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Autore: admin

“Fratelli invalidi”

Untitled DocumentTra le mille etichette fallaci (eppur radicate) c’è anche quella che vorrebbe la fantascienza una letteratura solo statunitense. Per quel che qui ci riguarda, ecco una smentita che c’arriva da Praga. E vale la pena (senza entrare in polemica più di tanto) ricordare che dagli stessi luoghi ci era giunto uno dei testi fondanti la moderna sfi, ovvero il Rur scritto nel 1920 da Karel Capek; da quel titolo-sigla (Rossum’s Universal Robot, ovvero i lavoratori universali creati da Rossum) fra l’altro tuttora
deriviamo la stessa parola di robot nel senso d’un uomo artificiale, automa.
Sempre a voler prendere sul serio le etichette, il libro di Egon Bondy (pseudonimo di Zbynek Fiser) potrebbe essere collocato in un territorio di mezzo tra sfi e surrealismo, fra distopia (un’utopia al negativo o in nero) e satira. Due parole sull’autore ci aiutano a capire meglio anche il senso del romanzo che andiamo poi a riassumere. Nato nel 1930, Fiser-Bondy si iscrive giovanissimo al Partito comunista (in epoca di persecuzioni) e ne esce nel ’48, quando cioè esso prende il potere. Un tipino contro-corrente, tant’è che assume lo pseudonimo ebraico di Egon Bondy quando comincia (o meglio: riprende) la persecuzione degli ebrei. Da feroce oppositore del socialismo-formicaio di dipendenza sovietica, non ha vita facile: vive di lavori occasionali e pubblica in clandestinità fino al 1989. Crollato quel tipo di "governo sedicente comunista", Fiser-Bondy diventa dirigente d’un nuovo partito di comunisti libertari. Una vita fuori dai ranghi.
Il suo Fratelli invalidi è scritto fra il 1974 e il ’77 e da allora circola in Cecoslovacchia solo di mano in mano: infatti è tirato al ciclostile, come ogni samizdat (da un termine russo che significa "pubblicazione in proprio") dell’epoca. Sarà pubblicato liberamente nel ’91 e viene tradotto in italiano da Elèuthera due anni dopo. Scrivendo nel pieno dell’oppressione, Bondy immagina che, dopo 5/600 anni di stalin-brezneviano socialismo reale trionfante, la residua umanità sia divisa fra invalidi e "minorati". I primi sono vecchi, pensionati, handicappati ovvero metafora di ogni ribelle, refrattario, non-collaborante e non-produttivo; i secondi sono burocrati, poliziotti e militari che (pur se ben poco è rimasto da reprimere) godono della possibilità di perseguitare gli altri. Solo gli "invalidi" sopravviveranno alla catastrofe finale. Non aspettatevi però da Bondy un "happy end": quel misero spicchio di mondo che si salva appare a sua volta "invalido" o, se preferite, sconvolto mentalmente. Anche dopo il crollo d’un sistema che fa della normalità il suo credo… l’avvenire è assai più melmoso che radioso: un pessimismo mitigato solo da uno scoppiettante humor. Effettivamente le risate sono continue quanto apocalittiche (delresto c’è persino un concreto diluvio di merda) e le metafore della ribellione come opera dei "minorati" del tutto originali. Il punto che in Fratelli invalidi collega l’idea di un handicap a valori positivi, a una possibilità di liberazione, è qui il non essere produttivo e dunque non prender parte alla grande distruzione (del mondo e delle individualità).
La scrittura di Fiser-Bondy è straordinaria. In questo romanzo già dopo 10 righe incontriamo "il cadavere del mondo". Ma in mezzo a tanti paradossi è proprio la scelta degli "invalidi" come soggetto centrale la più fondata, la meno provocatoria. Perché si può scoprire un gran valore nell’essere "irripetibili in un mondo in cui tutto esiste in milioni di copie uniformi"; e dunque – scrive Goffredo Fofi nella sua post-fazione – "il mondo sarà degli Invalidi o non sarà".

Note

Umano è. Come la fantascienza racconta l’universo-handicapUntitled Document(1) Il racconto si trova in numerose antologie, in particolare in Le meraviglie del possibile (Einaudi) di autori vari e in Fredric Brown Cosmolinea B-1 (biblioteca Urania-Mondadori, varie edizioni).
(2) La sigla "sfi" riprende il termine inglese "science fiction" mentre "fs" rimanda alla parola italiana "fantascienza" (sulle differenti visioni che questi vocaboli comportano non è il caso d’entrare in questa sede).
(3) Una millenaria filosofia dell’estetica che ci indica il bello come buono, passando per le teorie supposte scientifiche di Cesare Lombroso, arriva a noi continuando a consegnarci nella produzione seriale i cattivi come brutti. Se nei telefilm in arrivo dagli Usa la politically correct impedisce di connotarli ulteriormente (come neri o handicappati, a esempio) i cartoni giapponesi mostrano, talvolta con disarmante ingenuità, che il balbuziente, il grasso, la ragazza con i capelli punk celano pericoli. È la
stessa logica che spinge un cartone di successo a reinventare come bionda una Sissi d’Austria che invece aveva i capelli neri. Per un primo approccio alle evoluzioni, eccezioni, contraddizioni di questa impostazione rimando a numerosi articoli usciti su Rassegna stampa Handicap e sulla rivista Hp (in particolare il numero 69 del settembre ’90 con i contributi di Annalisa Brunelli, Andrea Canevaro e Claudio Imprudente) e a Letteratura infantile e handicap, a cura di Annalisa Brunelli e Giovanna Di Pasquale (quaderni del Centro Documentazione Handicap di Bologna) e alle indicazioni lì contenute.
(4) Ovviamente la faccenda è un po’ più complicata di come qui sono costretto a riassumerla; esistono anche le appassionate (e talora ambigue) utopie a cavallo fra ‘800 e ‘900 di Bellamy, London e Twain tanto per citarne tre. Per un appassionato elogio della fantascienza rimando al saggio di Valerio Evangelisti "Una narrativa adeguata ai tempi" che ora è in Alla periferia di Alphaville (edizioni L’Ancora del Mediterraneo).
(5) Così fu pubblicato in Italia il suo romanzo del 1953, ma è interessante notare che il titolo originale suonava invece un meno banale Più che umano. Lo si trova in varie edizioni Urania, Nord e poi nell’antologia I massimi della fantascienza. Thedore Sturgeon (Mondadori) con altri 3 suoi romanzi.
(6) In un racconto che venne tradotto in Italia negli anni ’60 da Feltrinelli nell’antologia La voce dei delfini.
(7) Rimando chi fosse interessato a questo discorso a questi testi: La guerra dei sogni di Marc Augè (Elèuthera); "Colonizzare l’immaginario" di Valerio Evangelisti (ora nella sua antologia citata in precedenza); gli scritti di Eduardo Galeano, in particolare alcuni di quelli raccolti in A testa in giù, la scuola del mondo alla rovescia (Sperling & Kupfer); McMarx, critica della socialità come prodotto industriale di Oscar Marchisio (manifesto-libri); e un po’ immodestamente al mio dossier "Sesto potere" uscito sulla rivista Cem-mondialità nel giugno 2000.
(8) Rubo la frase al romanzo, ovviamente di fantascienza, Sul filo del tempo di Margot Piercy (Elèuthera) come spesso hanno fatto sognatori di vario genere dal subcomandante zapatista Marcos al centro sociale Leoncavallo.
(9) Da Il confine inviolabile: nonviolenza e bisogno d’identità di autori vari (La meridiana).
(10) Che è qui nell’insolita veste di saggista anziché in quella consueta di scrittrice (di sfi e di favole); la citazione è ripresa da un saggio contenuto nel suo volume Il linguaggio della notte, Editori riuniti).
(11) È tanta o poca la buona sfi? Secondo una celebre (fra gli appassionati) "legge" del già citato Sturgeon: "Il 90 per cento della fantascienza è spazzatura ma del resto il 90% di ogni cosa esistente è spazzatura".
(12) Anche sulla traccia di un mio precedente saggio uscito sul numero 53 della citata rivista Hp nel luglio del ’95. Ovviamente anche taluni dei molti romanzi fantascientifici che hanno per protagonisti "i mutanti" potrebbero essere indicati come parafrasi di alcuni handicap ma non c’è qui lo spazio sufficiente per approfondire questo copioso "sotto-genere" letterario che dunque sarà esaminato più avanti solo di sfuggita. Ci sarebbe anche da ragionare (ma confesso la mia scarsa competenza al riguardo) su un intero filone della fantascienza statunitense dedicato alle mutazioni dove spiccano personaggi in sedia a rotelle… ma con super-poteri.
(13) "Blue Champagne" si trova nell’antologia Bolle d’infinito, pubblicata sul numero 1102 di Urania.
(14) Jack Haldeman II, I giorni delle chimere su Urania numero 1022.
(15) Una rete fra le stelle su Urania 1101.
(16) Tradotto dall’Editrice Nord.
(17) Orson Scott Card, Il popolo dell’orlo in Urania 1192.
(18) Così s’intitolò un celebre racconto di Leigh Brackett, una delle poche che riuscì a pubblicare, fin dagli anni ’40, con il suo nome nell’allora misogino ambiente della fantascienza; molte altre donne erano costrette a firmarsi con pseudonimi maschili.
(19) Inedito in italiano.
(20) È uscito presso Libra Editrice nel 1981 nella buona traduzione di Roberta Rambelli.
(21) Credo che i 3 racconti pubblicati dall’editrice Gamma come Paria del cosmo nel 1972 facciano parte del ciclo di Centauro; non avendoli trovati in alcuna biblioteca mi rimane il dubbio se possa trattarsi dello stesso libro con altro titolo (come purtroppo ogni tanto accade, generando confusione nei lettori). Quanto al nome di battesimo, da altre pubblicazioni si deduce essere Floyd.
(22) A firma "u.m." dunque Ugo Malaguti, non nuovo a travisare questo tipo di messaggi; lo stesso gli accade con il romanzo Cristalli sognanti (del già citato Sturgeon), altro romanzo che ha molti punti di contatto con i temi qui affrontati.
(23) In La legge delle stelle del 1963 ma tradotto in Italia (Galaxis editore) solo nel 1986.
(24) Più volte ristampato (da Fanucci nel ’91 e su Urania nel ’98).
(25) È Noi marziani, uscito in varie edizioni Nord e ancora Fanucci.
(26) Si trova nell’antologia I mutanti, Editrice nord.
(27) Il centro protesi dell’Inail è in via Rabuina 14 a Vigorso di Budrio, provincia di Bologna.
(28) Definizioni che rimandano al disegnatore noto come Moebius e a una famosa rivista di fumetti perlopiù fantascientifici.
(29) Sugli antenati letterari e scientifici, su varianti e sotto-filoni, si può leggere, fra gli altri, Il cyborg, saggio sull’uomo artificiale di Antonio Caronia (Theoria).
(30) "Chi conosce Charles Drew? Eppure questo scienziato salvò milioni di vite (…) le sue ricerche resero possibile la conservazione e la trasfusione del plasma. Drew era direttore della Croce rossa degli Usa. Nel 1942 la Croce rossa proibì la trasfusione del sangue di negri. Allora Drew si dimise. Drew era negro" ricorda Eduardo Galeano in La conquista che non scoprì l’America (il manifesto libri).
(31) Si sta parlando di Cesare Lombroso e dei suoi molti seguaci. Chi volesse affrontare questo tema con un lettura insieme rigorosa e affascinante cerchi Intelligenza e pregiudizio: le pretese scientifiche del razzismo di Stephen Jay Gould (Editori riuniti e poi Il saggiatore).
(32) Non è solo la fantascienza a parlarne. Fin dal 1983 lo teorizzò come un concreto progetto (attraverso l’innesto di un bio-chip nel cervello) il ricercatore David Richtie; confronta il suo Il doppio cervello (Edizioni di comunità).
(33) Scholes-Rabkin, Fantascienza: storie, scienza, visione (Pratiche editrice).
(34) È un lungo racconto del 1976 (appunto il 200° anniversario della rivoluzione americana); lo si trova in varie antologie Urania-Mondadori. Il film omonimo invece fu diretto nel ’99 da Chris Columbus e, come nota il critico Morando Morandini, "l’insuccesso espressivo ha coinciso con quello di mercato: la sua imbarazzante pedagogia non ha convinto i bambini e non è piaciuta agli adulti".
(35) Le 3 leggi della robotica, inventate da Asimov (che, in tutti i suoi scritti, immagina siano rese obbligatorie) recitano: "I. Un robot non può recare danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno. II. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge. III. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa auto-difesa non contrasti con la Prima e la Seconda Legge".
(36) Si può trovare questa citazione nella prefazione a un romanzo (di non grande qualità, a dire il vero) intitolato appunto Cyborg, 3° della mini-serie "Robot City" pubblicata da Interno giallo editrice.
(37) È anche nella sua antologia La stagione della vendemmia, ristampata nei Classici Urania.
(38) Frederik Pohl nel suo romanzo Uomo più (Nord).
(39) Anch’esso presso l’editrice Nord.
(40) Nel caso di Hawkins ciò avviene attraverso un complesso sistema di "guarda e scrivi" (Eyegaze response Interface Computer Aid, in sigla Erica) cioè con una video-camera che illumina il volto, grazie a infrarossi scopre quale lettera egli fissa sullo schermo e la scrive.
(41) Il testo (del 1976) è "Uomo, androide e macchina"; si trova in varie antologie dickiane fra cui Mutazioni (Feltrinelli) a cura di Lawrence Sutin.
(42) Fabrizio De Andrè nella canzone "Sogno numero due" contenuta nel disco Storia di un impiegato del 1973.
(43) Esemplare la storia intitolata "Johnny Freak" (pubblicata nel 1993 e più volte ristampata).
(44) Nel romanzo intitolato I nostri amici di Frolix 8 (Fanucci).
(45) Tutti i racconti di Philip Dick sono ristampati (in vari volumi) negli Oscar Mondadori sotto il titolo Le presenze invisibili. Per onestà bisogna ricordare che Dick, personaggio appunto pieno di contraddizioni, ha scritto anche un romanzo (Cronache dal dopobomba, Einaudi) dove il protagonista è un disabile che potremmo definire "cattivo".
(46) Nel racconto "…E la mia paura è grande" che si trova nella già citata antologia I mutanti.

