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Autore: admin

Mormy

Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

Vide suo padre sulla sedia a dondolo e Jun rientrare in casa. Senza suono e senza storia. In una mente qualunque se ne sarebbe strisciata via, quell’immagine, in un istante sparita per sempre. Nella sua rimase impressa come un orma, inchiodata, bloccata li. Era una mente strana, quella di Mormy. Aveva uno strano istinto, forse, per riconoscere la vita anche da lontano. La vita quando vive più forte del normale. La riconosceva. E ne rimaneva come ipnotizzato.
Gli altri vedevano come vedono tutti. Una cosa dopo l’altra. Come un film. Mormy no. Magari gli passavano negli occhi, le cose, in fila, una dopo l’altra, ordinatamente, ma poi ce n’era una che lo rapiva: e lì, lui, si fermava. Nella mente rimaneva quell’immagine. Ferma lì. Le altre correvano via nel nulla. Per lui non esistevano più. Andava, il mondo, e lui, rubato da uno stupore lancinante, rimaneva indietro. Per dire: ogni anno correvano con i cavalli, nella strada di Quinnipak, dalla prima casa di Quinnpak fino all’ultima, saranno stati millecinquecento metri, forse qualcosa di meno, correvano sui cavalli, un po’ tutti gli uomini di Quinnipak, ognuno sul suo cavallo, da un estremo all’altro della città, su per la strada principale, che in definitiva era poi l’unica strada vera e propria, correvano per vedere, quell’anno, chi sarebbe arrivato per primo all’ultima casa della città, ogni anno, e ogni anno, ovviamente, c’era uno che alla fine vinceva, e diventava quello che, quell’anno aveva vinto. Così. E ovviamente ci andavano un po’ tutti a vederlo, quel caotico e fragoroso e febbricitante gran rotolare via di cavalli, polvere e grida. E ci andava anche Mormy. Però lui … Lui li guardava partire: vedeva l’istante in cui la massa informe di cavalli e cavalieri si attorcigliava come una rovente molla schiacciata all’inverosimile per poter poi saltare via con tutta la forza possibile, in una calca senza direzioni e senza gerarchie, un grumo di spasimi e corpi e volti e zampe, tutto nel ventre di un polverone che si alzava, carico di grida, nel silenzio totale tutt’intorno, un istante di esasperante nulla prima che il rintocco della campana, su, dal campanile, non liberasse tutto e tutti da quell’ormai opprimente esitazione e rompesse la diga dell’attesa per scatenare la frenetica marea che era la corsa vera e propria. Allora partivano: ma lo sguardo di Mormy rimaneva li: in quell’istante che era prima di tutto il resto. Si giravano, i mille volti della gente, a seguire la folle volata di uomini e cavalli, ruotavano tutti insieme, quegli sguardi, tutti meno uno: perché il volto di Mormy rimaneva fisso sul punto della partenza, minuscolo strabismo seminato nel collettivo sguardo che se ne andava compatto dietro alla corsa. Il fatto è che negli occhi, e nella mente, e su per i nervi, lui aveva ancora quell’istante là. Continuava a vedere la polvere, le grida, le facce, gli animali, l’odore, l’attesa snervante di quel momento. Che diventava, solo per lui, momento interminabile, quadro posato nel fondo dell’anima, fotografia della mente, e incantesimo, e magia. Così correvano, quelli, fino alla fine, e vinceva il vincitore nel gran clamore di tutti: ma Mormy, tutto questo non lo vedeva mai. Lui la gara se la perdeva sempre. Inchiodato alla partenza, rapito. Poi magari il gran casino generale lo risvegliava, improvvisamente, e quell’istante di partenza gli si sfarinava negli occhi, lui tornava al mondo e lentamente girava lo sguardo verso il traguardo dove tutti correvano urlando questo e quello, pur di urlare, per il gusto, poi, di aver urlato. Girava lo sguardo lentamente e risaliva sul carro del mondo, con tutti gli altri. Pronto per la prossima fermata.
In realtà era lo stupore a fregarlo. Lui non aveva difese contro la meraviglia. C’erano cose che uno qualunque avrebbe tranquillamente guardato, magari ne sarebbe stato anche un po’ colpito, magari si fermava anche un attimo, ma poi era in fondo una cosa come le altre, ordinatamente in fila con le altre. Ma per Mormy, quelle stesse cose erano prodigi, esplodevano come incantesimi, diventavano visioni. Poteva essere la partenza di una corsa di cavalli, ma poteva anche essere semplicemente un improvviso colpo di vento, la risata sul volto di qualcuno, il bordo d’oro di un piatto, o un niente. O suo padre sulla sedia a dondolo e Jun che lentamente si volta e rientra in casa.
La vita faceva una mossa: e la meraviglia si impadroniva di lui.
Il risultato era che, del mondo, Mormy aveva una percezione, per cosi dire, intermittente. Una sequela di immagini fisse – meravigliose – e mozziconi di cose perdute, cancellate, mai arrivate fino ai suoi occhi. Una percezione sincopata. Gli altri percepivano il divenire. Lui collezionava immagini che erano e basta.
– E’ matto Mormy? – chiedevano gli altri ragazzini.
– Solo lui lo sa – rispondeva il signor Rail.
La verità è che si vedono e si sentono e si toccano così tante cose … è come se ci portassimo dentro un vecchio narratore che per tutto il tempo continua a raccontarci una storia mai finita e ricca di mille particolari. Lui racconta, non smette mai, e quella è la vita. Al narratore che stava nelle viscere di Mormy forse si era rotto dentro qualcosa, forse qualche dolore tutto suo gli aveva messo addosso quella specie di stanchezza per cui riusciva a raccontare solo più mozziconi di storie. E tra uno e l’altro, il silenzio. Un narratore sconfitto da chissà quale ferita. Forse l’aveva fregato la porcheria di qualcuno, l’aveva bruciato lo stupore di un tradimento fottuto. O magari era la bellezza di quello che raccontava che l’aveva a poco a poco sopraffatto. La meraviglia gli strozzava le parole in gola. E nei suoi silenzi, che erano ammutolita emozione, riposavano i buchi neri della mente di Mormy.
Chissà. Ci sono certi che lo chiamano angelo, il narratore che si portano dentro e che gli racconta la vita. Chissà come erano le ali dell’angelo di Mormy.

Alessandro Baricco, Castelli di rabbia, Rizzoli

Incantato dalla vita
commento di Marina Maselli

A Quinnipak si ha negli occhi l’infinito, o così almeno credevano i suoi abitanti. La signora Raoil con la sua meravigliosa bocca, il signor Raoil sempre pronto a partire, l’uomo che rincorreva le parole perdute, il ragazzino impegnato a catalogare le cose della vita, quello a cui un giorno scoppiò la musica in testa dopo averla domata per anni, il racconto di una guerra nelle parole dell’unico superstite, il fascino segreto di una locomotiva e il sogno di una città trasparente, perché il vetro è una magia, dicevano, protegge senza imprigionare e tiene lontana la paura. E tra loro, insieme a loro, Mormy, figlio segreto improvvidamente svelato alla vita, Mormy che immobile si guarda intorno e tace, ingenuo osservatore intento a scrutare il mondo. Mormy dai lenti movimenti, dalle rare parole regolate all’improvviso, immerso in un tempo dal ritmo incerto "aveva qualcosa di complicato nella testa Mormy, forse di malato, nessuno lo sapeva, nessuno poteva saperlo". Troppo veloce scorre la vita per lui, le cose si succedono l’una all’altra e non lasciano agli uomini il tempo per vederle sul serio. Mormy bambino, adolescente, uomo stordito e incantato dalla vita con la sua inquieta bellezza, ignaro dello sconcerto altrui.
A Quinnipak c’è Mormy tra gli altri. A Quinnipak le storie si intrecciano, si aggrovigliano in un tempo anomalo e non si riesce più a dipanarle, piccoli miraggi di ironia e tragicità. Perché a Quinnipak la diversità e l’impotenza non spaventano nessuno.

Il Ponte sulla Drina

Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

In tal modo la vita dei ragazzi della cittadina si svolge sotto il ponte e attorno a esso, tra inutili giochi e fantasie infantili. E fin dai primi anni dell’adolescenza ci si trasferisce sopra il ponte, dove i sogni giovanili trovano altro alimento e altre sfere d’interessi, ma dove cominciano già anche le preoccupazioni, le lotte e il penoso stento della vita. Sul ponte e vicino al ponte sbocciano i primi sogni d’amore, avvengono i primi incontri casuali, i primi approcci e sussurri. Qui si svolgono anche i primi lavori e gli affari, i litigi e gli accordi, gli appuntamenti e le attese. Qui, lungo il parapetto di pietra del ponte, vengono messi in vendita le prime ciliege e i meloni, i salep (bevanda turca calda e dolce) del mattino e il pane caldo. Ma qui si raccolgono pure i mendicanti, gli storpi e i tignosi, così come i giovani e i sani che desiderano farsi vedere o vedere qualcuno, o come tutti coloro che hanno da mettere in mostra qualche frutto, qualche abito o qualche arma speciale. Vengono spesso a sedersi qui uomini maturi e ragguardevoli per discorrere intorno alle cose pubbliche e alle faccende di interesse collettivo, ma ancora più spesso i giovincelli che non hanno mente ad altro che ai canti e agli scherzi. In occasione di grandi eventi e di storiche trasformazioni è qui che vengono esposti appelli e proclami (sul muro sopraelevato, al di sotto della targa marmorea con l’iscrizione turca e al di sopra della fontana), ma qui, fino al 1878, venivano anche impiccate o impalate le teste di tutti coloro che, per un qualsiasi motivo, erano giustiziati, e le esecuzioni, in questa cittadina di frontiera, specialmente negli anni turbolenti, furono frequenti e in certi tempi, come vedremo, perfino quotidiane. Non possono attraversare il ponte né cortei nuziali né funerali senza che ci si fermi alla "porta". Qui, di solito, i convitati alle nozze si preparano e si mettono in fila prima di andare al mercato. Se sono tempi tranquilli e quieti si passano a turno la rakija (acquavite) e cantano, danzando il kolo (caratteristica danza circolare slava) e spesso si trattengono assai più a lungo del previsto. E durante i funerali coloro che portano il defunto lo depongono un po’ per riposarsi, proprio qui alla "porta", dove del resto egli ha trascorso buona parte della vita. La "porta" è il punto più importante del ponte, così come il ponte è la parte più importante della cittadina, o, come scrisse nel suo diario un viaggiatore turco che venne ottimamente ospitato dai visegradesi, "la porta è il cuore del ponte, che è il cuore di questa cittadina, che a ognuno deve restare nel cuore".

Ivo Andric, Il ponte sulla Drina, Oscar Mondadori

Slavi del sud
commento di Giovanni Catti

Ogni fiume sa sempre molte cose, le ascolta nel suo corso, e la Drina non fa eccezione a questa regola, quando passa fra la parte più grossa della città di Visegrad e il sobborgo sparpagliato lungo la strada, che conduce a Sarajevo. Basta questo nome per farci pensare dolorosamente alle differenze, alle diversità tra gli "slavi del sud". In Ivo Andric si riflettono queste differenze, queste diversità. A Travnik in Bosnia nasce nel 1882, a Visegrad trascorre l’infanzia, a Sarajevo compie gli studi medi, a Zagabria compie gli studi universitari, a Spalato è arrestato perché sospettano di essere antiaustriaco, a Zagabria fonda una rivista. Come studente universitario è a Vienna, Cracovia e Graz; come diplomatico è a Roma, Bucarest, Madrid, Trieste, Ginevra, Bruxelles, Berlino. A Belgrado, occupata dai nazisti, scrive nel 1942 e nel 1943 la storia del ponte, costruito agli ordini di Mehmed Pascià, tre secoli prima dello scoppio della guerra nel 1914. Ancora una volta qualcuno per il solo fatto di esistere mette in crisi la nostra cultura, la nostra civiltà. Non riusciamo a collocare nella nostra mente la Bosnia, Visegrad, Sarajevo, Zagabria, Spalato. Non riusciamo quindi a sapere che cosa voglia dire essere bosniaci, serbi, croati, magiari, bulgari, romeni, albanesi, turchi tra tutti questi "slavi del sud" chiamati, un tempo, jugoslavi; e tanto meno riusciamo a sapere che cosa voglia dire essere cattolici, ortodossi, mussulmani o laici nell’una o nell’altra di queste etnie. Ivo Andric, per il solo fatto di essere esistito, mette in crisi la nostra cultura, la nostra civiltà. Ma scrivendo la storia del suo ponte emette un giudizio salutare sui nostri modi di risolvere il problema del differente, del diverso. "La tua morte è la mia vita": sotto il segno di questo modo di risolvere il problema ci si racconta orribilmente l’impalazione di Radisav di Uniste, resistente alla violenza del turco venuto per costruire il ponte. "La tua vita è la mia vita": sotto il segno di quest’altro modo di risolvere il problema è esaltata liricamente la funzione del ponte. E’ da notare che in questa lirica esaltante si accenni prima di tutto a giochi apparentemente inutili, a fantasie apparentemente non meritevoli di essere espresse in parole. Gli autori di questi giochi e di queste fantasie stanno sotto il ponte, o attorno al ponte: non sopra il ponte. Poi "le preoccupazioni, le lotte e il penoso stento della vita" sospingono adolescenti e adulti sul ponte: su questo ambiguo ponte, dove non sai più bene, se la vita del differente, del diverso, sia la tua vita o la tua morte.

E’ poca cosa il pianto

Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

E’ poca cosa il pianto,
Sono brevi i sospiri:
Pure, per fatti di questa misura
Uomini e donne muoiono.

