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Autore: Nicola Rabbi

16. La Quinta Parete. Lo spettatore è uno sguardo che racconta

a cura di Lucia Cominoli, educatrice Progetto Calamaio

Botta e risposta con Massimo Marino, critico teatrale, sul laboratorio di educa- zione alla visione “La Quinta Parete. Lo spettatore è uno sguardo che racconta”.

“La Quinta Parete. Lo spettatore è uno sguardo che racconta” è un laboratorio di educazione alla visione, nato per accompagnare gli spettatori con disabilità e chi più in generale fatica ad avere accesso ai luoghi della cultura nei territori del teatro e dello spettacolo dal vivo. Il progetto è attivo a Bologna grazie agli educatori e agli animatori con disabilità del Progetto Calamaio della Cooperativa Accaparlante, in sinergia con Teatro ITC di San Lazzaro di Savena e, in precedenza, con Teatro Laura Betti. Il Teatro di Casalecchio di Reno e Teatro Arena del Sole di Bologna. Giochi, attività di scrittura creativa, incontri con critici e artisti accompagnano la visione degli spettacoli, in un percorso documentato e depositato in un blog, http://laquintaparete.accaparlante.it, che desidera partire dalla scrittura per spingere gli spettatori disabili e non a farsi cittadini consapevoli del proprio tempo e a stimolare nel pubblico la riflessione sull’accessibilità culturale.
Abbiamo chiesto a Massimo Marino, critico teatrale de “Il Corriere della Sera” di Bologna, di raccontarci la sua esperienza seguita all’incontro con il gruppo.

Ti era mai capitato prima d’ora di parlare di teatro con persone con disabilità?
Ho seguito e intervistato, in anni passati, gli attori dell’Oiseau-mouche. Ho intervistato, alcune volte, gli attori di Arte e Salute. Non mi era mai capitato però di dialogare con spettatori con disabilità.

Cosa ti ha lasciato l’incontro con gli animatori e gli educatori del Progetto Calamaio? Hai riconosciuto in loro un modo diverso di guardare la scena?
Mi è piaciuto il progetto, la costanza nel guardare, nel cercare e approfondire quello che c’è prima dello spettacolo, la ricerca di espressione nonostante quelli che possono essere i limiti fisici delle persone. Ho sentito una grande intelligenza che bisognava ascoltare, con pazienza, perché spesso celata sotto parole articolate con fatica, in certi casi difficili da capire per chi le ascolta senza una consuetudine con le persone con disabilità fisica.

C’è uno scritto, un dialogo o un intervento che ti ha colpito particolarmente?
Mi ha colpito il tono generale degli interventi, leggero ma profondo, capace di porsi domande essenziali senza soggezioni, desideroso di capire.

Di certo gli spettatori con difficoltà sensoriali, motorie e/o cognitive ci portano a confrontarci con modalità di restituzione dell’opera che devono necessariamente superare le forme della scrittura giornalistica, della recensione e della presentazione…Certo. Ma questa è una strada che in generale chi vuole lavorare a restituire/approfondire le culture dello spettacolo oggi deve seguire: testimonianze audio, fotografiche, video, grafiche… È una bella sfida. E con il vostro lavoro potete aprire strade.

A quanto stimeresti in percentuale la presenza di spettatori con disabilità nei teatri italiani?
Bassa, bassissima. Vedo, nelle mie costanti frequentazioni delle sale teatrali, 2-3-4 massimo 5 persone con disabilità a sera.

Pensi che i nostri teatri siano pronti ad accogliere tutti?
No. Sono luoghi ancora dalla pianta antica, nella maggior parte dei casi.

Cosa consiglieresti ai teatranti, siano essi artisti, organizzatori o direttori artistici per rendere i propri teatri accessibili in senso lato?
Coltivare il pubblico, ogni tipo di pubblico. Incontrarlo, fornire approfondimenti sul proprio lavoro, dal vivo o con materiali vari, scritti, fotografici, video, audio, ecc.
Coinvolgere in percorsi, anche sensoriali, di avvicinamento al teatro e allo spettacolo. Intervenire sulle architetture, quando possibile (ed è quasi sempre possibile).
Sperimentare altri formati e dispositivi di visione. Lavorare sull’approfondimento e sul coinvolgimento, come voi state già facendo.

15. Un contagio socialmente trasmissibile

di Sandra Negri, coordinatrice Progetto Calamaio

I compleanni sono spesso momenti di riflessioni e bilanci. In occasione del nostro trentesimo compleanno, una mattina abbiamo fermato le attività e ci siamo guardati con l’occhio degli altri, quelli che ci incontrano a scuola, ai convegni, o che fanno con noi un pezzo di strada attraverso esperienze condivise. Oppure con il nostro occhio di 10, 20 o 30 anni fa. E abbiamo riguardato il nostro gruppo e il suo percorso. Ci siamo chiesti a che punto siamo e quale sia oggi la caratteristica più avvincente del Progetto Calamaio. Questo un estratto del nostro lungo incontro.
A livello di contenuti, l’aspetto per noi più avvincente è rappresentato dalla sfida di fare diventare interessante una realtà – la disabilità – che di per sé non è interessante.
Sul piano della nostra professionalità ci sembrano interessanti e significative caratteristiche quali:

  •  il contatto diretto tra animatori disabili con bambini e insegnanti;
  • ognuno si può sperimentare con le proprie capacità, e le proprie abilità con i propri tempi;
  • sentirsi protagonisti del proprio lavoro, potendosi reinventare e continuare a esprimere la propria professionalità, anche nei cambiamenti personali;
  • rendere felici i bambini con il nostro lavoro e vedere felici noi stessi;
  • le cose che facciamo ci danno tante soddisfazioni – anche se gli obiettivi che ci poniamo non sono obiettivi semplici – che fanno bene alle persone e a noi.

Le relazioni tra noi, sia sul piano umano che professionale portano in sé aspetti importanti:

  • rapporto alla pari tra disabili e normodotati e ruolo attivo dell’animatore con disabilità;
  • ironia e autoironia data dalla consapevolezza e che permette di relazionarsi con l’altro in modo leggero, senza perdere di vista la realtà;
  • conoscenza e consapevolezza di sé, dei propri limiti e delle proprie risorse;
  • gruppo unito tra disabili e non, nella leggerezza.