Qualcosa che vale

Untitled DocumentAaa – attenzione
Se conoscete: ministri della sanità, dirigenti Usl, assessori alla sanità e simili inviate loro questo racconto ma senza le ultime righe… poi chiedete
loro che avrebbero fatto.

"Il guaio con i visitatori importanti, pensava Gregory guardandosi attorno nel reparto insolitamente in ordine e dando poi un’occhiata all’orologio, è che arrivano immancabilmente in ritardo; anzi, la mancanza di puntualità è direttamente proporzionale al loro grado di importanza. (…)
Dal corridoio, arrivò un rumore di passi affrettati, sicuramente umani, ed entrò la dottoressa Pearson. Senza nemmeno riprender fiato, la pediatra disse: – È qui, caposala, nell’ufficio del Segretario generale. lo stanno presentando ai capi-dipartimento, gli offrono il caffè
– Il caffè? – disse Gregory.
La dottoressa sorrise: – Mi rendo perfettamente conto che il caffè dell’ospedale è imbevibile, sia per gli esseri umani che per gli extra-terrestri. È stato un puro gesto di cortesia (…) Comunque sono corsa a dirvi che verrà sicuramente in questo reparto. Volevano escludere dalla visita certi reparti particolarmente sconvolgenti, ma ha insistito per vedere il vostro. Sarà qui fra una ventina di minuti. E ora devo tornare con gli altri.
– Un momento, – disse Gregory – che aspetto ha?
– Non saprei descriverlo con esattezza. Non è brutto, specialmente se vi piacciono i cavalli, e ha un sacco di mani e di braccia, mi pare 6, in compenso è privo di gambe. Parla perfettamente, ma a volte fa delle domande strane. – la dottoressa sorrise a Gregory. – Comunque lo vedrete fra poco.
Prima che Gregory potesse aprir bocca, da un lettino in fondo alla corsia si levò un trapestio furioso. Michael, uno dei casi di colonna vertebrale bifida, scoppiò a piangere e Mary, nel lettino accanto al suo, cominciò a emettere una successione di ululati striduli. Nel giro di pochi secondi l’intero reparto fu in subbuglio e i primi giocattoli cominciarono a piovere sul pavimento tirato a lucido.
Le cose, pensava Gregory contrariato, stanno rapidamente tornando alla normalità. (…)
Gregory percorse lentamente la corsia, raccattando un giocattolo o riassettando un lenzuolo, e intanto rispondeva ai sorrisi, ai borbottii indistinti o agli sguardi attoniti dei piccoli pazienti, sussurrando parole di incoraggiamento, cercando di creare un’atmosfera calma e distesa. (…)
Jenny pareva che non dovesse mai più smettere di strillare. Oltre ai difetti congeniti che non le avrebbero consentito di raggiungere la pubertà, Jenny era cieca e afflitta da guasti cerebrali. (…)
L’ospite, pensò Gregory dando un’occhiata all’orologio, è in arrivo e con 10 minuti d’anticipo. (…) L’extra-terrestre apparve a un tratto (…) La testa equina, completamente priva di orecchie, aveva in cima un sottile triangolo di pelo azzurro chiaro che partiva dai grandi occhi e si allargava a coprire la parte superiore del cranio, scendendo sul collo. La bocca dalle grosse labbra era una fessura verticale che non lasciava intravedere i denti. Tra gli occhi e la bocca si allineava una serie di orifizi e di protuberanze carnose, probabili sedi degli organi dell’udito e dell’olfatto, mentre il collo massiccio, di forma triangolare, si allargava verso il corpo tozzo a forma di cono. La creatura aveva tre paia di mani sottili, a quattro dita, sistemate sui due lati del corpo in file verticali, a tre a tre, ma le dita scomparivano tra l pieghe di un gran mantello nero e scintillante che pareva fatto con un frammento di cielo notturno. Le gambe dell’ospite erano nascoste dal mantello, lungo quasi fino a terra, però vedendolo muoversi si aveva l’impressione che la parte inferiore del corpo fosse serpenti-forme e fornita di uno o più cuscinetti.
– Gregory, il nostro infermiere capo – disse il professor Cunnigham (…)
– Se posso fare una proposta professore – disse il visitatore – temo che se mi accompagnano in troppi si scatenino in questi pazienti delle turbe emotive, per cui chiederei, se non avete niente in contrario, di avere con me soltanto la dottoressa e il capo infermiere Gregory. (…)
– In questo reparto sono ospitati i bambini afflitti da difetti congeniti – cominciò la Pearson con un certo impaccio. – Disponiamo di attrezzature molto avanzate e, ma forse la cosa non v’interessa, cioè, voglio dire che le nuove cure e le attrezzature neuro-chirurgiche sono d’avanguardia nel…
Il discorso si fermò a metà e la Pearson arrossì violentemente, mentre l’ospite volgeva lo sguardo su di lei. Sapendo di venir meno al protocollo medico, parlando quando non era il suo turno, Gregory decise di toglierla dall’imbarazzo.
– Questo è Thomas – disse, indicando il visetto sottile, dai grandi occhi spalancati, che li fissava dal lettino. – Non ha ancora due anni, ed è uno spastico, operato una decina di giorni fa. (…)
– Lo stato fisico è stato curato? – chiese l’ospite. (…)
La Pearson si schiarì la voce: – Beh, no, perché Thomas soffre di una quadriplegia spastica congenita, che provoca l’atrofia degli arti. (…)
– Se non vi spiace – disse l’ospite – vorrei vedere quel paziente laggiù, quello con il cranio anormalmente grosso.
Sceglie proprio i casi più difficili, pensò Gregory.
– Questo è Richard – disse la Pearson, senza esitare. – È affetto da idroencefalite congenita risalente al periodo fetale. È causata da un accumulo di liquido cerebro-spinale all’interno del cranio. Non si conoscono cure ed è possibile soltanto alleviarne le sofferenze. (…)
– Ecco Mary – disse la Pearson, piano. – Un caso di colonna vertebrale bifida. Ha tre anni. Sarà sottoposta a intervento, e la prognosi è..
– Grazie dottore – interruppe l’ospite, allontanandosi da lettino. Mary stava dormendo – un altro difetto congenito? – chiese piano.
– Sì signore – disse la Pearson sulla difensiva. – In casi come questi c’è ben poco da fare. (…)
John in fondo alla corsia si era alzato in piedi e scuoteva furiosamente le sbarre. L’ospite si diresse verso di lui.
– Sta buono John – disse la Pearson, avvicinandosi al paziente – Una sindrome di Down – disse, rivolgendosi al visitatore – Più comunemente nota come mongolismo. Si tratta di un difetto congenito dovuto a un disordine cromosomico che determina uno sviluppo anormale dei processi mentali. (…)
– Perché lo si è lasciato arrivare a questo punto? – la interruppe il visitatore.
La Pearson staccò con dolcezza la mano di John dalla tasca del camice, prima che riuscisse strapparla. – Non siamo in grado di curare questo stato, né in periodo pre né post natale. Ora che abbiamo ricevuto la visita di numerose razze extra-terrestri, tutte molto più avanzate di noi, speriamo di avere il loro appoggio per risolvere questo e altri problemi.
– Mi avete frainteso dottoressa – disse l’ospite – vi stavo chiedendo perché lasciate che i bambini come questi vengano al mondo.
La Pearson (…) disse – Non è una risposta facile. Noi possiamo avvertire i genitori e anche consigliarli ma sono loro che decidono il concepimento. E
quando questo succede, anche accidentalmente, sono ancora i genitori a stabilire se il feto, che noi sappiamo senza possibilità di dubbio essere anormale, debba vedere la luce. Si tratta di un problema complesso, che coinvolge l’etica e i diritti dei genitori alla nascita del figlio, e dopo lunghe discussioni non siamo ancora arrivati a una conclusione soddisfacente per tutti. Ma vogliate scusarmi, ci sono altri reparti da visitare (…)
– Caposala – disse l’extra-terrestre – Avete qualcosa da dire?
– Ecco io… – cominciò Gregory e, dopo essersi schiarito, la gola ri-attaccò: – È un problema impossibile da risolvere e non ci resta che curare i bambini come meglio sappiamo. La dottoressa Pearson ha proposto di ricorrere al vostro aiuto per curare casi come questi, in modo da evitare il conflitto etico che… È in grado la vostra gente di darci una mano?
Gregory non riusciva a interpretare l’espressione dell’altro (…)
– Non appartengo al popolo più evoluto della Galassia abitata – disse con voce quieta – (…) Noi siamo i Durreneglen e abbiamo soprattutto il compito di visitare, sorvegliare, dirigere e amministrare i popoli. (…) Con giusto orgoglio affermiamo di essere i secondi della Galassia, perché la prima popolazione ci è superiore nella stessa misura in cui noi siamo superiori agli altri abitanti stellari (…) C’è ben poco che noi non saremmo in grado di fare per voi o per un altro popolo, se fosse necessario farlo.
– Ma allora voi potete aiutare questi bambini – disse la Pearson.
– Probabilmente no – disse il visitatore con calma. Perché il problema è squisitamente vostro e sta a voi risolverlo. (…) Condivido i vostri sentimenti ma ripeto che questi bambini non sarebbero mai dovuti venire al mondo.
– Ma sono venuti al mondo – sbottò Gregory – Noi abbiamo il dovere di fare tutto il possibile per loro, compreso chiedere il vostro aiuto. John è…
– Basta caposala – lo interruppe la Pearson (…).
– Scusatemi se intervengo ancora – disse Gregory, più calmo – (…) John è un bambino affettuoso, bisogna dargli la possibilità di vivere pienamente la
sua vita.
– E di mettere al mondo – disse l’ospite – altri come lui, con le sue stesse menomazioni mentali. (…)
– Buttare un bambino come John nella spazzatura – scattò Gregory – non lo farei neanche se fosse un cane. (…)
– Vi sono nella Galassia popoli – disse l’ospite – che sembrano incapaci di realizzarsi pienamente e, sotto certi aspetti, mi ricordano i vostri
pazienti (…) Sto dicendo che bisogna tendere alla perfezione con sforzi costanti, tenaci, a volte dolorosi. La perfezione non ci viene offerta su
un piatto d’argento. (…)
– E in questa ricerca della perfezione – Gregory si sforzava di rimanere calmo – c’è posto per i sentimenti come la simpatia, la pietà…?
– Soltanto – rispose subito l’ospite – se questi sentimenti sono diretti in modo appropriato e usati in modo costruttivo. (…)
– Un momento, prego – disse Gregory con rabbia. Si chinò sul lettino di Jenny, sollevò quel corpicino incredibilmente leggero con le sue grosse mani e se lo appoggiò nell’ansa del gomito, tirando giù l’abitino per cercare di nascondere le gambe devastate. Poi le scostò dal viso i riccioli in disordine. La sollevò adagio con entrambe le braccia e la tese fino a pochi centimetri dalla faccia dell’ospite.
L’extra-terrestre si tirò indietro, ma solo di qualche centimetro.
– Questa paziente – disse Gregory col tono più professionale e distaccato possibile, – non ci vede e soffre di anormalità congenita che la porteranno a morte prima della pubertà. Queste menomazioni dunque non saranno trasmesse ad altri. Una specie tanto progredita come la vostra non ha qualcosa che riesca almeno ad allievare le loro condizioni? (…)
Jenny tese una mano e sfiorò la testa del visitatore. Subito la ritrasse, poi tornò a protenderla. L’extra-terrestre rimase immobile e non distolse lo sguardo dalla bambina.
– Mi spiace caposala – disse il visitatore – La mia razza non è in grado di curare questa bambina perché ha altri obiettivi cui rivolgere i propri talenti (…) Dovrete cercare da soli.
Senza più alcun timore, le mani di Jenny esploravano, centimetro per centimetro, lo strano profilo della testa del visitatore. L’extra-terrestre rimaneva immobile e si limitava a chiudere i grandi occhi, quando le dita in esplorazione li sfioravano.
– Non riesco a descrivere con esattezza – riprese l’ospite – ciò che provo, perché non mi sono mai trovato in una situazione come questa. La logica mi dice di non tenerne conto. So comunque che in questa confusione emotiva di cui soffro momentaneamente non c’è niente che vale.
Piano piano si districò dalle braccia di Jenny. La bambina cercò di stringerlo più forte. A un tratto premette la faccia sul fianco della bocca verticale dell’ospite e scoppiò in una risata gioiosa. Per un attimo, ogni cosa nel reparto sembrò fermarsi. (…)
– Questo non cambia niente – disse il visitatore, staccandosi dalla bambina.
(…) Gregory adagiò la bambina nel lettino. Stava ancora ridendo.
Da abile e solerte funzionario, il durrenegleniano si sentì in obbligo di aggiungere un commento personale alla conclusione del rapporto.
La popolazione della Terra, a mio parere, è arretrata, instabile, illogica e sotto diversi aspetti tarata – disse al suo "superiore"
(ndr: della razza Illoel). – Questi individui non sono in grado di badare a se stessi (…) Mi stupisco che intendiate mantenere la sorveglianza protettiva. Quella gente è in stato confusionale, scoordinata e altamente emotiva. Se mi è lecito dirlo, sono convinto che sprechiamo tempo e risorse. Sulla Terra non c’è niente che vale.
Con lo stile del superiore gerarchico che si rivolge a un funzionario anziano molto apprezzato e quasi amico, il cui comportamento gli ha dato una piccola delusione, lo Illoel rispose con una critica.
– Voi Durreneglen siete un popolo altamente intelligente, di grande cultura e capacità ma a volte anche voi rivelate i vostri limiti. Non vi è forse parso strano che inviassimo un amministratore del vostro grado in un giro di ispezione che era poco più d’un viaggio turistico? La visita alla Terra era appunto intesa a evidenziare questo vostro difetto. Avreste dovuto rendervi conto che, nonostante l’arretratezza della loro cultura attuale, esistono sulla Terra innumerevoli individui dotati di una qualità rarissima. Questa gente sa istintivamente che cosa è giusto e si ostina a fare ciò che ritiene giusto contro ogni logica e a prezzo di sforzi e fatiche immani, a volte senza alcuna ricompensa. La facoltà è ancora latente e gli uomini non sono ancora in grado di apprezzare questa unica loro qualità; ma anche così è abbastanza forte da tener testa all’opposizione e agli argomenti di un funzionario anziano durrenegleniano, che non è stato capace di individuare in quella loro insistenza nel prodigare fatiche e risorse, senza speranza e ricompensa, la dote
essenziale, di oggi e di domani, della loro gente. Hanno soltanto bisogno di tempo. Il controllo protettivo sarà mantenuto. Sulla Terra c’è qualcosa che vale".