Emily Dickinson, Silenzi, Feltrinelli

 

Sospiri
commento di Debora Testi

Sospiro: "ma come ci deve sentire ad essere così…"
Sospiro: "finché ci saranno certe persone al mondo…"
Sospiro: "ma cosa nascono a fare, quelli lì.."
Sospiro. E quanti altri sospiri così, scendono negli sguardi, li intorpidiscono, si fanno leggere, tanto brutali quanto sedimentati da anni nel cuore.
Sospiri, sguardi, sempre quelli, tracce di paura nel vicino che ti sfiora appena, frettolosamente, perché è capitato solo per caso sul tuo stesso marciapiede, sul marciapiede di chi .."è diverso…" ( ma chi è uguale spiccicato a me ?! ) e solo per forza deve passarti accanto.
E ancora sospiri profondi nell’anima di chi lo sente di essere fuori dal cerchio, fuori dall’abbraccio sincero, fuori.

Si, per i sospiri e per il pianto uomini e donne possono morire. Aveva ragione la dolce-Emily, quando dalla sua vecchia casa in Main Street ad Amherst, iniziò a cercare nell’animo umano senza più fermasi: cercare la libertà, cercare le falsità, cercare la morte, la gioia e l’esplosione della vita, cercare, cercare…
E allora sospiro anch’io, prendo aria nei polmoni, quanta ne basta per incamminarmi ad esplorare, e mi ritrovo in una giungla d’acciaio e cemento, dove troppo spesso vedo animali aggirasi sospettosi e nevrotici, in guardia per le possibili minacce di altri animali, di animali di "razza diversa", di animali che invadono il territorio, di animali dall’odore acre, diverso…
Ma poi mi dico no, questa non può, non deve essere una giungla: i morsi e le ferite non fanno per noi, il sospetto e la paura di animali diversi deve appartenere solo agli animali.
Sospiri di angosce e pianti di solitudine possono torturare l’anima, prosciugare la vita e il senso di viverla.
Per il solo fatto di essere nati abbiamo dignità; per il solo fatto di essere diversi, abbiamo infinite possibilità di gioia.
Non cercare, non abbracciare, non volere cambiare è sintomo di un falso vivere. Emily lo sentiva, e si chiuse in casa per proteggere il suo mondo pulito per sempre.

L’ombrosa

Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

L’Ombrosa ha imparato poco e con la gente non riesce ad intendersi. Non che le manchino le parole, legge e scrive, ma se qualcuno le parla e si aspetta una risposta, le si blocca la lingua. Basta che uno le si pari dinanzi e le metta gli occhi addosso, che una bocca si schiuda davanti a lei e articoli del suoni, basta questo per toglierle il coraggio di reagire da bipede: ogni faccia la atterrisce.
Allora si gira e distoglie lo sguardo, trema, gli occhi le si riempiono di lacrime. Si vergogna di tutte le parole che gli altri pronunciano con tanta disinvoltura. Perché mai nessuno le si avvicina in silenzio? Forse potrebbe a poco a poco abituarsi al confronto. Forse potrebbe prepararsi alle parole non ancora pronunciate. Ma nessuno gliene concede il tempo. Uno si fa sotto, è già lì, già la fissa, già apre la bocca e parla. Prima ancora che lei abbia osato guardarlo in faccia, le parole la aggrediscono, e almeno fossero parole sussurrate, parole originali, come quelle che lei custodisce in segreto dentro di sé – no, sono sempre formule grezze che vanno dritte allo scopo e le piovono sul viso a ferirlo come tante piccole pietre.
L’Ombrosa si salva nelle stalle, fra i cavalli. Lì si mette accanto a un animale e si calma al contatto di quei fianchi così lisci. Lì non si parla, neanche una parola, le code fendono l’aria in segno di amicizia, le orecchie si drizzano ad avvertire la sua presenza, le froge hanno un tremito. Occhi si girano in silenzio verso di lei, e lei non ha paura di posare lo sguardo su occhi che non offendono nessuno.
L’Ombrosa è felice di non essere a sua volta un cavallo. Non vuole essere nulla che senta simile a sè. Si trova a suo agio solo con ciò che le è alieno per sempre. Non cerca di accattivarsi simpatie o vezzeggiare qualcuno, non usa toni particolari; poco desidera comprendere e poco essere compresa. L’ombra di cui ha bisogno la trova solo fra i cavalli. Non ha mai provato con animali che vorrebbero starle vicino. Sarebbe un errore credere che le piaccia andare a cavallo. Trova però la via per infilarsi nelle poche stalle rimaste qua e la’, trova il momento in cui gli uomini sono tutti via e si erma solo finchè non c’è da temere l’arrivo di qualcuno.
L’Ombrosa non soffre di eccessivo amor proprio, ma con i cavalli può starsene sola.

Elias Canetti, Il testimone auricolare, Adelphi

Die Pferdedunkle
commento di Silvia Bertolasi 

La diversità, il proprio carattere ombroso e le pulsioni più recondite non sono vizi. Non sono né un vizio di forma, né un vizio di contenuto.
Se parliamo della forma del corpo, dell’impossibilità di utilizzare una parte di esso, siano braccia o gambe, sia uno dei cinque sensi, vorrà dire che l’apparente non-essere richiede una maggiore volontà alla vita: se la natura ci ha messo, per così dire, della fantasia, vorrà dire che starà a noi cercare di esprimere nel modo più sottile la nostra sensibilità. E così il cieco risponde con l’orecchio assoluto. La differenza è misurata su un concetto astratto di insieme di individui, massa ipotizzata normale.

Certo esiste il male.

Se parliamo del contenuto della psiche, io tendo a pensare che la schizofrenia sia una questione di quantità e non di distanza dalla norma; lo sforzo di calmare gli schizofrenici con i farmaci, spesso risponde a bisogno della società di allontanare paure/desideri troppo estremi per le regole del vivere assieme. Con ciò non voglio gettare acqua sul fuoco che muove i professionisti della psiche, ma solo mettere in guardia rispetto alla pretesa di accudire alle luci e ombre dell’anima.

Certo esiste la sofferenza.

Il disagio e la sofferenza in una società chiamata ad essere civile, deve trovare risposta attraverso una relazione d’aiuto concepita con la consapevolezza che chi aiuta può essere aiutato.
E come cerchi nell’acqua ci si può distendere con grazia in uno scambio reciproco, in un eco solidale.
Il testo di Canetti sembra essere a margine dei discorsi sulla diversità. Cinque sono le parti del suo scritto. La prima narra della paura. La seconda parla del silenzio e del pianto, delle parole autentiche e delle parole sommerse. La terza dice della salvezza della presenza senza le parole e delle confessioni estatiche. La quarta si riferisce alla solitudine. La quinta dice della disistima e del ritrovare se stessi.
Die Pferdedunkle allude alla parte oscura/scura del cavallo, al "dunkle", il colore blu di Kieslowsky. L’ombra del cavallo/a trema quando l’animale scaccia con la coda e i tremiti del muscoli i tafani: tremiti e respiro sono sinceri come gli istinti da noi rimossi nel viverci accanto. In uno psicodramma si inscenano i drammi reali, le degenerazioni e i lutti facendo uscire il nostro diavolo in corpo, il nostro demone. Vizi rovescio delle virtù e controcorrente si può remare per trovare la via giusta alla propria diversità.

Le città e gli occhi

Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

Giunto a Fillide, ti compiaci d’osservare quanti ponti diversi uno dall’altro attraversano i canali: ponti a schiena d’asino, coperti, su pilastri, su barche, sospesi, con i parapetti traforati; quante varietà di finestre s’affacciano sulle vie: a bifora, moresche, lanceolate, a sesto acuto, sormontate da lunette o da rosoni; quante specie di pavimenti coprono il suolo: a ciottoli, a lastroni, d’imbrecciata, a piastrelle bianche e blu. In ogni suo punto la città offre sorprese alla vista: un cespo di capperi che sporge dalle mura della fortezza, le statue di tre regine su una mensola, una cupola a cipolla con tre cipolline infilzate sulla guglia. "Felice chi ha ogni giorno Fillide sotto gli occhi e non finisce mai di vedere le cose che contiene", esclamai, col rimpianto di dover lasciare la città dopo averla solo sfiorata con lo sguardo.
Ti accade invece di fermarti a Fillide a passarvi il resto dei tuoi giorni. Presto la città sbiadisce ai tuoi occhi, si cancellano i rosoni, le statue sulle mensole, le cupole. Come tutti gli abitanti di Fillide, segui linee a zigzag da una via all’altra, distingui zone di sole e zone d’ombra, qua una porta, là una scala, una panca dove puoi posare il cesto, una cunetta dove il piede inciampa se non ci badi. Tutto il resto della città è invisibile.
Fillide è uno spazio in cui si tracciano percorsi tra punti sospesi nel vuoto, la via più breve per raggiungere la tenda di quel mercante evitando lo sportello di quel creditore. I tuoi passi rincorrono ciò che non si trova fuori degli occhi ma dentro, sepolto e cancellato: se tra due portici uno continua a sembrarti più gaio è perché è quello in cui passava trent’anni fa una ragazza dalle larghe maniche ricamante, oppure è solo perché riceveva luce a una cert’ora come quel portico, che non ricordo più dov’era.
Milioni di occhi s’alzano su finestre ponti capperi ed è come scorressero su una pagina bianca. Molte sono le città come Fillide che si sottraggono agli sguardi tranne che se le cogli di sorpresa.

Italo Calvino, "Le città invisibili", Mondadori, Milano, 1993.

 

Accorgersi delle trame sommerse
commento di Cesare Padovani

Come al solito, Italo Calvino racconta attraverso o sensi, stavolta attraverso gli occhi in particolare. Se guardare è facile, è naturale, è – diciamo – fisiologico, vedere è sempre più difficile, perché è uno scovare, un guardare in profondità, un andar oltre la vista, impegno che coinvolge anima e corpo, intelligenza e sensibilità, che non ti può lasciare indifferente.

"Vedere" è essenzialmente un accorgersi, e allorquando ci si accorge, si scopre sempre il nuovo, e allora sboccia lo stupore. Stupirsi dei fenomeni anche semplici, provare interesse per l’altro, saper cogliere l’inatteso anche nel ripetersi del gesto, rintracciare trame sommerse oltre il tessuto troppo evidente, tutto questo significa non dar nulla per scontato, non adagiarsi all’ovvietà.

Il pericolo è proprio quando ci si intorpidisce, non solo nella mente ma anche nella nostra energia motoria, adottando modelli di rappresentazione precotti, ereditati dal senso comune, che, anziché funzionare da meccanismi di riconoscimento, s’irrigidiscono in stereotipi.

E’ allora che molti aspetti del vivere siano parole, gesti, comportamenti, o strade percorse, sia il fare, l’attraversare, l’incontrarsi… perdono di senso, si svuotano, e subentra l’abitudine. E’ allora che l’Altro, scontato, classificato, "re-inserito" in una delle categorie più accettabili, o nell’episodio esistenziale più rassicurante, è proprio allora che l’Altro non si vede più, e "Tutto il resto della città è invisibile".

Esiste un filo sottile che qualche autore – compreso Calvino – cerca di rintracciare dall’alba del nostro pensiero occidentale fino a quest’epoca, un ponte ideale da Parmenide a Holderlin, a Heidegger; e in questo peregrinare rintracciando, il fiuto si affina, ed è la città a venirti incontro, con i suoi giochi, le sue architetture, i suoi "altri", i suoi bagliori nel buio, i suoi capricci fino a poco fa privi di senso, i suoi sbagli, le sue insofferenze, i suoi urli sfiatati, la sua "allegra miseria"…

E, proprio in questo peregrinare, gusti l’incontro con l’Altro, come fossi anche tu un nuovo arrivato, e, "Giunto a Fillide, ti compiaci d’osservare quanti ponti diversi uno dall’altro attraversano i canali…".

