Laura Pennacchi, economista, è stata eletta alla Camera dei Deputati dal 1994 al 2006 e Sottosegretario al Tesoro nel primo Governo Prodi (1996-1999). Tra i suoi saggi, Lo stato sociale del futuro. Pensioni, equità, cittadinanza (Roma, Donzelli, 1997), La moralità del welfare. Contro il neoliberismo populista (Roma, Donzelli, 2008), Pubblico, privato, comune (a cura di, Roma, Ediesse, 2010).
Il welfare come lo conosciamo, specie in Europa, è davvero in crisi, o si tratta di una percezione culturale promossa per farlo apparire economicamente insostenibile e smantellarlo?
La crisi del welfare non è per niente un dato di fatto. Se si guarda alla sostanza della realtà, si vede che tutto lo straparlare di crisi del welfare non è assolutamente avvalorato dai dati. Se esaminiamo un lungo ciclo storico, dagli anni ’70 ad oggi, si vede che il welfare, che era cresciuto esponenzialmente nei decenni della cosiddetta “età dell’oro” quando il compromesso keynesiano aveva funzionato egregiamente, ha avuto in seguito tassi di crescita molto inferiori per le proprie voci, fino a una stabilizzazione della spesa rispetto al PIL. In realtà, quindi, quello di cui dobbiamo parlare non è una crisi del welfare ma una sua maturazione, e siamo di fronte a uno stato di maturità.
Il welfare – sto parlando soprattutto del sistema europeo – è cresciuto fortemente negli anni in cui bisognava dare un servizio sanitario universale e un sistema previdenziale esteso a tutti (in Italia anche ai lavoratori autonomi, che ad esempio in Germania non sono invece nel sistema previdenziale pubblico). Quei tassi di crescita si giustificavano allora perché servizi universali venivano garantiti a tutta la popolazione. In seguito, c’è stata una stabilizzazione sostanziale, una “manutenzione” del sistema, e quindi il welfare, raggiunto uno stato di maturità, non è per niente di fronte agli andamenti esplosivi a cui si allude quando se ne cita la crisi. E ciò è tanto più straordinario in quanto l’invecchiamento della popolazione, che porta maggiore spesa sanitaria, previdenziale e sociale in generale, è stato fortissimo già negli anni ’60-’70, quando il modello sociale europeo ha fatto fronte a un raddoppio della percentuale di ultra65enni sulla popolazione totale. Questo dimostra l’efficacia del welfare nel fronteggiare fenomeni che oggi si ripropongono con tassi incisivi e che ci riguarderanno anche nei prossimi anni, e la sua capacità di rispondere a bisogni emergenti.
Il welfare europeo della “età dell’oro” si finanziava però con tassi di crescita economica molto più alti di quelli attuali, raggiunti invece oggi dalle economie emergenti di Asia, Brasile e Russia. Il “modello sociale europeo” è in grado di reggere a questa pressione competitiva, e anzi di costituire appunto un modello per economie che crescono in modo tumultuoso ma non sempre socialmente ordinato?
Il fatto che il welfare sia in stato di maturità significa appunto che esso si è adeguato a tassi di crescita inferiori rispetto a quelli degli anni ’60-’70. Non solo: i decenni che hanno seguito la fine della “età dell’oro” hanno visto una grande apertura dei mercati internazionali, una globalizzazione che ha creato una condizione di maggiore sviluppo per i Paesi più arretrati ma numerosi problemi in quelli occidentali, e questi problemi sono stati affrontati proprio grazie all’esistenza del Welfare State – che ad esempio, con gli ammortizzatori sociali e la regolazione del mercato del lavoro, ha consentito uno spostamento ordinato di forza lavoro da settori in crisi (anche) per il trasferimento della produzione nei Paesi in via di sviluppo a settori con maggiori tassi di crescita e tecnologicamente avanzati.