Fra tutti, ci sono alcuni termini a me molto cari: capacità, cambiamenti personali, consapevolezza…
Ogni percorso è fatto di passaggi e cambiamenti. Anche il nostro è stato ricco di momenti e occasioni che hanno portato sempre qualcosa di nuovo: persone, competenze, idee, opportunità. Fin dai primi passi il gruppo è stato il terreno fertile per riflessioni, approfondimenti dei contenuti a partire dalle esperienze di relazione fra noi. Era ed è importante vivere sulla nostra pelle l’esperienza delle relazioni che porta alla consapevolezza. Questo ci permette di non impostare i nostri incontri di animazione e formazione solo su basi teoriche ma soprattutto su una base di solida e ricca esperienza che prima di tutto ha modificato in noi atteggiamenti e vissuti.
Il Progetto Calamaio è stato avviato da un piccolo gruppo di giovani uomini e donne con disabilità che nel proprio percorso di vita avevano avuto numerose occasioni di lavorare sui propri strumenti personali e sulle proprie autonomie. Per loro la consapevolezza di ciò che volevano e potevano chiedere e dare era una delle tappe della strada che stavano e stanno tuttora percorrendo. Nel tempo però ci siamo resi conto che queste tappe non sono presenti nel percorso di tutte le persone con disabilità. Questo può accadere per fattori personali, sociali, familiari, tipologia di deficit. Ci siamo dovuti chiedere se lavorare all’interno del Progetto Calamaio fosse possibile solo per qualcuno. Domanda che si tradurrebbe in un interrogativo ancora più difficile: l’inclusione, la valorizzazione delle proprie abilità – quali e quante esse siano – la possibilità di giocare un ruolo attivo nella propria vita e nella vita collettiva è solo per qualcuno o può concretamente essere per tutti?
Cosa succede se arriva nel nostro gruppo una persona con disabilità che ha una scarsa o assente consapevolezza di sé, dei propri limiti e delle proprie risorse? Se non si conosce, se non è abituata a parlare di sé… Cosa succede se i bambini o gli adolescenti le fanno domande scomode e delicate sulla sua disabilità che rischiano di metterla in crisi?
 La prima volta in cui Lorella venne in una scuola elementare come osservatrice la rassicurammo dicendole che nei primi incontri non avrebbe avuto un ruolo attivo, ma che era possibile che i bambini la coinvolgessero con le loro domande e curiosità, che all’interno dei nostri incontri vengono appositamente sollecitate perché la disabilità non sia un tabù e se ne possa parlare apertamente. Lei rispose che non aveva nessuna intenzione di rispondere ad alcuna domanda dei bambini perché fin da quando era piccolina ricordava di essere stata guardata dagli altri in modo strano e curioso e non ha mai vissuto bene l’essere oggetto di attenzione per via della sua diversità. Come partenza non fu delle migliori. Ma per capire se ci fossero margini di lavoro con lei, dovevamo farle toccare con mano il ruolo educativo che l’animatore con disabilità del Progetto ha in classe. Le abbiamo così assicurato che non avremmo lasciato che i bambini la coinvolgessero. E così è stato. Lei si è sentita al sicuro e, osservando la collega Stefania mentre si relazionava con i bambini attraverso le attività, si è letteralmente tuffata nell’incontro e ha sentito di potersi esporre da protagonista in un contesto che le riconosceva un ruolo attivo importante, per lei e per i ragazzi.
Il Progetto Calamaio deve essere per tutti. Ma allo stesso tempo, quando siamo a scuola e incontriamo i bambini, i ragazzi, gli insegnanti e i genitori dobbiamo garantire professionalità, qualità del lavoro e un contesto emotivo sicuro sia per i colleghi con disabilità che per i partecipanti.
C’è stato un momento in cui abbiamo cominciato a lavorare in modo specifico sul percorso che ognuno di noi deve fare per acquisire le competenze necessarie allo svolgimento di questo lavoro. Abbiamo cominciato a puntare molto su una formazione professionale che passasse da una formazione personale che ci portava tutti a familiarizzare con i contenuti del progetto ma anche con i vissuti legati al rapporto con la disabilità nostra e degli altri, con i tabù e i non detti legati ai deficit e agli handicap, compagni di strada e di lavoro di ognuno di noi.
Ci siamo piano piano accorti che il progetto Calamaio aveva in sé un’ulteriore grande risorsa. Il lavoro finale nelle scuole comportava un lavoro personale di consapevolezza e di accettazione di chi la disabilità la vive in prima persona, sulla propria pelle: le persone con disabilità, le famiglie, le strutture che essi frequentano, i servizi socio sanitari del territorio…
Ha preso forma così un percorso educativo specifico mirato alla consapevolezza di sé, di chi siamo, cosa vogliamo, cosa ci piace e cosa non ci piace. Cosa sappiamo, cosa vogliamo, cosa possiamo e cosa no.
Da diversi anni abbiamo così strutturato il nostro tempo del lavoro su attività diverse. A fianco dei momenti di progettazione, programmazione degli incontri, contatti e collaborazioni con le scuole e con le realtà del territorio, hanno preso posto momenti laboratoriali in cui lavoriamo su di noi; ci raccontiamo a noi stessi e al gruppo, per vivere e aggiornare l’esperienza che poi proponiamo a scuola.
Succede così che, come qualcuno ama dire, il Calamaio macchia di persona in persona. Un lavoro svolto dentro le quattro mura del Cdh diventa socialmente trasmissibile attraverso le relazioni familiari, amicali, lavorative.

14. Un’esperienza di tirocinio

di Giulio Sanna, studente in tirocinio universitario al Progetto Calamaio nel 2010