Il rumore dei passi della gente

Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

Era stato dimesso dall’ospedale che le paulonie erano in fiore. La porta del caffè che dava sulla terrazza del primo piano era spalancata. La divisa del cameriere candida di bucato. Il marmo comunicava un piacevole fresco alla sua mano sinistra abbandonata sul tavolino della terrazza. Il palmo della destra gli sosteneva la guancia, il gomito puntato sul parapetto. Gli occhi guardavano di sotto ai passanti, uno per uno, con un’intensità da risucchiarli. La gente camminava sul marciapiede, accesa dalla scintillante luce delle lampade. Quel primo piano era così basso che si sarebbe detto, allungando il bastone, di poter picchiare sulla testa delle persone che camminavano in strada. "Città e campagna sono all’opposto perfino nel modo di percepire le stagioni. Non pensi? Non è della gente di campagna, per esempio accorgersi dell’inizio dell’estate dal colore della luce delle lampade. In campagna più che l’uomo è la natura, l’erba, gli alberi, a vestire volta per volta la stagione. Ma in città è invece l’uomo che, più della natura, indossa le stagioni. A dar inizio all’estate è la molta gente che cammina per la strada, come adesso. Non pensi che in questa via sia l’inizio dell’estate dell’uomo?". "L’inizio dell’estate dell’uomo? Ah, certo".  Nel rispondere alla moglie gli tornò alla mente il profumo delle paulonie fiorite alla finestra dell’ospedale. In quei giorni, se chiudeva gli occhi, la sua mente puntuale scivolava in un mare fantastico di gambe d’ogni sorta. Le sue cellule cerebrali, tutte sino all’ultima, si trasformavano in insetti a forma di gamba e serpeggiavano per il suo mondo. Gambe che ridacchiano imbarazzate quando una donna scavalca qualcosa. Gambe in punto di morte che s’irrigidiscono dopo un moto convulso. Gambe a cavallo, le cosce scarnite dal ventre della bestia. Gambe che pur cicciose e molli come grasso di balena sbattuto là, si tendono a volte con prodigioso vigore. Gambe che un mendicante storpio a notte di scatto distende per levarsi in piedi. Gambe ben rifinite in bambini nati tra le gambe della madre. Gambe stanche come l’esistenza d’un salariato che rincasa dal lavoro. Gambe che pompano su su dalle caviglie al ventre una sensazione d’acqua limpida, mentre attraversano una secca. Gambe che procedono alla ricerca d’amore risolute come la piega di pantaloni aderenti. Gambe di ragazzetta che non si spiega come mai le punte dei piedi che fino a ieri s’evitavano, oggi si guardino educatamente. Gambe che camminano divaricate dal peso del denaro dentro il portafoglio. Gambe di donna impertinente che col volto sorride, con la caviglia deride. Gambe di piedi sudati che fan ritorno dalla strada, escono dai tabi, si rinfrescano. Belle gambe che sulla scena si pentono, al posto della coscienza della ballerina, d’un peccato della notte prima. Gambe d’uomo che in un caffè fa cantare una canzone con cui dare un calcio alla sua donna. Gambe per cui pesante è il dolore, leggera la gioia. Gambe d’atleta, di poeta, d’usuraio, di gentildonna, di sirena, di scolaretta. Gambe, gambe, gambe… Ma sopra tutte, le gambe di sua moglie. E la sua gamba destra, che gli doleva tra l’inverno e la primavera all’articolazione del ginocchio e alla fine gli era stata amputata… Mentre, a causa di questa gamba, nel suo letto d’ospedale era tormentato dai fantasmi di gambe d’ogni sorta, non smetteva di rimpiangere la terrazza di questo caffè, quasi un occhiale creato apposta per osservare lo sfavillante corso cittadino. Più di ogni altra cosa avrebbe voluto guardare fino a saziarsene le gambe sane della gente che calcavano il suolo una dopo l’altra, e lasciarsi trasportare dal rumore dei passi. "Dacché ho perso la gamba ho finalmente compreso sai, la vera bellezza dell’inizio dell’estate. Vorrei uscire dall’ospedale prima che venga l’estate e andare a quel caffè!", diceva alla moglie guardando i bianchi fiori di magnolia. "A ben pensarci, di tutto l’anno è all’inizio dell’estate che le gambe della gente sono più belle. Mai come all’inizio dell’estate la gente cammina per la città gagliarda e spedita. Devo uscire dall’ospedale prima che fioriscano le magnolie". Così adesso guardava giù dalla terrazza con un’intensità da parer che i passanti in strada fossero tutti suoi amanti. "Non è nuova perfino la brezza?". "Il cambio di stagione è così. La biancheria, persino i capelli pettinati ieri, oggi hai già la sensazione che siano sporchi". "Non è quel genere di cose che m’interessa. Ma le gambe. Le gambe della gente all’inizio dell’estate". "Allora vuoi che anch’io cammini qua sotto?". "Non è questo che mi avevi promesso. All’ospedale, quando m’hanno amputato la gamba, non dicevi che di due saremmo diventati una persona sola con tre gambe?". "L’inizio dell’estate, la stagione più bella; ma risponde alle tue aspettative?". "Vuoi stare un po’ zitta? Non riesco a sentire i passi della gente che cammina per la strada". E tese religiosamente l’orecchio a cogliere, dentro il frastuono della sera cittadina, l’inestimabile calpestio degli uomini. Quasi subito chiuse gli occhi. E così, come pioggia che scende in un lago, scrosciarono nella sua anima i passi della gente in strada. La sua stanca guancia s’illuminò di sottile felicità. Ma a poco a poco quel colore di felicità s’andò spegnendo. E nel volto che impallidiva si aprirono due occhi malati. "Non capisci? Gli uomini sono tutti zoppi. Dai passi che arrivano fin qua, non c’è un solo paio di gambe che abbia un rumore coordinato, da gambe sane!". "Però! Forse è vero: gli uomini anche il cuore ce l’hanno scompagnato". "Non solo. Se i passi non han rumore sincrono, non penso sia colpa solo delle gambe degli uomini. Se l’ascolti con mente sgombra, è un rumore che testimonia d’una malattia dell’anima. E’ il rumore del corpo che tristemente concerta con la terra il giorno del funerale dell’anima". "Dev’essere così. E non solo per il rumore dei passi, ma per qualsiasi cosa, secondo come la si prende. Comunque, è la tua solita ipersensibilità". "Però ascolta, ti prego. Il rumore dei passi cittadini è malato. Non sono tutti zoppi come me? Io che ho perso una gamba e son venuto qui per provare il gusto di due gambe sane, non pensavo di scoprire invece una malattia dell’umanità. Non pensavo che mi si sarebbe insinuata una malinconia nuova. Devo andare da qualche parte a scrollarmela di dosso, questa malinconia… Proverò ad andare in campagna. Là forse l’anima e il corpo degli uomini sono più sani che in città e vi si possono sentire passi sincroni, da gambe sane". "Non funzionerà. Sarebbe forse meglio che andassi allo zoo e ascoltassi il rumore dei passi degli animali"."Allo zoo, dici? Sì, forse. Forse le zampe delle bestie e le ali degli uccelli sono più sane e il loro rumore è sincronizzato a dovere". "Ma dai! Volevo solo fare una battuta". "Dato che la malattia spirituale dell’umanità ha avuto inizio quando gli uomini si son messi a camminare eretti sulle gambe, forse è naturale che il rumore delle gambe non sia sincrono". Poco dopo, la faccia che pareva avesse perso una gamba dell’anima, con il suo arto artificiale salì in auto aiutato dalla moglie. La vibrazione delle ruote dell’auto era zoppa, e anche stavolta gli segnalava la malattia dell’anima di lei. Sul loro cammino le lampade spandevano i fiori della nuova stagione.

Il racconto è tratto da: "Racconti in un palmo di mano" di Yasunari Kawabata, Marsilio Editore.

Le gambe degli altri
commento di Nicola Rabbi

 E’ proprio vero che la mancanza di una determinata cosa ti fa capire la sua importanza, il posto che occupa in una scala di valori, così come molte volte è la perdita di qualcosa o di qualcuno che dà l’occasione di una riflessione inedita. E’ quanto capita al protagonista di un racconto giovanile dello scrittore giapponese Yasunari Kawabata (1899-1972), a cui viene amputata una gamba; ed è proprio l’oggetto di questa perdita che diventa il punto focale della sua divagazione. Nei suoi pensieri le gambe, pur appartenendo ad un corpo, sembrano vivere di una vita propria e si animano dando luogo ad una moltitudine di scene dove sono protagoniste; il mondo circostante si riduce, prende la forma di una gamba. Il passo successivo (è proprio il caso di dirlo?) del nostro personaggio è la presa di coscienza che la sua mancanza è generalizzata ed appartiene a tutti gli uomini, dato che l’umanità intera è zoppa, non certo per una colpa fisica ma per una "malattia dell’anima". Chi lo scopre o chi pensa di scoprirlo, è arrivato a questa conclusione proprio grazie alla sua mancanza più visibile delle altre. L’arto di legno denuncia un’infermità, una disarmonia comune a tutti, anche agli uomini con le gambe di carne e di ossa. Nella stessa opera dell’uomo si ritrova questa disarmonia e perfino l’automobile è zoppa come trasmettono le vibrazioni delle sue ruote. Forse solo la natura non lo è, solo la natura è immune dalla malattia come testimoniano le paulonie, con "i fiori della nuova stagione". Rimane strano il fatto che a raccontare questo sia Kawabata, un giapponese, un uomo cioè che proviene da una terra sovrappopolata, dove le metropoli si succedono alle megalopoli e dove la natura, anche lei zoppa, si riduce solo ai giardini, pur sempre belli, del Paese del Sol Levante.

Il ponte

Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

Ero rigido e freddo; ero un ponte gettato sopra un abisso. Da questa parte erano conficcate le punte dei piedi, dall’altra le mani: avevo i denti piantati in un’argilla friabile. Le falde della mia giacca svolazzavano ai miei fianchi. Giù nel profondo rumoreggiava il gelido torrente dove guizzavano le trote. Nessun turista veniva a smarrirsi in quelle alture impervie, il ponte non era ancora segnato sulle carte. Così giacevo e aspettavo, dovevo aspettare. Una volta gettato, un ponte non può smettere di essere ponte senza precipitare. Un giorno verso sera – fosse la prima, fosse la millesima, non saprei dire – i miei pensieri erano un guazzabuglio, e facevano una ridda. Verso sera, d’estate, più cupo scrosciava il torrente, ecco che udii un passo umano! A me, a me! Stenditi, ponte, mettiti all’ordine, trave senza spalletta, sorreggi colui che ti è affidato. Compensa insensibilmente l’incertezza del suo passo, ma se poi vacilla, fatti conoscere e lancialo sulla terra come un Dio montano. Egli venne, mi percosse con la punta ferrata del suo bastone, poi sollevò le falde del mio abito e me le depose in ordine sul dorso. Infilò la punta del bastone nei miei capelli folti e ve la mantenne a lungo; probabilmente egli si guardava d’intorno con aria feroce. Poi a un tratto – io stavo appunto seguendolo trasognato per monti e valli – saltò a piedi giunti nel mezzo del mio corpo. Rabbrividii per l’atroce dolore, del tutto inconscio. Chi era? Un fanciullo? Un sogno? Un grassatore? Un suicida? Un tentatore? Un distruttore? E mi volsi per vederlo. Il ponte che si volta! Non ero ancora voltato e già precipitavo, precipitavo ed ero già dilaniato e infilzato dai ciottoli aguzzi che mi avevano sempre fissato così pacificamente attraverso l’acqua scrosciante.

L’educatore-ponte
commento di Andrea Canevaro

Chi si interessa e si impegna in un’azione "impossibile" come l’educare (se stessi, prima di tutto, o dopo tutto) ha, a volte, l’impressione di essere proprio come il ponte del breve racconto di Kafka: attende che qualcuno passi (non lo accompagnerà alla meta), si serva del ponte; e nello stesso tempo desidera un riconoscimento che porta al crollo. Il desiderio è talmente legittimo, umano, comprensibile: essere guardati in faccia, riconosciuti e con questo silenziosamente, implicitamente, gratificati! Il crollo dell’abisso sembra una crudeltà. Leggere il racconto di Kafka come un piccolo apologo, porta a rinforzare l’impossibilità dell’educare. O porta a dire che il ponte deve solo condurre, qualcuno e chiunque, dall’altra parte, come ogni buon educatore, senza nessuna pretesa di riconoscimento, rimanendo sconosciuto il passante al ponte, e il ponte al passante. Di questo, il ponte deve conoscere, e ricordare, solo la punta del bastone nelle reni, il passo pesante sulla sua schiena. Questo è costretto a conoscere e ricordare, e se non sa fermarsi precipita negli abissi. Educatore-ponte: senza ambizioni pericolosissime di riconoscimenti o di conoscere ulteriori. Fermo in un elogio della modestia e dell’ignoranza della singolarità dell’altro se non come eco. E’ proprio così? Molti racconti kafkiani fissano due elementi su uno stesso piano, costruendo un incubo da cui non si esce se non con la distruzione. Si può distruggere il ponte. Ma si può distruggere, o meglio dissaldare la saldatura che di due livelli i piani – qualcuno può dire "tipi logici" – ne ha fatto uno solo. Uscire dall’incubo distinguendo. L’impegno dell’educatore è soprattutto questo (è simile all’impegno di un lettore). C’è il momento in cui si è ponte, e c’è il momento in cui si è incontro con riconoscimento reciproco. Mettere tutto in un unico momento logico vuol dire corto circuito, crollo. Si può leggere un racconto di Kafka come un apologo dell’assurdità del tipo logico unico, assoluto, istantaneo. E’ un crollo: come in chi ritiene di poter essere, nello stesso istante e nello stesso tipo logico, capo di stato, popolo in piazza, storico di sé, storico di ogni altro, profeta… Il ponte crolla. Un educatore impazzito, come la maionese.

