Brutto segno, quando si parla di una “età dell’oro”: significa che le prospettive del presente e del futuro appaiono anguste, quando non drammatiche. E nella storia del welfare state è orientamento condiviso individuare questa “età dell’oro” in un trentennio che va all’incirca dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla metà degli anni ’70 del XX secolo: un periodo relativamente lungo di espansione di diritti e di tutele per l’intera popolazione del “Primo Mondo”, strettamente connesso a una crescita economica senza precedenti nella storia, e al contempo frutto di lotte sociali in alcuni momenti assai dure. Rimarrebbe soltanto da valutare se la Titanomachia che chiuse per sempre questa era sia stata di ordine economico (il doppio shock petrolifero degli anni ’70) oppure politico (l’ascesa al potere della destra neoliberista con Margaret Thatcher e Ronald Reagan nel 1979-80), ma anche nel secondo caso si attenuerebbe solo leggermente la percezione di un divenire storico ineluttabilmente orientato verso una contrazione dello stato sociale universalistico, in grado di salvaguardare soltanto qualche servizio residuale per le fasce più gravemente svantaggiate.
Dopo un trentennio di “disimpegno” segnato dalla crescente pressione economica della globalizzazione, tuttavia, ci si aspetterebbe di avere oggi nelle società occidentali veri e propri “Stati leggeri”, che abbiano lasciato al passato (o a privati compassionevoli) tutte le provvidenze del welfare “classico”. Questa teoria della “corsa al ribasso” è stata smentita nel 2004 da Francis G. Castles, in un libro significativamente intitolato The Future of the Welfare State: Crisis Myths and Crisis Realities. Sulla base di un’accurata analisi dei dati comparativi sulla spesa pubblica per il welfare nel periodo 1960-1998, raccolti dall’OCSE per i suoi Paesi membri, si mostra tra l’altro che la spesa sociale, dopo una crescita sensibile fino al 1980, rimane sostanzialmente stabile, o in alcune nazioni continua a crescere, anche nei due decenni successivi, segnati dal trionfo ideologico del neoliberismo. Come rileva Paul Pierson, riferendosi al periodo dal 1973 ai primi anni ’90, a confronto con le aspirazioni di molti riformatori e con il grado di cambiamento in campi come la politica delle relazioni industriali, la politica macroeconomica o la privatizzazione delle industrie pubbliche, ciò che si distingue è la relativa stabilità del welfare state.
Più che di “crisi” dello stato sociale, appare dunque opportuno parlare di una sua estesa “maturità” nel senso economico del termine – un’ipotesi confermata dai dati del primo decennio del XXI secolo, in cui la quota di PIL spesa dalle nazioni avanzate in politiche sociali rimane, a grandi linee, costante. Alla base delle teorie della “crisi del welfare” c’è secondo Castles un errore metodologico (solo a volte disinteressato): “Una previsione di crisi afferma in effetti che un singolo fattore è così enormemente significativo da sopraffare tutte le tendenze contrarie: che la necessità di competere sui mercati mondiali vincerà sulle rivendicazioni democratiche per la spesa in politiche sociali, o che l’invecchiamento della popolazione trasformerà totalmente l’equilibrio tra parsimonia fiscale e spesa pubblica. A priori, tali affermazioni sembrano improbabili – per non dire cattiva sociologia – in quanto implicitamente negano la complessità, altrimenti data per scontata, del contesto politico delle società capitaliste democratiche avanzate” (The Future of the Welfare State. Crisis Myths and Crisis Realities, Oxford University Press, 2004, p. 6). Il rispetto per questa complessità impone di analizzare, al di là del dato quantitativo più o meno aggregato della spesa sociale, come tale spesa si modifica nella propria composizione interna e nelle forme di erogazione, a fronte di bisogni in continua evoluzione.
Nel caso italiano, la riorganizzazione dello stato sociale negli ultimi anni appare di particolare rilievo. La riduzione relativa delle risorse pubbliche a disposizione per le politiche sociali si è combinata a un irrigidimento delle procedure amministrative e a uno sviluppo molto limitato delle forme di finanziamento privato, ma il sistema di protezione sociale non è “saltato”, scatenando fenomeni estesi di degrado e di tensione sociale, come ci si sarebbe potuto attendere – e come ogni anno, da diversi anni, prevedeva l’allarme lanciato da chi subiva i tagli. La spiegazione che si può desumere è che, accanto a un’accentuata tendenza all’esternalizzazione (spesso impropriamente giustificata attraverso la nozione di “sussidiarietà”, più realisticamente motivata da esigenze di compressione dei costi), sia entrata in gioco una razionalizzazione dei servizi, rimasti così in buona parte in grado di fare fronte alle necessità esistenti e sopravvenute. La discesa libera, rapida ma pericolosa, in cui ci si cimentava ai tempi non lontanissimi della “finanza allegra” si è dunque trasformata in uno stretto slalom, i cui attori però hanno finora dimostrato di saper restare in piedi.
Nelle intenzioni originarie, questa monografia si proponeva di illustrare questa capacità di “fare le nozze con le lumache” attraverso molteplici esempi concreti di ristrutturazione dei servizi sociali, a livello nazionale e locale, affidati ad attori pubblici e privati. Purtroppo, ben poche sono le esperienze significative di cui è possibile rendere conto. Dopo aver tenuto in debito conto i limiti di chi scrive, non è facile capire quanto ciò sia dovuto a difetti di comunicazione (come nel caso, pur teoricamente interessante, della riorganizzazione e standardizzazione dei costi dell’assistenza domiciliare ad anziani e disabili attuata in questi mesi dal Comune di Roma) e quanto a carenze nella capacità effettiva di proporre nuovi modelli a valenza complessiva per le politiche sociali, limitandosi piuttosto a micro-adattamenti degli assetti preesistenti. Per proporre l’esempio forse più significativo, su due servizi di prossimità assai rilevanti come l’assistenza personale fornita dalle “badanti” e il baby-sitting non risultano ancora innovazioni dal basso capaci di sottrarre queste attività a un mercato informale e spesso irregolare. Accanto ad alcune esperienze concrete, che potrebbero costituire tracce per la futura evoluzione del welfare (i servizi di prossimità a bassa soglia, l’approccio mutualistico integrato), si cerca comunque in queste pagine di dare conto delle possibili evoluzioni dello stato sociale italiano (e non solo), tra impostazioni teoriche e scelte concrete, a fronte di vincoli di bilancio sempre più stringenti. Ricordando che, per fare le nozze con le lumache, qualche lumaca poi ci vuole, e non deve venir meno la speranza di avere prima o poi le ostriche.

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