Questo adattamento è quindi sicuramente possibile, e il “modello sociale europeo” non solo può essere un modello per i Paesi in via di sviluppo, ma lo deve essere. Teniamo presente che quando è esplosa la crisi economica mondiale iniziata nel 2007-2008, si è manifestata una superiorità assoluta del modello sociale europeo rispetto ad altri sistemi come quello anglosassone. L’Argentina aveva già conosciuto una crisi drammatica e un default nel 2001; per fare fronte ai problemi della nuova crisi finanziaria (poi estesasi all’economia reale), che ha rimesso in discussione tutto il risparmio affidato ai mercati finanziari e soggetti privati, compreso quello previdenziale, nei primi mesi del 2009 ha dovuto nazionalizzare i 10 fondi pensione privati con cui aveva privatizzato la Social Security pubblica nel 1994. Se non avesse fatto questa nazionalizzazione, tornando quindi a un sistema previdenziale di tipo europeo, non avrebbe avuto le risorse per pagare nemmeno le pensioni in essere.
In che modo è possibile razionalizzare e adeguare alle esigenze individuali il sistema di welfare italiano, senza con questo creare un sistema di mercato in cui la scelta tra le diverse prestazioni spetti alle famiglie e il ruolo del pubblico si ritragga a quello di mero regolatore?
Io giudico assolutamente sbagliato che per i beni sociali fondamentali il ruolo del pubblico debba ritrarsi e affidare la loro protezione al mercato. Tutta la dottrina economica, anche quella neoclassica e quella che si ispira all’economia del benessere (con grandi Premi Nobel solo parzialmente eterodossi, come Arrow o Stiglitz), dimostra che nei beni sociali fondamentali c’è una superiorità dell’offerta pubblica di servizi e di prestazioni. Questo vale per la previdenza, per cui la previdenza privata (ho fatto l’esempio dell’Argentina) non è assolutamente in grado di fornire la tutela offerta dai sistemi a ripartizione di tipo pubblico; questo vale per la sanità, tanto è vero che Obama ha condotto una battaglia campale, nel primo anno del suo mandato, per dotare il popolo americano di un sistema sanitario di tipo universalistico e fondato sulla garanzia del pubblico – mentre con il sistema privato esistente la spesa sanitaria negli USA è il 14% del PIL, quando nei Paesi europei come l’Italia è intorno al 6-7%. I sistemi sanitari pubblici sono quindi non solo in grado di fornire servizi universalistici, e dunque maggiore equità, ma sono anche più efficienti, perché sprecano molte meno risorse.
Su previdenza, sanità, istruzione c’è un’assoluta priorità dell’offerta pubblica di prestazioni e di servizi. Poi ovviamente, ad esempio nella previdenza, si può pensare a un ruolo del privato, che deve essere però soltanto integrativo. Secondo gli insegnamenti della storia, e anche della teoria, ruoli sostitutivi sono estremamente dannosi e pericolosi. Bisogna pensare a un ruolo integrativo del privato, per esempio alla previdenza complementare e ai fondi pensione, e anche in sanità per alcune prestazioni non fondamentali, ma non per quelle ospedaliere di base: guai a pensare a una privatizzazione degli ospedali di base, come purtroppo sta pensando di fare Cameron, capo del governo conservatore inglese.
E poi ci sono dei campi nei quali i privati, penso soprattutto al privato sociale, possono avere un grande ruolo, ma sono campi per l’offerta di beni di tipo diverso, come l’assistenza agli anziani o le residenze sanitarie assistite. Ad esempio, il supporto alla non autosufficienza, per cui il Governo Prodi aveva istituito un fondo che poi Tremonti ha completamente definanziato, si può sviluppare con una forma di partnership tra pubblico e privato: si può pensare a una contribuzione assicurativa obbligatoria, sul modello già seguito dalla Germania, che serva a fare emergere il lavoro nero e sommerso, con prestazioni fornite da operatori di mercato, individualmente o in forma associata. Gli operatori di mercato, e soprattutto del privato sociale, possono dare moltissimi contributi anche in altri campi, più legati però all’organizzazione del tempo libero o all’assistenza all’infanzia – ad esempio, gli asili nido devono essere assolutamente sviluppati nel nostro Paese, e possono esserci forme di partnership pubblico/privato.
Settori del welfare come i servizi alla prima infanzia, in cui più forte può essere (e più discusso è oggi) il ruolo dell’impresa sociale, non fanno quindi parte dei “beni sociali fondamentali”? E come deve essere impostato in questi ambiti il rapporto tra soggetti privati e attore pubblico?