Il giovane Holden

Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

Voglio cominciare il mio racconto dal giorno che lasciai l’Istituto Pencey.
L’Istituto Pencey è quella scuola che sta ad Argestown in Pennsylvania. Probabile che ne abbiate sentito parlare. Probabile che abbiate visto gli annunci pubblicitari, se non altro. Si fanno la pubblicità su un migliaio di riviste e c’è sempre un tipo gagliardo a cavallo che salta una siepe. Come se a Pencey non si facesse altro che giocare a polo tutto il tempo. Io di cavalli non ne ho visto neanche uno, né lì, né nei dintorni. E sotto quel tipo a cavallo c’è sempre scritto "Dal 1888 noi forgiamo una splendida gioventù dalle idee chiare". Buono per i merli. A Pencey non forgiamo un accidente, tale e quale come nelle altre scuole. E io laggiù non ho conosciuto nessuno che fosse splendido e dalle idee chiare e via discorrendo. Forse due tipi. Seppure. E probabilmente erano già così prima di andare a Pencey.
Ad ogni modo, era il sabato della partita di rugby col Saxon Hall. La partita col Saxon Hall, a Pencey, era un affare di stato. Era l’ultima partita dell’anno e pensavano che dovevi per lo meno ammazzarti se il vecchio Pencey non vinceva. Mi ricordo che verso le tre di quel pomeriggio me ne stavo là sul cocuzzolo di Thomsen Hill, proprio vicino a quel cannone scassato che aveva fatto la guerra di Secessione e tutto quanto. Di lì si vedeva tutto il campo, e si vedevano le due squadre che se le suonavano in lungo e in largo. Non si vedeva tanto bene la tribuna, ma si sentivano gli urli maledetti, cupi e tremendi dalla parte di Pencey, perché tolto che mancavo io c’era la scuola al completo, e fiacchi e isolati dalla parte del Saxon Hall, perché la squadra ospite non portava quasi mai molta gente… Io me ne stavo là sulla Thomsen Hill, e non giù alla partita, per il semplice motivo che ero appena tornato da New York con la squadra di scherma. Ero lo stramaledetto manager della squadra di scherma. Un affare di stato. La mattina eravamo andati a New York per quell’incontro con la Scuola McBurney. Ma l’incontro non c’era stato. Avevo lasciato fioretti, equipaggiamento e tutto su quella metropolitana della malora. Non era stata tutta colpa mia. Dovevo continuare ad alzarmi per guardare quella carta, se no non sapevano dove scendere. Sicché eravamo tornati a Pencey verso le due e mezzo invece che per l’ora di cena. In treno, mentre tornavamo, tutta la squadra mi aveva messo al bando. Era stato abbastanza da ridere, a pensarci.
L’altro motivo per cui non mi trovavo giù alla partita era che dovevo andare a salutare il vecchio Spencer, il mio professore di storia. Aveva l’influenza e compagnia bella, e io pensavo che probabilmente non l’avrei rivisto prima che cominciassero le vacanze di Natale. Mi aveva scritto quel biglietto per dirmi che voleva vedermi prima che andassi a casa. Sapeva che non sarei tornato a Pencey. Questo mi ero dimenticato di dirvelo. Mi avevano sbattuto fuori. Dopo natale non dovevo più tornare, perché avevo fatto fiasco in quattro materie e non mi applicavo e le solite storie. Mi avevano avvertito tante volte di mettermi a studiare, ma io niente. Sicché mi avevano liquidato. A Pencey succede spessissimo che liquidino qualcuno. E’ una scuola ad alto livello, Pencey. Altroché… Ad ogni modo, io continuavo a starmene vicino a quel cannone scassato, guardando la partita e gelandomi il sedere. Solo che alla partita badavo poco. Se me ne restavo lì era perché cercavo di provare il senso di una specie di addio. Voglio dire che ho lasciato scuole e posti senza nemmeno sapere che li stavo lasciando. E’ una cosa che odio. Che l’addio sia triste o brutto non me ne importa niente, ma quando lascio un posto mi piace saperlo, che lo sto lasciando. Se no ti senti ancora peggio.

J. D. Salinger, Il giovane Holden, Einaudi

Uno, due (o forse più) giovani Holden
commento di Mariangela Giusti

Holden è l’adolescente "diverso" per antonomasia, quello che, per motivi all’apparenza difficili da decifrare che appartengono alla sua storia di vita, si discosta dal gruppo in maniera vistosa. E’ uno dei tanti ragazzi che è facile definire "atipici" per i quali gli adulti (e la scuola in particolare) non sembrano prevedere i tempi diversi di cui avrebbero bisogno. Non a caso, quando conosciamo Holden, all’inizio del romanzo, è già stato "sbattuto fuori" da tre scuole superiori e da quel che dice non c’è dubbio che quella che sta lasciando (la quarta) sarà l’ultima. Non si riscriverà ad un’altra, ma insieme all’idea di uscire dal sistema scuola se ne fa avanti un’altra (all’inizio in modo confuso, poi sempre più invasivo): quella di uscire di scena definitivamente, messa in atto, poi, in modo non del tutto consapevole e maldestro, alla fine del libro.
Holden non riesce a trovare intorno a sé persone o punti di riferimento cui appigliarsi, la vita per lui è un accavallarsi di delusioni e fallimenti. Non accetta il conformismo, tutto gli sembra stupido, non sopporta le regole, ha costantemente "una malinconia del diavolo", non gli riesce di "cavar fuori niente da niente". Ipersensibile, ipercritico con sé e con gli altri, cinico e ironico, distrugge con lucidità i miti della classe sociale alla quale appartiene. E’ talmente convinto di valere poco e di non potercela fare che ogni tentativo di andare avanti si risolve poi nel fuggire da qualcosa o da qualcuno. La scuola, gli amici, le partite di rugby, il tifo sfegatato per la squadra, gli hobbies, le ragazze, le spacconate, i discorsi trasgressivi di sesso accompagnati da bevute di liquori che sembrano "mandare in sollucchero" i suoi compagni di stanza e di corso scorrono su di lui senza lasciar traccia o gli procurano un vero e proprio senso di nausea. Un po’ per volta si consolida dentro di lui la convinzione, espressa nei gesti come nelle parole, che non c’è niente per cui valga veramente la pena di vivere.
Quando si fa il mestiere dell’insegnante ad ogni nuovo anno scolastico si sa già che nelle nuove classi dove ci troveremo a lavorare e a convivere ci saranno uno, due (o forse più) giovani Holden, ragazzi (o ragazze), la cui storia individuale li colloca "sul limite". In questi casi l’intervento isolato di un insegnante solo qualche volta può avere un esito positivo, perduto o stemperato in mezzo a quelli più o meno disinteressati degli altri professori. E d’altra parte, un intervento mirato, individualizzato, di cui tutti si assumono la responsabilità non è consentito perché non ci sono (né ci possono essere, del resto) le "pezze d’appoggio", gli incartamenti ufficiali su cui far forza.
Sono le situazioni più difficili, quelle nelle quali la diversità non si mostra in modo palese ma c’è, profonda e radicata al punto da innescare spesso una serie di meccanismi a catena di cui è difficile prevedere l’esito.
Holden, col suo modo di fare tenero e sperduto, è un personaggio simbolo che è un po’ in tutti noi, così come Ulisse, come Penelope, come Orlando.

Il ragazzo punk

Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

Un uomo anziano stava seduto sotto il porticato ai bordi della grande piazza coperta di lastre di marmo infuocato. Laggiù, sulla scalinata di San Petronio, in ombra, un ragazzo stracciato e coi gomiti appoggiati ai gradini più alti. Era un giovane punk di campagna. Capelli rosa, camicetta a scacchi e borchie che luccicavano sulla cinghia, le gambe coperte di pelle lucida. Alla sinistra dell’uomo seduto sotto il porticato, vecchie tende biancastre e scolorite erano delle mutande tirate su per scoprire le ombre oltre le colonne. Il punk getta una manciata di granoturco sul piancito della piazza e i granelli saltellano sui marmi. Una nuvola di piccioni si precipita a terra staccandosi dai mille buchi della grande chiesa. Si azzuffano e tornano a diventare degli ornamenti pietrificati sulla facciata. Il ragazzo resta coi gomiti appoggiati allo scalino alto. L’uomo seduto sotto il porticato si accorge che una folata di vento fa rotolare sulle lastre di marmo della piazza diverse piume che i colombi hanno perso durante la piccola zuffa. Le piume e alcune penne scivolano fino al porticato, poi scavalcano i gradini a vanno a quietarsi sotto i tavoli deserti. L’uomo raccoglie una penna grigia e l’osserva. Non sa perché, ma ha come l’impressione che sia un messaggio del ragazzo punk. Poco dopo si alza per andare a prendere il treno e tiene in mano quella penna. Oltre la piazza, dove la città si riempie di porticati pieni d’ombra, lo accompagna il rumore di un barattolo che qualcuno fa rotolare sul lastricato. Probabilmente è lui, il ragazzo punk, che ha deciso di spostarsi. L’uomo raggiunge la ferrovia, sale in treno e occupa un posto accanto al finestrino di uno scompartimento vuoto. Sempre così i suoi ritorni. Ormai sono otto domeniche che parte per Bologna e gira nella città caldissima per cercare suo figlio che è scappato dal paese da tre mesi. Un ragazzo scontento di vivere in campagna nella casa circondata dal grande canneto. La moglie lo aspetta seduta sull’ultimo scalino della casa. E gli chiede: "Lo hai visto?".

Tonino Guerra, "Un vecchio con un piede in Oriente", Rimini, Maggioli Editore, 1990.

Lo ha visto davvero suo figlio?
commento di Sandro Bastia

Un piccolo dramma familiare e culturale si svolge sotto gli occhi del narratore, attento ad osservare e a rispettare quanto accade. Chi sono davvero i personaggi di questo racconto l’autore non lo dice. Le due persone che si guardano da lontano nella assolata Bologna sono davvero padre e figlio? I due davvero si scambiano messaggi? Tonino Guerra, con il suo stile fatto di piccoli particolari, di pochi dettagli precisi, pignoli, che rendono le immagini definite, nitide al punto di non capirle fino in fondo, al punto che lasciano sempre un fondo di ambiguità. La sensazione che ne ricavo è che le cose vengano descritte attraverso una serie di fotogrammi un po’ sbiaditi, quasi ci fosse un velo di fronte all’obbiettivo. Ne consegue una opacità. In questi casi togliere quel velo significa non capire più davvero cosa accade. L’opacità aiuta a capire. Questo racconto potrebbe essere tradotto con altri linguaggi, come ad esempio quello giornalistico o quello simil-burocratico di molti progetti educativi. Suonerebbe diverso e, a mio parere, falso. Non ci permetterebbe di capire cosa sta realmente accadendo, quali i sentimenti e le emozioni in gioco. E’ un velo prezioso. Permette di evitare le definizioni, "inchiodare" le persone e le cose ad un unico ruolo o ad un solo spessore, lascia delle possibili alternative, delle ambiguità che stimolano a porsi delle domande, delle attenzioni. Per capire. Un figlio che scappa, un padre che lo cerca. A Bologna, nella città grande, rovente, vuota, si ritrovano un anziano ed un ragazzo, punk. Sono davvero quel padre e quel figlio? Di sicuro sono due figure solitarie. In mezzo a loro ci sono grandi spazi, piazze, luci ed ombre, colme di vuoti e di silenzi. Sono due figure sole, ambientate in uno sfondo, la città, che le rende ancora più sole. Lontananze che però non sembrano insuperabili, i due si guardano, si rincorrono, si muovono insieme. Ma comunque restano ognuno al suo posto. Condannati, forse, a giocare dei ruoli, quelli di padre e figlio, ma anche quelli di punk e di anziano, comunque legati a doppia trama a contesti diversi che non riescono ad avere momenti di incontro. Una terza persona – ma forse è meglio dire quarta visto che forse il punk non è il figlio – assiste alla scena. Anche lei sola, lontana e legata al proprio contesto di moglie e di persona che è parte della casa, in trepida attesa su di uno scalino. E la sua domanda è solo in apparenza chiarissima. In realtà manca il soggetto: chi, o cosa, ha visto veramente?

L’occhio del lupo

Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

Il ragazzo è immobile, ritto davanti al recinto del lupo. Il lupo va e viene. Gira in lungo e in largo senza mai fermarsi. "Che scocciatore, quel tipo…". Ecco quel che pensa il lupo. Sono ormai due ore che il ragazzo sta davanti alla rete, piantato lì come un albero gelato, a guardare aggirarsi il lupo.
"Che vuole da me?"
Questo si chiede il lupo. Quel ragazzo lo turba. Non lo spaventa (un lupo non ha paura di niente), ma lo turba.
"Che vuole da me?"
Gli altri bambini corrono, saltano, gridano, piangono, fanno la linguaccia al lupo e nascondono il viso nella gonna della mamma. Poi vanno a fare i buffoni davanti alla gabbia del gorilla e ruggiscono davanti al naso del leone che frusta l’aria con la coda. Ma quel ragazzo lì, no. Rimane in piedi, immobile, silenzioso. Solo i suoi occhi si muovono, seguono il viavai del lupo, lungo la rete.
"E che, non ha mai visto un lupo?".
Dal canto suo, il lupo non riesce a scorgere il ragazzo che una volta su due. Perché non ha che un occhio, il lupo. Ha perduto l’altro lottando contro gli uomini, dieci anni fa, il giorno in cui fu catturato. All’andata dunque (se quella si può chiamare andata) il lupo vede lo zoo tutto interno, con le sue gabbie, i bambini che impazzano e in mezzo a loro quel ragazzo del tutto immobile.
Al ritorno (se quello si può chiamare ritorno) il lupo non vede che l’interno del recinto. Un recinto vuoto, perché la lupa è morta la settimana passata. Un recinto triste, con la sua unica roccia grigia e il suo albero morto. Poi il lupo fa dietrofront ed ecco lì di nuovo il ragazzo, col respiro regolare che emana vapore bianco nell’aria fredda.
"Si stancherà prima di me" pensa il lupo continuando il suo andirivieni. E aggiunge:" Sono più paziente di lui". E aggiunge ancora:" Io sono il lupo".
Ma il mattino dopo, svegliandosi, la prima cosa che il lupo vede è il ragazzo, in piedi davanti al recinto, sempre nello stesso punto. Per poco il lupo non è trasalito. "Non avrà mica passato la notte qui? … Il lupo aggrotta le sopracciglia. Gli secca porsi tutte quelle domande a proposito del ragazzo. Si era ripromesso di non interessarsi mai più agli uomini.
E da dieci anni mantiene la parola: non un solo pensiero per gli uomini, non uno sguardo, niente.
Il giorno dopo il ragazzo è sempre là. E il giorno seguente. E l’altro ancora.. Così che il lupo è obbligato a ripensare a lui.
Improvvisamente il lupo si sente molto stanco. C’è da pensare che lo sguardo del ragazzo pesi una tonnellata.
"D’accordo" pensa il lupo. "D’accordo!", "L’hai voluto tu!"
E , bruscamente si ferma. Si siede eretto, proprio davanti al ragazzo. E anche lui si mette a fissarlo. Non quello sguardo che vi passa attraverso, no: il vero sguardo, lo sguardo fisso.
Ci siamo. Adesso sono faccia a faccia. Non un visitatore, nel giardino zoologico.
Non c’è che il ragazzo. E quel lupo azzurro dal pelame azzurro.
"Vuoi guardarmi? D’accordo! Anch’io ti guardo! Si starà a vedere…". Ma c’è qualcosa che disturba il lupo; un particolare stupido: lui non ha che un occhio, mentre il ragazzo ne ha due.
A un tratto il lupo non sa in che occhio del ragazzo fissare lo sguardo. Esita. Il suo unico occhio salta da destra a sinistra e da sinistra a destra. Il ragazzo non batte ciglio. IL lupo è maledettamente a disagio; per niente al mondo stornerebbe lo sguardo, di riprendere la marcia non se ne parla.
Così il suo unico occhio impazzisce sempre più e ben presto, attraverso la cicatrice dell’occhio morto, spunta una lacrima. Non è dolore, è impotenza, è collera. Allora il ragazzo fa una cosa curiosa, che calma il lupo, lo mette a suo agio. Il ragazzo chiude un occhio. Ed eccoli là che si fissano, occhio nell’occhio, nel giardino zoologico deserto e silenzioso, con un tempo infinito davanti a loro.

