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Autore: admin

Donne forti e donne e basta DONNE FORTI, DONNE E BASTA

Aida è una donna sulla sessantina, con i capelli bianchi e un fisico
vigoroso e asciutto. vive in una casa modestissima, che da su una strada molto
trafficata: il suo desiderio sarebbe di avere davanti casa un piccolo passo
carraio per potere portare fuori la figlia con la sua poltrona a rotelle.
Angela è una ragazza-bambina di ventiquattro anni; non si muove, non parla,
emette un mugolio continuo che risuona nel registratore come costante motivo di
fondo della nostra intervista. la madre, che è sola, in quanto ha avuto questa
figlia da un uomo che non si è fatto più vedere, la solleva dal divano letto,
la cambia, la imbocca, le prepara tutti i pasti tritati, altrimenti lei si soffoca.

È soltanto una delle otto "voci" che Giuliana Ronzio e Paola Galli,hanno raccolto nel libro "Madre e Handicap" pubblicato da Feltrinellilo scorso anno. Otto testimonianze drammatiche, intense, falsate talvolta dallapresenza di un marito "che parlava per", dall’avere un microfono cheregistrava implacabile le storie quotidiane di queste famiglie. Un anno dopoPaola Galli torna da Ai-da. Stessa casa, stessa strada molto trafficata. Erarimasta d’accordo che sarebbe tornata a trovarla, era uno dei casi che l’avevamaggiormente colpita. "Angela è morta, lasciatemi in pace… non vogliopiù sapere niente!". Una storia tragica, una donna sola, una figliagravemente handicappata,… un rapporto simbiotico con la figlia. Paolo eGiuliana non sono riuscite durante l’intervista ad isolare all’interno del filonarrativo la vita di Aida da quella di Angela "come se questa donna dallapersonalità così spiccata, dal senso di autonomia dall’uomo ben preciso, nonriuscisse proprio a esistere senza que-
sta presenza fissa della figliola". Giusep-pina, losca, Eleonora, Paola,raccontano altre storie. Alcune più serene, altre soltanto diverse. Un mondo di"mamme" protagoniste e possessive, di donne forti. Ma soprattutto didonne… e basta!, non troppo dissimili dalle altre.
Giuliana Ponzio e Paola Galli sono amiche da tempo. Si sono conosciute a scuola,all’Istituto Tecnico Einstein di Firenze, dove entrambe insegnano storia eletteratura. Giuliana, divorziata, ha una figlia, Alessandra, di 28 anni. Haaiutato la madre nella stesura di questo libro anche se in famiglia avevanoreagito un po’ male a questa collaborazione, temendo che il trovarsi a confrontocon tante "storie tristi" avrebbe influito negativamente su di lei,sul suo handicap. Alessandra, infatti, è stata colpita da una tetraparesispastica e questo le comporta una certa difficoltà nello spostarsiautonomamente, nel prendere i mezzi pubblici,…
Tutte barriere che comunque è riuscita a superare, comprese quelle culturali.Alessandra è iscritta alla facoltà di Psicologia ed è in attesa di un figlio.Per Giuliana la presenza dell’handicap in una famiglia deve essere visto insenso emancipante. "Bisogna cercare di vedere l’handicap con degli occhipositivi e per fare questo non può’ essere sufficiente il buon senso, il sensocomune. Bisogna avere il coraggio di andare controcorrente e di ragionare concriteri diversi. Molte madri poi si nascondono dietro al fatto di avere figlihandicappati per cercare di evitare qualsiasi sforzo per loro stesse. Potrebbeessere utile al contrario utilizzare anche strade "più maschili"rivolte a combattere un certo eroismo che ancora arde in molte di queste madri.Non bisogna avere paura di farsi aiutare!
In "Madre e handicap" non si parla di servizi, di struttureassistenziali, non era questo l’obiettivo delle autrici. Il taglio èsoprattutto psicologico, sono numerose le citazioni di Freud nella prima partedel libro ed anche i capitoli che introducono le interviste alle madri sonostate costruiti in base a questi criteri. Quello su "Il rapporto con l’uomo"è stato curato da Paola Galli. 52 anni, Paola abita in un quartiere popolaredi Firenze dove ha sede la comunità di base de L’Isolotto, una delle tantecomunità sparse per l’Italia che si riconoscono nell’area della sinistracattolica. L’intervista a Patrizia è indicativa sul dato comune che le autricihanno riscontrato nel rapporto madre/marito: "Questo rapporto cheattraverso le parole di entrambi, si rivela davanti a noi sereno e affettuoso, eche quindi risulta un elemento rassicurante per lei, nasconde però al suointerno il pericolo di sempre, quello cioè di porre la donna in una posizionedecisamente subalterna. Come non interpretare così le frasi e l’atteggiamentodi Patrizia, che tendono sempre a ribadire quello che Carlo dice? La figuramaschile appare ancora una volta come il canale attraverso il quale vienevissuto il rapporto con l’esterno: la gente, le istituzioni, ecc. ma anchel’elemento determinante del modo come è stato impostato il rapporto tra igenitori e il figlio (sereno e tendente a sdrammatizzare). La fiducia e lostimolo a vivere l’esperienza dell’handicap in modo meno ansioso per la presenzadel marito – sembrano essere pagati da Patrizia con questo ruolo di"spalla", che smorza i suoi gesti e lascia a volte in sospeso, comesfocate, le sue parole ("Lui con questo suo modo… non c’è gusto; ineffetti si parla dei problemi; ma in quanto arrivare a litigare…"); gestie parole che lasciano presupporre una vivacità interiore, una voglia di esserese stessa che abbiamo visto soltanto affacciarsi timidamente qua e là".
Giuliana Ponzio e Paola Galli erano partite dal presupposto che l’handicapcostituisse una formidabile presa di coscienza per uno stravolgimento dei valoritradizionali più triti e conservatori. Non è stato così. Nella maggioranzadei casi l’handicap era solo l’aggravante, la disgrazia imprevedibile, la croce.Ma per Paola Galli non ci si deve arrendere davanti al discorso trainante legatoalla "diversità" dell’essere donna. "Il problema dell’handicapè in parte riconducibile al movimentofemminista. Oggi per le donne le cose sono molto cambiate, e la stradina. Non è lo stesso perl’handicap, ed anche il movimento delle donne deve avere un ruolo in questosenso e non può pensare di arrestarsi proprio ora".
La storia di Paola (non l’autrice del libro) è avvincente e positiva. Ha trefigli di cui una, Claudia, è mongoloide. "Vivo in un mondo dove le personeche frequento non vivono la diversità come un problema…; quando capisci cheun albero può essere dritto o storto, ma è sempre un albero…A quel punto lìè la società inadempientem non siamo noi, io e Claudia".
Ma tu veramente no ti sei sentia mai sola in questa storia?
"Una volta che avevo accettato la bambina e avevo detto che era mia, nonvolevo nessun aiuto. Mio marito era in casa, le voleva bene, ma dai dottori l’hoportata sempre io e forse non perchè lui non lo volesse fare, ma ero io che nonglielo permettevo. Io credo che bisogna avere degli interessi oltre ai figli; ioora ho cominciato a muovermi. A volte ci si fa prendere della pigrizia, dallastanchezza…"
Dai ricatti sentimentali…
"Si, è vero, a volte bastano due giorni; fa bene a loro e fa bene a noi.Quando mi sono assentata per due giorni la scorsa primavera, loro, mio marito edue figlie, sono sopravvissuti".

Tanta fatica per un amore “normale”

Qualche mese fa, sul giornale dell’ aias, ho letto una lettera che mi
ha fatto riflettere: era la richiesta di aiuto di un ragazzo che voleva fare
l’amore.
Esausto ed estenuato dai continui rifiuti di avere, da parte di una donna,
qualcosa di più di una semplice amicizia, era ricorso all’amore a pagamento, e
la sua disperazione era data dal fatto che, dato l’aumentare dei costi, ormai
non poteva permettersi più neppure quello. Le sue parole erano nude e crude e
non lasciavano certo spazio alla fantasia sull’impellenza dei suoi bisogni.

Qualcuno, forse, è rimasto urtato dalla sua franchezza, io, al contrario, hoprofondamente ammirato il coraggio e la forza di una persona che riesce a superare il pudore e la vergogna di parlare dei propri problemi sessuali e dichiedere aiuto quando ne ha bisogno. Mi sentivo impotente e frustrata per nonpoter aiutare questa persona a risolvere un problema comune a molti di noi, eparlando di lui a Lilli, a poco a poco ci siamo accorte che, sia pur in manieragrottesca, il nostro amico era una persona fortunata. A lui, infatti, lasocietà aveva concesso ciò che non concede ad una donna: l’amore mercenario.

DESIDERIO D’AMORE E DIRITTO ALLA SESSUALITÀ

Con questo mi guardo bene dall’auspicare il ricorso alla prostituzione comesoluzione di un problema tanto delicato, ma mi sono chiesta:"in realtàquante donne portatrici di handicap hanno desiderato almeno una volta nella lorovita un uomo da marciapiede, per sentire sulla propria pelle quello che nessunamico può comunicare?" E mi veniva in mente una frase che avevo sentito damia nonna qualche anno dopo la morte del nonno: "Com’è doloroso non averepiù nessuno che ti abbraccia". Parole di cui ho capito il significatoprofondo solo dopo parecchi anni. In un tipo di società come la nostra, cheprivilegia la comunicazione verbale rispetto a quella corporea, e che cidisabitua sempre di più all’uso del nostro corpo, i rapporti sessuali sembrano essere diventati l’unica oasi per chi cercadi andare oltre le parole. E mi sembra che proprio questo sia il punto: l’uomoche scriveva, secondo me, si nascondeva dietro un falso problema. Non era unrapporto sessuale che cercava, ma carezze, tenerezza, affetto.
Da questo punto di vista, noi donne siamo più oneste, perché in genere,abbiamo sempre dichiarato apertamente la nostra ricerca di amore prima ancorache di sesso e che il sesso senza amore difficilmente ci interessa. Ma trovarel’amore, per una donna handicappata è una cosa molto ardua e spesso puòesserci sembrata addirittura impossibile. In un mondo dove le donne fanno agara con gli uomini e sono superefficienti sia sul lavoro che in casa, èdifficile non cedere alla depressione di un confronto, e buttare la spugna. Eforse è ancora più difficile arrampicarsi per uscire da quelle voragini dimiele in cui possono trasformarsi, senza volerlo, le famiglie. Fin troppo spessosono stati denunciati i danni che genitori iperprotettivi hanno provocato afigli handicappati nei riguardi di un problema delicato come il sesso, nel vanotentativo di mettere a tacere degli stimoli e dei bisogni difficili daespletare. E la cosa si fa più pesante quando si tratta di figlie femmine,perché un condizionamento atavico ci ha insegnato che i bisogni sessuali delmaschio sono sani e ne confermano la salute, mentre quelli della femmina sonopassivi e per questo trascurabili. Così la storia ci insegna che i bisognisessuali di una donna non vengono neanche presi in considerazione se non quandoimposti dalla diretta interessata. Ma l’emarginazione della donna continua alivello sociale, infischiandosene dei più elementari diritti di uguaglianza. Ècorsa voce, e come tale la riferisco, data la mancanza di tempo che mi havietato di verificarne l’esattezza, che in uno o più istituti che ospitanoportatori e portatrici di handicap, ai primi vengono pagate le attenzioni di ungruppo di prostitute, mentre dei bisogni sessuali delle seconde non se ne parlaneppure.
E anche quando, facendo forza su se stessa, una donna handicappata rivendica ilsuo desiderio di amore e il suo diritto alla sessualità, si trova davanti unoschieramento di facce stupite che, nel migliore dei casi, consigliano lamasturbazione con la faccia tosta di chi non è minimamente sfiorato dalproblema. Molti uomini possono diventare sensibili amici di una donnahandicappata, ma quanti di questi sono in realtà disponibili, anche solomentalmente, ad andare al di là, e ad entrare nel vissuto fisico di una donnache non risponde ai canoni sbandierati dalla società? Com’è più facilerifuggire da un confronto e relegare una donna "scomoda" nel ruolo disorella e amica!
Ho detto donne, non portatrici di handicap, perché questa è una storia che ciaccomuna ad amiche cosiddette "più fortunate di noi". Qualunque donnache non fa mistero dei suoi desideri e che trasgredisce il suo ruolo di dolceancella, mette in crisi un uomo, e se poi questa donna è anche handicappata,spesso il povero maschio abbandona il campo a gambe levate senza neanche direbuonasera.Ma non cadiamo negli errori di emarginazione che abbiamo condannatofin’adesso, non bolliamo le donne solo come spose e madri, chi ha stabilito chegli handicappati devono essere solo eterosessuali e mirare alla famiglia? Se cidedichiamo a un problema, cerchiamo di vederlo sotto tutte le angolature.
Ricette per un problema così specificatamente personale, non credo ce ne siano.E penso che ognuno debba risolverselo da sé, ma ritengo che il primo passo peraffrontare nel modo giusto un problema, sia quello di capirlo e di chiarirlo ase stessi, e questo si può fare parlandone con chiunque sia disponibile acapire e ad aiutarci, perché è di aiuto che abbiamo bisogno, e non dobbiamovergognarci di chiederlo. Perché attraverso lo scambio di esperienze si possonoapprofondire e superare le proprie paure.

LA MIA È UNA STORIA ANOMALA 

Per una serie di motivi che è inutile analizzare in questa sede, sono sempre vissuta in mezzo a persone cosiddette"normali", ho frequentato "normali" scuole pubbliche, non hoavuto amici con problemi simili ai miei. Non ho preso in mano in prima personail mio handicap, altro che alla verde età di trent’anni. Sono sempre stataabituata, inutile discutere se a torto o a ragione, a sentirmi e ad essereconsiderata una persona normale. E come tale, ho trovato giusto usufruire ditutto quello di cui usufruivano i miei amici: gite, cinema, viaggi, patente adiciotto anni. Non è stata una cosa semplice, ma ci sono riuscita. Ero cosìsicura di me stessa e dei miei limiti, che l’idea che qualcuno potessepreoccuparsi perché guidavo da sola su un’autostrada, non mi ha mai sfiorato lamente.
Quando andavo alle feste dei miei compagni di scuola e mi rovesciavo qualcosaaddosso, mi sentivo mortificata da morire, ma nello stesso tempo non la trovavouna cosa disonorevole, abituata com’ero, a vivere in una famiglia di gente chesi impataccava regolarmente a prescindere dall’handicap o dalla normalità.Facevo tappezzeria e soffrivo da impazzire perché desideravo ballare con questoo quel compagno e non ritenevo giustificata l’esclusione che subivo perché misentivo più carina e intelligente della metà delle altre ragazze. La miaadolescenza è stata un periodo buio e pieno di dolore per il vuoto affettivoche non riuscivo a colmare. È una storia fin troppo comune: se da un lato tuttal’esuberanza della mia crescita come donna, mi portava a desiderare leattenzioni dell’altro sesso, dall’altro mi arrivavano solo fraterne risposte distima. Distrutta da questo stato di cose, sono passata al contrattacco,manifestando in modo chiaro i miei desideri. Le reazioni dei malcapitati inquestione sono state ovviamente di panico, ma anche in quei frangenti, non homai dato più importanza del dovuto, o comunque scaricato la colpa, al miohandicap: avevo preso una buca e stavo malissimo, ma accanto a me la metà delle mie normalissime amiche, spasimava peruominiche non le degnavano di uno sguardo Mi sentivo rifiutata per il mio carattere ocomunque mi era stata preferita un’altra donna, ma mai, neppure per un momento, ho pensato che potesse essere un rifiuto legato esclusivamenteall’handicap. Ognuno ha i suoi mezzi personali per difendersi dal dolore, e questoprobabilmente era il mio. E almeno per me ha funzionato. Ho cominciato a farmi unpo’ di sana autocritica e a cercare di capire cos’era in me che allontanava lepersone: l’aggressività, la durezza, la cultura o chissa cosa, o forse stavoaddirittura bluffando con me stessa e frequentavo uomini che, se da un lato miattiravano, dall’altro non mi interessavano affatto. Insomma, sono cresciutaanch’io come donna, e anche se con molta fatica, ho imparato a capire come girail mondo e qual sono le cose vere che lo fanno muovere, e inevitabilmente hotrovato un mie spazio e il mio personale modo di muovermi all’interno di esso.Ho continuato a prendere buche, ma ho anche imparato a darne. La mia vitaaffettiva e sessuale non è certo stata delle più facili, ho dovuto lottarecontro il perbenismo, e peggio ancora, contro il paternalismo della maggiorparte della gente, che mi ha sempre riversato addosso, senza nessuna richiesta,il pietismo di chi non vuole conflitti con la propria coscienza. Sono crollatatante volte sotto le coltellate psicologiche di chi ha bisogno di deridere ipiù deboli per avere l’illusione di essere più forte, ma non sono morta.L’orrenda realtà di queste persone continua a farmi male e a farmi paura, macostoro vanno per una strada e io per la mia. Sono sempre una donna scomoda eaggressiva, ma ho saputo imporre il rispetto di me come donna, come amante ecome handicappata.

