “Oiseau Mouche” di Roubaix, l’unica compagnia composta interamente da attori disabili riconosciuta come professionista e sovvenzionata in Francia. Antonio Viganò ha infatti firmato la regia degli spettacoli Personnages, Excusez-le o il vestito più bello, No exit , lavori di straordinaria, che hanno conquistato il pubblico che ha avuto la possibilità di ammirarne tutta la straordinaria efficacia e poesia nell’ambito di numerose stagioni teatrali e rassegne teatrali italiane. In Veneto, La Piccionaia – I Carracci, Teatro Stabile di Innovazione (www.piccionaia.it), in collaborazione con l’Anffas – Riviera del Brenta e l’assessorato alla cultura del Comune di Mira (VE) ha dato vita da alcuni anni all’iniziativa ‘T&H progetti teatrali tra disagio e sociale. La ricerca sviluppata dalla compagnia sui territori della memoria personale, ha ispirato l’elaborazione del testo epico dell’Odissea e la messa in scena dello spettacolo omonimo ideata dall’attore e regista Mirko Artuso. Sempre in Veneto, va ricordato il “Progetto Sciamano” diretto da Claudia Contin (attrice e fondatrice, assieme a Ferruccio Merisi, della Scuola Sperimentale dell’Attore di Pordenone) un percorso di sperimentazione teatrale nella prospettiva della valorizzazione delle diverse abilità giunto al settimo anno di sviluppo che negli ultimi tre anni, allo sforzo sociale, artistico e scientifico, ha aggiunto anche una importante dimensione pedagogica, di formazione di aggiornamento, dedicata ad operatori che lavorano o lavoreranno nelle dimensioni teatrali e comunicative della differenza, e che comprende un laboratorio per gli utenti dell’ANFFAS di Pordenone ed un convegno-formazione sul tema. Spostiamoci nel sud della penisola dove in Puglia è iniziata già da ottobre a Bari la una nuova edizione del progetto ‘Teatro e Handicap’ curato dal teatro Kismet Opera di Bari e dall’associazione A.R.C.H.A. Il progetto coinvolge alcune persone disabili dell’Archa, che ne segue una cinquantina, ma anche attori, danzatori, educatori professionali e operatori volontari, che parteciperanno tutti al laboratorio ognuno con le proprie competenze. Il progetto Teatro e Handicap è stato avviato nel 1990 sotto la conduzione del regista Enzo Toma, uno tra massimi esperti a livello nazionale ed internazionale di Teatro con disabili e che, oltre a  collaborare in qualità di docente con diverse Agenzie educative e Università italiane, ha fondato la compagnia “Maccabeteatro”(12). In Campania, in provincia di Caserta, per l’esattezza a Città di Mondragone, si svolge ogni anno la Rassegna Nazionale "Teatri delle Diversità", nata nel 2000 come tappa-prodotto di una ricerca personale e di gruppo condotta dall¹Associazione Agenzia Arcipelago Onlus, ossia di itineranti esperienze psicologiche, cliniche, sociali e teatrali compiute, a partire dal 1983 in luoghi e tempi diversi, a Napoli ed in altre città d’Italia. Un ruolo particolare a livello teorico e prassico, hanno avuto i numerosi laboratori, spettacoli e performances teatrali allestiti con utenti (pazienti psichiatrici, detenuti e tossicodipendenti in primo luogo), le ricerche, gli accadimenti espressivi e le riflessioni svolte all’interno dei contesti di reclusione e in campo didattico, le discussioni accademiche e approfondimenti con psichiatri, psicologi, attori, registi teatrali, sociologi, scrittori. In Sicilia troviamo l’esperienza del Teatro del Sole E.n.s, della compagnia “Bagnati di Luna A.I.P.D.”(13), e della compagnia “Lune inopportune”(14), nate rispettivamente nel 1989, nel 2000 e nel 2001 da un’intensa attività laboratoriale svolta dal Teatro Scalo Dittaino di Catania con con alcuni soci dell’E.n.s (Ente Nazionale Sordomuti), dell’A.I.P.D Associazione Italiana Persone Down) e della Comunità terapeutica assistita S. Antonio di Piazza Armerina. Queste realtà sono attualmente attive ed i loro spettacoli e sono presentati nell’ambito di raasegne e festival nazionali ed internazionali e convegni sul tema. Vorrei concludere questo excursus con l’Emilia Romagna, regione all’interno della quale è iniziata la mia attività di indagine delle realtà che operano nel teatro handicap sul terriotrio, per citare le maggiori esperienze portate avanti in quest’ambito negli ultimi anni. A Parma, il Lenz teatro (http://www.lenzrifrazioni.it), all’interno del progetto Shakespeare collabora con l’Associazione Nazionale Famiglie di Disabili Intellettivi e Relazionali coinvolgendo l’ensemble di Lenz Rifrazioni e un gruppo di attori con handicap intellettivi. Da questa necessità di fusione ha genesi un processo di ricerca teso ad approfondire l’espressività teatrale contemporanea e il significato dell’esperienza artistica nell’incontro tra gli attori disabili e gli attori della compagnia, che porta alla realizzazione dello spettacolo Ham-let, per la regia di Maria Federica Maestri. A Bologna è significativa l’esperienza del regista Nanni Garella con il Dipartimento di Salute Mentale dell’Ausl di Bologna Nord, che ha portato alla nascita dell’associazione Arte e Salute, alla formazione della compagnia Urziburzi, ed alla realizzazione degli spettacoli  Sogno di una notte di mezza estate , I Giganti della Montagna , As you like it , Pinter. Atti Unici,  che hanno segnato una ricerca riconosciuta nel 2004 con l’assegnazione del “Premio speciale Ubu” per il lavoro svolto con i disabili mentali sui grandi classici del teatro. Esemplare e storica è poi la ricerca svolta in quest’ambito dal Teatro Nucleo di Ferrara, compagnia fondata nel 1974 ad opera di Horacio Czertok e Cora Herrendorf, e che nel 1992 fonda il CETT, Centro per il Teatro nelle Terapie, dedicando un luogo specifico alla sua decennale esperienza nell’ambito delle terapie. Interessante e particolare è anche il percorso compiuto dall’Accademia della Follia (www.accademiadellafollia.it), fondata da Claudio Misculin, Angela Pianca, Cinzia Quintiliani nel 1992 a Rimini. È un progetto teatrale e culturale, formato da attori a rischio risultato di un percorso teorico e pratico condotto dal Velemir Teatro, che nasce nel 1983 a Trieste, nell’ambito dell’esperienza basagliana. Ultimamente ha realizzato il progetto spettacolo “Ardito Giulio Romano Italico Muscolini” nato dall’incontro tra la R.A.I. e l’Accademia della Follia decisi a entrare insieme nell’Ospedale Psichiatrico Giuridico di Aversa, rimanendoci qualche mese.