Il Progetto Calamaio è un’esperienza formativa unica. L’aggettivo formativa nel mio caso si discosta dal suo semplice significato tecnico e professionale. Quando si fa un tirocinio e si parla di formazione solitamente si intende un percorso che aiuta a sviluppare un metodo di lavoro in un determinato ambito. Questo concetto, applicato al Calamaio, mi appare estremamente riduttivo in quanto la formazione qui abbraccia molti ambiti della vita e va molto al di là del suo significato teorico. Il percorso che si fa qua dentro è un’avventura che inizia a prendere forma già nel colloquio conoscitivo. Devo essere sincero: sono venuto a fare il colloquio per curiosità ma non mi aspettavo che un lavoro con le persone diversamente abili potesse interessarmi. Mi spiego meglio: sono arrivato con la paura che si trattasse di un progetto che lavorasse con loro in maniera meramente assistenzialista (nonostante le rassicurazioni del sito internet in questo senso), senza coinvolgerli nelle attività e con una logica verticale per cui gli educatori sono gli educatori e i disabili devono ascoltare quello che gli viene detto senza avere voce in capitolo. Avevo questa paura perché con le persone disabili, per la poca esperienza di cui ero a conoscenza, spesso si lavora in questo modo. Un modo che non mi piace. Nel colloquio sono subito stato smentito e questo mi ha fornito una carica positiva che mi ha fatto iniziare questo percorso con grande entusiasmo e disponibilità. Fare un colloquio con una équipe formata da educatori normodotati e animatori disabili non ha prezzo. Essere coinvolto in un progetto dove le persone disabili contano, hanno idee e le possono esprimere e mettere in pratica era quello che cercavo e che ho trovato. Durante il colloquio le mie paure si sono dileguate lasciando spazio alla certezza di volermi mettere alla prova in questo campo. L’ottica orizzontale, aperta e partecipativa che ho percepito durante l’incontro conoscitivo l’ho vista messa in pratica durante tutto il tirocinio che ha pienamente risposto alle mie aspettative. Per questo motivo trovo il progetto Calamaio estremamente rivoluzionario. Non a caso voglio utilizzare questa parola così estrema, densa di significati e importante. Sono convinto di essermi trovato dentro un percorso rivoluzionario che sovverte l’ordine stereotipico della visione sociale della persona con disabilità. In cosa consiste e come si esprime questa rivoluzione culturale? Come gli animatori disabili si mettono in prima linea per dimostrare al mondo che li circonda che non sono degli sfigati ma che hanno capacità e potenzialità da mettere al servizio della società? Diciamo che con il lavoro loro esprimono in pratica dei concetti che magari si trovano scritti in tutte le carte dei diritti dei disabili ma che solitamente sono solo dichiarazioni di principio e ideali privi di alcuna applicazione. Le persone con disabilità che lavorano al Calamaio chiedono di essere messe nelle condizioni di esplicitarsi in modo da essere una risorsa e non un peso per il sistema, e mettono a disposizione per questo fine le loro capacità.
Il pilastro che sta alla base di questo progetto è in primo luogo il gruppo e in secondo luogo, ma strettamente relazionato ad esso, l’ambiente familiare, costruttivo, ironico e accogliente in cui si lavora. La serietà, la professionalità e gli stimoli a migliorarsi e a fare meglio sono una conseguenza logica di questo ambiente. Per quanto mi riguarda il fatto di essere stato subito coinvolto in tutte le attività del gruppo, come fossi un veterano, è stato fondamentale per calarmi in questa realtà con tutta la positività possibile. Inoltre l’appoggio dei ragazzi disabili nelle mie prime esperienze di assistenza (andare in bagno, dare l’acqua, dare da mangiare), che sono state molto approssimative, ha contribuito a farmi sentire parte integrante del progetto. La fiducia, nonostante gli impacci iniziali, non è mai mancata dandomi la possibilità di migliorare giorno per giorno. Il gruppo e l’ambiente che ho descritto in poche righe costituiscono l’estensione del concetto di formazione di cui ho parlato all’inizio. Accanto a quella professionale si aggiunge una componente di formazione umana che considero la vera conquista di questo tirocinio.
Per quanto riguarda il lavoro in senso stretto gli strumenti con cui si opera sono molteplici; io cercherò di fare una breve disamina di quelli con cui sono stato più a contatto. Il primo di cui parlo è elaborazione di documenti al computer che servono a sviluppare concetti importanti sulla disabilità e sul modo in cui questa viene vista e affrontata all’interno del gruppo e su come il gruppo la affronta nei confronti dello spazio esterno. Questi documenti offrono spunti per discussioni che portano idee, stimoli, punti di vista differenti e che sono secondo me una sorta di statuto, sempre in divenire, che sviluppa, amplia e modella il modus operandi del Calamaio.
Un altro strumento di lavoro fondamentale sono i percorsi che si effettuano nelle scuole, dalle elementari alle superiori, e che costituiscono il cuore del progetto. Non bisogna dimenticare che chi lavora qua dentro è un professionista. I disabili sono educatori e animatori a tutti gli effetti e nelle scuole hanno il ruolo principale nella gestione dell’incontro. Nei percorsi, un’équipe composta da educatori normodotati ed educatori disabili si rivolge ai bambini e ai ragazzi attraverso una serie di attività (che cambiano a seconda dell’età dei soggetti destinatari) che servono a smontare pezzo per pezzo la macchina degli stereotipi che ruotano attorno a un disabile e alla sua vita. L’obiettivo però non si limita a questo: non si può smontare qualcosa che è radicato nella società e finire là. Bisogna andare oltre e rimontare la macchina in un modo diverso, migliore. Alla fine del percorso si trasmette una visione differente della disabilità e ci si focalizza sul ruolo che una persona disabile può avere, sulla sua felicità e sulle sue capacità e possibilità, sulla sua vita quotidiana e il suo lavoro, sulle sue esperienze passate e presenti e sulle sue aspettative e i suoi desideri per il futuro.
Il Calamaio è un oggetto che macchia, lascia un alone di inchiostro indelebile quando viene utilizzato. Quello che a me lascia, oltre a una componente umana e morale estremamente elevata, è una sensazione chiara: mi sento un veicolo ovvero il mio ruolo di educatore normodotato (perché anche se sono un tirocinante non mi considero tale) è finalizzato a un ausilio per mettere in essere le idee che gli educatori disabili hanno. Mi sento un veicolo per le idee e con molta felicità metto a disposizione le mie capacità fisiche, intellettuali ed emozionali per rendere migliori le idee e gli spunti che vengono dagli animatori disabili, i principali protagonisti dell’avventura Calamaio.

13. Il mio anno al Calamaio

di Simona Muscaridola, volontaria di Servizio Civile al Progetto Calamaio nel 2016

 E siamo giunti alla conclusione. Si conclude quest’anno di Servizio Civile. Che dire… Ho incontrato persone troppo speciali in questo percorso, persone che mi hanno davvero insegnato tanto. Persone che mi sono state vicine nei momenti più bui. Mi hanno insegnato il vero significato di lottare e non arrendersi mai a tutte le difficoltà che la vita può metterci davanti ogni giorno. Grazie a loro ho scoperto una parte di me che credevo non avere. Ho capito cosa vuol dire trasformare i propri limiti in punti di forza. Queste persone mi hanno insegnato che al mondo siamo tutti uguali e tutti diversi tra noi. Ho imparato cosa significa rispetto per gli altri, cosa significa diversità. Diversità per me è sinonimo di ricchezza e io, grazie a loro, vado via con un bagaglio ricco di tante belle emozioni!
Non ho davvero parole per esprimere quanto per me sia stato importante quest’anno e quanto mi avete dato, o meglio, parole giuste forse non esistono! Tante volte mi è stato detto “grazie Simo”. No, oggi sono io che ringrazio voi, educatori, animatori e chi mi ha sempre sostenuto in questo percorso.
Mi mancherete tanto…
Non smettete mai di fare tutto questo, perché è qualcosa di straordinario!