Handicappati all’università: parlano le facoltà

L’ Università dovrebbe essere il luogo in cui vengono elaborati concetti che
diventano patrimonio comune prima degli studenti e in un secondo momento
dell’intera società. Per intenderci lo studente che frequenti le lezioni all’Università
non dovrebbe apprendere soltanto delle nozioni ma usufruire di quelli che sono i
risultati del lavoro di ricerca dei docenti nell’ambito delle loro materie o
anche dei risultati della ricerca fatta al di fuori dell’università.

Questo che dovrebbe essere il compito dell’Università, cioè fornire allo stesso tempo conoscenze e metodi di ricerca, in qualche caso viene disatteso.Succede, per esempio nelle facoltà umanistiche, che qualche docente ripeta nelcorso degli anni praticamente sempre i medesimi argomenti, senza ampliareulteriormente le proprie ricerche; oppure che tratti argomenti tropposettoriali, con la conseguenza di non far giungere i risultati dei propri lavoriad un pubblico sufficientemente vasto, trascurando inoltre altri aspetti chepure sono essenziali nell’ambito della propria materia. Comunque al termine delsuo curriculum di studi lo studente oltre a possedere delle conoscenze relativealle materie trattate ha ricevuto una formazione culturale che travalica il suocampo specifico e che lo accompagnerà anche nelle sue scelte di vita al difuori dell’esperienza universitaria. Quindi l’Università è il luogo dovevengono prodotti e lanciati dei messaggi culturali di vario genere tra i qualidovrebbe essere compreso anche quello riguardante l’handicap e la diversità.Abbiamo detto dovrebbe essere perché anche le facoltà che nel loro ambito distudio dovrebbero inserire un discorso sull’handicap non sempre lo fanno in modo esauriente come dimostrano lerisposte avute dai nostri interlocutori.
A questo proposito vogliamo ricordare le difficoltà che abbiamo incontrato pertrovare dei docenti che ci esponessero la loro opinione sull’idea chedell’handicap e della diversità esce dall’Università. Alcuni dei docentiinterpellati hanno manifestato il loro imbarazzo ad affrontare il tema propostoe altri pur dichiarandosi disponibili a un colloquio non hanno fornito rispostesufficientemente calzanti sull’argomento.
Abbiamo identificato tre facoltà che direttamente o indirettamente affrontano o trattatano del tema dell’handicap! o della diversità. Sono la facoltà di]Medicina e Chirurgia, quella di Magistero col corso di laurea in Pedagogia eScienze Politiche col Dipartimento di Sociologia. Inoltre abbiamo interpellatoalcuni studenti o laureati delle facoltà di Medicina e del corso di laurea inPedagogia che hanno scelto come ambito professionale il lavoro con personehandicappate oppure come specializzazione post laurea in Medicina branche comela neuropsichiatria o la puericultura che con ‘o handicap sicuramente dovrannoconfrontarsi. Inoltre questi studenti o laureati intervistati non hanno solo unaconoscenza teorica di tutto ciò che è l’handicap ma hanno anche rapporti consoggetti handicappati al di fuori dell’ambito lavorativo.

MEDICINA: L’HANDICAP COME PATOLOGIA

Incominciamo dalla facoltà che più ha a che fare con l’handicap, ossiaMedicina. Abbiamo interpellato il preside dì questa facoltà, prof. Salvioli,che, essendo anche il direttore dell’istituto di Neonatologia e Pediatriapreventiva, ci sembrava una delle persone più indicate per rispondere alle nostre domande sull’handicap. Come vive la tematicadell’handicap un esperto studioso di Pediatria? "Noi, assieme agliostetrici, cu-riamd e ci interessiamo della prevenzione o di una diagnosiprecoce dell’handicap e quindi di una precoce riabilitazione. Agli studenti siillustrano e si insegnano queste situazioni ed inoltre abbiamo un rapporto conle associazioni laiche di categoria, come le famiglie dei bambini con sindrome diDown, l’A.I.A.S.,l’A.N.F.F.A.S.,conle quali cerchiamo di affinare maggiormentela prevenzione". Quindi l’handicap è soprattutto oggetto di ricercascientifica e di prevenzione. Noi non auspichiamo certamente una società dipersone handicappate però temiamo che col termine prevenzione (si previenesempre qualcosa di negativo) si dia un’immagine sostanzialmente negativaall’handicap e che si veda l’handicap solo dal punto di vista scientifico e nonanche dal punto di vista umano. L’immagine dell’handicap che possiamo coglierefra la gente è quella di una persona "ammalata", in cui la patologiadel "male" occupa tutta la persona. L’handicap non è un male o unavergogna, ma non per questo riteniamo che il lavoro di ricerca sulle cause deivari handicap sia inutile, anzi pensiamo che sia opportuno e indispensabile eche se è possibile migliorare le condizioni di vita di ogni uomo si deve faredi tutto perché ciò avvenga. A tale proposito ci è sembrato utile sentire ilparere dei laureati o laureandi in Medicina. Concordiamo con quanto ha dettoBruno: "Con prevenire si intende evitare che si verifichi un eventomettendo in atto tutte le misure possibili ed efficaci, perché si consideral’evento come sfavorevole. In questo senso credo non ci sia nulla di negativo, anzi. Negativo è semmai giudicare le persone handicappate riferendosiad un concetto di normalità, una disabitudine a vedere il positivo". Lamancanza di un approccio umano e psicologico all’handicap ci è stato confermatoanche da Alberto: "Non credo sinceramente di poter dire di aver ricevuto unmessaggio sull’handicap: al massimo se ne parla velatamente (sempre comequalcosa di negativo) da un punto di vista puramente scientifico(descrizione-prevenzione)". Carlo ribadisce che "sull’handicappatocome entità, cioè di una persona con un danno che gli impedirà di svolgerequalche attività, la facoltà di Medicina non si esprime". Queste risposteconfermano ciò che abbiamo già detto, cioè che nel curriculum di studi di unmedico manca un messaggio specifico sulla problematica dell’handicap che vienevisto solo come una delle tante patologie da cui l’uomo è affetto. Carlorispondendo ad un’altra domanda ha delineato bene questo concetto: "Per lafacoltà di Medicina il soggetto handicappato è un malato da riabilitare. L’handicap è l’esito di una qualche patologia e i medicitendono a dimenticare gli esiti. Per esempio nel caso di paralisi cerebraleinfantile la persona handicappata è considerata soltanto finché il danno è inevoluzione, ma quando questo ha prodotto le sue conseguenze e la situazione siè stabilizzata essa non rientra più nell’ambito tipico di intervento dellaMedicina". Quest’ultima risposta evidenzia una mentalità pragmatica percui si parla di handicap fino a quando si può fare qualcosa in sensoriabilitativo o preventivo ma non se ne parla più quando l’handicap diventa unasituazione di tutti i giorni. Questo ci sembra il limite del messaggio che lafacoltà di Medicina offre attualmente dell’handicap (quello che si riferisce alvissuto quotidiano del soggetto handicappato) oltre al fatto che questaimpreparazione si riperquote anche sul delicato momento della comunicazione allefamiglie della nascita o della probabile na-
scita di un figlio handicappato. Questa come ci ha detto il prof. Salvioli"è difficoltà di sempre per tutte le attività del medico, una correttacomunicazione con i parenti. Il problema è di far capire con parole semplicicosa succede. Non sempre il medico ha questa facilità di esposizione, nonsempre c’è da parte della famiglia la capacità di comprendere le cose".Questa difficoltà di espressione rischia di portare il medico a semplificarefino a banalizzare le : conseguenze della patologia che ha j scatenato ladisabilità, e da qui anzi- 1 che dire che un ragazzo avrà delle difficoltà motorie o di apprendimento farcapire che non camminerà o non capirà mai nulla il passo è breve. 

L’HANDICAP E PEDAGOGIA: UN TEMA PER SPECIALISTI

II secondo interlocutore della nostra ri- o cerca è rappresentato dal corso di1 laurea in Pedagogia della facoltà di ‘ Magistero. Ci siamo rivolti al prof.A. Palmonari (docente di Psicologia sociale) per conoscere in quale modo
questo corso di laurea affronti il discorso sull’handicap. Come per la facoltàdi Medicina abbiamo integrato le risposte del prof. Palmonari con quelle dialcune pedagogiste da noi interpellate.
Vogliamo ricordare che all’interno del corso di laurea in Pedagogia esiste ilcorso di Pedagogia speciale tenuto dal prof. A. Canevaro e dai suoicollaboratori. Questo fatto provoca delle conseguenze: infatti il prof.Palmonari ha "l’impressione che la presenza del prof. Canevaro con i suoicorsi così dettagliati sull’handicap faccia si che gli altri docenti diPedagogia o che insegnano nel corso di laurea in Pedagogia, non si soffermino ungran che a parlare delle problematiche concernenti gli handicappati. Questaopinione ci è stata confermata anche da tutte le pedagogiste interpellate:secondo Daniela "Non si può pensare che un esame, dato che attualmentesolo il corso del prof. Canevaro riguarda specificatamente l’handicap, riesca adare quella professionalità che poi nel campo del lavoro è richiesta".Elisa ribadisce il fatto che "l’approccio all’handicap all’interno delcorso di laurea in Pedagogia rischia di essere ghettizzato essendo appannaggiodell’insegnamento di Pedagogia speciale e non comparendo poi di fattonell’orizzonte di analisi di altri insegnamenti". Questa forma di delegadel discorso handicap al prof. Canevaro, ci sembra un modo per far si chel’handicap diventi un discorso specialistico che riguarda soltanto un gruppo dilavoro che da anni produce cultura in questo settore. Tale approccioall’handicap secondo noi è piuttosto limitante, anche perché uno degli sbocchioccupazionali di un laureato in Pedagogia è rappresentato proprio dal lavorocon bambini o ragazzi handicappati.
Questa nostra convinzione ci è stata confermata dalle pedagogiste interniate eche da anni lavorano o han-10 a che fare con persone handicap-Date sia fisicheche mentali. Daniela ritiene che "un solo esame lon riesca a dare quellaprofessiona-ità che poi nel campo del lavoro è richiesta ed inoltre troppospesso si ricevono elementi lontani dalla realtà e ci si ritrova intellettualidisoccupati senza una chiara identità professiona-e. Daniela ed Elisa sonod’accordo lei ritenere che "una preparazione su Dase puramente teorica nonè mai in nessun caso sufficiente per la pratica avorativa, e tanto più questoavviene avorando con bambini handicappati". ‘Nella formazione deglieducatori che Dperano nel settore dell’handicap è mportante l’unione tra leconoscenze :eoriche e le abilità pratiche. Nella migliore delle ipotesi lostudente che 9sce dall’Università può sapere tutto dell’osservazione, ma nonsa osservare perché non lo ha mai fatto, e questo vale anche per laprogrammazione, le attività, la comunicazione non verbale". Noiconcordiamo con le indicazioni offerteci dalle due pedagogiste e riteniamo chequesta indicazione concreta parta da chi sperimenta sul campo le teorie studiateall’Università possa essere proposta anche a livello operativo, in quanto"come futuri educatori si è chiamati ad abbandonare quell’atteggiamento didelega che troppo spesso ci accompagna quando si parla dei problemi deglihandicappati".
SOCIOLOGIA: UN’OCCASIONE MANCATA PER L’HANDICAP
Un terzo interlocutore è stato il dipartimento di Sociologia nelle persone deldott. S. Porcu (ricercatore di So-
ciologia sanitaria) e del prof. Sellasi (Sociologia),
Una prima cosa che è emersa dall’incontro con il dott. Porcu è stata una sortadi autocritica per lo scarso interesse che la Sociologia sanitaria ha finorarivolto all’handicap: "Qui in dipartimento sono alcuni anni che cioccupiamo di sociologia sanitaria e abbiamo individuato alcuni campi di ricerca:gli anziani, la famiglia e altri temi, ma è difficile dire perché proprioquesti temi siano stati gli unici ad imporsi.
Una delle ragioni di questo disinteresse è dovuta al fatto che molte ricercheeffettuate dal dipartimento di Sociologia vengono effettuate su richiesta dialcuni committenti, come ad esempio gli enti pubblici. Ciò a nostro avviso èpiuttosto deludente perché la ricerca universitaria non dovrebbe seguiresoltanto le indicazioni di "mercato" anche se deve essere semprecollegata ai problemi reali. Siamo sen-z’altro d’accordo che al continuo aumentodella fascia d’età anziana debba conseguire un approfondimento degli studisull’impatto che questo fenomeno provoca nella società, però in questo modo sicorre il rischio di analizzare soltanto quei fenomeni che sono caratterizzatidai grandi numeri (anziani, tossicodipendenti, ragazzi a rischio, ecc.)tralasciando altre categorie ugualmente deprivilegiate, con meno appartenenti,ma non per questo con meno impatto sull’immaginario collettivo.
A questo proposito il prof. Sellasi che collabora ad una ricerca (che si svolgein Canton Ticino) riguardante proprio l’immagine che dell’handicap si forma lacollettività, ci ha detto: "Sono state fatte ricerche per esempio sullebarriere architettoniche, però non sono state fatte ricerche sugli ostacolipsicologici. Qui diventa molto più problematico conoscere ciò che realmentepensa la gente, la quale alle nostre domande risponde dicendo quello che sidovrebbe fare e non ciò che realmente pensa dell’handicap. (…) Noi siamoinvece convinti che di fronte all’handicap ci siano proprio delle barrierepsicologiche e culturali molto più grandi e che permangono molto più a lungodi quanto non permangono le barriere architettoniche".
Questo discorso è in sintonia con ciò che abbiamo sempre sostenuto riguardo ailimiti culturali che l’Università dimostra di avere nei confronti deglistudenti handicappati che vi si iscrivono.
Ma veniamo alla domanda fatta al dott. Porcu: il dipartimento di Sociologia hamai cercato di costruire e di proporre un messaggio sull’handicap? "Noncredo che questo messaggio sia mai stato lanciato in modo organico sia a livellodi ricerca che di scuola culturale, fatte salve iniziative, esperienze di gruppoo individuali che ci possono essere. Sicuramente l’handicap è uno degli aspettiche più sono stati oggetto di rimozione anche nelle scienze sociali".
La rimozione di cui ha parlato il dott. Porcu provoca inevitabilmente ilpregiudizio così come è anche vero il contrario: che i pregiudizio provoca ocausa la rimozione. Così dicendo siamo tornati al tema delle barriere culturalidi cui sicuramente il pregiudizio è una delle principali cause. Tale opinioneè risultata anche dal colloquio con il prof. Ricci Bitti (direttore delDipartimento di Psicologia) il quale ritiene che "i limiti culturali sonomolto evidenti. È sulla base di una sostanziale ignoranza che nasce, cresce esi nutre il pregiudizio, che è quello che spesso fa associare la disabilitàfisica con il ritardo mentale: c’è un danno motorio o sensoriale e quindi ètutto danneggiato". Esistono o possono crearsi dei rimedi ad una situazionedi questo genere? "Questo tema – sostiene il prof. Ricci Bitti – puòessere affrontato e uno dei modi migliori per farlo è sempre quellodell’informazione, anche se non è sufficiente: l’informazione agisce sullivello dell’atteggiamento, del pregiudizio, ma questi hanno anche altrilivelli, che sono emotivi, comportamentali, su cui l’informazione pura esemplice non ottiene grandi effetti. Effetti su questi livelli si ottengono conle esperienze concrete".
A proposito di esperienze concrete il doti. Porcu ci ha confermato che la
presenza di uno studente handicappato in un suo seminario è stata "unbagno dì realtà". "La presenza di un handicappato durante unseminario sulle politiche sociali fu l’irruzione dei problemi reali dentro ilseminano e quindi ci costrinse proprio ad una concretezza molto maggiore diquella che probabilmente ci sarebbe stata senza la sua presenza. Ciò dimostraancora una volta che ogni studente handicappato o non handicappato ha in sé unpatrimonio culturale. Tale patrimonio culturale, secondo il dott. Porcu puòessere recepito e sfruttato dall’Università in quanto "nell’ambitouniversitario le barriere culturali sono abbastanza aggredibili. (…) Per altriambiti, diciamo di vita quotidiana, sono portato ad essere molto meno ottimistaperché mi sembra che proprio il mutamento culturale di questi ultimi anni vadain dirczione del tutto opposta rispetto a quella che può consentirel’integrazione del portatore di handicap. La stessa espio-
sione della cultura del corpo degli ultimi 10 anni, l’individualismo spinto, ilnarcisismo dilagante sicuramente non sono compatibili con una socializzazione,una integrazione del portatore di handicap".
Noi concordiamo pienamente con questa analisi che riguarda l’ambito della vitaquotidiana, ma ci chiediamo se questa cultura non ha influenzato in qualche modoanche la stessa Università che invece secondo il dott. Porcu ne sarebbe rimastaindenne. Il discorso che le barriere culturali dovrebbero essere più fragili inambito universitario vale soprattutto per quelle facoltà in cui la presenza distudenti handicappati è stata maggiore e forse non a caso sono quelle diLettere e Scienze Politiche, mentre non ci sentiamo di estendere questaconsiderazione anche ad altre facoltà che finora o non hanno mai sperimentatola presenza di studenti handicappati oppure hanno avuto presenze moltosporadi-che. Proprio le facoltà in cui esiste l’immagine dello studente un po’più
"scalcagnato" sono quelle in cui anche gli studenti handicappati hannotrovato più possibilità di integrazione mentre laddove esistono modelli distudente "perfetto" non c’è neanche questa disponibilità alla loroaccoglienza. E ALLORA?
A quali considerazioni finali possiamo giungere dopo questa ampia analisi dellevarie situazioni nelle diverse facoltà? La facoltà di Medicina non parla dihandicap se non dal punto di vista patologico; il corso di laurea in Pedagogiadelega ad un unico docente quasi tutto il lavoro sull’handicap; il Dipartimentodi Sociologia non si occu-
pa del discorso handicap nemmeno con la Sociologia sanitaria; il Dipartimento diPsicologia non collabora con le facoltà universitarie relativamente ai problemiche l’iscrizione di uno studente handicappato provoca all’interno di unafacoltà. Quindi la nostra domanda "qual’è l’immagine che l’Universitàoffre dell’handicap" è rimasta senza risposta. L’Università nel suoinsieme escludendo la felicissima isola rappresentata dal dipartimento diScienze dell’educazione non produce, nemmeno nelle facoltà che possono essereinteressate a questo discorso, una cul-
tura dell’handicap. Resta un discorso per pochi specialisti e attuato in terminipuramente scientifici. Quello che invece vorremmo diventasse un dato acquisitoè che l’handicap non riguarda solo gli addetti al settore o chi lo vivepersonalmente, ma la persona handicappata è portavoce di un patrimonioculturale che non deve essere perso perché interessa ogni uomo. Ma è proprio aquesto punto che i limiti culturali evidenziati dal nostro lavoro emergono piùrilevanti: alla persona handicappata, come agli altri esponenti delle categoriedeprivilegiate, vengono assicurati i mezzi per esprimere il proprio patrimonioculturale?