11.Rivista europea "Catarsi-Teatri delle diversità" diretta da  Emilio Pozzi (docente di Storia del teatro e dello spettacolo alla Facoltà di Sociologia dell’Università di Urbino).

12.Cooperativa MACCABETEATRO -Via Lipari, 3 – 70014 Conversano (BA) Sorta nel 2002 grazie a un equipe di professionisti con accreditata esperienza nel settore Teatro e Handicap, si occupa di coordinare, gestire e allestire laboratori teatrali con disabili, percorsi formativi e studi teatrali, spettacoli ed eventi artistici in collaborazione con Enti ed Istituzioni pubblici o privati. La MACCABETEATRO proseguendo il percorso di formazione e ricerca nell’Area delle disabilità ha prodotto nel 2002 lo spettacolo Edipo, nel 2003 lo spettacolo Alcesti e nel 2004 gli spettacoli Filottete H e PinoccHio.

13.Ogni anno di laboratorio si conclude con uno spettacolo diretto da Monica Felloni e Piero Ristagno : Quello che le balene pensano degli uomini (000), Canto della terra che gira (2001), La ruota del pavone (2002),  Passaggio d’Ali (2003),  Appassionati (2004).

14. Spettacoli realizzati: 2002 – "nudiecrudi", 2003 – "Risonanze", 2004 – "Lettere a Theo"