12. I volontari del Servizio Civile: come l’esperienza del Calamaio incide sulla loro formazione

di Anna Pancaldi, volontaria di Servizio Civile al Progetto Calamaio nel 2006

Il mio anno di servizio civile presso il Progetto Calamaio (10 anni fa), mi ha lasciato diverse cose.
Anzi, molte cose. Ma soprattutto diverse.

    • Lavoro – Un’esperienza lavorativa basata sull’effettiva messa in gioco delle proprie capacità, senza la pretesa di un’omologazione, ma con la concreta meraviglia di fronte a quello che ciascuno mette in campo e, da qui, la valorizzazione e conseguente distribuzione dei compiti. Un ambiente professionale di estrema qualità che ho poi ricercato nelle mie successive esperienze e che mi ha portato a vedere nella diversità un motivo di crescita.
    • Ironia – Mi ha fatto conoscere persone che amano ciò che fanno e che si divertono a farlo. Con ciò non intendo dipingere un paradiso idilliaco senza fatiche o scontri. No, tutt’altro, ma è un contesto in cui si fa dell’ironia (e dell’autoironia!) la chiave per sdrammatizzare, affrontare situazioni difficili e creare relazioni autentiche.
    • Bisogno – Mi ha aiutato a riconoscere ed esprimere i miei bisogni. Perché è nel bisogno che avviene l’incontro con l’altro, quell’altro che viene in mio aiuto o verso il quale vado a mia volta. Chiedere aiuto non manifesta un fallimento, diventa occasione per l’incontro e la relazione.
    • Crisi e resilienza – Mi ha mostrato una risposta concreta alla crisi. Una soluzione efficace alla maggior parte delle crisi che come individui e società ci troviamo ad affrontare è smettere di pensare come se fossimo esseri soli. Non siamo soli, (che consolazione!), e dovremmo quindi allargare il concetto di ciò che fa bene a me a ciò che fa bene a noi: se creiamo un contesto vantaggioso per tutti, stiamo meglio anche come singoli. Tutti siamo attraversati da crisi, alcune più visibili, altre più nascoste. Vissuta da soli una crisi risulta schiacciante ma, se condivisa, può essere affrontata con creatività e diventare occasione di crescita. La crisi, nella difficoltà, permette di scendere in profondità, di arrivare a scoprire cose che non avresti immaginato altrimenti.
    • Relativizzare – Un contesto come quello del Calamaio ti aiuta ad allargare i tuoi orizzonti e a rimettere le cose in un ordine di urgenza e importanza che non è quello che ci viene imposto da fuori. Ti porta a stretto contatto coi tuoi limiti ed è lì, al confine di te, quando sai che rischi di perderti, che capisci cosa davvero è importante per la tua vita.
    • Prospettive – Quello che porti tu… non lo porta nessun altro! Il tuo punto di vista è unico e proprio perché tale può dire qualcosa che nessun altro può esprimere così. Il tuo punto di vista arricchisce tutti proprio perché è diverso dagli altri. È una questione di prospettiva, dà profondità. È capire che la tua diversità è l’opportunità per capire meglio la realtà di qualcun altro, oltre che la tua.
    • Opportunità – Il Calamaio non è certo l’unico posto che può insegnare tutto questo… Ma penso che un bel tuffo fra una cantata di “C’è cavallo e cavallo”, un pranzo insieme, un laboratorio in classe, un convegno, un articolo, una riunione in terrazza, una gita di gruppo alla toilette… ti mostrino un’idea molto chiara dell’opportunità che la vita ti offre.
      Siamo vivi. E questa, ora, è un’occasione imperdibile!
    • Gratitudine – Tanta.

11. Tanto è ancora possibile

di Stefania Baldi Aggio, mamma di Francesca, animatrice con disabilità del Progetto Calamaio

“Ciao, io vado. Mamma, ti sei ricordata la mia borsa con il computer?”.
“Perché poi devo ricordarmela io, non l’ho ancora capito, comunque sì, è già dietro alla tua carrozza. Aspetta Frency, almeno un bacio e buona mattinata!”.
Questo accade al lunedì, al mercoledì e al venerdì.
Questo non sarebbe mai stato nemmeno pensato fino a qualche anno fa.
Oggi Francesca ha 25 anni e, come lei ama dire a tutto il mondo, lavora, ha dei colleghi e impiega il tempo delle sue mattine in attività che adora e che le permettono di avere quel sorriso.
Tutto ciò non è assolutamente scontato, perché Francesca è una ragazza-donna diversamente abile, con gravi deficit motori e con tanto desiderio di conoscere e vivere la sua vita. Le piacerebbe decidere, programmare, organizzare, pianificare le sue azioni, ma accade rare volte.
Però, c’è un luogo dove ciò accade, un posto dove sentirsi al posto giusto ed è proprio al Centro Documentazione Handicap che Francesca va al lunedì, al mercoledì e al venerdì mattina.
Quando parlo con lei scopro ogni volta che tanto è ancora possibile, perché grazie al CDH Francesca ha iniziato a emergere come persona. Provare a confrontarsi e mettersi in discussione era impresa ardua per lei, nel senso che all’interno della famiglia e del suo stretto giro di conoscenze ha quasi sempre la ragione, si cerca per riguardo nei suoi confronti di assecondarla il più possibile e le si mostra il più possibile le sue possibilità, nascondendo garbatamente i suoi limiti, che mai saranno superati.
Ora, sta imparando, grazie ai colleghi, agli educatori, ai volontari e a chiunque passi dal CDH, a stare bene anche con i diversamente abili come lei, e a parlare di tutti quegli argomenti che la spaventavano tanto.
Parole come sesso, corpo, affettività, autonomia, crescita, confronto, indipendenza sono normali nel gruppo Calamaio, se ne parla, con semplicità, ma con grande profondità. Francesca ha partecipato a laboratori che l’hanno provata, ma sicuramente cambiata: più stima verso se stessa, più consapevolezza, più coraggio, nel senso di audacia a parlare e a imporsi, più capacità di gestire le proprie emozioni. Questo è stato un grande traguardo e un grande successo, perché quando il tuo sistema centrale nervoso non funziona a meraviglia, provare emozioni può diventare quasi un problema. Non era in grado di controllare la gioia o il dolore, era troppo per lei, e allora meglio evitare. Ora, grazie anche agli incontri con le scuole di qualunque grado, anche se i piccoli delle elementari rimangono i suoi preferiti, riesce a mostrarsi e a parlare, ridere, scherzare delle sue imperfezioni.
Io, da mamma, ho impiegato tempo ad adattarmi alla nuova Francesca, nel senso che lei cambiava e capivo che i meriti questa volta non erano miei, cercavo di scovare degli errori nel percorso che Francesca aveva intrapreso al CDH, ma mi sono arresa quasi subito. Andava e continua ad andare bene, io ho tanti ruoli nella vita di mia figlia, ma non dovevo avere quello di educatore e non dovevo permettermi di dare consigli o peggio istruzioni a Francesca per quello che riguardava il suo lavoro. Lei mi racconta quasi tutto quello che accade nelle sue mattine, mi rende partecipe, senza però chiedere il mio permesso; e ciò è ancora un altro grande successo.
Sono finalmente tranquilla quando Francesca non è con me, per esempio non accadeva quando frequentava il liceo, e ritrovarci anche solo dopo poche ore di distacco rende migliori le nostre giornate e ha contribuito moltissimo a ridurre la nostra dipendenza dell’essere nello stesso momento nello stesso posto insieme.
Grazie per avermi permesso di scrivere e condividere con voi questo mio pezzo di vita.