Sospettosi, naturalmente riciclati Sospettosi, naturalmente riciclati

Per meglio comprendere i problemi dell’emarginazione diventa sempre più indispensabile guardarci attorno con occhio critico per individuare alcune linee di tendenza della nostra "cultura sociale media".

Linee che possono guidarci ad analizzare meglio (con meno passionalità e piùragione) fenomeni di intolleranza, assai diversi da quelli di razzismo, daquelli di aggressività contagiosa, di violenza, di guerra… Questo perventagli di cause altrettanto differenti, anche se incrociate e spesso confuse,che possono trarre origine da fattori assai sotterranei: ora da fallimenti dellapratica politica, ora da "furti" predeterminati di ideali, ora daaccelerazione dei tempi di consumo di qualsiasi messaggio con la conseguenteperdita del gusto dei dialoghi; ora infine da quel confondere benessere conspreco, qualità della vita con montagne di rifiuti, identificazione indottadall’attuale viva e vigorosa cultura dei consumi.

SCART

Simbolicamente (ma non solo) persino una certa tendenza artistica,
quella degli anni venti ancor prima di Andi Wahrol, ha mostrato quante cosepossono essere fatte con i rifiuti e con gli scarti della società delbenessere: dai collages alle bidon-villes, dai parchi Robinson alla pop art,all’arte funk, alla trash (arte povera e arte del rifiuto, dello scarto)…Questa controcultura del recupero quindi sta in posizione provocatoria o ironica- ma non più di tanto – nei confronti di una crescente (anarchia?) società deiconsumi, con risultati però sconcertanti: quelli di provocare alla fine benpoco, anzi a volte di diventare spettacolo essa stessa e pertanto ulterioremotivo di consumo. Ed ecco il crescente ! paradosso: anche la denuncia estetica (e culturale) al consumismo più bieco rischia di essere assorbita nelvortice di un consumismo ad alto livello.
Noi, allora, che desideriamo andare oltre le scene di questi spettacoli, cheviviamo la cultura come processo di modificazione dei nostri comportamenti, non come puro esercizio intellettuale, ma come presa di coscienzadei fenomeni, noi potremmo prender atto di queste differenze: da una parte un"progresso" che produce montagne di rifiuti e milioni di emarginati, edall’altra una qualità della vita che non considera "negativo" il nonefficiente. Ed ancora: da una parte un "riciclaggio" di prodotti e dipersone considerati scarti di un benessere, e dall’altra una pratica piùintelligente e più umana (e certo più economica) di integrazione secondo cuipersona, prodotto o messaggio, emergono nella loro autenticità per essereascoltati, impiegati, assaporati per quel che sono, fino in fondo e senzasospetti.

SOSPETTI

Dal giorno in cui è scoppiato il caso Gladio ho ritagliato, con curascrupolosada più di un quotidiano, frammenti di testi, titoli, dichiarazioni dipersonaggi politici noti e meno noti, e persino aforismi da pagine sportive, incui poter ravvisare apertamente il sospetto. Ognuno di noi, almeno una volta(dico una) nella vita, ha guardato sotto il proprio letto prima di andarsene adormire. Il sospetto in effetti si riduce a questa irresistibile tentazione di"guardar sotto", appunto quel sub-spicio che ti fa scoperchiarepentole, ti fa tirar via coperte, tetti, sigilli, segreti, matrioske, tovaglie,e ti fa sfogliare carte, per rassicurarti che quel che sospettavi era appuntovero.
Non occorre scomodare la psicopatologia, e neppure la sociopsicologia, peraffermare che la cultura del sospetto si sviluppa e si dilata in periodi dellastoria in cui l’intrigo, il sotterfugio, la tensione fa sì che, anche facendoun concorso per sottousciere alle Poste o camminando in pieno centro storico,induce a guardarti "di traverso", invita a guardarsi alle spalle comenei racconti di Lovecraftdove i mostri stanno sempre lì agli angoli dellestrade. E’ patrimonio significativo di questo passato decennio, infatti, la tesiripescata da Umberto Eco sulle dietrologie, tesi su "che cosa sta dietro acosa", con i suoi due stessi romanzi a giro di posta (prima Il nome dellaRosa poi Il pendolo di Focault); sullo sfondo, tutte quelle particolari speciedi gialli televisivi (dallo spot alla telenovela) che sembrano fatti apporta perintrodurci sospettosamente alle vicende ben più drammatiche della vitaitaliana: mafia, camorra, rapimenti, corruzioni, P2, Gladio, appalti, sequestri,stragi e concorsi pubblici. Con due effetti concomitanti, però, e assai contradditori tradi loro: l’uno che fa vivere i drammi reali e gli scandali politici come puntate di racconti televisiviprolungatisi spettacolarmente oltre lo schermo di ventun pollici, per cui lìper lì ci si scandalizza di fronte ad un Andreotti ma tutto sommato si aspettail giorno dopo per sapere il seguito della storia; e l’altro (contraddizioneforse compensatrice!) che fa vivere in ansia continua il nostro quotidiano, con quel perfido ronzio del non mi fidonelle orecchie per cui se tua moglie si allunga verso di te anche per darti unbacio, subito ti scosti, la sogguardi e provi un brivido: "Eh no, cara mia,tu mi nascondi qualcosa!".

BEAUTIFUL

Cosicché le lettere di Moro, che chissà che cosa dicono, che cosa potrebberorivelare, che sono state trovate ma subito sequestrate e poi fotocopiate e poispedite, e poi l’inchiesta, la Commissione che dovrà verificare i contenuti mache non
potrà subito rivelare; e allora si dovrà far luce su chi le ha messe lì e suchi le ha sottratte… queste lettere appunto ripropongono gli identicimeccanismi del racconto di Edgar Allan Poe, La lettera rubata, trasmesso qualchesettimana fa su Rete 4, dove la Regina affida ad un messo una lettera segreta(forse d’un amante?) all’insaputa del Re, e questa lettera viene più volte"rubata", ora dal Ministro ora dal poliziotto Doupin, ora arriva trale mani dello stesso Re; ogni volta chi la possiede riacquista potere, e perquel giorno – tra mille sospetti – quel detentore si trova nell’occhio delciclone. Poi c’è stato Gladio, con alti e bassi senza tregua, con sospettianche nei confronti di chi sospetta, di chi tuona che "occorre far luce"; eda un giorno all’altro si è comprato il giornale per vedere se il grande padre,Francesco Cossiga, abbia finalmente diseredato (o la tira ancora per le lunghe)quel figlio scapestrato, il giudice Casson, che non mollava l’osso del sospettoe non chiedeva perdono… tale e quale il rapporto padre/figlio nella telenovela Sentieri.
E Beautiful? Beautiful praticamente rappresenta un po’ tutto e un po’ tutti, èquello che i linguisti definiscono un "metaracconto"; qui ci trovitutte quelle varietà di piagnucolamenti, di oh di meraviglia, di chi l’avrebbemai detto!, o i c’era da aspettarsela… che si è soliti dire di fronte a"quattromila miliardi di deficit", di fronte a "447 uominid’onore assolti", oppure alla catastrofe compiuta dall’aereo militare aCasalecchio di Reno.

BUSH E SADDAM COME A DALLAS

Invece il rapporto sadomasochista tra Bush e Saddam, ovviamente coi rispettivisospetti, con le occhiate di traverso, ripropongono, con il ritardo di un paiod’anni, l’interminabile Dallas con un Jr nella parte di Bush, incazzato duroperché Saddam, nella parte del rivale in affari Jeff, dopo un tiramolla apuntate con colpi di scena facilmente prevedibili, ha liberato d’un botto unsacco di ostaggi ed era lì lì per venire a patti. Non sarà mai, questa nondovevi farmela, tu agli occhi del mondo devi essere carogna fino in fondo: ebbene, "la liberazione (in massa, n.d.r.) degliostaggi rende più liberi gli USA di attaccare (finalmente, n.d.r.) guerraall’Iraq", dichiara il 9dicembre il Presidente americano, perché è giustocosì e basta. E difatti…

IO LO SO MA NON LO POSSO DIMOSTRARE

In casi del genere, sospetti o no, si tira diritto verso il proprio tornacontosenza neanche voltarsi, anzi il sospetto diventa una scusa: tu puoi dire quelche vuoi, a me non interessa che tu sia più in basso di me, tanto sei tu che misporchi l’acqua, e poi di te non mi fido. In casi più "familiari", dipolitica interna, invece, il Sospetto funziona come la catena di Sant’Antonio:qualcosa sta sempre sotto a qualche altra cosa fino a provocare una lunga catena disospetti, come un gioco di società; ed èappunto come tale che lo si vive. Il gioco del sospetto è una specie diparanoia ludica dove l’interlocutore scopre sempre il velo di cipolla sottoquello che tu hai tolto: eh sì, caro mio, dietro Gladio c’è la Destra, edietro c’è la P2, ma dietro c’è la Mafia, e più sotto ancora quelli che hannofatto fuori Moro, magari Andreotti, ma dietro Andreotti chissà chi manovra… Evia via di supposizione in supposizione senza mai pigliare per il collo ilresponsabile;
poi un bel giorno la fortuna vuole che finalmente, finalmente, anche l’umilecittadino senza "e" maiuscola, un telefruitore qualsiasi, abbia lasoddisfazione di sapere il contenuto di quella lettera segretissima, e scopreche il messaggio press’a poco dice le stesse cose che stavan scritte nellalettera rubata alla Regina nel racconto di Poe: "Un dessein si funeste,S’il n’est digne d’Atrée est digne de Thyeste". (Un piano così funesto,se non è degno d’Atreo è ben degno di Tieste). All’indomani dell’uscita delPendolo, Umberto Eco, in una intervista su "l’Espresso", differenziavaappunto questo tipo paranoico del Sospetto, per cui tutto sta sotto a tutto, daquello "più sano", quello del fiuto dell’intellettuale: quel fiuto sevuoi impotente ma che sa senza avere le prove in mano (perché se le avesse certo non sarebbe da quella parte, e se per caso lo fosse, verrebbe in qualchemodo fatto tacere). Su questo tema ancora Eco riempe la pagina culturale de"la Repubblica" di sabato 8 dicembre in un’intervista, Caccia alcammello, dove spazia dalla prima Opera aperta fino al suo ultimo recente testosu I limiti dell’interpretazione, lavoro per lo più centrato sui complicatimeccanismi con cui dietro ad un messaggio si cerca sempre qualcos’altro, sicchéalla fine non poteva non rievocare l’intuito profetico di Pier Paolo Pasolini. Io so che… io lo so… io lo so… io lo so ma non lo posso dimostrare. Lo soperché sono un intellettuale che vede ciò che gli succede intorno.
Diventa, questa sconcertante affermazione, una prova tremenda di impotenzasociale da parte di tutti coloro che, esclusi o emarginati o socialmente deboli,rivendicano un diritto o entrano in un conflitto oppure tentano autonomamente difar valere un loro punto di vista. Anche in un banale incidente stradale doveuno ti viene addosso perché non rispetta lo stop, parti senz’altro dalla partedel torto de non scatti fuori dalla vettura, col petto gonfio, afferri per lagiacca il tuo investitore e gli urli: primati spacco il muso e poi chiamo lapolizia. Perché, se non ce la fai a far così, se non ce la fai culturalmenteoltre che fisicamente, avrai sempre torto… perché è meglio che tu stia acasa invece di andare in giro, perché quelli come te devono essere badati, eperché tutto sommato è colpa tua, sta zitto, hai torto e prova a dimostrare ilcontrario…

Saranno famosi SARANNO FAMOSI

Approfittiamo del recente dibattito apparso sulla stampa circa la proposta di
nominare Rosanna Benzi senatrice a vita per soffermarci un attimo sul ruolo che
svolgono all’interno del dibattito sull’handicap le persone handicappate
“famose” naturalmente non vogliamo riferirci al personaggi del mondo
sportivo e dello spettacolo divenuti handicappati, ma a coloro che all’interno
ci associazioni, gruppi, movimenti, partiti, svolgono una azione di carattere
culturale e politico sui temi dell’handicap.