Anche questi sono beni sociali fondamentali, ma potremmo definirli “non primari”, mentre potremmo definire – riprendendo l’espressione di John Rawls, il grande filosofo della teoria della giustizia – “beni sociali primari” la sanità, la previdenza e l’istruzione, che sono anche quelli sanciti nella nostra Costituzione come diritti universali, rispetto a cui gli altri servizi sono di second’ordine, ma non di minore importanza. In questo ambito, il ruolo dell’operatore pubblico rimane importantissimo, e guai a identificare, nel parlare di società civile e di privato sociale, un percorso che deresponsabilizzi l’operatore pubblico dalle sue funzioni, come spesso avviene sia a livello nazionale che a livello decentrato. Quando per esempio non si sa risolvere un problema, si inventa un voucher per deresponsabilizzarsi dalla gestione della soluzione di quel problema, lo si monetizza e ci se ne lava le mani.
Io penso che non si debba fare così, e mi risulta che gli operatori del Terzo Settore e la società civile siano i primi a volere un operatore pubblico che non si deresponsabilizza, perché per potere operare hanno bisogno di un quadro forte, un’architettura istituzionale definita dall’operatore pubblico. Questa definizione deve avvenire in compartecipazione e in concertazione – non può essere un assetto che l’operatore pubblico pensa e immagina nella sua testa, come Minerva nella testa di Giove –, e ci si deve arrivare associando una pluralità di soggetti, ma con una regia, una promozione e una spinta che non possono non essere dell’operatore pubblico.
E dove il pubblico, magari per storia e tradizione, ha un ruolo di gestione diretta che ora fa più fatica a mantenere e non riesce ad ampliare? È plausibile che uno stesso servizio sia gestito a volte da un operatore pubblico, a volte da un operatore privato nell’interesse pubblico (ma con condizioni di lavoro diverse, come nel caso dei servizi alla prima infanzia)? O forse, nell’ambito dei beni non primari benché fondamentali, l’operatore pubblico dovrebbe dismettere il ruolo di gestore diretto e fare solo da regolatore?
No, io non penso che il pubblico debba dismettere il ruolo di gestore diretto in modo incondizionato e apodittico; ci vogliono molta sapienza, adattamento e flessibilità rispetto alle diverse situazioni. Per me è fondamentale che rimanga il ruolo di regia pubblica, che in molti casi può voler anche dire gestione diretta. Non bisogna avere un’avversione per la gestione pubblica diretta, e pensare che la gestione del privato significhi automaticamente meno sprechi e più efficienza, perché questo non è mai vero: non lo è nemmeno nella sfera della produzione, figuriamoci in quella della protezione sociale. Tuttavia, bisogna articolare a seconda delle diverse situazioni – far fiorire cento fiori, non impedire la fioritura, che è un ruolo dell’operatore pubblico favorire.
Come si concilia una nozione come quella di “merito”, che spesso si ritiene debba assumere un maggiore rilievo nel sistema socio-economico del nostro Paese, con la copertura del welfare per le situazioni di debolezza?
Le due nozioni si possono e si devono conciliare, adottando uno schema di teoria della giustizia molto profondo, e mi rifaccio ancora una volta a John Rawls, il più grande filosofo politico del Novecento. Rawls considera il “merito” una nozione da maneggiare con estrema cura, perché può portare su false piste se pensiamo che la giustizia si basa soltanto sul riconoscimento del merito, quando per esempio le persone non hanno alcun merito dall’essere nati fortunati, in una famiglia ricca e agiata che gli può consentire di tutto.
Con una teoria della giustizia comprensiva come quella di Rawls, quindi, bisogna quindi pensare ai beni fondamentali; e bisogna arricchire tale teoria, che pensa alla fornitura di beni fondamentali primari soprattutto in termini di reddito, con la teoria di Sen, che pensa all’offerta di capacità come il poter essere, fare, lavorare, essere informati, comunicare, essere in relazione con gli altri, persino giocare. Queste sono le capacità di cui parla Sen, ed esse vanno fornite a tutti i cittadini sulla base del rispetto della loro dignità di esseri umani e persone. Teniamo conto che la nostra Carta fondamentale costituzionalizza la nozione di persona, una scelta molto rilevante per le implicazioni che se ne possono trarre per una teoria della giustizia.