Il racconto del quale avete letto ampi stralci è di un noto "sfi-man", James White, e s’intitola Somethin of Value (Qualcosa che vale), come un interessante film di Richard Brooks che negli anni ’60 ebbe il coraggio di non demonizzare i mau-mau del Kenia. In italiano è stato pubblicato sul numero 1012 di Urania; per i pignoli si può aggiungere che un qualche errore di traduzione (o un taglio?) rende difficili un paio di passaggi anche se l’insieme risulta chiarissimo. Per i bibliofili incalliti si può invece aggiungere che era in coda al romanzo Quando scoppiò la pace di Vernor Vinge.
Se vi sfuggisse la ragione per cui vi abbiamo consigliato di inviarlo ai responsabili della nostra sanità… beh, pensate ai tagli della spesa pubblica e magari ai soldi che si spendono per le armi. Vogliamo parlarne o abbiamo bisogno che davvero qualche extra-terrestre ci spieghi che sulla Terra c’è qualcosa che vale?

Tv sorrisi canzoni … e lacrime

Ogni tanto ci capita,, sfogliando qualche giornale, di trovare articoli e fotodedicati a persone handicappate.
Si vedono carrozzelle, si parla di cecità o di afasie, si fa riferimento adinterventi chirurgici più o meno miracolosi, si tenta di strappare qualchelacrima. I protagonisti di queste cronache debbono "necessariamente"godere di una certa notorietà. L’handicap del signor Rossi non fa notizia.
Si deve essere qualcuno e preferibilmente nel mondo dello spettacolo o dellosport.
Il mezzo televisivo è il trampolino di lancio indispensabile per questo tipo difama. Pensate ad un personaggio come Dora Moroni. Qualche anno fa era vallettadi un programma di varietà e canzonette che riscuoteva, presso il grandepubblico, un grande successo. Tutta roba di serie B eppure quando ebbe undrammaticoincidente la ragazza cominciò a comparire su tutti i rotocalchi e ogni fasedella sua vicenda entrò nelle case degli italiani. La televisione aveva fattoil miracolo. Si seguiva il decorso post-traumatico della signorina Moroni comese si trattasse di una persona di famiglia, di una amica che ci sta molto acuore.
Poi l’interesse cominciò a scemare e da un paio di anni della ragazza e dellasua mamma non si parla più- La società dello spettacolo non aveva piùbisogno di questo caso e ne sputava i resti senza farsi accorgere da nessuno.
Clay Regazzoni e Alberto Lupò restano invece a galla, ogni tanto compaiono suqualche giornale, ogni tanto ci raccontano qualche banalità in programmitelevisivi. Potremmo fare altri nomi. Tutti non potrebbero però chedimostrare la regola che ricordavamo prima: l’informazione dedica pochissimo spazio all’handicap "non firmato".
L’ultimo caso che abbiamo sotto gli occhi conferma abbondantemente la nostraopinione; riguarda un giovane e, a quanto pare, popolarissimo attore difotoromanzi che si chiama Franco Gasparri. Tre anni fa mentre andava inmotocicletta, l’aitante giovanotto cadde e subì gravi lesioni midollari. Oggivive una dolorosa condizione di handicappato grave. Una storia come tante chemerita il nostro fraterno rispetto
Ma invece la stampa – in questo caso STOP, rotocalco di basso livello ma diquelli che fanno opinione – usa questo episodio per far leva sulle nostre cordepiù fragili, gioca sulle nostre emozioni. Parole e immagini sono costruite conl’intento preciso di suscitare curiosità morbose ma senza dirci nulla sullareale situazione medica e sociale di quest’uomo. Andrebbe benissimo, peresempio, se dietro al nome di Gasparri si facesse intravedere la vasta areadell’handicap e dei problemi e disagi che essa vive. Niente di tutto questo.Il caso deve rimanere isolato se no diventa noioso. La notizia per esserebuona deve avere l’effetto di un pugno nello stomaco. Il resto non ècronaca, non è giornalismo,non è informazione. E’ materiale adatto a saggi suriviste specializzate o a relazioni e interventi in convegni per addetti ailavori. Questa è la filosofia della stampa. Ci sbagliamo? Abbiamo esagerato?Il nostro giudizio e troppo perentorio? Può darsi. I casi sui quali ci siamosoffermati non sono forse sufficientemente indicativi dell’orientamento complessivo della stampa italiana.
Proprio per questo vogliamo andare più a fondo sull’argomento.
Il nostro giornale ha deciso di seguire in maniera sistematica per un periododi sei mesi i quotidiani e i settimanali più importanti e più diffusi nelnostro paese. Sarà uno sforzo molto impegnativo tenendo conto delle nostrerisorse economiche ed organizzative.
Lo affrontiamo però con molto entusiasmo nella convinzione che si tratti diuna ricerca importante. Poi potremo dire con più autorità come si comportala stampa nostrana nei confronti dell’handicap. E tenteremo di trarre da questolavoro tutte le lezioni possibili.

All’handicappato basti un solo assessorato

Che la persona handicappata sia sempre stata esclusa dalla produzione dicultura è un dato di fatto, come lo è per altre"categorie" diemarginati , come lo è stato, e per certi versi lo è tuttora, per le donne.
Emarginazione è quindi anche e soprattutto esclusione dalla cultura, dallapossibilità di riceverne e di produrne.
Da sempre le persone handicappate sono inglobate nei sistemi"assistenziali" e di "sicurezza sociale", la loro vita ele loro esigenze sembra si debbano esaurire in queste – strutture , sembra chenon esistano altre necessità e desideri che l’essere assistiti e avere deiservizi.
Certamente molto negli ultimi dieci anni e cambiato, soprattutto nella scuolae nei servizi materno/infantili, e particolarmente qui a Bologna. Per moltiperò la persona handicappata resta ancora di competenza esclusiva deiservizi sociali e sanitari.
Proprio in questo periodostiamo organizzando la presentazione di un libro,scritto da una personahandicappata, che ripercorre in chiave sociale e psicologica le varie tappe della "carriera" di un handicappato. Un libro insomma che si inseriscenel piccolo, ma significativo filone della "cultura V deglihandicappati". E trattandosi di cultura ci siamo rivolti, per unacollaborazione, ai competenti assessorati di Comune e Provincia.
Positivo il contatto col Comune, nonostante un timido tentativo di unfunzionario di indirizzarci dall’Assessore ai Servizi sociali Ancona.L’assessore Sandra Soster ci ha fissato un appuntamento e ha voluto copiadel libro in questione per consultarlo di persona.
Il contatto con l’assessorato alla cultura della Provincia ha avuto invecetutt’altro esito: basandosi unicamente sui titoli dei libri si è sentenziatoche la competenza rimanesse ancora una volta sull’Assessorato ai servizisociali.
Questo non è un episodio isolato, ci è successo anche quando abbiamoorganizzato una ricerca sui mass-media e l’handicap. "Potreste sentireanche da Ancona!", ma poi l’Assessore competente per il "PianoGiovani" ci sembra abbia capito e condiviso le nostre motivazioni ecrediamo che anche per le persone handicappate il "Piano giovani" delComune possa riservare spazi interessanti.
Analoga sorte subisce spesso in giro il tema delle Barriere architettoniche.Perché gravare sulle già tartassate finanze dei "servizi sociali"?
Le barriere architettoniche non riguardano solo le persone handicappate einoltre sono un problema soprattutto di edilizia, assetto del territorio , trasporti.
I servizi hanno fatto grandi passi avanti, ma una "cultura" diversaper e degli handicappati stenta ancora a progredire, tra gli amministratori ,tra gli addetti ai lavori, tra gli stessi handicappati e le loro famiglie.
Quello che è servizio sociale è servizio sociale, quello che è sport èsport, quello che è edilizia è edilizia, quello che è cultura è cultura(conle dovute correlazioni, naturalmente). Noi la pensiamo così perché unhandicappato prima di tutto è una persona e come tale ha diritto di farparte dell’intera realtà sociale.