Certamente la situazione in questo terreno è camb’ata rispetto ad una volta;fino ad una decina di anni fa non c’era
spazio, salvo rari esempi, che per le eccezioni che finivano inevitabilmente perconfermare le regole dell’handicap come settore di esclusione e marginalità.Poi le cose, anche se molto timidamente, sono cambiate e, ad esempio, i più diquaranta libri scritti da persone handicappate negli ultimi sei/sette anni, nesono concreta testimonianza. Quaranta è un numero che comincia ad avere unaconsistenza anche politica, oltre che culturale, ed il ruolo dell’eccezionequindi può cominciare ad essere messo in discussione.
Vorremmo tuttavia soffermarci su due aspetti particolari di questo tema, purnella consapevolezza che saper gestire la propria "diversità famosa"non è cosa semplice ed a volte, oltre alla significativa testimonianza edimpegno di cui si è portatori, è possibile inciampare in contraddizioni ederrori. Ben vengano però gli errori, significa che si sta agendo, che ci si stamettendo in gioco in prima persona e questo per le persone handicappate è statosempre un lusso che solo poche eccezioni hanno potuto concedersi.
Riattualizzando il discorso ci sembra che diversi segnali indichino chesull’handicap", per amore o per forza si sta ripartendo. Si riparterimescolando argomenti triti e ritriti (leggi barriere architettoniche), siriparte per forza (i bambini socializzati negli anni 70 sono diventati adulti e di questo non si può farefinta, né tantomeno si può riciclare a vita (‘"utenza" nei centridiurni o nella formazione professionale) si riparte per amore (sport, nuovetecnologie, sessualità, scopi e struttura dell’associazionismo, ad esempio,sono terreni di grandi possibilità di discussione e crescita culturale). Siriparte riaccendendo il dibattito sui termini da usare (handicappato? disabile?portatore di handicap?). Il tema stesso dell’handicap, per le suecaratteristiche di ambito amplificatore delle contraddizioni della società,diventa terreno di movimento, incontro e scontro tra le diverse forze politichenel loro muoversi e rinnovarsi nella società. Essere handicappato, oltre che"addetto ai lavori" può rappresentare, all’interno di questopanorama, una carta importante per la "doppia credibilità" di cui siviene investiti; quella di tipo "tecnico" (essere un politico, unassessore, un tecnico del settore, autore di un libro, ecc.) e quella di tipo"esperienzale"(ovvero l’essere handicappato e riassumere in sé la"storia" dell’handicap). Questa situazione può essere moltoprivilegiata e può portare ad una visione delle cose estremamente significativaed innovativa, quindi feconda per il dibattito culturale e politico, quando sisappia resistere al rischio, ed alla strategia, del presenzialismo e si sappiavalorizzare il ruolo delle "periferie" (ad esempio i movimenti digruppi locali nel sociale, le persone con meno potere nei rapportiinterpersonali ecc.) senza abitare sempre e solamente "in centro" traconvegni, conferenze stampa, televisione, ministri, assessori-Altro rischiopossibile è quello del ripetersi e di non avere tempo per "ricercare"ed evolvere le proprie proposte, cadendo nell’errore, imperdonabile per unopinion leader degli anni ’90, di dimenticare che gli italiani sono affetti dasindrome da telecomando e quindi rischiano di sentire su Canale 5 quello chehanno già sentito un minuto prima su HA11 e sentiranno due ore dopo su RAI 3.
Passando al campo editoriale registriamo che senz’altro alcuni dei libri prodotti dalla periferia sono molto più belli e significativi di altri scritti"al centro" che, sebbene più famosi e propagandati, in alcuni casirischiano di essere in parte delle "operazioni".
Mario Barbon ed il suo "non ho rincorso le farfalle" (Ed. Dehoniane)sono, dopo poche recensioni, ben presto tornati nell’anonimato della periferia,ma hanno fatto senz’altro un pezzette della storia dell’espressionedell’handicap in Italia.
Tenendo conto di quanto detto finora ci sorge qualche perplessità nel sentireannunciare trionfalmente "…le nuove tecnologie informatiche e dellecomunicazioni permetteranno a Rosanna Ben-zi di essere sempre presente ai lavoridel Senato (e non solo – NDR)". Paradossalmente si potrebbe dire che ilpolmone di acciaio, e la immobilità a cui costringe, hanno reso un granservizio a Rosanna non facendola certo cadere nel rischio del presenzialismo. DiRosanna si conoscono il nome e la foto del volto; una identità quindi precisaed essenziale e proprio anche per questo, oltre al fatto di essere in gamba, l’informazione non riesce astrumentalizzarla più di tanto pur dedicandole spazi amplissimi. Dialogare ecollaborare col centro, ma vivere in periferia, essere protagonista econtemporaneamente far parte integrante delle sfondo, queste forse alcune delleabilità e capacità per uscire dagli schem dell’eroe o dell’emarginato. Ilsecondo aspetto che vorremmo esaminare relativamente agli handicappat"impegnati" è quello del rapporto con la politica. Ci sono staterecentemente alcune piccole polemiche tra la vecchia guardia degli handicappati,passati attraverso le esperienze degli anni 70 relative allo sviluppo deiservizi territoriali, all’enorme dibattito in seno al monde educativo, allostrutturarsi del cosiddetto privato sociale, e le nuove leve che in parteseguono schemi mentali diversi rispetto ai fratelli maggiori. Se crisi delrapporto tra giovani e politica esiste, questo ovviamente coinvolge anche lepersone handicappate. Occuparsi del proprio privato o magari interessarsi attivamentedi sport senza avere dentro il fuoco sacro per l’attivismopartitico, per le assembleee, per i coordinamenti o le riviste alternative, nonci sembra necessariamente indice di snobbismo o di indifferenza. Forse l’impegno(politico?) segue altre strade, si alimenta di altri sentimenti e viaggia versoprospettive modificate. Ogni passaggio generazionale propone di queste dinamicherispetto alle quali il confrontarsi può essere anche difficile.
Che ci siano, timidissimi, in questo caso, segnali di un confronto anche trahandicappati giovani ed handicappati "un pò meno giovani" ci sembrapositivo, anzi decisamente bello. Significa uscire dallo schema di unacategoria, gli handicappati, cui la dimensione del tempo, dell’età, nonappartiene (l’handicappato come "etemo bambino" ne è un esempio), perconquistare il diritto ad appartenere ad una generazione, quindi alla storia,quindi, in ultima analisi, conquistare il diritto ad essere persona.

Dalla parte della maestra

Quando mi fu chiesto, tempo fa, di raccontare la mia esperienza di insegnante di
una classe prima in cui è inserito un bambino portatore di handicap, rimasi
alquanto perplessa, poiché ritenevo di non poter dire assolutamente niente che
non fosse già noto. Ora, ad anno scolastico quasi ultimato, mi sono convinta
che forse vale la pena raccontare la mia esperienza proprio perché è
assolutamente comune e, a differenza delle esperienze che vengono illustrate
negli ormai numerosi libri pubblicati sull’argomento, non ha goduto
dell’appoggio di istituzioni prestigiose, quali per esempio l’università,
appoggio che di per sé rende tali esperienze sicuramente privilegiate.

Insegno da 6 anni nella scuola elementare di Calderara di Reno. L’anno scorso,terminando una classe quinta, sapevo che avrei ricominciato un nuovo ciclo atempo pieno. Le classi prime in formazione erano tre: due a tempo pieno e una atempo normale. Nelle classi a tempo pieno sarebbero stati inseriti due bambiniportatori di handicap. Il fatto che i bambini fossero due e che, ovviamente,sarebbero stati inseriti uno per classe, ha fatto sì che non si ponesse ilproblema a quale coppia di insegnanti affidare la classe con l’inserimento.
L’unico problema che ci trovavamo dì fronte era decidere, nel miglior modopossibile, quale dei due bambini assegnare alle rispettive insegnanti, tenuteconto che le difficoltà dei due bambini erano completamente diverse: in uncaso, un handicap sensoriale ben definito (una grave lesione uditiva),nell’altro, un grave ritardo, non meglio definito, nelle sviluppo dellinguaggio. La decisione fu presa con grande serenità prima della finedell’anno scolastico, dopo un periodo di osservazione dei bambini alla scuolamaterna, dopo incontri con le insegnanti della scuola materna stessa e con glioperatori dell’USL.
L’elemento che, alle fine, determinò la scelta delle insegnanti, fu la maggioregaranzia di continuità didattica che una delle coppie di queste, per lamaggiore anzianità di servizio, offriva nel caso si fossero verificate infuturo nel plesso possibili contrazioni di organico. Fu ritenuto che fosse labambina con il ritardo dello sviluppo del linguaggio ad avere assolutamentebisogno di persone fisse di riferimento. La formazione dei gruppi classe fudemandata alle insegnanti della scuola materna poiché ritenemmo di non avere,nonostante il periodo di osservazione, elementi sufficienti per entrare nelmerito del problema. Tengo a precisare che la presenza delle insegnantielementari alla scuola materna per una prima conoscenza con i bambini chesarebbero passati l’anno successivo alla scuola elementare era stata programmatafin da novembre, per garantire ai bambini stessi un passaggio il più tranquillopossibile e che questa esperienza era stata giudicata essenziale al di là dellapresenza dei bambini con particolari difficoltà. Ricordo ancora con amarezzaquando, alla luce della nostra positiva esperienza, proponemmo al Collegiodocenti di stabilire un monte ore annuale fisso per il rapporto scuolaelementare-scuola materna, che permettesse alle insegnanti di 5a di effettuarela conoscenza dei loro futuri alunni senza dovere ricorrere, come era stato pernoi, al puro volontariato. La proposta non venne accettata e ci fu solo un vagopronunciamento a favore di un auspicabile rapporto di collaborazione fra questidue ordini di scuola.
All’inizio del mese di giugno del 1988, quindi, sapevo già i nomi dei 15 alunniche avrebbero formato la mia nuova classe; fra questi ci sarebbe stato ilbambino audioleso.

UN’ESTATE PER IMPARARE

Il fatto che, nonostante io insegni in una classe a tempo pieno, parli in primapersona, è perché ho accettato l’invito a scrivere per Accaparlante non tantoper
raccontare l’esperienza didattica che abbiamo elaborato e realizzato in questmesi con la collega di classe e con l’insegnante di sostegno a favore delbambino audioleso, ma perché vorre ripercorrere il mio vissuto personale dfronte a questa esperienza cosi coinvol gente dal punto di vista professionale eumano.
Sapere con qualche mese di anticipo la tipologia dell’handicap con il quale msarei dovuta rapportare all’inizio del sue cessivo anno scolastico e avere i mesestivi a disposizione per cercare di col mare il più possibile la mia assolutaignoranza sulle tecniche di insegnamen to per audiolesi, mi tranquilizzava moltissimo.
In realtà, nelle librerie o nelle bibliote che mi fu impossibile reperire ilibri con sigliatimi dalla logopedista deU’USL anche i numerosi ordini inviatialle stes se case editrici rimasero senza risulta to, trattandosi di volumipubblicai qualche anno fa.
Se non fosse stato perché conoscevo personalmente una ragazza che ha ur figliosordo profondo, la quale mi riforn di numeroso materiale (soprattutto rivi ste eperiodici), nella valigia delle vacan ze non sarei riuscita ad infilare neancheuna pagina che trattasse in modo spe cifico l’argomento.
Tutto ciò che lessi, comunque, riguardava esclusivamente casi di bambinsordo-profondi, mentre M., con le protesi, ha un discreto recupero, come deresto avevo potuto constatare durante l’osservazione alla scuola materna. Anchequesta considerazione mi tran-quillizzava molto.
Un altro elemento che mi aveva favorevolmente impressionato e che mi faceva bensperare per il futuro era stata la facilità dei rapporti con l’USL: incontrarsinon era stato un problema e l’interesse per un positivo inserimento dei 2bambini nel nuovo ordine scolastico mi era sembrato reale.
Devo ammettere che a quel tempo pen sai addirittura che, evidentemente, gìannosi problemi di rapporti scuola-USl che periodicamente venivano denunciai neivari organi collegiali dalle collegi
che avevano classi con inseriti bambini portatori di handicap, fossero creati dascarsa disponibilità personale a ricercare soluzioni adeguate. Nei giorni discuola che precedettero l’anno scolastico, tutti i nostri sforzi furonoconcentrati sulla scelta del metodo per l’apprendimento della lettura e dellascrittura; tale metodo avrebbe dovuto permettere di sfruttare al massimo leconoscenze che M., grazie al precoce intervento logopedico, già possedeva. Fuprescelto il metodo fonematico; tale scelta si sarebbe rivelata, nei mesisuccessivi, estremamente proficua. Al ritorno a scuola ci aspettava unaspiacevole sorpresa: anche nell’organico di fatto erano state assegnate alplesso solo 2 insegnanti di sostegno; ciò voleva dire che a M. sarebberospettate SOLO 6 ORE DI SOSTEGNO SETTIMANALI SU 40 (più 2 ore pomeridiane asettimane alterne).
Inoltre, il nuovo modulo di orario di servizio di 22 ore di insegnamento più 2di programmazione, riduceva, rispetto agli anni precedenti, le ore settimanalidi compresenza delle insegnanti di classe a 4 ore invece che a 8. Il fatto poiche l’insegnante di sostegno, nelle 2 ore di programmazione settimanali, dovesseletteralmente dividersi fra 3 classi diverse, ci sembrò fin dall’inizio unasituazione demenziale. In quei giorni scoprimmo che anche le richieste dimodifiche di alcuni spazi diversi dall’aula che avevamo richiesto primadell’estate al Comune per rendere tali spazi più idonei ad un lavoro perpiccoli gruppi non erano state esaudite, così come non sarebbe stato fornito ilmateriale che avevamo richiesto, ovviamente per mancanza di fondi. Ricordo chetutti questi fattori negativi ci allarmarono, ma ricordo anche che su tuttoprevaleva, molto ingenuamente, la fiducia nelle nostre capacità e nella nostrabuona volontà.