Daniel Pennac, L’occhio del lupo, Salani

Raccontare ed amare
commento di Maria Grazia Berlini

Comincia con uno sguardo. Uno sguardo che non lascia indifferenti e che costringe… a guardare.
E’ uno sguardo tra un lupo che ha vissuto una vita da lupo, braccato, fuggitivo nella gelida Alaska e un ragazzo che ha attraversato tutta l’Africa, diventando un famoso narratore di storie. I due si ritrovano davanti alla gabbia di uno zoo, si fissano in silenzio. Il lupo, chiuso nella sua disperazione, guarda il mondo con un occhio solo. Allora anche il ragazzo, con estrema delicatezza, chiude uno dei suoi e, attraverso queste due solitudini, fluiscono le immagini vissute che portano alla confidenza reciproca.
Si può provare a vedere dal "punto di vista" dell’altro da sé; un punto di vista che permette di "vederne" la storia. In questa storia, poi, si tratta proprio di "chiudere un occhio" per vedere attraverso l’altro com’è il mondo fuori. E c’è un tempo lungo di attesa: ogni mattina lì… cosa vorrà da me? (Mi fa venire in mente l’incontro con adolescenti che hanno vissuto già nell’infanzia difficoltà scolastiche come un dato caratteristico – non capisco niente, così mi è sempre stato detto -non riescono a capire e sono diffidenti, come possa esistere qualcuno che si interessa a loro così come sono, per gli interessi e le passioni che hanno, e non per ciò che devono o possono realizzare nella società).
I tentativi portano Africa (così si chiama il ragazzo, identificato con il continente che ha attraversato) a decidere che potrà ascoltare solo se saprà prendersi un tempo, il tempo necessario; quello che mette l’altro nella condizione di prendere l’iniziativa: quello che si può definire gesto interrotto. Sono le situazioni nella vita che hanno portato Africa a mettere in atto la pazienza dell’attesa.
Chiudere un occhio è conseguente ad un gesto dell’altro che vuole comunicare qualcosa. Nell’ambito della pedagogia attiva si parla di meta – comunicazione: di aspetti ed atteggiamenti che possono disturbare o migliorare la comunicazione. Il gesto interrotto è un’azione intrapresa, ma lasciata volutamente inconclusa, per consentire all’altro di completarla secondo un proprio percorso.
Implica l’attesa di un completamento originale, una scelta che si intreccia con una volontà altrui, che può essere anche molto diversa da ciò che noi avevamo in mente
Per Africa il gesto di chiudere un occhio non è una rinuncia ad agire; è, invece, l’accettazione dei limiti della propria azione. Lo "costringe" a "stare in attesa"
L’attesa che Africa attiva può portarlo a comprendere l’altro.
Il significato etimologico di comprensione come "atto del comprendere, del racchiudere, afferrare, ed anche capacità di intendere e penetrare con la mente; capacità di considerare con simpatia sentimenti, opinioni, azioni altrui", porta in sé alcuni caratteri antitetici: racchiudere l’altro nell’interpretazione che do a ciò che avviene nel contesto e tra di noi, ma anche avvicinarmi alla sua originalità, a ciò che è veramente.
Ma Africa non intende incontrare il lupo per una forma di controllo o potere su di lui (in fondo, fra i due, chi può scegliere di andarsene è proprio Africa); lo incontra per le storie che il lupo può raccontargli e che non ha mai ascoltato da nessuno.
Perché "raccontare è condividere" (P. Jedlowsky) e decidere di non farlo è un modo per difendere la propria storia, la propria memoria dall’incursione di altri.
Diverso è : chi ha deciso di vedere da un solo occhio, per evitare di "scoprire" la propria storia, di doverla condividere con qualcun altro non significativo (ed anzi vissuto come minaccioso): almeno la storia rimarrà libera dalla gabbia di uno zoo e potrà rimanere incontaminata, vicino al contesto (l’Alaska in questo caso) in cui ha senso.
Quanti bambini e ragazzi decidono rispetto ai "fallimenti" (all’essere in gabbia) della vita scolastica di riservarsi uno spazio (una via di fuga) che non corrisponde alle aspettative: il fallimento attiva una via conosciuta che potrebbe non essere più abbandonata oppure, e anche questa è una possibile interpretazione, un solo occhio permette di vedere solo una parte di un mondo già spiacevole.
Nello zoo Africa trova gli animali che aveva già incontrato , liberi, in precedenza ; ne conosce le storie.
Gliene manca solo uno… il lupo grigio dall’occhio chiuso: vuole incontrare anche questo. Camminare per il mondo in questo modo, con l’ottica dell’Incontro ha fatto si che Africa abbia già incontrato alcuni degli animali portandone con sé le storie: li ha portati con sé tanto da reincontrarli in un’altra fase della sua vita. Africa è un grande ascoltatore ed è un grande "raccontatore di storie" (questo gli ha salvato la vita un po’ come a Sherezade) e saper raccontare è saper mantenere un’attesa. Raccontare è una relazione, è il bisogno di farsi sentire – ascoltare – capire.
"Si possono percorrere milioni di chilometri – ci ricorda Pino Cacucci in "Camminando".- in una sola vita senza mai scalfire la superficie dei luoghi né imparare nulla dalle genti appena sfiorate. Il senso del Viaggio sta nel fermarsi ad ascoltare chiunque abbia una storia da Raccontare".
Africa, oltre a ciò, ha ben chiaro un riferimento, che ci indica Jedlowsky: narrare ha qualcosa a che fare con l’amore. Quando si ascolta si entra con amore nella storia dell’altro; quando si decide di raccontare si permette all’altro di entrare nella propria storia.

La scoperta della lentezza

Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

John Franklin aveva già dieci anni ed era così lento da non riuscire ad afferrare la palla. Teneva la corda per gli altri. Dal ramo più basso dell’albero essa arrivava fino alla sua mano tesa verso l’alto. Lui la reggeva saldamente come l’albero, e non abbassava mai il braccio prima della fine del gioco. A tenere la corda era bravo come nessun altro ragazzo a Spilsby o in tutto il Lincolnshire. Dalla finestra del municipio lo scrivano guardava da quella parte. Il suo sguardo sembrava approvare.
Probabilmente in tutta l’Inghilterra non c’era nessuno che sapesse star fermo in piedi un’ora e più e tenere una corda. Stava immobile come una croce su una tomba, eretto come una statua.
"Come uno spaventapasseri !" diceva Tom Barker. John non riusciva a seguire il gioco, quindi non poteva fare l’arbitro. Non vedeva il momento preciso in cui la palla toccava terra. Non sapeva se era proprio la palla che qualcuno stava afferrando o se il ragazzo a cui arrivava la palla la stava prendendo o stava saltando tendendo le mani. Osservava Tom Barker. Come avveniva la presa ? Quando Tom non aveva la palla da un po’ di tempo, John sapeva : nessuno avrebbe mai potuto farlo meglio di Tom, che vedeva tutto in un secondo e si muoveva di continuo, senza mai sbagliare.
Ora John aveva una stria di muco in un occhio. Se guardava il camino dell’albergo, la vedeva sulla finestra più alta. Se fissava lo sguardo sulla croce del montante e della traversa della finestra, eccola scivolare giù sull’insegna dell’albergo. Continuava a ballare davanti al suo sguardo, sempre più in basso, ma lo seguiva beffarda verso l’alto quando guardava il cielo.
Domani sarebbero andati al mercato dei cavalli a Horncastle, lui cominciava già a rallegrarsene, conosceva il percorso.
Quando la carrozza usciva dal villaggio, dapprima traballava davanti al muro del cimitero, poi arrivavano le capanne della zona dei poveri Ing Ming, davanti alle quali c’erano donne senza cappello, solo con fazzoletti in testa. Là i cani erano magri, negli umani non si vedeva, erano vestiti.
Sherard sarebbe stato davanti alla porta e avrebbe fatto centro. Più oltre c’era la fattoria con la parete ricoperta di rose e il cane alla catena, che si trascinava dietro la propria capanna. Poi veniva la lunga siepe con i suoi due estremi, quello morbido e quello tagliente. Quello morbido era lontano dalla strada, era un lento andare e venire. Quello tagliente, proprio accanto al margine della strada, risultava netto dall’immagine come la lama di una scure. Questo era il lato sorprendente: a distanza ravvicinata era tutto un balenare e saltellare, paletti, fiori, rami. Più oltre c’erano mucche, tetti di paglia e colli boscosi, che apparivano e sparivano in una sorta di ritmo quieto e solenne. Ma i monti più lontani erano come lui stesso, stavano semplicemente là a guardare.
Lo rallegrava non tanto vedere i cavalli quanto incontrare gli uomini che conosceva, persino l’oste del Red Lion a Baumber. Là erano soliti sostare, suo padre voleva fermarsi al banco di mescita dell’oste. Allora arrivava qualcosa di giallo in un grande bicchiere, veleno per le gambe del padre, che l’oste porgeva con il suo terribile cipiglio. La bevanda si chiamava Lutero e Calvino. John non aveva timore dei visi cupi, se si limitavano a restare com’erano, senza mutare rapidamente espressione in modo incomprensibile.
In quel momento John udì la parola "dorme", e riconobbe davanti a sé Tom Barker, Dormire ? Il suo braccio non si era mosso, la corda era tesa, che cosa poteva avere Tom da ridire ? Il gioco continuava, John non aveva capito nulla. Tutto era un po’ troppo veloce, il gioco, il parlare degli altri, l’andirivieni sulla strada davanti al municipio. Era anche un giorno irrequieto. Stava appunto sfilando a grande velocità la compagnia dei giocatori di lord Willoughby, giacche rosse, cavalli nervosi, cani pezzati di scuro con code vorticose, un gran abbaiare. Che cosa se ne faceva il lord di tutto quel turbinio ? Inoltre c’erano almeno quindici polli là sulla piazza e i polli non erano gradevoli. Si comportavano in modo da giocare scherzi alla vista. Dapprima stavano immobili, poi raspavano, beccavano, si bloccavano di nuovo come se non avessero mai beccato, fingevano sfacciatamente di non essersi mossi da alcuni minuti. Se guardava un pollo, poi l’orologio del campanile, poi di nuovo il pollo, lo vedeva immobile e in guardia come prima, ma nel frattempo il pollo aveva beccato, aveva mosso la testa, girato il collo, fissato gli occhi altrove, tutta una finzione! Anche il funzionamento sconcertante degli occhi : che cosa vedeva in realtà un pollo?