Sesso negato

Sesso e handicap: a quanti si rizzano i capelli sentendo un simile accostamento? Quanti si vestono di teorie e moralismi per non ammettere che lerelazioni affettive e sessuali fanno parte integrante delle persone disabilicome di qualsiasi individuo? E non parliamo solo di pedagogisti, psicologi,neuropsichiatri, di addetti ai lavori in somma, ma di chi vive sulla propriapelle tali recriminazioni e crescendo con la convinzione che "certe cosesporche non saranno mai possibili" si convince della giustezza di unaeducazione che spacca a metà l’individuo: da una parte si creano per le personehandicappate interventi di integrazione e socializzazione, dall’altra sieffettua sistematicamente la castrazione morale di chi non rientra nella norma
Le prime pubblicazioni che toccano questi argomenti sono firmate Rosanna Benzi,Camallo Valgimigli, Cesare Padovani e risalgono agli anni ’75 – ’76,
mentre nel ’77 è indetto a Milano il primo convegno dal titolo"Sessualità e handicap".
Salvo iniziative sporadiche però, il tema delle relazioni affettive esessuali delle persone handicappate è tutt’oggi tabù e chi trasgrediscequesta regola desta ancora grande scalpore: è dell’ultima ora la polemicasollevata a Parma dal film di Silvano Agosti "D’amore si vi ve"realizzato in collaborazione con 1’Assessorato alla Sanità del Comune diParma.
Con queste premesse abbia mo iniziato il lavoro di raccolta di materiale riguardante la sessualità a cui è seguita la formazione di un gruppo distudio come risposta all’esigenza di conoscere e approfondire un tema cosìsentito da ciascuno di noi.
E così abbiamo scoperto che sul problema dei rapporti interpersonali, suiproblemi della tenerezza, dell’amore, della sessualità, tutti hanno difficoltàad entrare nellamischia, ma che è anche comodo utilizzare queste difficoltà per insabbiareancora una volta la sessualità dei "diversi. La ricerca del gruppo noncoinvolge soltanto le persone handicappate, vogliamo arriva re dentro lacosiddetta "norma" non soltanto per mettere in discussione larelatività di questo termine, ma sopratutto per comprendere le veremotivazioni che spingono tanti "normali" a reazioni così diversedi fronte alla vita sessuale e affettiva di chi non rientra nei canoni. Capirei per che di chi nega, prima di tutto a sé stesso, l’esistenza di un corpovivo e teso verso gli altri; chi invece, per contro,coglie di questa persona solo l’oggetto di cure riabilitative; chi ha orroredi pensare il proprio figlio handicappato mentre fa l’amore; chi ancora, ma gliesempi sarebbero ancora tanti, teme questi amori come generatori di altri mostriinconfessabili…. e l’impossibilità di compiere l’atto sessuale, come sel’amore avesse un solo binario in cui poter correre, e i soliti modelli da ricalcare: "lui" forte e conquistatore, "lei" belle e oca,pronta ad essere rapita.
L’elenco sarebbe interminabile e il nostro lavoro vuole essere solo lo stimoloa questa riflessione, una premessa per un capitolo solo iniziato.


SESSUALITA’ E HANDICAP, PER SAPERNE DI PIU’ :

Cesare Padovani "La speranza handicappata, Ed.Guaraldi 
C. Padovani,I.Spano – "Handicap e sesso, omissis" Ed.Bertani 
AA.W. -"Sessualità e handicappati", Ed.Feltrinelli Rosanna Benzi – "Seidimezzato e non avrai sesso", rivista "Gli Altri" n.3/1976 Camillo Valgimigli – "Problemi sessualidegli handicappati", "paese sera" 2/12/76
C.Valgimigli -"Quando il sesso è dell’handicappato non se ne parla", "Corriere della sera" 12/8/76
C.Padovani – "Sesso e handicappati, coraggio parliamone", "Corriere della sera" 8/9/77 C .Padovani – "Per una diversa       gestione del corpo; note sui problemi affettivi e sessuali degli handicappati" rivista"Psicoterapia e Scienze umane" 1976

Noi genitori

Siamo i genitori di una ragazzina di 15 anni affetta da epilessia dall’età ditre anni. Essere genitori è una cosa meravigliosa, crediamo per tutti; perquelli come noi, anche se a tanti sembrerà strano lo è doppiamente, infatti imodelli che ci vengono proposti dalla selvaggia diffusione del consumismodovrebbero farci reinventare questo "mestiere" in un periodo in cuigenitori e figli quasi si ignorano o si cercano senza trovarsi. Michela, nostrafiglia, ha avuto ed ha tuttora un ruolo determinante nelle riscoperte di questivalori.
Parecchi anni ormai sono trascorsi da quando i medici ci hanno informato dellasindrome che aveva colpito Michi, noi eravamo molto giovani, completamenteimpreparati a questa evenienza; pensavamo che queste cose accadessero solo aglialtri, ma perché poi solo agli altri? Tuttavia la nostra parola d’ordine fusubito: deve guarire.
Per Michi è iniziato il lungo calvario di esami, consulti, controlli.Completato l’iter diagnostico restava da risolvere per la nostra famiglia ilproblema di accettazione.
Michi fisicamente cresceva bene ma psichicamente restava e resta sempre unabambina. Certamente è stato difficile ed abbiamo camminato insieme a lei,lentamente, abbiamo cercato in tutti i modi di capire il perché di certicomportamenti. Spesso abbiamo sicuramente sbagliato nel volere a tutti i costicercare una risposta ma in fondo noi genitori commettiamo, nel volere a tutti icosti che i nostri figli crescano a nostra immagine e somiglianza, gli stessierrori che hanno commesso i nostri genitori. Quando nasce un figlio vorremmovedere realizzati i nostri sogni che sono bruscamente riportati alla realtà sequesto figlio è handicappato e maggiormente se lo è psichicamente. Il nostrocompito di genitori è diventato oggi sempre più difficile: Michi è ormai unabella ragazzina, l’abbiamo accettata per quello che è consentendole di viverein mezzo agli altri, però noi non possiamo sostituirci ai suoi amici e speriamoche Michi mantenga a lungo e consolidi queste amicizie. Noi oggi abbiamo il difficile compito di costruire il futuro diMichela e da soli non potremo fare molto anche perché pensiamo che la societàdovrebbe prendersi verso questi ragazzi molte più responsabilità. Èmortificante scoprire che il più delle volte sono riconosciuti solo come"diversi". Michi ora ha terminato la scuola dell’obbligo dove bene omale era inserita, anche se solo fisica-mente, cioè con concessioni solopietisti-che, ed ora non sappiamo che cosa ci riserva il futuro.
Questo è il grosso problema che ci angoscia: a 15 anni Michela non è inseritain una struttura idonea, che ne sarà quando noi non potremo più occuparci dilei, quando non ci saremo più? Il compito di tutti noi genitori però è quellodi non mollare mai! Anche se spesso abbiamo la sensazione che ci prendano ingiro queste inesistenti istituzioni; purtroppo abbiamo tanto bisogno deglialtri, ma le umiliazioni e i no sono sempre uno stimolo per andare avanti.

Monolocale sarà lei

Sono andati a scuola, molti hanno imparato a leggere e a scrivere, qualcuno èandato a lavorare, qualcuno si è laureato.
Dalla grande stagione degli anni 70/80 è passato un po’ di tempo; molte cosesono cambiate, altre sono rimaste uguali. Col trascorrere degli anni i problemidi cui una famiglia si occupa cambiano: prima la riabilitazione, poi la scuola,la formazione professionale, il lavoro. Da alcuni anni a questo elenco si èaggiunto un altro tema: il "DOPO FAMIGLIA", ovvero "…quando nonci saremo più noi dove andrà nostro figlio?". È un chiaro segno che glianni passano, un interrogativo doveroso e legittimo rispetto al quale questeriflessioni offrono alcuni contributi che non intendono aprire né chiudere latematica, ma solo stimolare un confronto.
Quale dopo famiglia? Quali destini ipotizzano per le persone handicappate iprogetti in questo settore? A quale handicappato si pensa occupandosi deldomani?
Le soluzioni che più spesso vengono proposte riguardano la vita comunitaria instrutture più o meno assistenziali o, all’opposto, il vivere in uno spaziolimitato che difficilmente va al di là del monolocale. Come di fiducia, anchedi metri quadrati si è spesso avari nei confronti delle persone handicappate.Se il dopo famiglia è un tema più che legittimo, meno legittimo, a mio avviso,è il vederlo unicamente riferito alla dimensione "futuro", al domani. Dopo famiglia è anche oggi, è nellescelte e nella qualità della vita dell’oggi che stanno le radici del dopofamiglia.
Ecco allora un primo spunto di riflessione; non fare del dopo famiglia un tema asé stante, legato solo all’età raggiunta, ma incrociarlo con le altretematiche dell’handicap perché non devono certamente essere gli uffici anagrafea scandire il tempo della vita di una persona handicappata. Il dopo famiglia noncomincia a 40 anni, come la sessualità non comincia a 13 e la"scuola" non finisce a 15.
Autonomia, affetto, istruzione sono momenti dell’essere persona che vanno al dilà delle date di nascita e possono accompagnarci per tutta la vita nel loroevolversi.
Conoscere il caldo e il freddo a pochi mesi non è meno importante dellostudiare chimica all’università. Addormentarsi bambini in braccio al propriopadre non è meno importante del dormire accanto alla propria moglie. Saltaredal muretto dell’asilo insieme al timore e alla fiducia di tua madre non è menoimportante del "saltare" fuori di casa, anche qui col timore e lafiducia dei tuoi genitori. C’è un percorso per il sapere. C’è un percorso perl’affetto. C’è un percorso per avere e dare fiducia. C’è un percorso anche peril tema dell’autonomia che, credo, possa e debba stare di diritto all’internodel "dopo famiglia".

QUALE AUTONOMIA?

Occorre a questo punto sgombrare il campo da un possibile equivoco. Esistonocertamente tantissime situazioni in cui è ditficile parlare di autonomia.Handicap che richiedono continua assistenza e realizzano autonomie moltolimitate. Occorrono quindi strutture con grosse connotazioni assistenziali e incui le singole persone devono inevitabilmente confrontarsi con l’organizzazione,i suoi tempi e i suoi modi. E qui certamente le esigenze pratiche quotidiane, icosti di gestione, la presenza di operatori ed utenti dovranno trovare un loromodo di coesistere con l’esigenza di spazi personali, di autonomia, di rispettodelle individualità.
Necessità assistenziali ci sono per tutti, ma non per tutti sono l’esigenzaprimaria delle 24 ore o possono non esserlo se si rispettano e ricercano altreesigenze e prospettive.
Ci sono molte persone per le quali il dopo famiglia potrebbe essere vissuto comepercorso verso una sempre maggiore ; autonomia, in termini soprattutto relazionali e psicologici, ma anche fisici. Autonomia quindi come percorso, comeun’occasione da sfruttare, come l’ incontro/scontro con la propria maniera diessere al di fuori della famiglia, come l’incontro/scontro con una nuova manieradi essere nei confronti della propria famiglia. Esistono spazi neiprogetti del dopo famiglia per questi tentativi di autonomia? Esistonocategorie mentali disposte ad accettare il rincontro/scontro che ogni novitàporta con sé? Proviamo a partire non tanto da discussioni teoriche, madal concreto, dalle parole e dai disegni che troviamo sulla carta.
I disegni. I progetti architettonici riflettono la realtà esistente, i destiniche si ipotizzano per e le immagini che si hanno degli handicappati.
Comunità alloggio. In mezzo un corridoio, da una parte il "privato",stanze a due letti più o meno uguali. Di là dal corridoio il"pubblico", salaTV enorme, sala da pranzo pure, cucina grande ilgiusto che tanto non si pensa nemmeno che qualche persona handicappata possafarsi un thè, figuriamoci un piatto di spaghetti.
Strutture quindi in cui il "comunitario" è già definito in partenza,un dato di fatto che limita molto la scelta. Per molti non può che esserecosì, ma per qualcun’altro? Personalmente credo sia meglio avere un angolo cotturaproprio e usarlo magari anche solo una volta all’anno, piuttosto che rinunciare,o meglio neppure pensare, di cucinare un piatto di spaghetti con l’amica/o chehai invitato a casa.
Uno spazio proprio non è un lusso, è una esigenza di ogni individuo, anchemagari se per 30 anni nessuno a questa esigenza ha pensato, né gli altri, nétu. "Non è mai troppo tardi" recitava una vecchia trasmissione TV,avere fiducia e riceverla vanno di pari passo e ogni tempo e luogo sono adattiper incominciare questo cammino.
L’autonomia ha bisogno di soluzioni da costruire, ma anche e soprattutto dioccasioni da sfruttare. I disegni. Camere a due letti. Per tutti? La camera adue letti definisce una persona handicappata nella cui storia non è mai entratala dimensione del "segreto". Niente nascondigli nei giochi da bambino,un corpo troppo evidente per passare inosservato, una autonomia giudicataassente per poter sfuggire a sorveglianze amorevoli e istituzionali. Ma davveroessere in carrozzina esclude obbligatoriamente dal segreto di un proprio spazio?La privacy della propria camera, di un proprio cassetto è solo una questionefisica (mancanza di movimento) o è anche un percepirsi reciprocamente personecon un eguai diritto alla privacy/segretezza che va al di là .del potersimuovere autonomamente o meno?
Se lo permettiamo l’uomo influisce sull’ambiente e se lo permettiamo l’ambienteinfluisce sull’uomo. Se pensiamo ad una persona handicappata unicamente passivanon progetteremo che ambienti "passivi", privi di "segreto",senza "prospettive", dove le esigenze di funzionalità prenderanno ilsopravvento sulle esigenze di relazione con sé stessi e con l’ambiente e sullepossibilità che queste esigenze emergano e si sviluppino.