Forniti i beni sociali fondamentali, il merito è molto importante nell’accesso a determinate posizioni. Se vogliamo che le persone diventino anche avvocati, professori, medici, è molto importante che il merito sia rispettato nell’accesso alle rispettive professioni. Il merito, quindi, non può valere quando si discute della produzione e della distribuzione di beni sociali fondamentali; deve valere quando si discute dell’accesso a determinati ruoli sociali, ma non può valere, ancora, come unico criterio quando si discute dei guadagni addizionali una volta che l’accesso a tali ruoli si sia verificato. Per esempio, il fatto che un manager debba avere una retribuzione 400 volte superiore alla retribuzione di un lavoratore medio o mediano non può essere giustificato in base a nessun tipo di merito. In questo ambito devono quindi tornare criteri egualitari, anche se non di tipo estremistico, e il paradigma dell’uguaglianza deve essere quello fondamentale.
Le sfide (e le minacce) al welfare futuro, come nel caso della “lettera della BCE” del 5 agosto scorso, vengono spesso da organismi sovranazionali in cui c’è una carenza di rappresentanza politica dei cittadini. Come può la popolazione fare sentire la propria voce rispetto a tali organismi?
Eleggendo parlamenti e governi che non siano di centro-destra. La nuova governance economica europea definita il 24-25 marzo 2011 è nefasta, perché sollecita politiche di austerità secondo l’ortodossia monetarista e neoliberista, che hanno effetti estremamente restrittivi e recessivi, per cui stiamo tutti entrando in un double-dip, una seconda recessione gravissima dopo quella che abbiamo avuto nel 2009. Queste politiche non sono quindi nemmeno in grado di assicurare davvero l’equilibrio di finanza pubblica, che pure ci vuole, perché con la recessione provocheranno un avvitamento, e non una soluzione, dei problemi del debito e del deficit.
Dall’altro lato, le politiche neoliberiste sono nefaste perché adesso vorrebbero punire gli Stati, che nel 2008-09 hanno salvato il mondo dalla catastrofe del sistema finanziario internazionale trasformando immensi debiti privati in debiti pubblici, costringendoli a politiche di tagli selvaggi, che vanno a gravare in primo luogo sulla spesa sociale. Questo è assolutamente intollerabile, e bisogna chiedere una modifica della governance economica definita con il Consiglio Europeo di marzo, che porta il segno della Germania di destra della Merkel. La lettera della BCE non va sopravvalutata e va contestualizzata: in fin dei conti, è una lettera inviata a un governo di centro-destra che aveva inventato e praticato la finanza creativa.
I cittadini hanno la possibilità di eleggere parlamenti e governi che modifichino queste strutture, e ripongano su basi più solide, eque ed efficaci il rapporto tra crescita economica e sviluppo del welfare – che non deve crescere più ai tassi vertiginosi degli anni ’60 e ’70, ma non deve nemmeno essere tagliato e devastato. Le risorse si possono trovare pensando soprattutto al possibile sviluppo del welfare legato alle nuove attività, al tempo libero, alla riqualificazione delle città, persino alla green economy, e scommettendo sulla sinergia positiva tra sviluppo economico e sviluppo sociale.
Per salvare il welfare occorre ripensare allora tutto il sistema economico in cui viviamo? Ed esistono nel panorama attuale forze politiche in grado di intraprendere questo compito?
Penso che ci sia una grande battaglia, anche di tipo culturale, da compiere. È una battaglia affascinante, che richiede un’elaborazione culturale molto forte, per fare i conti con il passato e guardare al futuro. Del resto, con la crisi economica globale è deflagrato un intero modello di sviluppo: quello del consumismo sfrenato, della trasformazione di ogni cosa in merce, dell’indebitamento selvaggio, dell’iperfetazione della finanza. Tutto questo è ormai drammaticamente in crisi, ma sarà difficile imporre un nuovo modello di sviluppo. Occorre un grande lavoro di rielaborazione, un new economic thinking, come dicono i democratici americani, Stiglitz, Soros e persino una testata liberale come l’Economist.
Robert Reich ha proposto di recente di ridare vita ad alcune agenzie che erano state fondate durante il New Deal. Bisogna pensare nei termini di una nuova grande transizione, come l’aveva descritta Polanyi negli anni tra le due guerre, riferirsi a questo tipo di analisi e riflessione e portarla avanti. È molto difficile, ma è anche estremamente affascinante, battersi per questa sfida; e se la sinistra e il centro-sinistra non si caratterizzano su questo, su che cosa mai si potranno caratterizzare?
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