Sten Nadolny, la scoperta della lentezza, Ed. Garzanti

Lentamente, per capire
commento di Gabriella Giornelli

Sono diverse le scoperte, attinenti alla lentezza, che il libro prende in considerazione:
la prima si riferisce a quando John Franklin scopre di essere lento, troppo lento rispetto agli altri ; il confronto con compagni di gioco e fratelli è nettamente a suo sfavore.
Sa che non potrà mai essere come Tom Barker, né come chiunque afferri la palla con tanta velocità, per lui è un mistero come avvenga la presa, mentre per gli altri è facile e naturale.
Palla-mano-terreno-occhio ; tutto si muove in modo troppo veloce, impossibile seguire gli stessi tempi. L’occhio salta da un punto all’altro, ma secondo quali regole ? Non le conosce.
Per un mondo che è organizzato in modo da valorizzare la velocità, lui è un diverso.
"Tardone" " Stupido " lo chiamano i compagni di gioco, " Ecco lo scemo che arriva " dice suo padre, e lo mena, per aiutarlo a capire che la lentezza è una colpa.
Già in queste prime pagine del romanzo di Nadolyn ci sono tutti gli elementi che accompagnano la diversità : il paragone con la cosiddetta normalità, la derisione di chi appartiene al gruppo dei più, la preoccupazione del genitore per il futuro del figlio insieme alla non accettazione della sua particolarità e infine la ricerca di una motivazione dell’essere diverso "Ha molto della madre", una delle madri più lente in assoluto.
Tutto questo però viene raccontato attraverso gli occhi di John, con pacatezza, senza rancore, egli che cerca solo di capire com’è lui e come invece funziona il resto del mondo, per farsi una ragione di sé e degli altri, per trovare una propria collocazione.
In questo contesto John ci dà un’anticipazione delle sue peculiari potenzialità. Mentre rimane per un tempo indefinito fermo con la corda, fino ad essere scambiato per uno che dorme, osservando il mondo circostante con puntigliosa ostinazione, ci dimostra di essere capace di fare gesti che al gruppo dei compagni sono vietati : sa fermare lo sguardo, trattenere i muscoli, confrontare orizzonti osservandoli da più punti di vista.
Gli altri, occupati a far perdurare la normalità, che procede con ritmi veloci, non si accorgono di nulla ; quello che lui vede, a loro sfugge.
La seconda scoperta, in riferimento alla lentezza, è che questa diventa per John un punto di forza per realizzare azioni al di fuori della norma ; una volta arruolato nella marina può vedere particolari che solo lui sa cogliere, fino a diventare bravo guardiamarina, poi capitano e infine uno dei più grandi esploratori artici. Perché ad azioni eccezionali corrispondono doti assolutamente non comuni, come lo sono quelle che genera una lentezza esercitata.
Esistono due modi di guardare, dirà John: uno sguardo fisso, che segue soltanto il piano stabilito e rende veloci al momento, e uno sguardo che sa cogliere i dettagli, che sa scoprire quanto c’è di nuovo.
Il primo modo di osservare le cose è quello veloce, che già segue un progetto che si ha in mente : è uno sguardo fisso, che rende pronti all’azione, perché sa vedere al di là di quanto sta semplicemente osservando.
E’ lo sguardo che non ha bisogno di scoprire, perché sa già tutto. Va bene per la guerra, dice John, perché è lo sguardo di chi nuoce agli altri per salvare se stesso.
Il secondo invece è lo sguardo rivolto a cogliere con cura i piccoli segnali, i cambiamenti che denotano la differenza; è lo sguardo di chi sa che il mondo esterno, gli altri non sono mai come ce li configuriamo, di chi è pronto ad imparare continuamente dallo stesso ambiente che sta osservando, perché è consapevole che non avrà mai imparato abbastanza e per far questo allena il suo sguardo a rinnovarsi.
Essendo uno sguardo che si esercita nel cogliere le differenze, finisce anche col nutrirsi di queste e col vederne l’utilità, i vantaggi.
John Franklin capirà prima di altri il valore di popoli diversi da quello inglese, sia che si trovi nell’America Settentrionale Artica o all’interno del continente australiano. Non ha pregiudizi, sa imparare da loro, perché è pronto a capirlo il mondo, non a cambiarlo.
In lui la lentezza quindi si trasforma in un grande pregio, fino a diventarne la dote principale, quando sarà governatore: "…Perché dotato di calma e distacco….non si cura di ciò che richiede sveltezza, ma riflette a lungo sui singoli dettagli….non si pone scadenze, ma si fa carico delle cose… il suo ritmo particolare, il suo lungo respiro lo difendono da tutte le apparenti urgenze, da tutte le soluzione effimere".
La terza scoperta (compresa già nelle altre) il libro ci invita a farla in riferimento al nostro modo di vivere, lavorare, pensare. Senza dubbio la maggioranza di noi appartiene al gruppo di chi vede nelle velocità un pregio e giudica perdente chi procede lentamente. Tutta la nostra società è organizzata in modo da rendere sempre più veloce, pressante il ritmo dell’apprendimento e della produzione. O ci si incanala, seguendo il flusso veloce della maggioranza, o si è tagliati fuori. La lentezza nell’esecuzione è metro di selezione sia a scuola che nel lavoro. Chi non riesce a sostenere la scansione del tempo imposta dalla vita sociale rischia di esserne escluso. Non solo, ma noi tutti siamo esercitati nello sguardo fisso : ossia siamo diventati abili a guardare senza vedere, perché già presi nel vortice dei preconcetti che guidano abitualmente le nostre azioni e da cui veniamo spinti ad andare oltre quello che scorgiamo, verso mete già precostituite. Seguiamo in questo avanzare il ritmo collettivo sempre più incalzante, finendo col perdere il nostro ritmo individuale.
Mi viene da pensare, allora, allo scarto che facciamo con questo modo di procedere, ai valori umani irrimediabilmente perduti, alle occasioni mancate perché mai scorte, ai bambini lenti che tardano ad imparare, subito segnalati come diversi a scuola, e che guardano stupiti ed arresi i compagni più veloci.
E non posso fare a meno di riflettere sugli esploratori persi, sui tanti Franklin messi da parte, magari troppo lenti per coordinare movimento – occhio – palla, ma che sanno vedere ciò che a noi, nel veloce avanzare, sfugge.

In Fuga

Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

Il tempo è una guida cieca.
Figlio della palude, nacqui dalle strade fangose della città sommersa. Per più di mille anni, soltanto i pesci avevano passeggiato sui marciapiedi di legno di Biskupin. Le case, costruite rivolte verso il sole, furono allagate dalla limacciosa oscurità del fiume Gasawka. I giardini fiorirono magnifici nel silenzio subacqueo; ninfee, giunchi, stramonio.
Nessuno nasce una volta sola. Chi è fortunato, vedrà di nuovo la luce tra le braccia di qualcuno; oppure, se sfortunato, si sveglierà quando la lunga coda del terrore sfiorerà l’interno del suo cranio…
Mia sorella crescendo si era fatta molto più grande del nascondiglio. Bella aveva quindici anni e perfino io dovevo ammettere che era incantevole, con sopracciglia folte e splendidi capelli che erano come uno sciroppo nero, spessi, magnifici, un muscolo lungo la schiena. " Un’opera d’arte ", diceva nostra madre, e Bella si sedeva e lei glieli spazzolava. lo ero ancora abbastanza piccolo da scomparire dietro la carta da parati nell’armadio, e incastravo la testa mettendola di sbieco tra l’intonaco che mi soffocava e le travi che stregavano con le ciglia.
Erano bastati pochi minuti dentro al muro, perché mi convincessi che i morti perdevano ogni senso tranne l’udito.
La porta sfondata. Il legno divelto dai cardini, che cede come ghiaccio sotto le urla. Rumori mai sentiti prima, strappati alla gola di mio padre. Poi silenzio. Mia madre era intenta a riattaccarmi un bottone sulla camicia. Sentii il bordo del piattino disegnare cerchi sul pavimento e poi fermarsi. Sentii la pioggerella di bottoni, come dentini bianchi…
L’oscurità mi riempii, si diffuse da dietro la testa fino agli occhi come se mi avessero perforato il cervello. Si diffuse dallo stomaco alle gambe. Presi a deglutire e seguitai, inghiottendola tutta. il muro si riempì di fumo. Uscii a fatica, con gli occhi sbarrati, mentre l’aria si incendiava.
Volevo andare dai miei genitori, toccarli. Ma non potevo, a meno di calpestare il loro sangue.
L’anima abbandona il corpo all’istante, come se non vedesse l’ora di liberarsene: il volto di mia madre non era il suo. Mio padre era caduto bocconi. Due forme in quel mucchio di carne, le sue mani…
Correvo e cadevo, correvo e cadevo. Poi il fiume: così’ freddo che sembrava tagliente.
Il fiume era parte della stessa oscurità che era dentro di me; soltanto la sottile membrana della mia pelle mi teneva a galla.
Dalla riva opposta guardai l’oscurità illuminarsi di arancio e porpora sopra la cittadina; il colore della carne che si trasforma in spirito. Si alzarono in volo. I morti passarono sopra di me, strani archi e aureole che offuscavano le stelle. Gli alberi si piegavano sotto il loro peso. Non ero mai stato da solo nella foresta di notte, i rami nudi e selvatici sembravano serpenti gelati. La terra tremò e io non mi ressi. Mi straziava il desiderio di unirmi a loro, di volar via con loro, di staccarmi dalla terra come carta che si scolla lungo i bordi. lo so perché seppelliamo i nostri morti e segniamo il posto con la pietra, con la cosa più pesante e durevole a cui riusciamo a pensare: perché i morti sono dappertutto tranne che sotto terra. Restai dov’ero. Viscido per il freddo, incollato a terra. Implorai: Se non posso volare via, allora fammi sprofondare, sprofondare nella foresta come un sigillo nella ceralacca.
Mi ero imposto degli obblighi. Camminare di notte. La mattina scavarmi il giaciglio. Mangiare qualunque cosa.
Le mie giornate nascosto nella terra erano un delirio di sonno e veglia. Sognai che qualcuno trovava il bottone che avevo perduto e veniva a cercarmi. In una radura di bozzoli aperti che spargevano in aria il bianco che avevano dentro, sognai del pane; quando mi svegliai, mi doleva la mascella per quanto avevo masticato l’aria. Mi svegliavo per paura degli animali, e ancora di più per paura degli uomini.
In questo sonno diurno mi ricordavo di mia sorella che piangeva alla fine dei romanzi che amava; la sola concessione di mio padre – Romain Rolland o Jack London. Mentre leggeva assumeva l’espressione dei personaggi come se indossasse una maschera, stregando col dito il bordo della pagina. Prima di imparare a leggere, arrabbiato perché mi sentivo escluso, la stritolavo tra le braccia, chino su di lei guancia a guancia, quasi come per vedere in quelle piccole lettere nere il mondo che vedeva Bella. Lei allora si liberava scrollandosi oppure, buona com’ era, si fermava, posava il libro a faccia in giù sulle ginocchia, e mi spiegava la trama … il padre ubriaco che tornava a casa barcollando … l’amante tradito che aspettava invano sotto le stelle … il terrore dei lupi che ululavano nella notte artica, facendomi tremare le ossa sotto i vestiti. Certe volte la sera mi sedevo sul bordo del letto di Bella e lei mi controllava l’ortografia, scrivendomi sulla schiena col dito e, quando avevo imparato la parola, cancellandola delicatamente con una morbida carezza…
La foresta di notte è incomprensibile: ripugnante e infinita, ossa sporgenti e capelli appiccicosi, melma e odori gelatinosi, radici che spingono verso la superficie come vene sclerotiche…
Un grigio giorno d’autunno. Allo stremo delle forze, al punto in cui la fede somiglia quasi alla disperazione, saltai fuori dalle strade di Biskupin; dal sottosuolo all’aria aperta. Mi avvicinai a lui zoppicando, rigido come un golem per l’argilla indurita dietro le ginocchia. Mi fermai a pochi metri da dove stava scavando – dopo mi disse che era come se avessi sbattuto contro un porta a vetri, una superficie d’aria solida e invisibile "e la tua maschera di fango si ruppe, bagnata dalle lacrime, e io capii che eri un essere umano, appena un bambino. E piangevi con la foga propria della tua età".
Disse di avermi parlato. Ma lo ero fuori di me per la sordità. Le mie orecchie otturate dalla torba.
Ero così affamato. Urlai nel silenzio l’unica frase che sapevo in più di una lingua, l’urlai in polacco e in tedesco e in yiddish, battendomi i pugni sul petto: sporco ebreo, sporco ebreo, sporco ebreo.

Anne Michaels, In fuga, Giunti

La paura di Jacob
commento di Giovanna Di Pasquale

Jakob è solo. Ha paura. Senza più ieri, senza ancora domani.
Jakob è il suo corpo, tremante, incrostato della terra che gli ha dato temporaneo rifugio.
Jakob è un bambino che ha conosciuto il nulla.
Anche Athos è solo ma ha un grande, caldo cappotto a proteggere il corpo adulto.
Athos ha bisogno di sentirsi avvolto nella morbida coperta che attenua il disagio dell’essere in una terra straniera ed ostile.
È un cappotto corazza ma anche un cappotto grembo materno che accoglie Jakob e lo porta con sé dentro un’altra storia, un’altra possibilità.
La sera in cui per la prima volta ho conosciuto l’incontro di Jakob e Athos ho pianto molto e molto sorriso perché è proprio vero che, in alcune occasioni, leggere è davvero come diceva Natalia Ginsburg dello scrivere, sentirsi a casa e ritrovare qualcosa di profondamente tuo.
Ad esempio antiche paure: essere soli, soli davanti al male che non ha ragione, che tutto travolge di quella nostra vita quieta e tiepida, che non è più; ma anche una speranza mai vinta: trovare qualcuno che ci consoli, che allevi la fatica, che ci porti al sicuro nascosti dentro ad un vecchio cappotto.
E questo non perché siamo figli o amici di lunga durata ma nel ricordo della comune sorte di esseri viventi, del respiro che ci affratella.
Sono grata ad Athos adulto che non indietreggia, che si salva salvando senza un perché razionale, solo per aver guardato in faccia chi gli stava davanti.
E mi piace di questa storia l’intravedersi lontano di un richiamo. A volte, senza determinismo anzi per la più pura delle casualità, da qualcosa di profondamente brutto nasce qualcosa di profondamente buono.
La rinascita di Jakob mi ha riportato dentro le orecchie le parole delle ragazze e dei ragazzi dell’Istituto Salvemini a Casalecchio di Reno, quando constatavano la nascita di un nuovo, più forte, senso di vicinanza e solidarietà dopo ciò che in modo così doloroso li aveva coinvolti.
Segni piccoli, gli unici credo possibili in questo nostro tempo che testimoniano ancora di come sia vitale "rendere l’amore necessario anche nei periodi più bui e lacerati".