LA COMUNITÀ: UNA SCELTA

Un tentativo di percorso di autonomia non può essere racchiuso in spazi giàcodificati e decisi a priori, ma deve presupporre spazi da conquistare; un lettoin più se si vuole qualcuno in camera (fisso/temporaneo/per una sera) comescelta e non come dato di fatto, un angolo cottura in più, una cucina in piùper scegliere se mangiare da soli o con gli altri, e tutto ciò va di pari passocon la necessità di adeguate opportunità finanziarie in un settore fino ad oranegato. Il vivere in comunità, e qui ognuno è libero di interpretare questotermine come meglio crede, può essere una scelta ad un certo punto dellapropria vita; se è un obbligo, di cui si ha coscienza o meno, è inevitabileche di questo obbligo se ne scontino tutte le contraddizioni, dichiarate o noche siano. La comunità (comunità alloggio, casa famiglia, strutturaresidenziale, pensionato, ecc.) è probabilmente per molti l’unica soluzionenella attuale situazione dell’handicap. Ma lo è per tutti? Apre e chiude lepossibilità del dopo famiglia? Ed è davvero inevitabile o sono i limiti dellanostra fantasia e della nostra fiducia nei confronti delle persone handicappatea renderla tale? La comunità può essere una delle soluzioni, ma non deveessere l’unica; si possono e devono cercare e inventare anche altri spazi dovel’importante non è teorizzare la comunità, né essere sempre per forzadisponibili agli altri, e nemmeno il misurarsi con sé stessi, ma semplicementeessere sé stessi, con i propri limiti e le proprie capacità. Una prospettivadel genere non è certamente facile, né garantisce da problemi e difficoltà,anzi in un certo senso le calamità.
Certamente per chi ha avuto saltuarie possibilità di sperimentare una propriaautonomia non sarà facile confrontarsi con uno spazio proprio, lontano dallafamiglia.
E quale spazio? Un proprio appartamento? Uno spazio autonomo in una strutturaresidenziale? Vivere da soli o in compagnia? In compagnia di chi? Comemantenersi e affrontare il quotidiano? Francamente non ho soluzioni pronte daoffrire e nemmeno le idee completamente chiare, ma mi viene da credere che trale persone handicappate ci sia chi desidera pensare ad una casa propria e nonsolo ad un pensionato, ad una cucina propria e non solo all’angolo cottura, aduna eventuale vita comunitaria come scelta e non come tappa obbligatoria.

Il mangiare, gli handicappati e gli ombrelli

Questo titolo un po’ curioso è il verso di una bella poesia di ClaudioImprudente.
Oltre che una bella poesia, mi pare che abbia un significato emblematicoimportante. Ho già detto a Claudio, all’autore, che non credo sia importante cheil significato che io leggo in quella sua poesia sia lo stesso delle sueintenzioni. Una poesia ha quasi il dovere di essere disponibile a più lettori;e non è detto che l’autore abbia diritti speciali di interpretazione. Può,dunque, essere che la mia interpretazione coincida con le intenzioni di Claudio,oppure no: l’incertezza non è un ostacolo ma, per qualche aspetto, un elementodi maggiore interesse.
La poesia ha come tema la visita di un personaggio ritenuto carismatico: il suopassaggio porterà salvezza, pace e darà un senso a ogni cosa e persona. Manello stesso momento, ogni cosa o persona diventerà come un accessorio alla suapresenza o al ricordo del suo passaggio.
La presunta centralità dell’evento sembra, nella poesia, un gioco tra ildrammatico e l’ironia. E il verso che ho ripreso per il titolo di questa miariflessione mi sembra emblematico: tre elementi (mangiare, handicappati eombrelli) sono collocati nella dimensione di accessori e tendono a indicare cheattorno all’evento si collocano tutti, cose e persone.
Nessuno è trascurato, ma ogni elemento è ricondotto a questa dimensioneaccessoria.

Non affidateci agli scimpanzè

Su il "II Manifesto" (22 aprile 1986), il lettore Luca Pampaloniscrive una lettera che viene intitolata NON AFFIDATECI AGLI SCIMPANZE’. LucaPampaloni, che è handicappato, prende spunto da servizi della televisionesull’impiego di scimmie ammaestrate come aiuto alle persone impos.sibilitate acompiere gli atti quotidiani della vita.
Questo accade negli Stati Uniti. Luca Pampaloni rileva in primo luogol’utilizzazione impropria degli animali, Ma soprattutto protesta, comehandicappato, perchè la RAI dimostra la volontà di disinformare la gente sullereali esigenze dei portatori di handicap. Le esigenze fondamentali sonocollegate alla possibilità di essere con gli altri e in mezzo agli altri.
"Non voglio, dice Luca Pampaloni essere ghettizzato, anche se in unappartamento e non più in"centri di riabilitazione". "Il timoremaggiore è che ci sia una scelta fra una certa autonomia garantita da mezzitecnici e una vita aperta alla socialità. In un clima di forte individualismo,la falsa scelta sarebbe risolta a favore di una autonomia tecnicizzata".
La poesia di Claudio Imprudente suggerisce un motivo in più di comprensione edi interpretazione della lettera di Luca Pampaloni nella percezione dihandicappati che diventano accessori in un evento che vorrebbe mascherarsi opresentarsi nella veste, certo un pò seducente, della tecnica e del tecnicismo.
E’ giusto che chi si sente trasformato o fissato in questa posizione, reagiscae si ribelli. E’ quindi comprensibile quello che vuole dire Luca Pampaloni nellasua lettera: comprensibile e condivisibile.

All’università

Claudio Imprudente ha tenuto due lezioni in università, all’interno del corsoche tratta i problemi pedagogici degli handicappati.
Il modo di comunicare di Claudio passava attraverso una tavola trasparente, sucui sono collocate’ le lettere dell’alfabeto. Claudio fissa una ad una lelettere dell’alfabeto di cui vuole servirsi, e il suo interlocutore ne segue losguardo, compitando ad alta voce le lettere e formando parole e frasi.
La tavola trasparente è dunque tenuta all’altezza degli occhi di Claudio e delsuo interlocutore, posti uno di fronte all’altro. Naturalmente Claudio è statotrasportato a braccia, nella sua carrozzella, nell’aula della lezione. Il primoincontro è stato imperniato proprio sulla carrozzella.
Claudio aveva preparato un serie di diapositive con soggetti tipo: la cima diuna montagna nell’azzurro del cielo, un gabbiano che vola, un fiore, una madrecon un’neonato, ecc … Per ogni diapositiva Claudio ha voluto interrogarequalcuno dei presenti perchè associasse all’immagine l’espressione deisentimenti che provava.
I sentimenti erano positivi: nella direzione del piacere, della conquista edel senso dell’infinito, della vitalità, del mistero che affascina. Poi, all’improvviso, è apparsa l’immagínedella carrozzella; e i sentimenti espressi sono stati nel senso dell’ostacolo,della barriera, del limite, della prigionia.

Claudio e la cultura di morte

Le espressioni dei sentimenti provati si confrontano senza bisogno di lunghicommenti. Claudio ha esposto le sue idee circa la cultura di morte, antagonistadi quella della vita. Ciascuno dei presenti ha riflettuto in silenzio, ed èprobabile che non sia sfuggito il condizionamento della cultura di morte sullenostre istintive reazioni alle immágini che osserviamo. La cultura delprofitto, della guerra esportata e venduta qua e là nel mondo, della salutemonetizzata, insinua in noi sentimenti che finiamo per ritenere nostri.
Torno alla carrozzella e mi domando se essa è solo ostacolo o anche puntod’incontro. Anche per il secondo incontro, Claudio è stato trasportat o sudalle scale con la carrozzella fino all’aula. E nella seconda lezione haillustrato ì diversi ausilii di cui può servirsi per comunicare: dallatavoletta in legno con le lettere dipinte su cui battere con la mano al computercon una tastiera particolare.
Gli ausilii sono tutti necessari, perchè ciascuno ha la sua economicità.Quindi sono utili anche gli ausilli sofisticati e per i quali Claudio può agirein autonomia. In questo modo i sussidi tecnici e le possibilità di socialitànon sono antagonisti e non costituiscono i termini di una falsa scelta.
L’economicità degli ausili: questa è certamente una espressione ambigua; estrapolata consente quelle visionineutralistiche e di sapore assolutamente tecnicistico nei confronti delle qualiClaudio Imprudente è così profondamente critico. Quindi l’economicità degliausili non può essere un elemento autosufficiente.
Economia per cosa?
Nel caso specifico si è trattato di autonomia per comunicare: la tavolettain legno è leggera e può essere portata in giro, così come quella in trasparenza.
Non il computer, che però consente a Claudio di scrivere poesie, riflessioni,articoli, lettere. Sono quindi ausilii che hanno funzioni diverse e integrabilifra loro, e permettono di variare le distanze rispetto agli altri: essere incomunicazione alla presenza degli altri; ed esserlo pensando forse agli altri inuna certa riservatezza.
E’ probabile che anche in questo si realizzi una cultura di vita.
Allora viene da concludere che la cultura di vita è sempre al plurale: èricerca di verità, è possibiltà di avere ragione da un certo punto di vista etorto da un altro. Non è la verità in esclusiva nè la vita in esclusiva. Nes~suno può essere accessorio, di nessun personaggio e di nessuna visita. Pertutto questo, per queste lezioni: grazie Claudio.
E qualche scimmietta potesse darti un aiuto senza che di?venti una scelta inesclusiva o iwalternativa, ben venga anche la scimmietta.
Credo che Luca Pampaloni sia d’accordo.

Andrea Canevaro

Una storia di protesi

Se consideriamo il valore di alcune parole che nella loro etimologia pescano da radici comuni, protasi richiama immediatamente protesi. Da questa omofonia, non certo casuale, si parte sempre da un inizio, «inizio per», aprire in altre parole un cammino verso …e quindi punto d’appoggio o di riferimento, proposta.
Del resto, anche la parola «cultura» era ed è stata un tutt’uno con il concetto di «coltura» (da colere, raccogliere, coltivare). Il fatto che, in seguito, sia convenientemente scivolata a rappresentare la sovrastruttura per antonomasia, e quindi a staccarsi (opportunisticamente) dal concreto, questo porta a riflettere sui parallelismi tra l’uso delle parole istituzionali e le rappresentazioni delle strutture socio-economiche. Perciò, anche nel nostro caso, porta a riflettere su quel lato storico e culturale della protesi che, da posizione iniziale di riferimento, di apertura e probabilmente tesa verso un «per»…un messaggio, una comunicazione, sia stata spesso confusa con una specie di ortopedia formalistica, di xosture indotte e funzionali ad una esteticavigente.

LA CHIAVE DELLA RIABILITAZIONE

Riflettiamo ancora: appoggio per, e sottinteso comunicare. Questa è la chiave della riabilitazione. Quindi tutti gli appoggi, i sostegni possibili per espandere le interazioni e le interelazioni, per proporsi. Allora il corpo diventa una cassa di risonanza, un laboratorio vivente di espressioni. E’ il corpo comunque, a partire da qualsiasi stato si trovi. Nella storia della antropologia culturale, strumenti come le scarpe, ad esempio, hanno rappresentato le prime forme di ortopedia, di punto d’appoggio, di espediente per espandere le possibilità per utilizzare meglio il corpo in certe situazioni socio-ambientali (Il fatto che, da protezione, in seguito, la scarpa sia stata modificata e, attraverso la moda, divenuta parte dell’abbigliamento…fino al tacco a spillo, lontano dal punto d’appoggio, anche questo fa parte dell’evoluzione socio-culturale). La stessa cosa può essere per il bastone: un punto d’appoggio rudimentale per conquistare lo spazio, per spostarsi, per esplorare, per difendersi, per conoscere…

LE SOVRASTRUTTURE ORTOPEDICHE

E proprio con l’affinamento della «cultura» anche le sovrastrutture or-topediche sono diventate materia prima della tecnologia, allargandosi e assecondando le innumerevoli pi-grizie dell’intera popolazione: le sedie hanno messo ruote e motore, le scale sono diventate nastri scorrevoli, il testo scritto uni sequenza di immagini e ogni progetto logico è stato affidato a un transistor… Tutto questo, in termini generali, può rappresentare il progresso civile nel senso migliore del termine dove l’intelligenza è un prolungamento del corpo adattato all’ambiente e le realizzazioni tecnologiche le sue ortopedie, le sue riabilitazioni. Ma rappresenta anche un paradosso costantemente convivente al progresso: lo stesso mezzo o strumento di conquista di un territorio affettivo, creativo e conoscitivo può essere parimenti (o diventare) il pretesto per delegare agli altri, alle macchine, la responsabilità e l’impegno, e quindi la solidarietà, la comunicazione e le relazioni affettive; ed è proprio in questo caso che l’attrezzo aumenta le barriere e complica le interelazioni portando all’isolamento. Termini come autonomia, allora, si identificano con autarchia, soliloquio, monologo del corpo ,e del linguaggio.