10. Normalizzazione

di Giuseppina Testi e Iader Vitali, genitori di Tatiana, animatrice con disabilità del Progetto Calamaio

Poema-manifesto scritto da Nirje (1969)
“Normalizzazione significa… un ritmo normale del giorno.
Ti alzi dal letto al mattino,
anche se hai una gravissima disabilità,
ti vesti ed esci
per andare a scuola o al lavoro: non resti a casa.
Al mattino prevedi quello che farai nella giornata,
alla sera ripensi a quello che sei riuscito a fare.
Il tuo giorno non è 24 ore sempre uguali,
minuti monotoni, pomeriggi senza fine.
Mangi in ore normali ed in modo normale
non solo con il cucchiaio, se non sei più un bambino,
non mangi a letto o in poltrona, ma a tavola
e non ceni presto nel pomeriggio, per la comodità del personale.
Normalizzazione significa… un ritmo normale nella settimana.
Abiti in un posto e vai a lavorare in un altro,
in un altro ancora passi il tuo tempo libero.
Programmi i divertimenti del fine settimana
E “non vedi l’ora” di tornare a scuola o al lavoro,
il lunedì mattina.
Normalizzare significa… un ritmo normale dell’anno.
Una vacanza per rompere la routine
con il cambiamento delle stagioni che porta con sé cambiamenti nel lavoro,
nei cibi, nello sport, nello svago e in tante altre cose della tua vita.
Normalizzare significa… le esperienze normali di sviluppo nel ciclo di vita.
I bambini, e solo i bambini, vanno in colonia.
Nell’adolescenza ti curi molto del tuo aspetto, dei tuoi capelli,
pensi alla musica, ai ragazzi e alle ragazze.
Da adulto lavori e ti senti responsabile.
Da vecchio hai i tuoi ricordi da rivivere e la saggezza dell’esperienza.
Normalizzare significa… avere desideri e fare scelte rispettate dagli altri.
Gli adulti hanno la libertà di decidere
dove vogliono vivere, che lavoro preferiscono e che amici frequentare.
Se stare in casa a guardare la televisione
o andare a concerto, o a passeggiare in città.
Normalizzare significa… vivere in un mondo di due sessi diversi.
I bambini e gli adulti hanno relazioni con l’altro sesso, o con lo stesso, da adolescente cerchi di avere il ragazzo o la ragazza,
da adulto puoi decidere di sposarti o di avere figli.
Normalizzare significa… il diritto a una situazione economica normale. Tutti abbiamo il nostro reddito e le nostre responsabilità,
anche se abbiamo la pensione di invalidità, dobbiamo avere i nostri soldi
e decidere come spenderli: nel superfluo e nel necessario.
Normalizzare significa vivere in una casa normale
in un quartiere normale e non in una grande istituzione
con 100 persone disabili o anziane.
Significa non essere isolato dalla società{1}.

1. Fonte: D. Ianes, La Speciale normalità: strategie di integrazione e inclusione per le disabilità e i bisogni educativi speciali, Erickson, Trento, 2006, pp. 17-18.