Il piccolo principe cannibale

Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

Imparare ad amare e tentare di guarire un bambino autistico è molto più semplice quando lo si immagina come un Principino. Imparerò il tuo linguaggio. Penetrerò nel tuo silenzio. Dimenticherò ciò che credo di sapere. Ti amerò. Ti rispetterò infinitamente. Rispettandoti io, anche gli altri ti rispetteranno. E’ spettacolare. Al di fuori dei litigi così violenti, ci siamo abituati a parlarci con calma. Per la strada o altrove la gente si chiede chi sia questo ragazzino a cui mi rivolgo con tanta deferenza. Mi è capitato di rispondere: "Ma come, è il Principe Sylvestre! Non lo sapeva? Vive in un misterioso regno, dove è l’unico a conoscere le strade che portano ad un tesoro nascosto. A volte accetta di disegnare una pianta. Ama disegnare. Ma attenti ai tranelli! Ama anche moltissimo vedere gli altri cadere nelle trappole!". Non m’importa sapere ciò che gli psichiatri pensano o non pensano di questi giochi in cui sei sempre un altro. E’ un metodo che ti fa progredire, perché "l’altro" mi dice cose su Jean che si è lasciato lì nel suo cimitero. Jean, che secondo te "non è molto interessante e bisogna dimenticarlo". Soffro tanto quando penso a Jean, ma so che rinascerà. So anche che non devo parlartene. In fondo sono fortunata a poter comunicare nei momenti in cui decidi di essere un altro. Sei sempre tu a decidere quando il gioco comincia. Quando finisce. Sei tu che distribuisci i dadi. Mi piace seguirti nei sentieri del tuo regno. Non ho paura di questo irrompere di parole di cui sono l’unica testimone. L’unico orecchio. Non è meglio pensare che sei un Principino invece di un bambino psicotico che presenta disturbi del comportamento e forti tendenze autistiche? Queste etichette non m’interessano, etichette così tristi e così anonime come le pareti di un ospedale. Di fronte a te, sono davanti ad un essere che bisogna salvare, un essere sepolto sotto le macerie. Un murato vivo. Strapparti via di là. Liberarti da quelle pietre aggrovigliate.   Estrarti da questa città morta. Ogni mattina respingo il fiume di parole che vorrebbe ingrossare il libro interrotto. Certo, non mi lasci il tempo. Né lo svago. Né l’aria. Né il fiato. Ma ho scelto. Ti ho scelto. Apro la finestra per respirare, come prima di affrontare un dolore. Apro la finestra per far uscire tristezza, inquietudine, lo strazio di non aver tempo per scrivere. Non aver tempo per riflettere. Non avere il gusto di respirare solo per me. Se gonfio i miei polmoni, è per te. E’ per trasformare questo ossigeno in pazienza. In amore. In resistenza. Durante questi quattro anni, il più duro è stato quello in cui ho subito non il tuo mutismo e il tuo silenzio, ma le tue grida atroci e le tue rabbie pazzesche. Credo che avrei potuto ucciderti perché tu smettessi di urlare così, facendomi diventare pazza. Per me le cose sono diventate più sopportabili quando ho smesso di affrontarti e ti ho immaginato urlante dentro le tue mura, invisibili per gli altri, ma che si restringevano attorno a te. Allora ho smesso di urlare a mia volta. Non ho più avuto questa voglia di picchiarti né di fracassarti la testa a causa delle tue urla mostruose, stridenti, ripetitive, che erano una tortura. Pensavo di perdere la ragione mentre urlavi. Capisco l’espressione "vedere rosso". Ho visto rosso più di una volta. Ma dal giorno in cui ho fatto tacere queste pulsioni d’infelicità e quando ti ho guardato mentre urlavi nel tuo deserto, mi sono servita di tutto per andare verso di te, per fartelo sentire e sapere. E perché tu mi vedessi, infine. Mi sono servita delle mie mani. Dei miei capelli che sono lunghi. Della mia bocca. Della mia lingua. Dell’acqua tiepida. Della doccia. Del profumo. Di Mozart. Delle mie braccia. Delle mie lacrime. Della mousse di cioccolato. Della mia forza. Del mio alito. Dei miei denti. Come dopo una lotta, un corpo a corpo senza pietà, t’inchiodo a terra. Ti cavalco e ti tengo fermi i polsi. Scandisco le sillabe del tuo nome. Aspetto che tu non gridi più. Allora allento la presa, prendo le tue mani nelle mie e le passo sul mio viso, fra i miei capelli. Ti dico che anch’io piango, a volte. Ti dico ancora: "Sei mio figlio! Il mio bambino. So che mi senti. Se capisci, muovi la mano. Così!". E ti faccio una smorfia. Subito distogli lo sguardo per nascondermi l’abbozzo del tuo sorriso… Jean! Sylvestre! Ascolta. Ti amo. Parlerai. Masticherai. E a sei anni frequenterai il corso preparatorio della scuola del paese. Le mie giornate sono solo fatte di TE. TE. TE. T’insegno i colori, gli odori. T’insegno a non avere più paura. Registri con una rapidità fenomenale. A cinque anni, quando hai pronunciato le tue prime parole, ti ho parlato di amici o di conoscenze, ti ricordavo un tale avvenimento, un tale artigiano venuto a fare una riparazione, un tale amico venuto dall’estero che ci rendeva visita. Quando avevi soltanto due anni, con mio grande stupore, mi ripetevi i nomi, anche quelli più complicati. Così, durante tutto questo periodo di silenzio, avevi osservato tutto, integrato tutto. Ho messo a profitto le tue capacità di ricordare. A tre anni sapevi già leggere le note, l’alfabeto e le cifre. Siccome non parlavi, avevi elaborato un sistema di schede che scambiavamo e di scrittura a colori sulle pareti della tua stanza; ciò sembrava piacerti molto. Fammi vedere la lettera G. Ed ora il numero 8. Portami le due lettere che formano il suono PA. E via di seguito. Stessa cosa per i colori. Il nome degli alberi. Dei fiori. Degli animali. Si trattava, per me, di guadagnare tempo sull’anno scolastico obbligatorio. Quella scuola a cui bisognerà rendere conto. Ero l’unica a conoscere tutti i progressi che si compivano. Nessuno poteva verificare ciò che affermavano, perché non facevi più niente in presenza di una terza persona, anche intima, o allora sbagliavi tutto apposta. Sembrava che raccontassi storie. Spesso leggevo negli occhi degli altri una lieve commiserazione. Il rovescio di questo metodo, che consisteva nel servirsi della tua prodigiosa memoria, fu di impedirti di ancorarti ad una specie di automatismo. Difatti se avessi scritto la A vicino alla porta della tua stanza e se il numero 10 scompariva dietro la doppia tenda della finestra, non accettavi che si potessero usare tutti questi segni altrove che al loro posto iniziale. Bisognava sempre rompere questi meccanismi. Inventare altri percorsi, affinché tu ammettessi il fatto che l’alfabeto poteva essere letto fuori della tua stanza, e per non sentirti più dire: "A, che è vicina alla porta. 10, nascosto dalla tenda. Z, come Zorro, vicinissimo al pavimento". Quando impari qualcosa di nuovo e io rompo lo stampo per insegnartelo in un altro modo, ciò avviene non senza provocare danni in altri campi. Me la farai pagare sempre molto cara, la tua esperienza.

Francoise Lefevre, "Il piccolo principe cannibale", Padova, Franco Muzzo Editore, 1993.

La forza delle parole
commento di Giovanna Di Pasquale

 Un libro racconta una storia. Ma anche la storia di come si è giunti a raccontare quella storia. E’ un incastro di scatole cinesi che lascia al lettore la libertà di inventarsi un modo di accostarsi alle pagine e di seguire esplorazioni meno consuete. Anche questo libro racconta una storia: una madre e un bambino, piccolo principe cannibale, ed i misteri della quotidiana vicinanza. Accanto, e spesso ingarbugliate come matasse di lana, corre un’altra storia: quella di una donna, scrittrice, che non vuole abbandonare i suoi progetti ma che ha paura di ciò che sente. Forse perché se una donna vuole scrivere occorre che abbia "una stanza tutta per sé" ed anche un forte sentimento della propria persona.  La contrapposizione è rifiutata e nell’intreccio le storie si disegnano in una sola macchia, l’esperienza diventa materia attorno a cui imbastire la trama della narrazione. Ed ecco che la donna-madre-scrittrice inizia il suo racconto. Racconta la ricerca di parole con cui esprimere ciò che vive come madre di un bambino che è lontano, distante dalla realtà e dai suoi linguaggi usuali. Racconta la scoperta di se stessa e dell’altro, il costituirsi di una coppia che si erge solitaria di fronte ai giudizi, lontani dalla comprensione, che gli altri lanciano con gli occhi e con i gesti. La storia diventa allora e soprattutto ricerca di senso per la sofferenza provata, ricerca che ha bisogno di una lingua per dirsi, per affermarsi con significato. Francoise ha bisogno di trovare le parole. E le cerca nella testa e nel cuore nella mente e nel corpo. La parola che è senso e segno, che è azione e riflessione. La parola che ha un peso ed un valore se è capace di mettere radici nel silenzio, di avere limiti. Se accetta di non rappresentare l’universalità delle cose ma la parzialità dei punti di vista e l’aderenza alle esperienze vissute. La parola frammento, lontana dai proclami e vicina alla vita.

Il poeta continua a tacere

Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

" Il primo dubbio venne solo quando aveva tre anni. Le ragazze dissero:
"E’ un ritardato", perché si muoveva a fatica, non parlava, ma balbettava, era privo di grazia, una creatura goffa. E i nostri amici esaminavano attentamente il suo aspetto, cercando di trovare dei segni chiari di ciò che non osavano esprimere.
Non ricordo bene questo periodo della sua vita. Ero occupato con i mali di sua madre, che si stava rapidamente spegnendo. Perché dopo quel tardo concepimento non c’era più lei, ma i suoi resti. Dovevamo vederla mentre si allontanava da noi, per andare nel deserto, costretta ad avanzare, da sola, tra colline aride e desolate, e sparire nella nebbia, nell’oscurita’.
Giorno dopo giorno si notava il suo cambiamento. Quando sua madre mori’, il bambino aveva sei anni. Camminava male, non era attaccato a nessuno della famiglia, viveva solo con sé stesso, ma senza essere un sognatore; assolutamente non era un sognatore. Sempre afflitto, inquieto. Se gli carezzavano i capelli si ritraeva.
Vorrei dire pietosamente: un orfano. Ma la lingua si ribella. La perdita di sua madre non gli fece alcuna impressione, anche se, per mia distrazione, venne con noi alla sua sepoltura. Non chiese mai di lei, come se avesse capito che il suo distacco era definitivo. Di più, qualche mese dopo la sua morte sparirono tutte le sue fotografie che erano in casa, e quando, dopo qualche giorno, ci accorgemmo della scomparsa, non pensammo di rivolgerci a lui. Quando lo facemmo, era tardi. Prima che fosse buio, ci portò al luogo della sepoltura; in un angolo del giardino, sotto un pioppo, tra i resti di un antico pozzo di cemento, avvolti in un vecchio straccio, c’erano i brandelli delle fotografie.
Stette a lungo davanti a noi, sotto i rami, balbettando eccitato, mentre i suoi occhietti si muovevano agitati.
Malgrado ciò la cosa non si spiegava.
Per la prima volta aprimmo gli occhi: di fronte a noi c’era un piccolo disperato. Non mi trattenni, e lo picchiai, per la prima volta. Lo presi con forza per il polso, e lo colpii dritto sul viso. Poi lo picchiarono le ragazze (perché lo picchiarono?).
Lui non capiva.
Accolse le botte con stupore. Poi cominciò a piangere, cadde a terra. Lo sollevammo e lo trascinammo a casa…
… Ma la sera a casa sono preso dalla disperazione. Sto con lui intere ore davanti al libro aperto, e non ne ottengo niente. Lui sta accanto a me, non si muove, ma le mie parole galleggiano come olio sull’acqua. Quando lo lascio andare torna in camera sua, e prepara i compiti in mesoterma. Poi chiude i quaderni, li infila nella cartella, e la chiude.
Qualche mattina, quando dorme ancora, gli apro la cartella e guardo i suoi quaderni. Rimango di sasso a vedere le risposte che scrive, fantasie, e mi spavento davanti agli esercizi di aritmetica, strani segni tracciati con applicazione, al di là della logica.
Ma non dico niente, non lo rimprovero. Mi basta che si alzi tutte le mattine per andare a scuola, senza rumore, e sieda al suo ultimo banco.
Non raccontava niente di quello che faceva a scuola. Né io glielo chiedevo.
Va silenziosamente, e silenziosamente torna. Ci fu un breve periodo, mi pare il suo quinto o sesto anno di scuola, in cui i compagni lo maltrattavano. Era come se lo avessero improvvisamente scoperto, e cominciarono a dargli fastidio. Durante l’intervallo i bambini della sua classe e le bambine, senza distinzione, gli si avvicinavano e gli davano dei pizzicotti, come se volessero vedere se esisteva davvero, se era una persona e non uno spirito dell’oltretomba. Malgrado ciò continuò ad andare a scuola, e su questo insistetti anch’io.
Dopo qualche settimana lo lasciarono di nuovo in pace.

A.b. Yehoshua, Il poeta continua a tacere, Ed. la Giuntina

La scrittura e la speranza
commento di C. M.

Un vecchio poeta che ha ormai rinunciato a scrivere ("quel che dovevo scrivere, l’ho già scritto") consegnandosi al silenzio e il figlio "diverso", isolato dalla malattia mentale. Padre e figlio rimasti entrambi senza la parola. Il romanzo breve di Yehoshua è ambientato in Israele negli anni sessanta ed è centrato unicamente su due figure solitarie e sul loro faticoso, spesso assente, rapporto. E’ il padre poeta che racconta, con tono dimesso ma efficace, la sua rinuncia alla poesia, il senso di vuoto che questa scelta ha lasciato in lui e, contemporaneamente, la storia del suo rapporto con il figlio, i tentativi, spesso falliti, per superare l’isolamento di quest’ultimo, il suo silenzio, la sua diversità.
Il poeta narra la lenta, ansiosa scoperta della malattia del figlio durante l’infanzia, il suo non-inserimento nella comunità scolastica, l’adolescenza difficile, la solitudine che, con il passar degli anni, finisce per sembrare un destino. La moglie muore, le altre due figlie si sposano, il dono della poesia a poco a poco svanisce, gli amici di un tempo si allontanano e alla fine rimangono solo loro due, padre e figlio.
Kafka diceva che i grandi libri colpiscono come un pugno e Il poeta continua a tacere è un romanzo duro, senza lieto fine, che solo a tratti lascia qualche spiraglio alla speranza, alla dolcezza del vivere. Yehoshua racconta soprattutto la difficoltà di convivere con la "diversità" (in questo caso la malattia mentale che, tra l’altro, non viene mai descritta con precisione ma solo per accenni), il faticoso e oscuro scorrere dei giorni, degli anni, i piccoli dolori, le silenziose sconfitte.
E tuttavia il poeta osserva il figlio, scrive di lui, cerca di penetrarne il silenzio e l’isolamento. Genitore e figlio sono accumunati dalla rinuncia alla parola. Chi non usa il linguaggio comune, i codici della maggioranza è destinato alla solitudine, che si tratti di un poeta un tempo famoso o di un malato.
Eppure, proprio alla fine del libro, il figlio si accosterà al linguaggio componendo faticosamente piccole poesie, brevi versi che esprimono il mondo che ha dentro, altrimenti condannato al silenzio. Il figlio ha intuito, nelle opere del padre come in altre poesie, una (possibile) via di salvezza, l’immensa ricchezza che ha in sé l’espressione artistica, la possibilità di salvarsi che accompagna lo scrivere.