ORWELL 1984

Orwell ha fatto parlare filosofi e linguisti riguardo ai suoi «futuri» possibili: l’aspetto più catastrofico della sua profezia sta nel rapporto inversamente proporzionale tra l’aumento mostruoso della realizzazioni tecnologiche e la riduzione al minimo del codice per comunicare, e qundi dei linguaggi espressivi (con ottanta lessemi si dovrebbe rappresentare l’intero universo possibile!). Orwell è ancora utopico? Non si tratta a questo punto di costruire tutti assieme una controcatastrofe: anche questo potrebbe aumentare il paradosso. E’ piuttosto realisticamente preferibile porsi come operatore ma anche come soggetto, costantemente in tensione, nell’attegiamento critico di lettore delle cose del mondo, non per attendere passivamente, non per constatare soltanto, non per prevedere lamentandosi, non per chiudersi in se stessi. Lettore delle cose del mondo per riabilitarsi, per vivere massimamente il sé, per migliorare la propria intelligenza corporea secondo un modello che non è esterno e prototipo ma è il nostro modello, il prototipo di ciascuno di noi, del rapporto armonico con noi stessi e col nostro territorio affettivo, della virtù che sta sempre latente nascosta o imprigionata e che può uscire, rivelarsi anche con la macchina, con l’ortopedia, con la riabilitazione, ma che soprattutto si rivela nella messa in moto (con o senza ortopedia, con o senza posture), delle qualità dell’essere, delle potenzialità espressive, in una parola, della comunicazione. E’ allora che il corpo si scuoterà dalla sua pigrizia, che si metterà in moto, che si appoggierà alla tecnologia ma per accelerare le sue fasi di apprendimento, che migliorerà ma per sé.

IL CORPO D’AMORE

Mi auguro che i tecnici, gli educatori, gli operatori sanitari possano indicare nuove vie di riabilitazione, nuove scoperte ortopediche, tecnologie più raffinate: ma che siano terapie nel significato di punto di partenza, proposta per, predisposizione alla comunicazione, punto di partenza per il racconto del proprio universo, protasi.
Allora non sarà più iniettare salute nel corpo, ma sarà il corpo che si riapproprierà della sua salute. Ai metodi classici (Domann, Bobath, Kabat, Woita, terapie muscolari, massaggi, ecc…) si succedono metodi più moderni (Gestalt, Mezieres, Tomatis, e le tecniche socializzanti con la natura quali la ippoterapia, idroterapia, ecc…oppure la riscoperta lacaniana dei rapporti corpo/parola); quelli possono essere integrati a questi, oppure ricerche integrative tendenti a fare emergere, a riscoprire le capacità inespresse della persona…
Tutto questo ha un enorme significato di ricerca di metodo, perché finalmente in ogni caso, anche il più grave, si da importanza alla capacità potenziale di comunicare dell’individuo. E questo è bene, è il meglio. Ora i conti devono essere fatti con l’operatore, con chi opera corpo a corpo, testimone e nello stesso tempo coinvolto. E’ l’operatore preparato e sensibile, aggiornato e colto, mediatore di una realtà che non è solo dell’altro ma anche sua. L’operatore che restituisce alla macchina il corpo d’amore, che dirige la tecnologia verso le innumerevoli protasi di ciascun individuo; ma che soprattutto abbia coscienza che la riabilitazione dell’altro non ha senso se non nello spirito della propria riabilitazione.

La guerra del rusco

Quando una cassetta della posta fa più in/cultura di una biblioteca

Scarpe vecchie, pacchi di giornali, vestiti rimasti chiusi per anninell’armadio. Tutto fa brodo, anzi…”rusco”(come si dice a Bologna,se preferite immondizia, pattume, spazzatura). Poi* il giovedì mattino i sacchispariscono dall’atrio di casa. Tutti contenti. Via il rusco e siamo anchestati buoni con gli handicappati.
Si raccoglie rusco per tutti: per gli invalidi e per gli africani che muoiono difame, per i ciechi e perfino per i cani randagi.
La guerra del rusco puzza doppiamente. Una prima volta di truffa (vedi articoliallegati). Furti di sacchetti, battaglie tra associazioni che si contendono lecassette della posta, enti fantasma che segnalano "delegazioniprovinciali" inesistenti, associazioni che sembrano più promosse daglistraccivendoli che dagli handicappati. Ma tutto questo ci interessarelativamente.
Quello che è più deleterio sono gli aspetti culturali della vicenda, aspettiche ancora una volta ricacciano le persone handicappate nel ghetto, anzi nelbidone del rusco e alimentano pregiudizi e luoghi comuni dei"normali".
Facciamo degli esempi concreti: "Sacchetto UNMC", stemmadell’associazione è uno scudo con due stampelle incrociate (!!!), ma nonfinisce qui, c’è pure il motto che recita "Surge et ambula" (alzati ecammina). Come si vede la pedagogia della negazione dell’handicap, della sua nonacccttazione, non è solo patrimonio delle pagine di STOP e simili."Sacchetto ADIC", oltre alle solite litanie:"gentile signore…unvivo ringraziamento…l’indifferenza è peggiore della miseria" sopra lasigla della associazione fa bella mostra di se un barbone, con tanto di bastone, toppa nei pantaloni, barba lunga e l’immancabile ciotola in mano (ibarboni come i cani non usano i piatti) che parla, si suppone, delle propriedisgrazie, con un altrettanto classico "paraplegico" con l’immancabileplaid scozzese a coprire le gambe (non si sa se per il freddo o per lavergogna). Anche qui l’espressione handicap/povertà ci ricorda che glihandicappati sono persone che vanno innanzitutto aiutate, assistite. Questa èla loro unica esigenza.
Più professionale il "Sacchetto UIC" che non inciampa in stemmi emotti, ma ci ricorda che il riciclaggio del
materiale è anche un contributo all’economia del paese, oltre che un gesto disolidarietà.
Il "Sacchetto AIAMIC" poi ci regala nello stemma una fiaccola ardente.
La speranza è sempre l’ultima a morire. La speranza di cosa però?!?
Comunque di tutto questo non ci dobbiamo certo meravigliare. In una società incui tutto quello che non
serve più viene buttato nel rusco è "normale" che anchel’handicappato (che non serve perché non
produce e non ha ruoli sociali) abbia*un destino simile. Tra rifiuti e rifiutati il passo è breve.

Napoli
"Aiutate gli handicappati" Ma è solo una truffa

NAPOLI – Polizia e carabinieri stanno svolgendo indagini per identificarealcuni sconosciuti i quali, qualificandosi per rappresentanti di una"Libera unione di handicappati e spastici", chiedono contributi indanaro, oltre a raccogliere indumenti usati.
A quanto si è appreso, gli sconosciuti operano soprattutto nelle strade piùeleganti e residenziali, in modo particolare in via dei Mille, via Filangieri,piazza Amedeo, nonché lungo alcune strade di Posillipo. In alcuni casi glisconosciuti, dopo aver chiesto di sottoscrivere su di un modulo la sola adesionealla sedicente associazione, inviano a domicilio pacchi di libri, editi aPalermo. Ai de-stinatari degli stessi viene chiesto, nel momento della consegna,il pagamento dei libri.
La Consulta regionale degli handicappati e l’Associazione italiana perl’assistenza agli spastici (Aias), in un comunicato, hanno diffidato chiunquedal vendere libri o raccogliere indumenti usati e stracci a nome deglihandicappati riuniti in associazioni legalmente operanti e riconosciute dallaRegione

E c’è perfino chi truffa i ciechi…
Gianni Leoni

Una bustona di plastica piegata in quattro nella cassetta per in posta, prontaad accogliere quanto la generosità dei cittadini mette a disposizione dell’Unione italiana ciechi: ab/ti smessi, vecchi giornali, riviste, stoffe più omeno lise, indumenti intimi, scarpo, camicie a volte perfino stirate. Uncapillare sistema ni distribuzione e di raccolta che a Bologna e in provinciafunziona, con ottimi profitti, da quasi 13 anni e che contribuisce, proprioattraverso la selezione e la rivendita del materiale, al mantenimento della sededi Strada Maggiore 77. Ma già da un anno, forse da un tempo maggiore, unamisteriosa organizzazione sfrutta l’iniziativa e, con altri mezzi, anticipa, nelgiro dì raccolta. I furgoni della sezione bolognese che assiste i non vedenti.
Chi c’è dietro? Il dirìgente del commissariato Santa Viola, dottor SalvatoreSurace, sta cercando di stabilirlo, ma gli stessi responsabili dell’Unioneciechi, sezione bolognese, sospettano, in attesa di provo, che accanto aistituti ed enti perfettamente in regola operino organismi fantasma diassistenza. C’è perfino chi azzarda l’ipotesi di una efficiente organizzazionecampana che sale al nord in una serie di rapide razzie porta dopo porta, o anchedell’iniziativa di qualche industriale tessile toscano dalle finanze dissestatein cerca di tessuti da riciclare.
La sezione bolognese dell’Unione italiana ciechi – precisa il suo presidenteBruno Albertazzl – distribuisce nelle cassette per la posta della città e dellaprovincia una media quotidiana di 2000 sacchetti di plastica, in cicliricorrenti ogni due mesi, un sacchetto ci costa 60 lire; abbiamo quindi unnotevole danno economico anche volendo escludere il contenuto di ogniconfezione. I bolognesi con noi sono sempre stati molto generosi, ma proprioquesta disponibilità allerta persone di pochi scrupoli. Abbiamo Infatti notiziadi misteriosi personaggi che, a nostro nome, chiedono quattrini, mentre l’Uicper la raccolta di denaro si serve soltanto dì appositi bollettini*.
Le presunte organizzazioni che portano via i contenitori distribuiti dall’entedei non vedenti seminano a loro volta gli androni di migliala di palazzi dialtri sacchetti con le scritte più varie. In questi casi – dice ancoraAlbertazzi – i cittadini chiamano noi anche perché le piogge e gli animalirandagi che rompono i sacchi creano situazioni poco piacevoli. La vicenda stafacendosi davvero delicata. Da almeno un anno ci vengono segnalati straniautomezzi (l’altro giorno è stato visto un camion rosso in Santa Viola) checaricano i contenitori con le scritte della nostra associazione: invitiamo icittadini a segnalarci altri episodi analoghi*.

"Il Resto del Carlino"
L’handicappato può attendere

"Da molte voci circolate nel paese dove lavoro – Rutigliano, in provinciadi Bari – ho appreso che, raccogliendo 3000 bollini per il controllo elettronicodel magazzino, presenti ormai su quasi tutti i prodotti, è possibile farottenere gratuitamente una carrozzella a un bambino handicappato o a uninvalido. È vero?".
Questa domanda ci è stata rivolta dalla signora Rosanna Lauro la quale ciscrive da Bisceglie. La risposta è categorica: anche se i bollini raccoltifossero 3 milioni nessun handicappato vedrebbe mai la carrozzella. Èchiaramente una truffa, e della peggior specie. Lo scorso anno ha provato avederci chiaro, per Di tasca nostra, Gilberto Squizzato e nonostante un vero e proprio lavoro da detective aun certo punto della catena si è dovuto arrendere perché era impossibileandare avanti. Avevamo deciso di condurre un’inchiesta sull’argomento perché ciera giunta notizia che in un paese della Lombardia le scuole elementari eranostate mobilitate per raccogliere certe etichette presenti su alcuni prodotti. Laraccolta avrebbe appunto consentito di donare una carrozzella a un bambinohandicappato. Forse una indagine degli organi di polizia potrebbe riuscire doveSguizzato ha fallito.