“Normalizzazione”: che cosa si intende? Normalizzazione di che cosa? Di chi? A che punto inizia e dove finisce la normalizzazione? Quando si raggiunge la normalizzazione? Quali sono i parametri dentro cui una persona sta agendo nella normalizzazione?
Chissà quante volte noi genitori di Tatiana, figlia con disabilità motoria dalla nascita, ci eravamo illusi che tutto ciò che ci era stato detto alla nascita non fosse vero oppure che il tempo avrebbe portato alla normalizzazione. Dopo lo stordimento iniziale alla nascita di nostra figlia, abbiamo preso consapevolezza delle sue difficoltà e piano piano abbiamo cercato intorno a noi supporto e sostegno per orientarci e avere un quadro generale di come muoverci nell’immediato.
Abbiamo iniziato un cammino affiancati dai servizi, istituzioni, con personale qualificato e competente che ci ha portato di volta in volta a raggiungere traguardi per poi, sempre insieme, progettarne altri e altri ancora. Così il tempo è trascorso e nella nostra mente e nella vita pratica ci siamo resi conto che nostra figlia con stimoli continui, riabilitazione, istruzione, acquisiva nozioni del mondo circostante, in lei le risorse latenti erano pronte a recepire e toccava a noi genitori stimolarla e darle la possibilità di sperimentare ogni cosa la circondasse.
Pensavamo sempre a quante esperienze un bambino normodotato prova nei primi anni della sua vita, alla scoperta del mondo che lo circonda e allora questo ha fatto scattare in noi la voglia sempre più forte di dare a nostra figlia maggiori possibilità di conoscere, vedere, sentire, toccare per raggiungere la… “normalizzazione”.
Un primo passo importante è stato l’entrata nel mondo della scuola in cui, oltre all’istruzione, Tatiana ha maturato la sua socializzazione attraverso le prime relazioni extra famigliari. Come bambina ha sempre dimostrato tanta volontà sia per quanto riguardava lo studio che per programmi riabilitativi cercando di fare sempre il massimo che le era consentito dalla sua disabilità. Ha sempre manifestato il piacere di stare con i compagni e ha avuto un ambiente favorevole creato dagli insegnanti per una buona inclusione. Il sentirsi considerata alla pari dei compagni ha favorito l’accrescere della sua autostima, e ciò l’ha stimolata a impegnarsi sempre di più. Tutto questo ha favorito il rafforzarsi del suo carattere, della fiducia in se stessa, però contestualmente lasciandosi guidare, consigliare, ma crediamo anche, alle volte, tacitamente subire. Crediamo di averle trasmesso la volontà di considerarsi persona e di vedere la sua disabilità come risorsa, pensando che nella vita si possono percorrere anche strade parallele alla via maestra e di non pensare a se stessa come persona inutile e incapace e sentirsi relegata ai margini della società.
 Se però alle volte emergeva in lei un’insicurezza, secondo noi era dovuto al fatto di non aver ancora preso piena consapevolezza di sé e accettazione della propria disabilità, con la paura del giudizio altrui.
Noi genitori per aiutarla a crescere e acquisire sempre più fiducia in se stessa, imparare a fare delle scelte, essere responsabile delle proprie decisioni, abbiamo sempre cercato di darle opportunità di sperimentarsi anche a prezzo di qualche errore.
Come genitori, proiettati in una visione di Tatiana adulta, desideravamo che acquisisse sempre più autonomia decisionale, consapevole e responsabile. Un’importante svolta nella sua vita è avvenuta quando alla fine delle scuole superiori ha potuto accedere all’Università. Si è sentita pienamente all’altezza dei compagni di corso, il suo stato d’animo è stato fortemente rafforzato anche dagli ottimi risultati acquisiti durante gli anni di studio. Come un fiume in piena decise anche di fare un master universitario di cui andava molto fiera, contesto in cui ha avuto la possibilità di confronti paritari con colleghi normodotati sperimentandosi in alcune formazioni. Sicura di aver acquisito competenze e conoscenze ha trovato la sua giusta collocazione. Ormai da dieci anni lavora presso il CDH come educatrice e animatrice all’interno del Progetto Calamaio e insieme ai colleghi fa incontri di formazione-animazione presso le scuole di ogni ordine e grado, musei e Università per contribuire alla presa di coscienza della propria identità da parte dei bambini e degli adulti–insegnanti e genitori – attraverso il confronto con l’alterità.
Da questo momento in poi per Tatiana c’è stato veramente un grande cambiamento di consapevolezza del ruolo che è andata a ricoprire attraverso il lavoro. Nei primi tempi l’entusiasmo di far parte di un gruppo di persone che svolgevano attività inerenti agli studi da lei svolti la appagavano appieno, ma rimaneva comunque ai margini a osservare i colleghi senza avere però il coraggio di proporre le proprie idee.
Questa era la nostra percezione avvalorata anche dai suoi commenti sulle giornate lavorative. Fino a questo periodo Tatiana era stata affiancata da poche e costanti figure di supporto tranne un paio di vacanze in cui era andata senza noi genitori con educatori e ragazzi disabili. In questo contesto lavorativo, invece, la pluralità di persone facenti parte di questa associazione-cooperativa, ha fatto sì che Tatiana si abituasse a collaborare con più e più persone diverse e non sempre con lo stesso referente.
Sicuramente questo passaggio non deve essere stato facile per una persona abituata da sempre ad avere un punto di riferimento fisso allenato ormai ad anticipare le sue richieste, ma piano piano ha acquistato più sicurezza in se stessa, ha iniziato a proporsi e anche all’interno della famiglia la sua personalità si è imposta maggiormente. In questo gruppo, questo modo di operare, di confrontarsi quotidianamente, di ritrovarsi attorno a un tavolo e discutere proponendo ognuno la propria idea per poi attraverso progetti concretizzare la parte teorica, ha portato Tatiana ad acquisire autonomia di pensiero e decisionale. Lontani sono ormai i periodi in cui Tatiana si chiudeva in casa rifiutando il contatto con il mondo esterno, tenendo dentro di sé un malessere che noi genitori percepivamo ma che non riuscivamo a far emergere. Oggi, adulta e inserita con gratificazioni in un contesto sociale, pur riconoscendo i propri limiti ma anche le proprie risorse, si sente parte attiva e tutto ciò dovrebbe essere un diritto che lo Stato avrebbe il dovere di riconoscere a ogni persona. Se ogni persona disabile ha la possibilità di raggiungere il massimo delle proprie potenzialità, e riceve gratificazioni, benessere personale, ruoli sociali, tutto ciò fa parte della “normalizzazione”.
Noi riteniamo che se una persona disabile riesce a realizzare e ottenere anche solo un traguardo fra i tanti che Nirje ci riporta nel suo poema, crediamo che sia un importante aumento di fiducia e autostima per se stessa. Oggi vediamo nostra figlia totalmente cambiata, felice, realizzata, capace di decidere, si sente responsabile, e consapevole di quello che ha ottenuto, desidera sempre esprimere la propria opinione anche se questo, alle volte con toni un po’ sopra le righe, porta a interminabili discussioni familiari, ma tutto ciò è “normalità”. Tatiana è una persona adulta.

9. Il rapporto con i servizi socio educativi del territorio

di Alessandro Franchini, educatore area disabilità Asc Insieme Casalecchio di Reno

Credo che il Progetto Calamaio sia un progetto davvero innovativo. È ormai radicato sul territorio da tanti anni ma continua a essere un intervento importante per i ragazzi seguiti dal nostro Servizio e per tutti i soggetti coinvolti.
Svolge un ruolo importante per bambini, adulti, insegnanti e genitori che attraverso il confronto con la diversità possono sperimentarla come una sfumatura, la propria e quella altrui, piuttosto che una categoria. In questo senso nei bambini, più ricettivi e meno strutturati degli adulti, le implicazioni in termini di costruzione della propria identità sono notevoli.
È un’esperienza per coloro che propongono il percorso perché mostrando all’altro le risorse e le potenzialità possedute, e potenziandole, possono ribaltare completamente la prospettiva. L’opportunità offerta loro è quella di poter affiancare realmente ai limiti evidenti della disabilità un ventaglio di risorse personali, restituendo all’altro un’immagine di sé più completa e fedele. Quando questo succede le ripercussioni possono spaziare veramente in tutti gli ambiti della vita dell’individuo.
È un’occasione importante anche per coloro che accompagnano, offrendo all’operatore l’opportunità di uscire dalla logica dell’accudimento e integrando altre immagini e esperienze legate alla relazione educativa, restituendo il giusto peso alla propria professionalità.