Frantumi

Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

Alla fine, dopo molto tempo, venne una donna, un’altra, mi mise un orsacchiotto di peluche in braccio e disse: "Abbiamo trovato un posto in orfanotrofio anche per te, però dobbiamo proseguire con il treno. Spicciati, ci aspettano per il pranzo!".
"Voglio tornare dalla signora Grosz" mormorai piangendo.
Quella scosse la testa e mi guardò perplessa.
"Chi è la signora Grosz?"
Oh! Mi ero quasi tradito. Strinsi forte i denti. Non risposi, sollevai solo le spalle e lei mi fece alzare dalla panca.
Quella donna non indossava un’uniforme. E così presi il fagotto e l’orsacchiotto di peluche, e corremmo al treno.
Arrivammo in ritardo all’orfanotrofio. Mi condussero in uno stanzone dove, proprio in quel momento, gli ultimi bambini stavano allontanandosi da un lungo, grandissimo tavolo. Devi aspettare qui, ha detto qualcuno. Guardai verso il tavolo. Se ne erano andati tutti, lasciandomi solo.
Il tavolo offriva uno spettacolo inconsueto. Era coperto da un grande telo che scendeva ben oltre i bordi. Sul piano c’erano ancora i piatti dei bambini. Li avevano semplicemente abbandonati. Però non erano i soliti piatti di latta grigia. Erano piatti bianchi… Piatti così belli per dei bambini? Ero stupito e mi avvicinai. Quello che vidi mi fece restare di stucco, mi sembrava inconcepibile, ma non c’era il tempo di pensarci. Dovevo agire, e in fretta.
I bambini non avevano svuotato i piatti! Avevano lasciato degli avanzi, delle striscioline di cibo sul bordo. Ce n’erano dappertutto… e sembravano proprio abbandonate.
Mi guardai attorno: non c’era nessuno. Mi nascosi rapidamente sotto il tavolo, al riparo della tovaglia; sollevando un braccio cominciai a tastare alla ricerca dei piatti e raccolsi le striscioline avanzate. Ne ficcai in bocca più che potei, ne misi nelle tasche e nella camicia più che potei. Erano dure, ma avevano un sapore meraviglioso; a parte il pane, erano la cosa più squisita che avessi mai annusato e mangiato. Mi sentii invadere da una sorta di ebbrezza. Dovevo procurarmene altre, e altre ancora, tante quante ce ne stavano nella camicia.
Potevo mangiarne a sazietà, pensai, e farne provvista per un’intera settimana, forse anche di più!
Riuscire a trovare in così poco tempo tanta roba da mangiare da poterne vivere tranquillamente per parecchi giorni… mi sembrava inconcepibile.
Pensai: che bambini scemi! Come si può essere così stupidi da lasciare del cibo incustodito! Sembra proprio che non se ne rendano conto. Forse sono dei novellini e non sanno che sopravvive solo chi mette qualcosa da parte, chi trova un buon nascondiglio, chi difende il suo cibo. Non lasciare mai incustodita la roba da mangiare! Jankl me lo diceva sempre.
Questo pensavo, e intanto masticavo, rimasticavo, e col naso aspiravo quell’odore meraviglioso, quando improvvisamente una mano mi afferrò il braccio che stavo allungando per cercare a tastoni un altro piatto. Mi tirarono fuori da sotto il tavolo con un forte strattone.
Ero seduto sul pavimento, con la bocca piena, strette nei pugni le ultime squisite striscioline, e vidi due grossi polpacci e l’orlo di un camice bianco. Un secondo strattone, e mi misero in piedi. Alcune striscioline mi caddero dalla camicia. Alzai la testa. Guardai dritto in due occhi chiari, sbarrati e feroci. Questi guardarono prima il pavimento, alla ricerca delle striscioline che mi erano cadute, quindi i miei pugni, poi la bocca piena dalla quale mi colava la saliva, e, dopo un attimo di muto stupore, risuonò un’esclamazione furibonda:
"Croste di formaggio! Qui c’è uno che mangia croste di formaggio! Che schifoso!"
Non sapevo che cosa fosse uno schifoso, ma il significato lo capii… no, non lo capii. Quella storceva la bocca per il disgusto.
Perché dovrebbe essere proibito mangiare roba che nessuno sorveglia e che per di più ha un sapore così meraviglioso? Che quelle striscioline fossero sue? Vuole forse prendermele per mangiarsele?, mi domandai.
Mi divincolai e scappai, fermamente deciso a difendere con ogni mezzo il mio bottino. E così corsi per tutta la sala, feci il giro del tavolo, ci passai sotto e mi rifugiai dietro una specie di credenza. Poi però, richiamati dalle grida, comparvero altri due grossi polpacci e un camice bianco…
Mi buttai a terra. Delle braccia volevano afferrarmi; tentai, velocissimo, di mordere un polpaccio. Ma addentai solo l’orlo del camice. Lo strappai, mi ci impigliai, e infine mi catturarono fra grida sempre più acute.
Mi mancava il respiro, sputai quello che restava delle striscioline e, in questo, le grida si fecero ancora più forti.
"Che cosa succede?" domandò una voce pacata da qualche parte.
Era la donna che mi aveva accompagnato fino a lì.
"Questo sputa, morde, fa il diavolo a quattro e mangia rifiuti!" esclamò agitata una col camice bianco.
Mi aveva già sbottonato la camicia e stava rovesciando sul pavimento il mio tesoro. Venne un’altra con secchio, paletta e scopa, e spazzò via tutto.
Non capivo più niente.
Mi portavano via la roba da mangiare, ma non perché volevano mangiarla loro. Non sembrava che avessero fame. Macché, sotto i miei occhi buttavano via la roba da mangiare! Che fosse un modo per punirmi?
Per ordine di una col camice fui portato in una stanza singola: così la chiamavano.
"Finché non ti sarai calmato" dissero, e chiusero la porta.
Solo a quel punto mi accorsi che, nell’agitazione, avevo perduto il fagotto… e anche l’orsacchiotto era sparito.
Mi avvicinai alla porta, piano piano, ma era chiusa a chiave. Mi guardai attorno. Nella stanza c’erano un solo letto, ma immenso, un tavolo e una sedia. Sul letto, una grande coperta, gonfia come una nuvola. La annusai. La nuvola aveva un odore dolce, fresco di bucato e invitante.
Non osai toccarla.
Ragionai. Qui, sicuramente, può dormire soltanto qualcuno che gode di particolari privilegi, qualcuno che deve essere molto forte e potente. Altrimenti come potrebbe difendere un posto così? Senz’altro qualcuno con un’uniforme molto importante, di quelle con i bottoni che luccicano.
Di uniformi nere o grigie, qui non ne ho ancora vista una, ma non si sa mai.
Che cosa succederà se mi troverà qui? Mi bastonerà convinto che io voglia contendergli la sua proprietà e il suo posto? Qui sembrano tutti più forti di me.
Poi ripensai alla mia sconfitta, al cibo perduto, al fagotto smarrito, all’orsacchiotto, e avevo paura dell’uniforme che forse era già fuori dalla porta.
Tesi l’orecchio, ma nell’edificio c’era solo silenzio.
Qui mi portano via tutto.
Avevo la gola strozzata da un nodo.
Forse non portano via solo il cibo, ma anche i vestiti. E inverno. Forse mi lasceranno morire di fame in questa stanza. La Svizzera non è un bel paese, come diceva la signora Grosz. La signora Grosz mi ha mentito! La signora Grosz mi ha abbandonato! Odio la signora Grosz!
Stanco e affamato, mi infilai sotto il letto mi addormentai.

Binjamin Wilkomirski, Frantumi. Un’infanzia 1939/48, Mondadori

 

Croste di formaggio
commento di Sandro Bastia

Il bambino che parla in prima persona è oggi un adulto, uno dei pochi rimasti in grado di raccontare l’esperienza di una infanzia nei campi di concentramento tedeschi della seconda guerra mondiale. Pochi i bambini che si sono salvati, ancora meno quelli che sono riusciti a ricordare ed a farlo in modo tale da riempire le pagine di un libro. L’eccezionalità è dimostrata anche dal fatto che l’autore usa uno pseudonimo, ma lo fa suo malgrado. Infatti nulla sa di sé, della sua vita prima del campo, dei suoi familiari se non qualche vaga immagine. Non il suo nome, la sua data di nascita, il suo compleanno. Non sa il nome dei suoi genitori, non sa dove sia la sua casa natale di cui conserva qualche vaga immagine, non sa quale sia la sua lingua. Però sa di essere stato al campo di sterminio di Majdanek, di essere stato in un orfanotrofio a Cracovia, in Polonia ed adottato infine a Ginevra, in Svizzera. Sa che da quella esperienza nasce Binjamin Wilkomirski che ora ha scritto ciò che ricorda della sua infanzia. Questo scritto però presenta alcune particolarità. Alle atrocità del campo si alternano alcune immagini che dovrebbero essere più rassicuranti: al campo infatti l’autore intervalla scene tratte dalla vita in orfanotrofio – come quelle proposte all’inizio – che però sorprendentemente rimangono cariche di sofferenza, paura, sospetto. Alla minaccia/promessa di morte del campo si sostituisce un sentimento meno definito ma comunque ostile, minaccioso, che ha inizio proprio quando si incontra l’istituzione educativa. Perché? Una istituzione sfortunata o qualcosa di diverso?
Benjamin viene da un campo di concentramento, da una realtà estrema. E’ un paradigma che ben si presta ad aiutarci a pensare, a immaginare cosa si prova in altre condizione che possiamo definire "estreme" in quanto possono tradursi vere e proprie forme di sofferenza estrema. La malattia mentale, la diversità, l’esclusione sociale sono alcuni esempi. Chi fa una professione d’aiuto può trarre spunti interessanti riflettendo sui campi di sterminio proprio utilizzandoli come paradigma per ripensare la propria esperienza ed analizzare la propria realtà quotidiana di vita e di lavoro.
Binjamin è oggetto (quindi non soggetto o, meglio ancora protagonista) di un intervento che vorrebbe aiutarlo trovando in lui una persona in situazione di forte necessità. Ma le difficoltà, i problemi di Benjamin non vengono chiuse dietro alla porta di ingresso dell’orfanotrofio, ma anzi quello è l’inizio di un periodo di ulteriori forti preoccupazioni, anche se noi sappiamo che la sua vita, da quel momento, non è più in pericolo ed immaginiamo che comunque vada riceverà cure adeguate. E questo accade. Però all’interno dell’istituzione nessuno si preoccupa realmente per lui, nessuno a lui parla e nessuno si preoccupa di conoscerlo, di capire quella immensa disavventura che aveva incontrato in precedenza nella sua vita.
L’aiuto che trova è standard, pensato per un bambino o bambina ideale, qualunque, che non esiste mai e che, nel caso di Binjamin invece è un bambino con bisogni speciali, molto speciali. Qualcuno gli da un orsacchiotto. Un oggetto caro a tanti bimbi ma inutile e sconosciuto a Binjamin che proviene da un luogo dove ben altri sono gli oggetti utili: un cucchiaio, una gavetta, una patata od un pezzo di pane nero. Binjamin, attraverso l’orsacchiotto certo non capisce l’intenzione di chi gli sta davanti, e non trova che quello sia un oggetto rassicurante.
Il luogo che lo accoglie, l’orfanotrofio, e l’arrivo in una stanza dove altri avevano già mangiato senza alcuna accoglienza è per lui totalmente inquietante, destabilizzante. Non capisce, non trova alcun elemento, nella sua esperienza di vita, che gli possa permettere di prevedere cosa accadrà di li a poco. E questo gli procura angoscia, panico. A lui nessuno parla, nemmeno quando lo trovano sotto il tavolo a cibarsi di avanzi. Lui non capisce di trovarsi in un posto dove il cibo è sufficiente ed è per tutti – questa è una realtà nuova per lui – e gli altri non provano comprensione per lui ma solo disgusto.
Spesso si pensa che la relazione di aiuto abbia una "evidenza" tale che non ha bisogno di ulteriori parole se non quelle del ringraziamento di chi, quell’aiuto, riceve. Binjamin è invece la storia di una relazione di aiuto non chiara, che racconta come l’aiuto passi attraverso una serie di momenti da costruire insieme, che l’aiuto è soprattutto un dialogo tra due persone, una relazione, che permette ad entrambi di costruire qualcosa e di soddisfare bisogni, anche se in misura asimmetrica.
Manca, da parte di chi si propone di aiutare Binjamin la ricerca di una relazione, la ricerca di una fiducia da parte del bambino, non c’é nessuna spiegazione o contrattazione sull’aiuto che viene dato che, seppur necessario – Benjamin viene strappato alla morte in questo caso – non è compreso. Genera sospetto e paura e fa pensare che chi aiuta non pensi affatto ai bisogni di Binjamin ma piuttosto ai propri (un orfanotrofio per funzionare necessita di orfani) o addirittura per soddisfare bisogni del tutto "altri" (per accogliere i profughi alla fine della seconda guerra mondiale vi fu una contabilità umana oggetto di diverse contrattazioni politiche che coinvolsero tutti i paesi Svizzera compresa – e l’orfanotrofio di Binjamin si trova appunto in Svizzera).