Indagini a Napoli su una "unione di handicappati"

NAPOLI – Polizia e carabinieri stanno svolgendo indagini per identificare alcunisconosciuti i quali, qualificandosi per rappresentanti di una "Liberaunione di handicappati e spastici", chiedono contributi in denaro, oltre araccogliere indumenti usati. A quanto si è appreso, gli sconosciuti operanosoprattutto nelle strade più eleganti e residenziali, in modo particolare invia dei Mille, via Filangieri, piazza Amedeo, nonché lungo alcune strade di Posillipo. In alcuni casi gli sconosciuti, dopo aver chiesto di sottoscriveregratuitamente su di un modulo la sola adesione alla sedicente associazione,inviano a domicilio pacchi di libri, editi a Palermo. Ai destinatari deglistessi viene chiesto, nel momento della consegna, il pagamento dei libri.

Quale sessualità?

Riportiamo interamente l’intervento di Giorgio Rifelli, psicologo, registratoal dibattito "Handicap & Sessualità" tenutosi a Bologna il22/1/85 organizzato, con la nostra collaborazione, da Arci Gay e Circolo 28giugno.
La complessità della sessualità richiede,per poter essere studiata,un approccio che, necessariamente, bisogna suddividere in componenti: ilcorpo, la mente, le emozioni, ecc., inoltre questa separazione trova agganci erichiami di tipo culturale- ideologico. In altri termini, l’operazione attraverso la quale la sessualità, nelle sue componenti, ha subito unascissione,sembra anche essere una operazione che prende spunto dalla necessitàdi dividere lo spirituale dal carnale. Divisione che ha radici lontane nellaciviltà occidentale eche, tra i diversi motivi che la possono sostenere, sembrerebbe trovare unadelle ragioni nella necessità di uscire dal dramma di una"colpa-peccato" che, se viene scissa tra ciò che è carnale e ciò cheè spirituale, in qualche maniera può essere risolto. Nel dividere lasessualità in un momento etereo, angelicato, e in un momento corporeo ecarnale si riesce a mettere tutte il buono nello spirituale le e tutto il cattivenel corporeo e nel cai naie. Questa operazione è semplice, primitiva e, forse,infantile ma, tuttavia, dalla possibilità di uscire dal dramma di una colpa,di qualcosa che viene vissuto comepotenzialmente destrutturante, sporco e morboso. Questa dicotomia tra carnale e spirituale grava ancora sul. la nostra cultura e, di fatto, ha prodotto un vissuto della sessualità che facilmente è collegato o all’etereo, lontano e quindi irraggiungibile dello spirituale oppure al carnale dell’ aspettoprocreativo, o dell’aspetto ludico-erotico-ricreativo. Questi momenti sonosostenuti e portati avanti come ideologia da due correnti diverse; l’area conservatrice che, pur essendo sufficientemente combattutaè, senz’altro, presente e sostiene una finalità procreativa e l’area libertaria o liberante che invece sostiene una ideologia ludico- ricreativa. Le due posizioni, nonostante la loro diversità, sembrano essere accomunate da due elementi. Una è la genitalizzazionedel concetto di sessualità, infatti nei due casi, procreativo e ricreativo,si rimane legati all’area genitale el’altra è l’efficientismo. Entrambe sono dentro ad una cultura che è lanostra, fatta di consumi e di produzione dove ciò che conta e vale è ilgrado di efficienza che ognuno di noi riesce a mettere nelle proprie attività e, perché no anche nell’attività sessuale. All’interno delle due ideologie sopra citate, troviamo una sessualità deprivata , parcellare, smembrata , che è solo la sessualità genitalizzata. Non troviamo cioè tutte quellecomponenti di tipo emotivo- relazionale che fanno capo all’uomo e alla donnacome esseri globali che possono intervenire a recuperare il senso unitariodella sessualità e attribuirle quella connotazione "di insieme" incui si riconoscono elementi psicologici emotivi,carnali e spirituali,chesono stati frazionati ,divisi e dispersi nel corso della nostra storiaoccidentale. In questo modo, anche certi discorsi di tipo liberalizzante non fannoaltro che insistere su schemi o su modelli che sono tutt’ altro cheliberalizzanti. Ci troviamo nelle condizioni nelle quali la sessualità èancora immediatamente collegata, associata all’evento coitaledell’amplesso. Sembra quasi che la sessualità umana non possa a. vere altradimensione se non la conferma pratica , concreta e genitale del rapporto.Ovviamente, all’interno del nostro discorso vediamo come allora il problemadell’handicap può essere posto. Questo problema subisce una particolareemarginazione visto che una sessualità limitata e contenuta solo alla sferadel corporeo/genitale trova delle inapplicabilità." Questo come premessa,anche perché non possiamo pensare di condurre una pianificazione del problema se non riusciamo a dirci quale sia ilriferimento a cui uniformarei nostri discorsi, qual’è la sessualità a cui riferirci. Fatta questa premessavoglio fare alcune riflessioni riguardo al gruppo che stiamo conducendo. Difatto credo che si possono indicare due termini rappresentativi dellevicende, dei contenuti e dei concetti che si sono andati elaborando in questaesperienza. La "diversità" e la "distanza" sono due termini che possonorappresentare una categoria concettuale. Due termini che sono uno collegatoall’altro e che reciprocamente si influenzano.

LA DIVERSITÀ’

Rivolgendomi ad un gruppo nel quale figurano anche handicappati il problemapuò sembrare, apparentemente , quello di dover affrontare la"diversità". Dico sembra perché è un probblema che mi sono postoprima di iniziare l’esperienza. Mi sono anche chiesto se, nel condurre questogruppo di informazione e discussione sui problemi sessuali, era necessarioda parte mia, elaborare un programma diverso e attingere a notizie diverse.Se fino ad allora avevo lavorato con insegnanti oppure con colleghi medicio psicologi, con i ragazzi delle scuole, probabilmente a questo punto anch’ io,forse, dovevo fare qualcosa di diverso. Confessso, e un poco me ne vergogno, che questo tipo di atteggiamento era di fatto istintivo e spontaneo.Fortunatamente non ho seguito il mio istinto anche perché iniziando ilgruppo ho avuto la possibilità di verificare alcune realtà. Infatti immagino,ma forse è presunzione, che il mio sia un atteggiamento abbastanzadiffuso nell’avvicinarsi a questo problema. L’atteggiamento cioè di inserìre immediatamente il concetto della diversità . Nella pratica però non ho assolutamente scelto questa strada ene sono contento. Abbiamo affrontato l’argomento come se non esistesseroproblemi di handicap fisico da parte di qualcuno. Tuttavia il problema delladiversità persiste e mi sembra che valga la pena indicarne alcuni elementi.
La "diversità" nasce dal tentativo,dal bisogno di codificare, di categorizzare, di ordinare, che tutti noiin qualche maniera abbiamo. Probabilmente viviamo più tranquilli se riusciamo a mettere ordine nellecose di casa nostra e nelle cose del mondo e anche nei corcetti che abbiamo intesta. Mettiamo ordine anche nei riferimenti e negli ideali. Questo processodi "ordinamento" offre anche tra l’altre grossi vantaggi. Tuttavia lastoria del progresso scientifico nasce da questa necessità di conoscenza e dicategorizzazione.
Se il processo sopra detto presenta alcuni vantaggi senza dubbio finisce ancheper diventare un grosso limite al nostro vivere in rapporto agli altri perchèin maniera più immediata, spontanea ed istintiva noi, in un primo impatto congli altri, facciamo immediatamente ricorso a quelle categorie e a quei modelli che ci siamo già messi intesta. In questo modo discriminiamo tra lepersone che abbiamo di fronte, in funzione di quelle categorie che noi abbiamogià dentro. La discriminazione, è ovvio,è tanto più massiccia quanto più"diversa" è la persona che ci sta di fronte. Mi sembra che questo limite nell’approccio con il mondo dell’handicap sia una delle prime emaggiori difficoltà. La possibilità cioè di andare al di là della formauscendo dalle categorie che ci tranquiliizzano ma che ci strozzano, per potercercare di adattarci ad una varietà umana nella quale gli handicappatipossono rappresentare una componente di diversità. Se però andiamo aguardare, ciascuno di noi è diverso dall’altro e la ricchezza del nostroessere nasce e si sviluppa proprio sulla nostra diversità. Altra componente èquella che deriva dal fatto che alcuni diversi, raccolgono in se contenuti che sono nostri, che noi facciamo uscire per meccanismi che vengonodefiniti di tipo proiettivo, "attribuendo ad altri cose che abbiamodentro" e che rappresentano per noi elementi di disturbo. Se per esempioabbiamo lavorato per l’ordine, il disordine ci appare come come elementodisturbante perché diventa attacco alla nostra tranquillità interiore.Non solo, se l’altro, e qui non mi riferisco agli handicappati che rispettoa questo tipo di ordine rappresentano il disordine, rappresenta sentimentied emozioni con le quali in qualche modo noi stessi abbiamo dovuto fare i conti,con ad esempio l’omosessualità, allora diventa più pericoloso rimetterein discussione tutte quelle cose che abbiamo cercato di ordinare all’internodei nostri schemi mentali. Allora anche il contatto con l’handicappato non solodiventa problematico perché attraverso il gioco visivo appare immediatamentedisturbante ainostri schemi ottici, ma anche perché è un preciso attacco alla nostratranquillità interiore, è una presenza contagiante alla nostra suppostaserenità.

LA DISTANZA

Vorrei ricordare un’esperienza che abbiamo fatto come gruppo in uno deinostri incontri. Abbiamo usato una tavoletta nella quale si raccontava di un ragazzo che cresceva da solo in un bosco mangiando e bevendoquello che trovavae che a 20 anni scopre ai margini della foresta un ruscello: al di là del ruscello un altro bosco dove una ragazza havissuto un’esperienza analoga allasua. Dal gruppo è scaturito con precisione veramente sorprendente un ruscello cheassomigliava ad un fiume: un baratro enorme. Alcuni addirittura dicevano chesarebbe stato necessario costruire una zattera per attraversarlo e poter raggiungere la ragazza.
Questa "rappresentazione" del ruscello come il mare, mi sembraemblematica di come essere dentro l’handicap faccia sentire gli altrilontani. Forse di questa distanza, prima ancora che l’emarginazione, nesubisce le conseguenze la sessualità perché la sessualità è relazione edincontro. Di tutto questo siamo responsabili noi quando viviamo dentro lecategorie, l’ordine, gli stereotipi, dentro ciò che ci fa vivere tranquilli unmondo che tuttavia è anche meschino.