DAI PRIMI GIORNI DI SCUOLA IN POI

Fino dal primo giorno di scuola M., che sapevamo essere molto diffidente verso tutte le persone e le situazioni nuove,parlò con noi per chiedere che cosa avremmo fatto poi, per avere conferma delleregole della nuova comunità scolastica; non lo imbarazzava particolar-. menteil fatto che, all’inizio, gli chiedessimo di ripetere ciò che aveva dettoperché non avevamo capito. Non cercò mai, fin dal primo momento, di sostituireil linguaggio verbale con quello mimico-gestuale, tentativi che invece facevaspesso alla scuola materna. Alla fine della prima giornata ci rendemmo conto,con stupore, che i bambini che non avevano frequentato la sua stessa scuolamaterna e quindi non lo conoscevano, non avevano assolutamente notato le protesiacustiche di M. L’inserimento di M. nel gruppo classe non è stato difficoltoso:i compagni hanno accettato senza problemi che a M. fossero concessi alcuniprivilegi: stare sempre vicino alla maestra durante la lettura ad alta vocedell’insegnante, oppure in palestra durante la spiegazione dei giochi, staresempre vicino al registratore nelle attività ritmiche o musicali, essere semprein prima fila durante le uscite guidate, avere l’attenzione dell’adulto in modoprivilegiato in tutte le occasioni.
Se questa situazione non suscita proteste da parte dei bambini, è inutilenegare che io l’ho spesso vissuta in modo frustrante. Nelle così disagiatecondizioni di lavoro in cui ci troviamo ad operare, non solo M., ma anche glialtri bambini che hanno difficoltà di apprendimento non riescono ad averequelle attenzioni, quei rinforzi e quegli interventi individualizzati di cuiavrebbero bisogno. Questo problema fu apertamente affrontato in una delle primeassemblee con i genitori; fu chiarito che nel fine settimana avremmo assegnato icompiti per consolidare gli apprendimenti avvenuti durante la settimana e chechiedevamo esplicitamente anche la loro collaborazione nel verificare iprogressi avvenuti e soprattutto nell’aiutare i propri figli a superare leeventuali difficoltà. Questo discorso, con nostro grande sollievo, fuinterpretato nel modo corretto e fu accettato come giusto il principio che neltempo scuola si cercasse di dare di più a chi aveva più bisogno. Non ho ancoraparlato con i genitori di M. Nel corso dell’anno scolastico si sono evolutipositivamente, ma non sono sicura che, da parte toro, siano improntati ancora adun’assoluta sincerità.
All’inizio la loro più grande preoccupazione era l’inserimento di M. nei gruppoclasse; nonostante fosse stato chiarito dettagliatamente come intendevamoprocedere, temevano che il bambino, rispetto ad alcune attività, potesseritrovarsi emarginato, avevano paura che l’insegnante di sostegno avrebbeoperato con M. esclusivamente fuori dall’aula, pensavano che a M. non sarebbestato concesso di fare tutte le esperienze che facevano i compagni. Tutti questitimori, però, furono esplicitati molti mesi dopo l’inizio della scuola. Aquesta prima fase di profondo scetticismo ne subentrò un’altra di eccessivafiducia nelle possibilità dell’istituzione scuola di colmare completamente ildeficit di M. e ci fu un lungo periodo in cui i genitori, nonostante gli accordiprecisi sul comportamento da tenere con M. riguardo all’impegno scolastico e suche cosa pretendere da lui, non si impegnarono a fondo per consolidare edampliare, a casa, gli apprendimenti avvenuti a scuola.
Ho accennato al problema di pretendere da M. ciò che poteva dare; c’è stato inlungo periodo, infatti, in cui la motivazione di M. verso l’apprendimento eramolto scarsa, nonostante le sue capacita’ intellettive gli permettessero, seadeguatamente sostenute, di procedere negli apprendimenti quasi allo stessoritmo del gruppo classe. La nostra condotta era decisissima: qualora si rifiutavadi portare a termine il lavoro assegnato egli incorreva in sanzioni ben preciseche gli venivano precedentemente illustrate: niente ricreazione, niente gioco,qualche volta niente merenda, l’esclusione dal gruppo classe nei casi diostinazione più gravi.
Da questi veri e propri bracci di ferro ogni volta uscivamo emotivamente esaustema sempre "vincenti": M. eseguiva il lavoro. Sono sicura che icompagni accettano senza difficoltà tutte le attenzioni che dedichiamo a M. eche, indirettamente, neghiamo loro, perché hanno sempre constatato che anche dalui abbiamo sempre preteso con fermezza, in ogni occasione, che desse tutto ciòche era in grado di dare. I genitori, evidentemente, di fronte all’ostinazionedi M. non se la sentivano di arrivare a tali duri confronti, così coinvolgentidal punto di vista emotivo, e il bambino, che è molto furbo, se ne è a lungoapprofittato.
Ora che M., dopo essersi impadronito del prezioso strumento della lettura,sembra avere scoperto definitivamente il gusto di imparare cose nuove e non sitira più indietro di fronte agli impegni, da parte dei genitori si nota unmaggiore coinvolgimento.
C’è stato comunque un periodo dell’anno in cui lo scoraggiamento è statototale.
E’ stato a gennaio, quando l’insegnante di sostegno, in seguito ad un incidenterimase assente più di due mesi; mai come in quelle settimane, in un momentocruciale dell’apprendimento della lettura, della scrittura, dei primi concettimatematici, in cui avevamo programmato un intenso lavoro individualizzato dasvolgere in piccolissimi gruppi, ho avuto l’impressione di perdere tempoprezioso, di non essere in grado di aiutare M., il senso di frustrazione eraenorme.
M. rifiutava completamente l’insegnamento supplente; si tentò di utilizzarel’insegnamento di sostegno supplente sul gruppo classe di poter lavorare con M.,ma anche questa soluzione si rivelò inadeguata perché l’insegnante inquestione non era in grado di gestire la normale attività didattica.
Mi costa fatica dire queste cose così personali; se cito questo episodio, chedel resto si protrasse per un lasso di tempo che ci sembrò infinito, è persollevare il problema dell’adeguata preparazione degli insegnanti di sostegno.Spesso, per supplenze brevi, l’insegnante di sostegno non viene sostituitaperché la graduatoria speciale è esaurita; quali garanzie vengono poi date,però, dagli appartenenti a queste graduatorie speciali? L’esperienza vissutapersonalmente mi lascia molto perplessa su questo problema.

UN PO’ ABBANDONATE DALL’USL

Nel frattempo erano cadute anche le speranze suifacili rapporti con l’USL. Uno dei primi problemi sorti, non ancora risolti atutt’oggi, è stato l’orario degli incontri. Come insegnanti abbiamo sempreposto la pregiudiziale che questi avvenissero in un’ora che rendesse possibilela partecipazione di tutte e tre le insegnanti che operano sulla classe, cioèdopo le 17; le nostre esigenze non sono però compatibili, sembra, con l’orariodi servizio dei dipendenti USI! Il risultato è che di incontri ne abbiamo avutipochissimi; durante questi incontri siamo state molto ascoltate, abbiamoraccontato per filo e per segno che cosa avevamo fatto, stavamo facendo oavevamo intenzione di fare, ma non è mai avvenuto il contrario; non ci è maistato detto quali obiettivi, realisticamente, M. avrebbe potuto raggiungere allafine dell’anno scolastico, alla luce delle esperienze di altri bambini con ilsuo stesso tipo di handicap. Un altro problema che coinvolge l’USL e che nonsiamo mai riuscite a risolvere è l’orario degli interventi logopedici: M. perdue mattine la settimana entra alle 9.20 e un’altra mattina esce alle 11.15.Abbiamo notato che quando entra più tardi, oltre ad essere molto stanco, è adisagio perché deve inserirsi in una situazione di gruppo già avviata e quandodeve uscire prima lascia malvolentieri i compagni.
Questi orari mattutini, poi, rendono estremamente rigida l’organizzazionedell’attività didattica e molto difficoltosa l’organizzazione delle uscite(soprattutto quando bisogna prenotare il pulmino) o la partecipazione aspettacoli, proiezioni, ecc.
Ad anno scolastico ormai terminato, I orario non è stato modificato,nonostante le ripetute assicurazioni in merito. Un altro elemento che mi èmolto pesato è la solitudine in cui mi sono trovata a vivere questa esperienza.Nel nostro circolo esiste già da alcuni anni una Commissione handicap aperta atutti i docenti, ma vi partecipano di fatto solo gli insegnanti (nemmeno tutti)che hanno casi di inserimento (fra l’altro diversissimi fra loro), mentre ilproblema dell’integrazione ha perso, in questi anni, quella carica dirompenteche negli anni 70 era riuscita a scuotere addirittura la concezione stessa dellascuola.
Questa considerazione non vuole essere assolutamente un’accusa di insensibilitàrivolta ai miei colleghi: il problema è più complesso e ho già accennato alfatto che anch’io, prima di vivere in prima persona questa esperienza, non eroconsapevole di che cosa volesse dire cercare di garantire una reale integrazionedi un bambino con difficoltà particolari.
Nel corso dell’anno scolastico sono emersi molti problemi che mi sarebbepiaciuto approfondire dal punto di vista teorico e metodologico, ma ancora unavolta ho dovuto prendere atto della impossibilità di aggiornarsi in corsod’anno: fra ore di insegnamento vero e proprio, riunioni, preparazione ereperimento del materiale didattico, le giornate lavorative si dilatano, ma leore non bastano mai per fare quello che sarebbe necessario fare.
Ancora una volta, sarà durante le vacanze estive che si svolgerà il mioautoaggiornamento!

LA BUONA VOLONTÀ NON BASTA 

In questi mesi, comunque, mi sono resa conto di unacosa: è molto più difficile, nel caso siano presenti nelle classi bambiniportatori di handicap, riuscire a porre un tampone allo sfascio al quale lascuola pubblica è lasciata; la buona volontà individuale può molto meno chenegli altri casi; diventano essenziali condizioni di lavoro favorevoli,disponibilità
li personale e di strumenti adeguati, sostegno di esperti. Ma queste cose non ;isono e non si possono inventare, vorrei concludere questa riflessione con unbilancio di questo primo anno: sono, oltre che molto stanca, molto disillusa: oraso che tutto è in salita, che più M. procederà nel corso di studi, piùdovrà essere aiutato con strumenti sempre più efficaci che noi dovremoinventarci. So anche che la sua presenza nella alasse ci costringerà sempre adessere attentissime nel programmare il cosa fare, il quando e il come farlo, ma soanche che mai come quest’anno la mia inventiva è stata sollecitata dalla presenta di M. a scoprire percorsiinconsueti, piiacevoli, stimolanti, particolarmente concreti, per avvicinarsialle cose da imparare.
E di questo, ovviamente, hanno usufruito positivamente tutti i bambini dellaclasse, non solo M.
So anche che è impossibile descrivere l’emozione che ho provato la settimanascorsa quando M., per la prima volta, ha detto ad alta voce di fronte aicompagni, cosa che non aveva mai voluto fare, nonostante leggere gli piacciamoltissimo. E i compagni, come se avessero sempre saputo che quel momentosarebbe arrivato, non hanno battuto ciglio. Non so, invece, se abbiamo fattotutto o proprio quello di cui M. avrebbe avuto bisogno; di risultati positivi cene sono stati tanti, ma non può non rimanere il dubbio: avremmo potuto otteneredi più?
Proprio in questi giorni dobbiamo mandare in Provveditorato i progetti per la richiesta di personale di sostegno per ilprossimo anno: 2 paginette striminziten cui compaiono solo crocette e in cui è impossibile descrivere come si èsvolta l’integrazione e come si intende procedere l’anno prossimo. Sembra chesapere come abbiamo latrato o come lavoreremo non interessi i nessuno e tantomeno se questo lavoro ha dato esito positivo e negativo. Questo, evidentemente,è ciò che si intende ai vertici del Ministero della Pubblica Istruzione per"libertà l’insegnamento".

La biblioteca degli handicappati

Da otto anni ormai esiste il centro di documentazione sull’handicap del-l’aias, la redazione di accaparlante, quella di rassegna stampa handicap. Andrea Pancaldi, coordinatore del centro, cerca di fare il punto della situazione. Già lo aveva fatto alcuni anni fa e lo aveva intitolato “all’handicappato basti un solo assessorato”. Siamo solo al secondo atto..
"Quanti ragazzi frequentano qui da voi?", "…siete dell’Aias?Dovete andare dall’Assessore ai servizi sociali!", "…ah, tei lavoraalla biblioteca degli handicappati!?", "…là, alla Lunetta statemeglio, con tutto quel verde d’estate li potete mettere fuori i ragazzi!","…ci sarebbero degli spagnoli in visita a Bologna, …dei russi…".
In queste frasi, prese dal repertorio delle tante che ci siamo sentiti dire inquesti anni di lavoro, c’è un po’ il riassunto delle difficoltà a capire, eparimenti a spiegare, quello che è il senso del lavoro che il Centro diDocumentazione sull’Handicap dell’AIAS (CDH) porta avanti da otto anni. E forsenon si tratta solo di difficoltà nello spiegare/capire il lavoro concreto delCentro, ma probabilmente le esperienze, le "categorie" mentali che nesono sottese e i conseguenti schemi di lavoro. Il Centro è stato per anni, dinome e di fatto, una struttura anomab nel panorama dell’handicap; di fatto lo èancora, mentre di nome molto meno in quanto, il modello "Centro didocumentazione", per svariate ragioni, sta sempre più prendendo piede, sianella realtà locale che in altre parti d’Italia. Una struttura anomala, proprioperché tale, è una medaglia a due facce. Da una parte la grande possibilitàdi movimento, di ricerca, di fiducia nella ricchezza immediata delle idee, direale integrazione delle differenze che vi sono al suo interno (di potere,sessuali, fisiche, esperenziali). Dall’altra i rischi dell’isolamento, delcrogiolarsi nella propria specificità, dei tempi di verifica più lunghi per lamancanza di punti di riferimento esterni analoghi, di difficoltà
di intreccio con la rete delle strutture che operano in quell’ambito socialesecondo schemi diversi, più consolidati e riconosciuti. Paradossalmente, peruna strutturale vuoi fare "uscire l’handicap dalla riserva", ilrischio maggiore è quello di rimanere emarginata proprio dalla stessadiversità di cui ci si è dotati per uscirne. Ragionare allora intomo al nodo"CDH di nome/CDH di fatto" significa forse parlando dell’unocontribuire a chiarire anche l’altro e riconoscere un terreno in cui laspecificità di una esperienza non rimanga intrappolata nei rischi, pur reali econcreti, di una emarginazione o autoemarginazione, ma che sottolinei comequesta specificità, e le ricchezze ad essa sottese, sono in divenire continuocon continue possibilità di condividere percorsi e inventarne dei nuovi.

IL CENTRO DI DOCUMENTAZIONE DI FATTO (LA SPECIFICITÀ’)

Si può dire, parlando in termini "culinari", che gli ingredienti delCentro sono gli stessi delle altre strutture del settore, cambia inveceradicalmente il dosaggio, e la quantità di ingredienti presenti in una unicaricetta. Procediamo per punti:
– nel mondo dell’handicap troviamo gruppi sociali quasi sempre rigidamenteseparati: gli operatori, i genitori, le persone handicappate, i volontari. Nellarealtà del CDH queste diverse-esperienze e formazioni si sovrappongono e simescolano all’interno delle singole individualità.
– le attività del CDH sono ideate e gestite da un gruppo di persone in cui èestremamente significativa (40%) la presenza di persone handicappate.
– sono presènti all’interno del CDH molte e diverse professionalità(psicologo, medico, pedagogista, terapista della riabilitazione, giornalista,diploma ISEF, grafico, educatore, laurea Dams, laurea filosofia, laurea scienzepolitiche); le professionalità sono ripartite tra maschi e femmine in manierasignificativa (60/40) e sono ugualmente ripartite in
maniera significativa tra "sani" e "handicappati" (60/40).In pratica c’è una singolare e casuale integrazione delle competenze viste conocchi maschili e femminili e con occhi "sani" e"handicappati".
– nel Centro operano persone handicappate a cui non corrispondono però deglioperatori e viceversa agli operatori non corrispondono degli utenti handicappatiné, quindi, responsabilità educative, riabilitative, assistenziali. Le personehandicappate operano al CDH come scelta personale (culturale e professionale) enon in quanto "mandati" o "segnalati" dai servizi delterritorio. E così sono destinate a cadere nel vuoto le domande dell’assistentesociale su "…quanti ragazzi frequentano qui da voi?" (Ass. Soc. deiservizi del territorio, 1988) o a non realizzarsi gli auguri affettuosi deglioperatori dei servizi di assistenza domiciliare secondo i quali "…allaLunetta (via degli Orti, ndr) è meglio perché con tutto quel verde d’esta-
te potete mettere fuori i ragazzi" (Ass. domiciliare USL 29,1988). – il CDHsvolge un lavoro di tipo culturale ed ha una targa "handicap". Questolo colloca spesso in un terra di nessuno, sospesa tra assistenza e cultura.Causa la targa viene ricondotto agli schemi e strutture classiche, oweroassistenziali e riabilitative ("…siete dell’Aias? Per il patrocinio allapresentazione del libro dovete rivolgervi all’Assessore ai servizi sociali, sonoloro che si occupano di handicap." (Ass. alla cultura ente locale, 1983).Le strutture dell’handicap si accorgono però che non fai assistenza, nériabilitazione, né educazione, né formazione, e quindi pur sorelle di targa,non sanno come collocarti. La cultura, puravendo noi nel nostro"campionario" termini come libri, ricerca, convegno, riviste, non èabituata a vedere transitare carrozzelle e quindi anch’essa non sa comecollocarti. E così la biblioteca sull’handicap diventa la biblioteca"degli handicappati" ("…fare una biblioteca per l’handicap significa creare un nuovo ghetto" ConsigliereQ.re Colli, 1981 ) e i responsabili dei servizi, pur da anni sulla piazza,intuiscono che, sì, fai anche un lavoro interessante, ma la loro fantasia intermini di contatti per collaborazioni non va al di là di spedire regolarmentein visita al CDH tutti gli stranieri di passaggio a Bologna. Il CDH produceprodotti (riviste, convegni, ricerche) che fuoriescono anche dagli schemiabituali di "incontro" con tutte quelle strutture che pur non essendodel settore hanno comunque intrecci con l’handicap (Ass.ni di categoria, entipubblici, confederazioni varie, ecc.). Incontri sono quindi per noi impossibilisui sentieri della beneficienza disponibile a pagare carrozzine o ad intervenireverso la "sofferenza" delle persone, ma non verso i loro desideri ostimoli culturali o politici. Difficili anche i rapporti con eventualivo-lontari interessati soprattutto a rapporti diretti e personali con personeriandicappate e a dimensioni comunque più legate alla logica del "servizio"alla persona.