8. Pensieri di animatori: i protagonisti del Progetto Calamaio

“Le mie prime impressioni sono state ottime, mi hanno subito accolto e mi sono sentita utile e parte del gruppo. La prima difficoltà superata è stata cercare di fare capire il mio linguaggio, ero pronta a ripetere più e più volte le cose per arrivare a questo obiettivo e, alla fine, ho raggiunto la meta prefissata. Invece, la prima consapevolezza è stata che nelle scuole bisogna essere pronti a rispondere a qualsiasi domanda, anche a quelle più personali, ad esempio Come fai ad andare in bagno?. Questa è stata la prima domanda che mi hanno fatto i bambini e io ho risposto senza paura, perché è così che bisognerebbe fare. Parlando di incontri nelle scuole, il mio primo incontro è stato in una scuola elementare, dove ho interpretato la parte della Signora Locomotiva, mi sono sentita attiva e coinvolta. Mi sono molto divertita, soprattutto quando tenevo i bambini in braccio, con i quali sono passata dall’essere portata al portare. Ho sentito il contatto diretto con il bambino e questo mi ha fatto davvero un gran piacere”.
Tatiana Vitali

“All’inizio non mi piaceva molto l’ambiente del CDH, non riuscivo ad ambientarmi. Ricordo che all’inizio ci hanno fatto fare una cosa carina: ci hanno fatto dipingere i termosifoni; Manuela mi ha aiutato a dipingere insieme ai ragazzi del Servizio Civile. Sono stato contento del lavoro che ho fatto: è da allora che mi sono integrato, poi ho cominciato a scrivere le mie prime storie (Le avventure di Joe Black)”.
Ermanno Morico

“Ero abituata a stare in piccoli gruppi, invece, arrivata qui, mi sono trovata all’interno di un grande gruppo e avevo difficoltà a inserirmi. Piano piano, ho iniziato a superare le mie paure, a scoprire le mie vere capacità. Ricordo che il gruppo mi faceva parlare molto. Mi ha colpito il fatto che mi facevano ripetere fin quando non venivo capita!”.
Stefania Mimmi

“La cosa che amo di più del Progetto Calamaio è il fatto di lavorare a scuola tra i bambini! Il mio modo di fare animazione è più personale: quando vado a scuola, porto quello che ho imparato in questi anni facendo animazione e lo miglioro sempre di più”.
Tiziana Ronchetti

“Dopo anni passati in casa, venire in contatto con altre persone mi ha destabilizzata, ero molto imbarazzata. Poi ci ho messo poco tempo a instaurare un buon feeling con tutti, persone con disabilità e non, mi sono sentita accolta. Io non avevo mai fatto niente di tutto quello che si faceva al CDH, cioè non sapevo cosa volesse dire fare l’animatrice nelle scuole. Dopo tanto tempo di formazione interna, sono andata per la prima volta nella scuola materna o elementare (non ricordo con precisione) ed è stato traumatico. Poi gli educatori mi hanno aiutata nel prendere consapevolezza dei miei limiti e capacità, e così ho ripreso ad andare nelle scuole. Sono stati anni veramente felici, spero ce ne saranno tanti altri”.
Lorella Picconi

“Ho cominciato qui al Centro Documentazione Handicap a chiedere aiuto, con la consapevolezza che è necessario saper chiedere. In più ho preso consapevolezza delle mie capacità e ho capito di poter portare avanti i miei desideri come andare in vacanza da solo”.
Diego Centinaro

7. Intervista con la “Marchesa”

a cura di Tristano Redeghieri, educatore Progetto Calamaio

Intervista a Stefania Baiesi, storica animatrice con disabilità del Progetto Calamaio.
Entro al CDH nella stanza del Calamaio e oggi ho il compito di intervistare Stefania Baiesi detta la Marchesa. La Marchesa è la più vecchia, non di età, ma di operato al CDH e sono molto contento ed emozionato di poterla ascoltare perché mi permetterà di conoscerla meglio e poi è bello stare accanto a lei.

Ciao Stefania come stai stamattina?
Ero un po’ preoccupata perché devo finire lavori iniziati ma sono felice perché mi stai intervistando.

Come mai ti chiamano la Marchesa?
È un soprannome che mi ha dato Mario, perché fa rima con Baiesa. È un soprannome carino di Mario per dire che sono la più anziana e gli sono sempre stata simpatica… Sarà innamorato di me [grosso sorriso e risate!]

Come sei arrivata al Centro Documentazione Handicap?
Arrivo trent’anni fa al CDH attraverso l’insegnante dei corsi professionali che mi disse che nessuna azienda mi avrebbe assunto. Quindi lei mi propose uno stage in questo centro che non conoscevo. Mi hanno accolto subito e questo mi ha tranquillizzata. Ha permesso che questa esperienza fosse positiva per me ed è per questo che dopo, finito lo stage, mi chiesero se potevo rimanere. Rimasi.

Cosa facevi?
All’inizio mi occupavo dell’inserimento dati. Poi, ascoltando quello che faceva Claudio Imprudente, chiesi di essere coinvolta in quello che stava progettando. Non mi bastava più stare al computer. Ho pensato “C’è qualcosa di più interessante da fare” ed ero molto curiosa di sapere bene ciò che Claudio faceva nel concreto.

Chi è stata la prima persona con disabilità che hai incontrato al CDH?
Il primo confronto con la disabilità al CDH l’ho avuto con Claudio. Mi sentivo a disagio perché era una persona nuova. Mi spaventava l’aspetto fisico più della sua incapacità di comunicare a voce.

Dopo avere ascoltato e capito quello che diceva Claudio Imprudente hai deciso di proporti per essere coinvolta nei suoi progetti. Ma ti ricordi che cosa ti aveva incuriosito? Perché hai deciso di proporti?
Il fatto che si parlasse di disabilità in un modo diverso, in modo propositivo e non in modo pietistico. E non dimentichiamoci che trent’anni fa l’atteggiamento comune verso la disabilità era ancora peggio di adesso. Ho deciso quindi di propormi per aiutarlo nella sua campagna di cambiamento della cultura perché partivamo da un terreno comune, mi sono rispecchiata in quello che diceva e ci credevo fortemente. Mi stuzzicava molto l’idea di provare a cambiare il ruolo alle persone disabili: non più persone bisognose di assistenza ma anche persone attive nella società.