Sport: il dibattito fatica a decollare

Handicap e sport; un binomio sempre più alla ribalta. La FISHa (Fed. ItalianaSport Handicappati) è stata recentemente riconosciuta dal CONI e ha dato vitaad una elegante rivista redatta in italiano ed inglese. Contemporaneamente ènata in Lombardia un’altra rivista "Handicap e sport" promossa da varienti (Coni, Regione, FISHa).
Un po’ dovunque spuntano corsi di formazione e aggiornamento per operatorisportivi e medico-riabilitativi, si moltiplIcano le società sportive delsettore, la stampa tratta con più frequenza di campionati e gare varie. Anche irecenti mondiali di atletica a Roma hanno dato spazio, anche televisivo, aglihandicappati.
Il mondo medico-riabilitativo, dopo che ormai da molti anni si parla diippoterapia, ha dedicato un convegno alle "Terapie fuori dai box"(Rivista "Saggi" 1/86) per verificare quanto e se attività come ilnuoto, lo sci, l’equitazione, hanno aspetti anche terapeutici. Le figureprofessionali in questo settore si muovono dai vecchi confini per ridisegnare econquistare competenze, ambiti di intervento, finanziamenti pubblici e privati;vedi ad esempio i 500 milioni recentemente elargiti da un Istituto di creditoper l’apertura di centri di sport-terapia.
Le cose si muovono anche a livello locale: l’Assessorato allo sport del Comuneha attivato una sorta di mini consulta sul tema in questione; la Regione,tramite la legge 30, prevede finanziamenti anche per la pratica sportivanell’handicap, venendo così a chiudere in parte un "buco" createsicon la soppressione della legge 48 che aveva finanziato gli interventi in questosettore. In questo universo dove agonismo, terapia, attività ludiche, motorie,ricreative,
si mescolano e incrociano ripetutamente, vengono spese tante energieorganizzative e promozionali, ma il "dibattito" stenta, a nostroavviso, a procedere, e spesso e volentieri inciampa in luoghi comuni che sisperava fossero superati. Proviamo a vedere quelli che sono gli aspettipositivi, ma anche le contraddizioni di questa tematica "emergente"."Agonismo no grazie. L’attività sportiva è soprattutto terapia"(Rivista Anffas famiglie 29/87); così si esprime una fetta . dei mondo delleassociazioni. "… il bambino spastico ha diritto, se ne ha voglia e ne ècapace, di andare a cavallo e noi dobbiamo aiutarlo a farlo, così dobbiamoaiutarlo ad andare in bicicletta o a nuotare.
Ma anche se ammettiamo che nell’equitazione ci sia qualcosa di utile ai finidella correzione di un segno patologico, facciamo di tutto perché il bambinospastico – vada a cavallo – e non – faccia della rieducazione equestre -" (Prof.S. Boccardi, Atti Convegno "Terapie fuori dai box"). E il mondoprettamente sportivo? Sfogliando il giornale della FISHa sembra proprio chel’aspetto agonistico sia quello di maggior interesse; classifiche e risultati sisusseguono inframezzati ad interviste.
E i diretti interessati cosa ne pensano? Qualcuno scrive "anche a me piacefare goal" per sottolineare il piacere e l’emozione di una partita in cuiagonismo e divertimento si mescolano, altri invece sostengono che "… nelmomento in cui le persone handicappate si mettono insieme a fare sport, e magarine inventano uno tutto per loro esibendosi addirittura anche in pubblico, alloral’attività sporti-/a da positiva diventa negativa perché 3margina ediscrimina, perché provoca pietismo e quindi pregiudizio" ("HandiCape sport" di G. Marcuccio in "Cultura nuova dell’handicap" n. 2/87) e quindi, prosegue Marcuccio, "è megliolasciare agli esperti il compito di indicare quali attività sportive meglio siaddicano a questo o a quel tipo di handicap".
Per quanto riguarda la realtà locale abbiamo già avuto modo di esprimere ilnostro parere su alcuni aspetti nel n. 2/87 della rivista. Vorremmo tuttaviasottolineare ancora una certa mancanza di collegamento tra gli apparatiistituzionali in questo settore
Le esperienze precedenti, lo abbiamo già ricordato, si sono svolte nell’ambitodella "vecchia" legge 48 che coinvolgeva le varie strutture deiServizi Sociali (Assessorati comunali e regionali, Commissioni di Quartiere),ora la questione è invece in mano alle strutture sportive (come sopra), ma adun passaggio di competenze amministrative e legislative, non ha tatto seguito unpassaggio di "esperienze". Il salto dal settore servizi sociali aquello sportivo è giustissimo che avvenga, ma è altrettanto vero che ipassaggi hanno bisogno di opportuni tempi e modi. Non accadendo questo siperdono preziose opportunità di collaborazione tra strutture operanti in ambitidiversi, si perdono in parte le esperienze già fatte, e soprattutto si corre ilrischio di sposare tesi acriticamente senza valutare che è proprio dall’intrecciarsi e dal lasciarsi dei vari aspetti della tematica handicap e sport(agonismo, terapia, divertimento, psicomotricità, ecc.) che possono nascereopportunità piacevoli ed utili per tutti.


UNA RISPOSTA IN TERMINI DI CONTROLLO?

Come si può constatare un panorama variegato di posizioni e strategie diintervento, contraddistinto spesso da una certa rigidità, o tutto sport o tuttoterapia, e talvolta da una progettazione che pare basata più sulla necessitàdi trovare spazi nelle realtà locali che sui contenuti dei progetti. Accadecosì che una determinata attività sia impostata in una Regione unicamente acarattere riabilitativo, e in un altra Regione, magari 10 chilometri più inlà, la stessa attività sia unicamente concepita in termini ricreativi, semprein funzione degli spazi che la legislazione regionale offre. La tematica sportha indubbiamente una enorme forza intrinseca, capace com’è di sanare o farefinta di sanare, la grande contraddizione di un corpo handicappato oggetto diinterventi ma da sempre squalificato e rifiutato su un piano emotivo edestetico. Sport come evidenza del "fisico", come realizzazione diprestazioni, come impossibilità di negare un corpo diverso, come stima per uncorpo diverso.
Pensare e vivere lo sport ha quindi un significato molto importante per uncambiamento culturale, ma a nostro avviso sorgono contemporaneamente alcuniinterrogativi, forse inevitabili. Lo sport è vissuto per un rispetto e stimadel corpo handicappato o in alcuni casi è l’ennesimo tentativo di"normalizzare" un corpo diverso? La constatazione di prestazioni"normali" (correre, fare goal, ecc.) non serve ad esorcizzare leataviche paure che il diverso scatena? E lo sport viene pensato per la gioia,per il divertimento, per l’autopercepirsi che contiene in sé, o in parte è unarisposta in termini di "controllo" che gli apparati della societàdanno alla fascia dell’handicap adulto (altra tematica emergente) non potendoapplicare a questa gli stessi schemi e metodi dell’apparato medico-riabilitativoda sempre rigidamente fermo alla fascia 0-14 anni, ovvero a quella fascia dietà in cui i risultati riabilitativi ottenuti possono avere un significativoconsenso sociale.

Il differente che vive

Vorrei cominciare così: "Datemi una bella maestra d’appoggio e visolleverò il mondo…" Sarebbe ora di usare un po’ di ironia.
Nel parlare dell’handicap provo lo stesso fastidio, in termini capovolti, che hala bella donna che vuole essere valorizzata per la sua intelligenza. Nel miocaso il desiderio è di essere valorizzato quale uomo. In fondo tutta la miavita è stata una lotta nella difesa della mia dignità di uomo.
Ha ragione Pasolini quando nel ’53 mi scriveva:
"Bada che la tua posizione è pericolosissima non c’è niente di peggio didivenire subito della "mercé". Se tu dipingi e scrivi poesie sulserio, per una ragione profonda e non solo per consolarti delle tue disavventurefisiche (o magari come dicono per ragioni terapeutiche), sii geloso di quelloche fai, abbine uno assoluto pudore…"
Preferisco pertanto parlare della cultura della differenza. Definisco, percomodità linguistica, Handicappato la persona bisognosa di assistenza, che hauna struttura passiva del corpo e dell’esistenza, essere che va aiutato asopravvivere.
Sopravvivendo a tutti costi, gli viene a mancare ogni possibilità di identità:non riesce nemmeno a iniziare il processo, appunto perché vive questa visionedel mondo totalmente assistenziale e di dipendenza. Spesso gli altri, e propriole persone più vicine, contribuiscono a relegarlo nel suo ruolo di dipendenza:proprio perché in tal modo utilizzano il suo bisogno per valorizzare la lorocapacità ad essere utili, e anche perché, generalmente, qualora l’handicappatoesca dalla propria dipendenza e dal proprio ruolo, nonostante l’handicap, vienea sovvertire gli schemi esistenziali degli altri. Le tensioni corporee edemozionali della persona così relegata al proprio ruolo, sono costantementerivolte ad ogni aspetto di identificazione (sociale, sessuale, comportamentale).Così che coprendo e uccidendo tutte le possibilità della propria diversitàespressiva, rimane in continua attesa. A prescindere dal tipo di minorazione, ildiscorso vale anche per qualsiasi persona che non abbia raggiunto o che non siadentro al processo per raggiungere una autonomia tale da garantire le propriepossibilità di comunicazione. In questa dimensione esistenziale, l’handicappato(come il non dotato che non vive l’armonia delle proprie caratteristiche) non hauna sessualità completa né una affettività rassicurante e questo quando:
a) la sua corporeità non è mai totalmente presente nel rapporto con sé e congli altri.
b) Manca, in ciò, disponibilità di attesa in quanto gli manca l’abitudine allatranquillità dei tempi di opportunità, e) La sua economia affettiva rispecchiala sua economia corporea nel rapporto con lo spazio esterno: la sua psiche sistruttura così sulle organizzazioni di uno spazio corporeo non organizzato.Questa è la storia della negazione della identità.
Definisco invece differente la persona, con handicap o no, che valorizza leproprie potenzialità nonostante le sue difficoltà, attuando veramente ilprocesso di identità, in quanto ha coscientemente presente le proprie capacitàespressive. Non sopravvive, ma vive e si scontra continuamente con le cecitàdella norma: vive o soccombe ma comunque è persona viva.
In questo senso il differente si contrappone a tutti gli handicappati, sianoessi normodotati oppure no. Schematicamente, entrambi, l’handicappato chesopravvive e il differente che vive, hanno due storie culturali alle spalle: ilprimo quella dei grandi compromessi e sottomissioni mentre il secondo ha quelladelle grandi scelte.
Il sopravivente, rassegnato, che non accetta leproprie diversità, dipendente, e con visione assistenziale dell’esistenzaaffonda l’antefatto della propria storia culturale nella figura dell’Edipo: nona caso il nostro secolo l’ha reso emblematico. Egli, come tutti i suoidiscendenti handicappati, non ha mai accettato la propria diversità, si èaccecato per sopravvivere, per non vedere e per non vedersi, ha rifiutato sia laRupe Tarpea sia la lotta col proprio contesto sociale. Ha aperto così il grandeciclo dei venti: dai melodrammi alla cultura crepuscolare (Pascoli compreso) atutte le macchine assistenziali, non ultima delle quali è senz’altro l’U.S.L.
L’altra faccia, quella della difesa della differenza, accettata per la quale silotta garantendo la conquista dell’identità, ha costruito il proprio retroterraculturale sullo scontro: ne è emblema la Rupe Tarpea e la visione tragicadell’esistenza. Figure come Medea, Giovanna D’Arco e Pasolini, ne rappresentanola continuità. In queste figure, di diversi, non esiste l’ombra del compromessoentrano tutte nella densità esistenziale del vivere la propria vita.
Se ha ancora un senso parlare di "speranza", questa vale per quellepersone la cui diversità è sommersa e per cui il processo di riconoscimentodella propria identità è ancora lontano, ma possibile.

LA CULTURA DELLA DIFFERENZA

Ma che cosa si è fatto per queste persone?
Nell’ultimo trentennio, la cultura della differenza ha mutato più volte la suavisione.
Negli anni sessanta, l’handicappato era considerato "migliore deglialtri", era addirittura esaltato (ricordo la pubblicità"Progresso": loro sono migliori di noi). Gli anni settanta hannosegnato l’epoca dell’uguaglianza e dei diritti; in questo clima egalitariorespiriamo ancora la tendenza, come se i problemi esistenziali, l’affetto, lacomunicazione, la sessualità, il senso della vita fossero risolvibili con ildiritto, la legge e il dibattito. Solo recentemente sta affiorando un sensonuovo di questa tendenza anche se non è ancora diventata cultura: è quello percui l’attenzione e il problema non riguardano questa o quella persona,l’handicappato o il non handicappato, ma riguardano il rapporto tra personediverse, comunque differenti tra loro con differenze evidenti e scoperte e condifferenze nascoste o non emerse. Questo senso più nuovo e più autentico offreuna visione nuova dei rapporti interpersonali, offre un maggior distacco dalle situazioni, e volendo raggiungel’ironia. L’interesse culturale a queste problematiche mi è servito a nonviverlo solo in quanto calato dentro, ma ad analizzarlo come problematica cheriguarda anche altri, e perciò con maggior serenità, talvolta con ironia. Avolte forse si parla troppo di questi problemi, quasi ci fosse il bisogno diesorcizzarli.
Infatti parlare di queste comunicazioni profonde, come la sessualità, è comevoler puntare gli occhi su una stella rara si rischia di non vederla o diperderla. Meglio esplorare l’universo attorno, la fetta di cielo che comprendequel clima di comunicazione, per gustarne la bellezza. Ma per questo occorrequella rara capacità di entrare nell’autenticità dell’altra persona.
Così, avvicinandosi e scoprendo le diversità degli altri, si impara aconoscere e a gustare la ricchezza delle proprie diversità riscoperte.
L’abitudine alla cultura dell’handicap è oggi un contributo all’allargamentodell’orizzonte della sensibilità umana sulle differenze.
Questo anche in prospettiva di tutto ciò che la vita può riservare ad ognunodi noi: chiunque può da un momento all’altro ritrovarsi handicappato fisico opsichico.
Il gioco delle differenze, dei moti imprevedibili, delle metafore che sonoproprie della poesia verrebbero a perdere il loro valore qualora mancasse unadisponibilità anche culturale al gusto della ricerca delle varianti espressive.Accettando il dramma della diversità si accetta anche la poesia della vita.