L’HANDICAP FUORI DALLA RISERVA

Altro elemento di specificità dell’iniziativa è il rapporto con l’Associazionedi cui è parte. Ancor meglio si potrebbe definirlo il collocarsi del CDH nelpanorama e nell’evolversi dell’associazionismo e del volontariato. Il carattereapparentemente così poco "associativo" del CDH, owero il non essereun servizio di immediata e pratica utilità per i soci dell’Ass..ne è statoreso possibile da più ampie scelte della Associazione stessa che hanno permessol’awio di progetti sovraassociativi, rivolti all’intero settore handicapcittadino e, come nel caso del CDH o dell’Ausilioteca, con una rilevanzaextraterritoriale. Questo differenzia l’Aias dalle altre associazioni cittadineed è il terreno dove sono potute maturare scelte e strategie per un "handicap ‘ fuori dalla riserva" conprogettualità, vedi Accaparlante, che vedono una "associazione storica perinvalidi", spendere soldi per trattare temi che apparentemente non le’sonopropri e che comunque stravolgono le abitudini al corporativismo.
Alle caratteristiche del mondo dell’associazionismo sono anche da ricollegarealcune delle difficoltà nello "spiegarsi" che il CDH incontra,correlate, fino ad ora, allo scarso peso e alla nostra assenza dai luoghiufficiali della rappresentatività politica delle associazioni (Coordinamentoprovinciale, comitati regionali, commissioni sicurezza sociale dei quartieri).
Più in generale va ricordato lo scarso, o in gran parte scoordinato, pesopolitico dell’associazionismo italiano che, salvo rare eccezioni (Torino) non èun interlocutore, con una propria forte e.autono-ma identità. Elementocaratterizzante è stata la
scelta dei temi di interesse del CDH che si sono rivelati quantomai attuali eche spesso hanno trovato anche adeguati "veicoli" per la loropromozione (Progetto Calamaio nelle scuole, le riviste Rassegna Stampa Handicape Accaparlante, l’attività degli Sportivi a Quattro Ruote). In questo senso nonsi può far altro che riconoscere che l’incontro tra le nostre esperienze divolontariato, i nostri studi, la realtà bolognese complessiva, ha certamenterappresentato la "batteria" dei presupposti a queste iniziative escelte.
Per ultima, ma non ultima, sottolineiamo come l’area di finanziamento del CDH siè assestata, negli ultimi anni, per più del 50% nel "mercato" e ilrimanente, per il 15% nella cultura e il 35% nell’assistenza, concretando l’ideache una struttura, pur targata handicap, può trovare interlocutori in ambitidiversi, anche se i livelli economici sono ancora di pura sopravvivenza.

T come terapia

Di frequente passo davanti al mio elettrauto per dargli un saluto: "tutto a posto?" "tutto a posto come un orologio!" Le prime volte si meravigliava, perche’ è’ sua abitudine pensare che chi si ferma lo fa per un guasto alla parte elettrica del motore; ma ora lo sa, non si meraviglia più’, anzi approfitta per ulteriori consigli: "evita di caricare il motore con troppi girl..ogni tanto dagli respiro…". La stessa cosa mi succede con il medico. Legato d’amicizia per anni col vecchio medico di famiglia, con lui ho fatto molto spesso chiacchierate più’ sul mio stato di benessere che sugli eventuali acciacchi: si parlava volentieri, con curiosità’ culturale oltreché’per interesse del proprio stato fisico, Sui vari modi di mantenersi in forma, sulle sregolatezze pericolose e su quelle "sane" sregolatezze (sopportabili) che, come il formaggio sui maccheroni, ti fanno gustare il sapore della vita.


In questi casi, c’è un’alleanza, un’intesa tra medico e cliente (perché poi"cliente"?), un nonsochè di complotto silenzioso che risale ai tempidella Grecia antica quando Esclepio od Ippocrate fissavano la loro etica medicaraccomandando a colleghi e discepoli di aver cura "dell’interapersona" che ti sta davanti e ti chiede aiuto. Se dunque qualsiasi forma disvantaggio, o qualsiasi tipo di malattia, tende ad emarginare la personacolpita, il medico e il therapeuta assumono un importante ruolo di"recupero" non solo clinico (1) ma anche sociale. Epidauro, la grandeclinicadell’antichità, è famosa solo per il maestoso teatro. In una conca naturale,coronata da colline, i suoi resti danno una chiara immagine del significato diterapia praticata da Esclepio: oltre al reparto di chirurgia, c’erano le acquesalubri, il teatro per ricreare lo spirito, camminamenti ombrosi per leconversazioni, lo stadio, il tempio per meditare, ed ancora rimangono leggibilifrasi scolpite sui frontoni quali quella socratica del CONOSCI TE STESSO.Insomma un autentico modo di tenere conto della persona tutta intera, quando siha a che fare con la salute; proprio come vuole la lontana radice della parola"terapia".
Terapia, infatti, deriva dalla voce greca "therapeùo", troppofrettolosamente tradotta con "io curo", e vale invece per "iovalorizzo": proposito assai più completo che cerca di far emergere (quasiun atto educativo) le migliori potenzialità di una persona. Alla luce di questavisione medica (2), recente ma antichissima, "malattia" non è piùpolo contrapposto a "salute" ma stato in cui la persona si allontanada quell’equilibrio che è propriamente suo, momento critico in cui deverimettere in moto tutte le proprie risorse comprese le forze dello spirito,della psiche, strettamente collegate alle energie del fisico. Pertanto terapia,è più da considerarsi quale risveglio di risorse che si hanno già dentroanziché come intervento esterno che si sostituisce alle energie del corpo. Questi principi avanzano nelle pratiche terapeutiche già da alcuni anni,a volte in modo rigoroso e sovvertitore (come nelle propostedell’antipsichiatria) ma a volte in modo scomposto a causa di impennatemisticheggianti di alcune "filosofie della cura", sull’onda delle modeorientali, che portano discredito nelle ricerche più serie e più valide. Comedistinguere, allora, le pratiche credibili dalle "stregonerie", gliesercizi che coinvolgono la globalità corporea (fisico mente e psiche) daquelli che sconfinano nelle fatture (con tutto il rispetto per l’arte mantica)?La cartina di tornasole può essere offerta dagli effetti: effetti che devonocoinvolgere la persona intera, senza essere momentanei o provvisori, senza esserepalliativi, sostitutivi effimeri, pezze da restauro (3) ma tali da rigenerare lerisorse, anche sommerse, che mettono in moto energie già presenti nel nostrocorpo e di cui spesso non si ha coscienza di avere. E se anche la Città potessediventare una rinnovata Epidauro, dove, una volta usciti dalla palestra (o dalladieta o dagli esercizi respiratori o dalla sauna o dai massaggi…) ci si trovanella creatività dei dialoghi, nei luoghi di incontro sani, per confrontarci,riflettere meditare, litigare, progettare, far l’amore, gustare la buona tavola,lavorare, riposare, ascoltare, respirare?…

OMEOPATIA DI SOCRATE

Quale potrebbe essere allora una filosofia della pratica terapeutica? Elogiaretroppo il passato è rischioso soprattutto perché si corre il pericolo di vedere i nostriAntichi sempre migliori di noi in tutto e per tutto, e questo potrebbeincoraggiare il disimpegno. L’atteggiamento è frequente anche per moltiantropologi i quali, più per intuito e magari scavalcando a pie pari LeviStrauss, si commuovono di fronte ad aborigeni "incorrotti"dell’Australia senza vederne gli aspetti repressivi. Inoltre è di moda da unpaio di decenni la simpatia per l’Oriente: qui, dall’India al Pakistan, dalGange a Bali, è tutto "in", miseria, droga, massaggi tailandesi esantoni compresi.
L’erba sembra, quindi, essere migliore non solo quella dell’orto del vicino checi "sta accanto" nel tempo, ma anche quella dell’orto del lontanoprogenitore che ci sta alle spalle, dei nostri antenati mediterranei. Diffidare,quindi, e prendere le dovute distanze dal modo di vivere dei nostri vicini elontani parenti, è cosa saggia; ma nel caso di certi principi terapeutici c’èancora da cavarsi il cappello. Dagli lonii ad esempio, per i quali filosofiamedicina ed arte era un tutt’uno, c’è molto da imparare. Già dalla fine delII millennio a.C. (3000 anni fa!) abbiamo notizie di come intendevano la medicina: lo iatros (il medico) curava in modo terapeutico con il dialogo e colfarmaco. E’ interessante a questo punto sapere i due significati antitetici ecomplementari di phàr-makos: vale sia per veleno che per medicina, come era ineffetti la pratica di allora per curare la maggior parte delle infezioni, qui,l’omeopatia sembra di casa, anche se il vocabolo è stato usato per la primavolta nel sec. XVIII: in quanto l’antidoto al morbo consisteva nellasomministrazione di dosi dello stesso morbo (o simile) affinchè il corpo(unione di soma e di psiche) reagisse attraverso la messa in moto delle proprierisorse interne, le quali, in tal modo, avrebbero aggredito e combattutol’affezione subentrata. Del famoso episodio di Telefo, re di Misia, coinvoltonella guerra di Troia, non ne parla solo Omero (Iliade, XVI, 140), ma ancheIgino nelle sue Favole (101) e Plinio nella sua Storia naturale (XXV, 19): ilguerriero, dapprima ferito dalla lancia di Achille, poi -per intercessione diAgamennone- viene curato dallo stesso Eroe con polvere di ruggine messa sullapiaga e quindi con impacchi ricavati da quel-fiore acido che dai botanici verràchiamato Achillea. C’è chi sostiene che questo modo di curare sia statoinsegnato ad Achille da Athena, c’è chi sostiene dal suo maestro Chirone,eredità certo più credibile dal momento che la Thessalia ha dato i natali adillustri medici quali Esdepio…
Una pratica non diversa sarà usata poi da Socrate nei confronti di discepoli"ammalati" di convinzioni comuni: iniettando infatti dosi progressive di paradossi delleconvinzioni stesse, innescava in loro quei vigorosi meccanismi del dubbio chepoi avrebbero debellato le convinzioni comuni…Attraverso la lente etimologica,omeopatia è composta da omeo- ("omoios" in greco uguale) e patìa("pascho" in greco soffro); ma diventa curioso conoscere come "patìa"sia collegata anche al verbo "pateo" che contiene significaticomplementari alla sofferenza, quali camminare, andare e venire, andareintorno…e pertanto suggerisce un riflettere o meditare tra sé e sé pertrovare la risorsa onde uscire dal guaio. Chissà se può funzionare un modoomeopatico di vivere in Città? Ad esempio, per combattere l’inquinamentoideologico (del tutto va bene) affrontare spesso i temi delle ideologie; perrespingere ignoranza stupidità e pregiudizi, morbi costantemente in agguato,aprire pubbliche "somministrazioni" di dibattiti sulla stupidità esull’ignoranza; e così per premunirsi dal virus del "luoghi comuni"del tipo mare-pulito…fare ogni tanto un tuffo in mare.
Nei giorni seguenti le elezioni, per esempio, polemiche a dir il veroallopatiche (4) hanno sparato a zero senza tener conto del contributodell’altro, delle eventuali energie nuove all’interno del proprio territoriocomunicativo; ci si comporta come con l’antibiotico: due pastiglie e via lafebbre…ma con una spossatezza interna disastrosa, irrecuperabile! Gliinterventi dei "medici" della politica ufficiale procedono, ormai lontanissimi da Socrate, con confezioni antibiotiche come se niente fosse, comese i corpi della società dovessero solo sfebbrarsi…E così facendo, come sisuoi dire, buttano via il bambino con l’acqua sporca! Ha ragione allora J. Bondei quando, in una recente conferenza (5) sulle politiche degli ultimi 200anni, osserva quanto siano retrocessi, da una pratica politica lungimiranteproiettata verso il futuro per il bene comunque della polis, ad una pratica chericorda le monarchie assolute per cui vale solo questo presente, con questepersone da tener in piedi ad ogni costo, sennò…Dopo di noi il diluvio! Emagari senza quella salutare febbre da cavallo!

NOTE

(1) Interessante diventa ricostruire l’etimologia di clinico: da "klino"che indica il letto (su cui giace il malato) e pertanto "l’arte medicadella disponibilità a chinarsi verso chi soffre" per ascoltarlo ma ancheper educare gli altri in questo atteggiamento.
(2) Medico assieme a meditare ha la co-radice in "medomai" "ho lacapacità di vedere [non certo vista fisica]" e pertanto di"capire" l’ammalato; con allargamento a "prevedere" da cui"medea" la veggente, la mantica: virtù e poteri comunque riservati aduna casta.
(3) Per restauro Cfr. "ristoro" e derivati dalla radice greca "stauros"(=palo) i cui esempi sono alla voce invalido, in Accaparlante-n.1,gennaio/febbraio, ed. AIAS, Bobgna 1990.
(4) Voce contraria a omeopatia, col prefisso "allo-" indicante"sofferente", e pertanto: con elementi (o sostanze) di curacontrapposte a quel modo d’essere riguardo al fisico, alla psiche, o al modo dipensare.
(5) Conferenza tenuta all’Università di Bologna nel marzo 1989 promossa dall’AllianceFrancaise nell’ambito delle celebrazioni del "Bicentenario".

I come invalido

Perché’ un vocabolario che raccolga le voci sull’emarginazione?
Penso che questo possa avere, come giudizio immediato, due utilità:
A) quella di far riflettere sul peso che una parola-chiave (come per esempio
Handicap) può avere sia per chi la pronuncia in quanto soggetto compartecipe al
Diritti del sociale, sia per chi la pronuncia in quanto delegato di un apparato
sociale
B) quella di entrare nei meccanismi dei controlli dell’informazione che,
Attraverso precisi codici, riescono a controllare l’opinione pubblica allo scopo
Di ottenere consensi; e tutto questo con un abilissimo equilibrio che riesce a non procurar crisi
Ai committenti, cioè ai
centri di potere.

Per portare un esempio, uno dei tanti, la definizione portatore di handicap puòsembrare innocente, addirittura rispettosa nei confronti di soggetti colpiti onel fisico o nella mente o in entrambi. In effetti quando un’istituzione inventauna nuova definizione, per denominare una figura verso cui una certa opinionepubblica cambia atteggiamento, intende con questo modificare l’ordine dellespecificità per riassestare un nuovo equilibrio e così tirare avanti senzasconvolgimenti. Come il Ministro della Guerra si è trasformato in Ministrodella Difesa (molto più adatto alle garanzie del pacifismo), così il vocabolosvantaggiato, quale calco sul termine inglese handicap (ibrido incrocio traregole ippiche e sociometria americana), è stato vìa via rimpiazzato daportatore d’handicap, con i relativi vantaggi: eufemisticamente per chi lo’porta’ fa comodo in quanto è convinto (grazie ad Aristotele) che il suosvantaggio sia un ‘accidente’ provvisorio e non una ‘sostanza’ che
convive con la propria personalità, la propria visione del mondo, e chepertanto egli può ‘depositarlo’ tutte le volte che ‘ce la fa’; ma diventarealmente comodo per chi lo definisce, non solo perché sa che la formula èconvincente per il soggetto ‘portatore'(che appunto per questo si convince diportare e deporre il suo handicap con disinvoltura) ma soprattutto perché puòstabilire -secondo i parametri di quel sistemadi poteri egemoni che difende-quando e quante volte e in che misura il soggetto portatore di handicap deponeil suo fardello, se ne libera, corre come gli altri, pensa come gli altri, siriscatta, come nella favola di Collodi per correre tra le braccia di Geppetto,finalmente normale…
Dunque perché questo vocabolario dì riflessione? Come prospettiva a lungotermine non prevedo certo che possa diventare uno strumento di capovolgimentodei rapporti di potere; né si ha la pretesa di porre in crisi un sistema;casomai la sua efficacia più prossima potrebbe verificarsi in una maggiorattenzione (e quindi maggior consapevolezza) con cui ci si definisce rispetto ase stessi, all’altro, rispetto alle Istituzioni, rispetto ai centri di potere. Equesto non è poco. Inoltre potrebbe avere effetti anche sul modo con cui leIstituzioni definiscono l’utente, il cittadino, l’emarginato. Il che potrebbeinfluire sull’informazione, sui comportamenti, sulla crescita di una maggiorecoscienza critica, sulla consapevolezza che di fronte si ha una personaconsapevole e non un essere puramente biologico da zittire, sul modo diascoltare e di rapportarsi, sul modo di informare l’opinione pubblica. E questonon è poco. Anche perché, per dirla con Abramo Lincoln, nessuno puòimbrogliare tutti per sempre… 

QUANDO IL VECCHIO DIVENTA ANZIANO 

"Ogni ritratto dipinto con passione è il ritratto dell’artista, nondel modello. Il modello non è che il pretesto, l’occasione." (OscarWilde, II ritratto di Dorian Gray) 1
Se è vero che quando una lingua cambia la propria struttura è sintomo che nella società stanno pure cambiando irapporti con le varie organizzazioni del potere (Gramsci, Rossi-Landi), èaltresì vero che le ascelle entro cui infilare il termometro sono i vocaboliche definiscono le Istituzioni (Benveniste), come può essere Diritto, Governo,Democrazia, Famiglia, Assistenza.ecc. Certo che una delle ascelle (o bocche)più sensibili alle temperature sociopoli-tìche è quella che riguardal’individuo ( o gruppi di individui) fuori dalle organizzazioni dei poteri; eper ‘potere’, negli attuali sistemi sociali, s’intende competenze egemoni (comepuò essere l’informazione) e quindi meccanismi assai fontani e assai piùcomplessi rispetto ai vecchi concetti di classe (Max Weber, Karl Popper).
Le organizzazioni quindi di queste forme di poteri egemoni (tecnologici,polizieschi, burocratici, partitici, economici e religiosi, nonché centri dipotere sul controllo dell’informazione, mass-media, e le rispettive sedi diautoproduzione o amplificazione involontaria, come può essere la famiglia…)trovano nuove opportunità o adottano nuove strategìe per il consenso quandocambiano vocabolo per definire ufficialmente un individuo o una categoria fuorida quel loro sistema, sia con l’intenzione di ‘recupero’ ad un tipod’inserimento sia con l’intenzione di una definitiva espulsione. Così, peresempio, il vecchio (denominazione prestigiosa quando i nonni avevano unafunzione): dopo una rapida e traumatica espulsione da qualsia-si competenza(più rassicurante se recepita come ‘inevitabile circostanza’ del progresso), inquesti ultimi quaranta anni il sociale ha fatto credere quanto sia degradante lavoce Vecchio’, per rimpiazzarla con nuove forme di riconoscimento più o menoassistenzialistiche. Ecco allora il Vecchio’ diventa anziano o di terza età odell’età d’oro, a seconda che convenga che il nonnino o la nonnina resti peranni a letto in ospedale o giochi a fare il vigile all’uscita delle scuole oracconti le favole e faccia la gita sociale due volte all’anno oppure (raricasi) giochi a canasta in pensionati di mediolusso… purché restituisca l’immagine pubblica del tutto funzionante. Ilvecchio quindi è inabile per eccellenza ed è per le presenti organizzazionisociali, sempre più in-abile, vale a dire privo di quelle ‘abilità’ che oggisono richieste dai mercati dell’economia o delle comunicazioni di massa (la TVlo sostituisce pensino con le favole, con l’esperienza e sostituisce il suo buonsenso con il terribile ‘senso comune’). E’ preferibile pertanto emarginarlo,assistendolo, che restituirgli una competenza, una abilità, una dignità. Alpolo opposto sta il bambino, pure inabile, ma potenzialmente sempre più ‘abile’rispetto ai valori egemoni che regolano questi sistemi sociali, sempre a pattoperò che riesca durante il suo curricolo ad inserirsi in questi tipi di ‘abilità’.La donna, antropologicamente (o meglio andrologicamente) a sostegno (o arestauro?) dì queste abilità richieste, ha un tipo di in-abilità sui generis,come se fosse una ‘portatrice provvisoria di han-dicap’:cessamomentaneamentediessere ‘non abile’ tutte le volte che sostituisce degnamente l’uomo oppure losostiene (lo restaura o lo ristora: che in greco vale per rimettere un nuovopalo di sostegno).
E in mezzo a tutta questa gamma di ‘non abilità’ si trovano (solo in Europa) 30milioni di handicappati, come da un acuto resoconto di Miriam Massari sullarivista di "Avvenimenti": 30 milioni di non recuperabili, i quali nonhanno né la prospettivadi disfarsi del marchio delle inabilità, né lascusante umanitaria della vecchiaia.
Questi 30 milioni hanno una incompetenza di fondo, strutturale: non perattributo come per le donne, né per accidente naturale come per bambini evecchi, ma per sostanza. E questa esclusione dalle competenze ha il suo pesosolo in quanto possibilità di riciclaggio sociale attraverso le potentiindustrie assistenziali: unica forma di riutilizzazione appunto dì quantitàsempre maggiori di persone ‘non valide’. Quindi, paradossalmente, anche questi30 milioni partecipano al Grande Mercato, ma cerne mercé passiva (nondeperibile) per i business degli investimenti della spesa pubblica o come oggetto dicomunicazione nelle costruzioni dei consensi, ma mai come protagonistid’investimenti, di messaggi, d’impiego di risorse.
Solo a questo patto può reggere la presente logica su cui sopravvivono imeccanismi di questo ventaglio di poteri."E’ significativo che nessun paesedichiari di spendere più per l’integrazione sociale di disabili che per la lorosegregazione e nemmeno somme equivalenti per le due cose" afferma R. Bellidella Presidenza Aias in un recente congresso europeo. Forme di assistenzialismoemarginante che diventano comunque segregazioni di fatto, traducibili, secondola convenienza, ora in ‘recupero’ ora in ‘inserimento’ delle persone non-abili.Ma l’invalido allora chi è, come si colloca rispetto all’inabile, al disabile,all’handicappato?
Restituire le abilità all’inabile (privato delle abilità) o al disabile(escluso dalle abilità) potrebbe al limite anche essere possibile: infattiquesti epiteti si associano con più disinvoltura alla gamma dei recuperi. Ecosì vale ormai universalmente per la voce ‘handicappato’, owero lo ‘svantaggiato'(vocaboloonnicomprensivo, caro a quella sociologia americana che classifica gliemarginati, lacui integrazione Oevemiann ha definito ‘operazione di compenso’ eche io ho siglato come ‘fleboclisi’). Ciononostante in alcuni casi, o perconvenienza o per distrazione o per scommessa politica (che porta voti),all’handicappato si può riconoscere una certa ‘dignità’ o validità sociale,ed è allora che con i gay, i drogati o i negri acquista l’appellativoeufemistico di diverso, di colui cioè che devia il suo comportamento, che va daun altro verso. Si tratta comunque pur sempre di un riconoscimento moralisticoche non ha alcuna intenzione di mettere in discussione quei poteri egemoni, puraprendo una discussione in sedi ‘adeguate’.
Se restituire una certa dignità all’handicappato diventa per lo meno unaquestione di etica e di dibattito (a prescindere dal come se la restituisce), questo è assolutamente escluso per l’invalido, per il soggetto cioèche non possiede validità. L’invalido è, in termini linguistici, ‘chi è privodi salute’, ma in effetti s’innesta nella stessa radice di valore persignificare ‘colui che non vale’ e diventa immediatamente una definizione moraledal momento che, socialmente, l’invalido perde tutte te sue abilità in modoirreversibile. Invalido equivale ad essere biologicamente da assistere a esserenullo, tutt’al più idoneo a votare e basta. Nel trabucco della logicadell’invalidità, a suo tempo, c’è cascato anche l’invalido, e, come i pesciche chiedono disperatamente ossigeno, sopravvive nella grande reteammucchiandosi in categorie giustificatorie: invalido (sì.ma) di guerra,invalido (sì.ma) del lavoro, invalido (sì, ma non è colpa mia, solo…)civile, invalido (sì, ma) parziale, invalido (sì, ma Grande Invalido e totale)al 100%…
Modalità flessibili nelle definizioni che, solo in apparenza, contraddiconoalla classificazione definitoria di colui che non vale. L’invalido conviene inogni caso che rimanga invalido, e il più, il meno, il totale o il relativodipende dalla trattativa tra chi definisce l’invalidità e il soggetto definitoinvalido. Cosicché: trovata la parola trovato l’inganno!
Mentre si apre un’inchiesta per stabilire se a Napoli possano essere vere le300.000 pensioni d’invalidità totale (la creatività di Pulcinella non halimiti, fino a prefigurare una Città, una Nazione, un Mondo di invalidipensionati), a Bologna 13 mila richieste di visita medica, per stabilire i gradidi ‘invalidità’, rimangono inevase. Les Invalides, che nel 1670 Luigi XIVriservò ad ospizio per reduci valorosi dalle guerre, è ora un museo.

D come diversità

Piano, andiamo piano con questo abuso trionfale del diritto alla diversità’.
Non desidero certo qui affrontare di petto un argomento antico quanto la
comunicazione, quanto le primissime forme di aggregazione, quanto la tribù’…
Preferisco invece proporre alcune riflessioni sugli abusi culturali
Dell’antinomia uguaglianza/diversità’ (1) e sulle sue contraddizioni reali e
apparenti.

Fino alla fine degli anni sessanta si è scoperto il diverso come simboloeversivo contro una società repressiva: l’handicappato, l’omosessuale, il negroerano visti come i potenziali alleati del nuovo proletariato allargato a tutte le fasce degli sfruttati e degli esclusi. Negli anni settanta laforte cultura del diritto ha avuto il sopravvento sui climi precedenti: si ècercato infatti di razionalizzare le più dirompenti spinte innovative senza unaadeguata "rilettura" dei nuovi rapporti insorti tra i bisogni e lanuova realCOLOR=#4e2706][B][SIZE=3][/SIZE][/B][/COLOR][/FONT]
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[SIZE=4][B][FONT=Arial][COLOR=red][COLOR=red][FONT=Arial][B][/B][/FONT][/COLOR][/ quale comoda fonte diprivilegi senza obblighi sociali. Se volete, in formato ridotto, è lo stessoprincipio delle grosse mafie, e sono meccanismi simili adottati da politicicorrotti e da burocrati conniventi.
Comunque siano i prossimi provvedimenti e le leggi per combattere droga,violenze, handicap e Arabi (cattivi), sono troppo anti-esperantista per sognare un mondo di tutti fratelli uguali, con una stessa lingua e con uno stessosorriso davanti a qualsiasi diversità. Razzista io?
Sissignori, contro gli stupidi e gli opportunisti di qualsiasi tribù. I qualitrovandosi in ogni tribù, ricca o povera, moderna o arcaica che sia, provocano danni gravi a catena come fossero delle sette: ormai sono"trasversali", li trovi ovunque, tra gli Incravattati, tra iSoprasviluppati, ma anche tra i Negri, gli Handicappati, gli Omosessuali, gliZingari, i Professori, i Commercianti, gli Spastici, i Meridionali e le Puttane,tra gli Arabi e tra gli Americani.

BIBLIOGRAFIA E NOTE

(1) A. SALVIMI, T. VERBITZ, II pensiero antinomico, da AA.W., L’educazione deglisvantaggiati, MAMMONI, Educazione impossibile, A. CANEVARO, Bambino che si perdenel bosco, L CANCRINI, Bambini diversi a scuola, OSSICINI, Gli esclusi e noi,ZAPPELLA, II pesce bambino, A. SALVIMI, Normalità e devianza, C. PADOVANI,Sesso ed handicap e La speranza handicappata.
(2) R. DAHRENDORF, Per un nuovo liberassimo.
(3) E’ interessante confrontare la PUBBLICITÀ’ PROGRESSO di quegl’anni conquella attuale che, tramite le vignette di Altan, accentua la contraddizionesulle diversità più inquietanti.
(4) Da alcuni ambienti pedagogici sta avanzando un capovolgimento del rapportodisponibilità/conoscenza nei confronti del diverso: al corrente modello"essere disponibile per intervenire e quindi conoscere" subentra lapriorità della conoscenza per un intervento più efficace. Mi suggerisceun’educatrice: "Occorre educare al valore delle cose prima di punire chi ledistrugge: perché la conoscenza com-prende e l’ignoranza esclude"(Giovanna); affermazione che mi riporta allo schema di Gianni Rodaridell’Intelligenza convergente che è monocorde, non flessibile, e pertantoescludente, diversa dall’Intelligenza divergente che com-prende, coinvolge, ècreativa.
(5) M. PARENTE, Diversità e uguaglianza. Implicazioni pedagogiche per ilprogetto di scuola-servizio. In "Rassegna Amministrativa scolastica"La Scuola ed., Brescia 1990, n. 9 aprile.
(6) Sia per la natura che per l’uomo occorre il riconoscimento: non tagli lapianta quando capisci che produce ossigeno, non rifiuti il negro quando scopriil valore che porta con sé…, vd. E. DARDEL, L’uomo e la terra, (1952), ed.ital. UNICOPLI, Milano 1986.
(7) H. MAYER, I diversi (1975), ed. Garzanti, Milano 1977.
(8) Esiste anche una diversità che connota nel messaggio verbale comeespressione sintomatica di una contrapposizione ideologica. Sarebbe interessanterileggere alcuni processi famosi (Giovanna d’Arco, Curiel, Sacco e Vanzetti) perscoprire i due diversi registri di linguaggio tra loro quasi impenetrabili,quelli degli accusatori e quelli dei rei.
(9) Scrive DARDEL, cit.:" In queste nazioni sopravvive un rapporto strettocon la Terra, poiché la razza non è soltanto la permanenza umana lungo ladiscendenza; è la fedeltà al legame terrestre, spesso attestata da un’emblemao dallo stesso nome, è la trasmissione di questa linfa che giunge dalla Terrastessa, rinnovata dal grano, dal vino, dall’olio che provengono dallaTerra".

Un centro per autolesionisti?

E’ abbastanza raro che sulle pagine di Accaparlante siano apparse riflessioni sulla vita dei centri per handicappati, sulle persone che ci "vivono", sulle loro dinamiche, i problemi e le conquiste. Alla fine si ha l’impressione che siano ambiti chiusi in se stessi, che si vivono la contraddizione tra il bisogno di dire e l’incapacità a fare i primi passi.
Questo articolo di Cristina Bollini, educatrice professionale presso il centro diurno per handicappati gravi "Casa Gialla" di Bologna, vuole essere anche uno stimolo per avviare finalmente la discussione su queste realtà.

In un percorso educativo dovrebbe rientrare ed essere riconosciuto formalmenteanche il vissuto relazionale e considerare inoltre, anche un capovolgimento deitermini, per cui anche "loro", gli handicappati,ci guardano.
Attualmente non c’è la preparazione per crearsi uno spazio mentale, siacollettivo che individuale, che possa contenere non solo l’ordine ma anche ilcaos, il disordine, non solo i risultati piccoli o grandi che siano ma anchel’attesa che può dilatarsi nel tempo; il non-risultato, dove l’energia messa incampo non è assolutamente proporzionale al prodotto ottenuto. La difficoltàsta, appunto, quando viene a mancare il prodotto.il risultato da mostrare, oquando tale risultato non entra in uncodice quantificabile di visualizzazione esterna. Questa è una questione che condiziona molti processi perchépuntare verso una, se pur minima, autonomia, significa sempre intendereattività, ed essere attivi, nell’accezione comune, significa usare le mani ocomunque fornire risposte di qualche tipo. Nella vita di un centro, invece, cisi può trovare di fronte a risposte che non arrivano proprio oppure a rispostecompletamente diverse dalle domande; uno dei grandi paradossi educativi che citroviamo a vivere, è proprio questa ricerca di un equilibrio tra il percorso,l’identità, la riflessione e l’apparire per l’esterno. L’inattività comescelta è molto difficile da sostenere, perché spesso ci viene riconosciuto unvalore solo nel fare. Si incorre inevitabilmente in momenti di crisi quando sicostruisce un percorso di coscientizzazione reciproca, senza però avere ancheepisodi eclatant! da raccontare per sottolineare quelle che possono essere statedelle vittorie; solo momenti da leggere con una lente particolare,impercettibili movimenti del ragazzo verso la ricerca di una comunicazione; unavaga sembianza di affettività, le richieste fatte dopo giorni passati a dormireo a battere la testa contro il muro, la mia rabbia e la sua sofferenza, ilgioco, il sorriso, il pianto, come fotografie istantanee che non comporranno unalbum completo, ma rimarranno sparse a significare uno dei tanti percorsi fatti.Solitamente, infatti, quando si parla di risultati, di produzione, non viene inmente un centro per handicappati gravi: eppure anche questi servizi producono concretamente. Un problema dei nostri servizi è appunto la difficoltà adavere un riconoscimento nel lavoro che si svolge; spesso prevalgono fantasie etimori relativi alla distruttività mentre, per contro, l’esterno tende arassicurarci sulla nostra capacità di porre rimedio alla confusione.
Si vive a stretto contatto con limiti e difficoltà per cui viene ad emergerel’esigenza di fare qualcosa di ordinato, dove il caos e la disarmonia nonabbiano il sopravvento. La possibile produzione di qualcosa di buono e divisibile a tutti, riappacifica con noi stessi e con gli latri, oltre che con lenostre frustrazioni. Solitamente, in situazioni più mobili, di fronte ad unrisultato che si attiva, ci si sente spinti verso nuovi obiettivi, ma, inmancanza di tale visibilità, la spinta è spesso quella ad andarsene o arimanere vittime del senso di fallimento e delle frustrazioni (l’educatoreanziano infatti è sempre scontento di qualcosa).

DALLA SOLIDARIETÀ’ ALL’ANTAGONISMO: IL GRUPPO DI LAVORO

In mancanza di una "reale" produzione, unico appiglio divengono irapporti affettivi tra colleghi, che all’inizio sono facilmente impostati sullasolidarietà e sulla immediatezza di comunicazione, poi vengono spessoschiacciati dalle dinamiche di immobilità e dalle dicotomie di due immaginicompletamente diverse e in antagonismo: il fuori e il dentro; il fare el’essere; gli ideali e la realtà.
Nella impossibilità di viversi conflitti così gravosi e doversi accettare coni propri personali limiti e con quelli del contesto, viene spesso a prevalerel’aggressività. Nella difficoltà a convivere con parti negative di sé, puòaccadere di proiettarle inconsciamente sul proprio lavoro, sugli altri,assistendo così ad un fenomeno di sovrastima percettiva: caratteristicherealmente negative o limitanti assunte da una situazione esterna divengonoelementi di pregiudizio o di rifiuto, per cui alcuni dati esterni vengonointroiettati divenendo salienti e sovrastimati.
Si tratta allora di smontare questi pericolosi meccanismi, partendo dallaorganizzazione del gruppo e dall’autoanalisi per conoscere meglio tali leggipsichiche e tentare di sfruttarle a vantaggio del gruppo stesso. Riazzerarequindi la situazione per ritrovarsi sul terreno comune della consapevolezza,considerando che l’empatia può anche essere negativa, ma se conduce ad unareale riflessione, significa, oltreché inferenza e distacco, anche unaconseguente crescita. Di fronte al mancato prodotto può anche verificarsi unaumento delle fantasie persecutorie con conseguenti meccanismi di frammentazionee ricerca di sempre nuovi capri espiatori. Può accadere così che il gruppo si"costruisca" un prodotto visibile: l’unità del gruppo checontinuamente lotta contro un ostacolo dalle sembianze reali e concrete, ma che sottende in realtà, implicazioni conflittuali relative alsenso di fallimento e di distruzione. Si assiste alla tendenza a coniugare ildesiderio (principio del piacere), ai vincoli della realtà (principio direaltà), senza riuscire a viveri! come scissi; il rischio è che di fronte allefrustrazioni possano scomparire anche i desideri. Ciò accade perché ildesiderio è comunque sempre qualcosa dai confini poco delineati di cui spessonon è neppure chiaro il punto di arrivo del percorso, cioè, il prodotto.
Spesso il percorso necessario è molto lungo e tale lunghezza deve esserevissuta come la capacità di rinviare la gratificazione e tollerare lapossibilità di un risultato non sempre diretto. A tal fine, occorre costruirsiuna visione tridimensionale per non rischiare l’autolesionismo. Quindi l’utentenon è solo soggetto, ci sono le famiglie e la società, e il prodotto puòanche essere un "prodotto altro" (1), cioè se non quello richiestodirettamente, un altro che può essere meno quantificante e visibile, maugualmente utile e gratificante. Il prodotto quindi non solo deve essererealistico, ma può anche consistere nella conservazione e nel mantenimento,così come è indispensabile chiedersi da chi e per chi è richiesto.

NOTA

(1 ) da una lezione del Dott. Achille Or-senigo: "La produzione neiservizi".

I love this game

Storie, idee e percorsi tra sport ed handicap

Uno sguardo d’insieme

Questo primo blocco di articoli cerca appunto di articolare il tema che abbiamo scelto da un punto di vista generale, analizzando le problematiche e risorse che un diversabile incontra non appena si chiede dove, come, quando e anche perché fare sport. Appare chiaro fin da subito che il mondo dello sport non è immune dalla capacità di chi ha un deficit di mettere in crisi qualsiasi struttura con la quale entra in contatto. Nello stesso tempo, superata la crisi, è altrettanto evidente tutta la positività e ricchezza che è presente nelle discipline per i diversabili. Anzi, spesso il mondo sportivo dei diversabili, forse perché ancora giovane ed entusiasticamente sperimentale, appare ancora incontaminato dalle spinte (soprattutto il mercato e l’esasperato agonismo) che hanno corrotto i valori dello sport. Prima o poi si scoprirà (se non si è già scoperto!) il doping anche negli atleti con deficit, ne siamo sicuri: forse l’integrazione vuol dire anche questo. Per adesso soffermiamoci sulla creatività presente nel connubio handicap e sport: ha molto da insegnare.

La linea di tiro

Qual è stato il tuo miglior risultato sportivo finora conseguito?
Sicuramente la mia partecipazione alle Olimpiadi di Atlanta con la nazionale "maggiore", chiamiamola così. Come risultato tecnico ci sono le medaglie paraolimpiche, Seul, a Barcellona l’oro, Atlanta l’oro, Sidney due medaglie d’oro, con la nazionale maggiore ho vinto i campionati europei a squadre…insomma qualcosa ho fatto.

Perché hai scelto il tiro con l’arco?
L’ho conosciuto per caso, nel senso che io prima facevo nuoto in piscina, poi qualcuno mi ha proposto di provare ad esercitare questo sport e quando ho provato mi è piaciuto e da lì è iniziata.

Ti sei sottoposta ad allenamenti duri?
Beh, sicuramente se si vogliono ottenere dei risultati bisogna impegnarsi negli allenamenti, poi a seconda del periodo e degli appuntamenti gli allenamenti sono più o meno intensi. Adesso incomincia la stagione all’aperto e ci si allena anche quotidianamente. Anche perché poi a fine luglio-primi di agosto ci sono i mondiali.

Quali sono le doti necessarie nel tuo sport?
Non so, penso che ci sia una componente naturale, una predisposizione naturale. Poi bisogna amare gli sport individuali, e bisogna avere molta pazienza, non avere la fretta di arrivare, e la disponibilità ad affrontare un’attività che t’impegna psicologicamente molto, perché sì, è chiaro che ci vuole la tecnica, il materiale e tutto quanto, però la componente psicologica è sicuramente fondamentale e forse è la fetta più grossa di questa torta.

Come ottieni la concentrazione adatta? Hai delle tecniche particolari?
Sì, anche questa è una cosa molto soggettiva. Quando facevo parte della squadra regionale Fitarco, quella normale, ho cominciato a frequentare delle sedute da uno psicologo che poi ho continuato anche in Nazionale, e sicuramente questo mi ha aiutato tantissimo. Sono cose che s’imparano, che s’imparano a riconoscere più che altro, e a memorizzare. All’inizio ci impieghi un po’ più di tempo poi adesso è un attimo. E’ soggettiva, ognuno ha bisogno di alcune cose che non sono uguali per tutti.

Hai letto "Lo zen e il tiro con l’arco"?
Ho provato a leggerlo ma l’ho chiuso dopo tre pagine. Non è la mia filosofia e neanche la mia cultura, molto più pratica, molto più pagana (ride) di quella lì.

Qual è il tuo rapporto con gli atleti concorrenti? Come ti poni rispetto all’agonismo?
È un avversario, è un’avversaria in questo caso. Non è una rivalità negativa, è una rivalità positiva: una volta usciti dalla linea di tiro si è amici, sia prima sia dopo la gara. Durante la gara c’è un agonismo, c’è rivalità sportiva che però poi viene accentrata sulla propria prestazione. Se uno perde non è perché l’altro ha fatto qualcosa che non andava. Sei tu che hai sbagliato, non è assolutamente una cosa negativa. E quello che è positivo soprattutto è che io non sono vista in maniera diversa dalle altre avversarie anche nelle altre Olimpiadi, nelle gare che hanno preceduto questo evento. Io ero l’unica persona in carrozzina, ma ti assicuro che tutte le altre avversarie mi guardavano con rispetto e con timore, perché io potevo essere quella che poteva buttarle fuori dal gioco. Come io temevo e rispettavo loro: c’era un ottimo rapporto, come dev’essere.

Qual è l’atleta sportivo che ammiri di più e perché?
Ho sempre ammirato (anche quando andavo in gara ho sempre cercato di vedere i segreti per vedere come faceva), all’inizio sicuramente un’atleta italiana, Esther Robertson, che è stata una grande campionessa per parecchi e parecchi anni. E poi a livello internazionale sicuramente un’atleta della Moldavia, che è naturalizzata italiana, Natalia Valeva, un’atleta molto brava, molto forte.

Cosa ne pensi in generale dello sport italiano? Siamo rispettati all’estero?
Sì, sicuramente siamo temuti noi italiani, sia nel tiro con l’arco che anche in altri sport. Adesso non so come possiamo essere visti per i recenti problemi di doping, perché anch’io non so cosa pensare.

Tu adesso fai parte del comitato direttivo della Fisd, quali sono i traguardi?
Sicuramente è una cosa impegnativa, tutte le cose che intendo fare, che comincio a fare le voglio fare bene e questa è una cosa che voglio fare bene, quindi mi porta via tempo. Non lo so, vorrei riuscire a creare un rapporto migliore tra gli atleti e la federazione. In tutti questi anni, onestamente, fra me e la federazione c’è sempre stato poco rapporto. Ne ho sentito molto la mancanza e mi ci sono arrabbiata molte volte, e quindi come atleta vorrei riuscire a portare il mio contributo, che viene dalla mia esperienza, perché magari un dirigente non ha vissuto in prima persona certe cose. C’è il presidente che è un ex-atleta, ci sono altri consiglieri che sono o sono stati atleti per cui sicuramente si parte col piede giusto.

Ed ora una domanda un po’ marzulliana: cosa ha significato nella tua vita fare sport?
Ha significato moltissimo sicuramente, ma la cosa più importante è che mi ha fatto sentire se possibile ancora più normale. Come dire, ogni volta che uno ha dei problemi cerca di nasconderli, di risolverli, di superarli, e io sono riuscita quantomeno sulla linea di tiro in gara ad annullare l’handicap e secondo me questa è una conquista molto grande. Nello sport non ha importanza che io sia seduta o in piedi: purtroppo fuori dal campo di gara non è mica così, nel senso che sugli spalti, dietro una telecamera si vede sempre la mia carrozzina. Però per me è stato molto importante anche come persona, perché mi ha dato una certa sicurezza.
Una sicurezza dovuta al fatto che posso fare delle grandi cose.

Calcio a 6: una storia di cui far parte

"Finalmente faccio parte di una squadra di calcio!" Ecco che, senza volerlo, Enea, con una semplice frase, conferma e dà valore alla scelta di costituire un gruppo calcio fra le attività socio-educative da proporre a ragazzi seguiti dal Settore Handicap Adulti dell’allora USL 27 di Bologna, ora Distretto Borgo-Reno, parte dell’Azienda USL Città di Bologna, che comprende anche i Distretti S. Vitale-S. Donato e Savena-S. Stefano.
Era il 30 ottobre del 1992, all’interno dello spogliatoio della Palestra Cavina, il primo giorno di allenamento. "Finalmente faccio parte di una squadra di calcio!": frase carica di significati sia per il ragazzo che l’aveva pronunciata sia per gli operatori del Servizio, che vedevano subito riconosciuti gli sforzi organizzativi affrontati fino a quel momento.
Si era, infatti, cercato di incrociare una richiesta indiretta, un interesse qu.gif[/IMG][/CENTER]

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Credo, inoltre, che ciascuno possa trarre e fare proprio ciò che di positivo scaturisce dall’esperienza altrui, e che tale processo di scambio e di crescita possa avvenire solo frequentandosi e riflettendo insieme sul "come" integrarsi e lavorare insieme, senza porre condizioni che pregiudicano una possibile condivisione (come già dimostrato dai due tornei citati più sopra).
Infatti, proprio grazie alle riflessioni scaturite tra i gruppi che partecipano al calcio a 6, sta già maturando una diversa impostazione nei criteri di premiazione, andando a privilegiare gli aspetti di collaborazione e sportività di squadra, piuttosto che quelli di merito o individuali.
Così come credo che a questo campionato possa tranquillamente partecipare anche chi privilegia il senso dell’incontro, peraltro condiviso in pieno, senza porre un vincolo rigido nel dopo partita.
Vorrei concludere questo articolo ricordando la rete di collaborazioni che permette lo svolgersi di queste attività; di tale rete fanno parte, oltre ai già citati Assessorato allo Sport del Comune di Bologna, Polisportiva Atletico-Borgo e gli sponsor e i gruppi con cui si è giocato, gli Assessorati allo Sport della Provincia di Bologna e della Regione Emilia-Romagna, la Sezione Arbitri della Lega Calcio UISP, il CSI, i Quartieri che assegnano le palestre, l’Associazione Industriali della provincia di Bologna, RoloBanca e Banca Popolare Antoniana Veneta e tutte quelle persone che con il loro contributo personale fondamentale entrano a far parte di questa storia!