Quindi hai iniziato a essere un’animatrice con disabilità nelle scuole. Ti ricordi la tua prima volta?
Certo! Il mio primo incontro nelle scuole è stato alle scuole medie di Casalecchio. Venivo da una formazione completamente diversa. Alle scuole superiori avevo frequentato un istituto tecnico commerciale. Che ne sapevo io di come ci si relazionava ai bambini con un ruolo educativo? Mi ponevo molte domande tipo “Cosa vado a dire? Cosa devo fare? Non ho la formazione, non sono adatta per andare nelle scuole. Oddio! Non me la sento di parlare in pubblico! Non mi stai chiedendo questo vero!? Dimmelo! Nel caso sarebbe la prima volta per me. Non sono abituata a lavorare in pubblico! A stare di fronte a un pubblico faccio molta fatica! Mi farebbe sentire male, a disagio!”. Ero molto in ansia, e Claudio mi ha rassicurato molto dicendomi “Non ti preoccupare. Se ho bisogno ti chiedo io; per il resto non devi dire nulla, vedrai che ti sarà molto utile. Osserva e impara”.

Poi, immagino, altre prime volte, in altre scuole di ogni ordine e grado.
Tante prime volte… Abbiamo cominciato a lavorare alle scuole elementari. Facevamo sempre giochi diversi in base all’età dei bambini.

Quale tipo di animazioni o tecniche usavate per coinvolgere i bambini e avvicinarli alla disabilità?
Ne usavamo varie, dalla drammatizzazione di fiabe a giochi più complessi come la scommessa Uguali e Diversi, la scommessa dell’Aiuto, il gioco di associazione di idee…

Marchesa tu sai che io sono diplomato Isef e lavoro specialmente con i bambini delle materne (3-5 anni). Hai mai lavorato con i bambini più piccoli e nell’ambito sportivo?
Certo! Dopo molti anni ad Alberto, un collega con disabilità, è venuta l’idea di cominciare a condurre degli incontri all’interno della scuola dell’infanzia. Lo proponemmo alle scuole materne di Borgo Panigale di fronte alla vecchia sede del CDH di via Legnano. Mi ricordo che per la prima volta abbiamo drammatizzato la fiaba dell’orso. Quell’incontro fu il mio debutto nella parte di un orsetto, mentre una bambina con sindrome di Down, che faceva fatica a parlare, faceva la parte del pesce. Successivamente mi sono trovata nella parte della tartaruga grazie al mio busto che faceva da casetta della tartaruga e i bambini mi montavano sopra. Più avanti proponemmo anche percorsi al nido.

 E lo sport?
Il mio incontro con lo sport avvenne alle scuole superiori Rubbiani. Ricordo Roberto Ghezzo, educatore del Calamaio, che spiegava gli schemi e le regole del calcio in car- rozzina. Ricordo il clima che si era creato in palestra tra Alberto, il mio collega disabile, che faceva il portiere e i ragazzi. Si era creato un clima familiare, scherzoso e gioviale, ci siamo divertiti molto tutti. Le insegnanti hanno partecipato al gioco, erano coinvolte molto attivamente. In particolare ricordo le reazioni degli insegnanti di educazione fisica; erano molto entusiasti ed euforici.

Ma le animazioni le facevate solo con i bambini?
No. Insieme a Sandra ho condotto degli incontri di feste finali dove facevamo il percorso Calamaio. Questi incontri erano con bambini, genitori e famigliari. Servivano a fare comprendere a genitori e famigliari le attività svolte dai bambini durante gli incontri in classe. Inoltre facevamo incontri aperti alla cittadinanza che servivano a invogliare e coinvolgere la società, con l’intento di stimolare un dialogo. Fare comprendere alla cittadinanza e trasmettere i contenuti e la filosofia del Progetto Calamaio.

Qual è la tua più grossa soddisfazione e la più grossa difficoltà incontrata nel tuo percorso al Calamaio?
La difficoltà più grossa che ho dovuto superare è stata imparare a lavorare in gruppo. Invece la soddisfazione più grossa… mmm… ci devo pensare perché ne ho avute tante e non è facile sceglierne una.

Marchesa, fai ancora animazioni?
No perché sono un po’ invecchiata e il mio fisico fa fatica a reggere certi ritmi.

Quindi di cosa ti occupi ora al Calamaio per portare avanti la cultura positiva della disabilità?
Scrivo articoli che vengono pubblicati sui nostri mezzi di informazione. Collaboro nel progetto del libro modificato. Il libro modificato non è altro che la sostituzione delle parole con simboli che fanno riferimento alla CAA, la Comunicazione Aumentativa Alternativa. Questo permette che un libro diventi accessibile a tutti.

In questi trent’anni il Calamaio ha contribuito a cambiare qualcosa nella società?
È difficile dirlo, ma sicuramente abbiamo macchiato molte persone facendo vedere che la persona con disabilità può fare tutto quello che fa una persona normodotata, basta avere un po’ di fantasia e creatività che permetta di superare l’handicap ed essere protagonisti della propria esistenza.

Grazie Stefi della bella chiacchierata.
Prego non c’è di che. Anzi è stato un onore per me poter collaborare con te in questo revival.

6. E’ ancora azzurro l’inchiostro sul Calamaio

di Mario Fulgaro, animatore con disabilità del Progetto Calamaio

Ogni apparente insuccesso nasconde in sé la spinta per ricominciare con nuovo e imperioso slancio, in vista di successi ambiti. La nostra storia parte 30 anni fa, come la Nazionale di calcio di Enzo Bearzot che, dopo la deludente débâcle nel corso dei mondiali in Messico del 1986, lasciava il timone di guida alla rinascente Nazionale di Vicini. Così in quello stesso anno nasceva uno sparuto gruppo di audaci che, partendo dall’esperienza all’interno del Centro Documentazione Handicap di Bologna, nato quattro anni prima, aveva il compito di traghettare il tema della Diversità nel grande mondiale dell’Inclusione. Come Vicini, anche gli audaci partivano da una base precedente di talenti da sfruttare al meglio. L’Altobelli della situazione era rappresentato da Claudio Imprudente, bomber di classe e di esperienza. Non era richie- sto alcun successo nell’immediato, ma la semifinale agli Europei, come i primi scritti di Claudio, era un ottimo sprone a proseguire il cammino, affinando sempre più le proprie potenzialità. Così facendo, era inevitabile attirare su di sé le attenzioni di chi fino ad allora era stato distratto da altre innumerevoli vicissitudini. Nasceva il Calamaio, un gruppo lavorativo di quattro persone disabili, che avrebbe aumentato di numero e specificità propria, assumendo nel corso degli anni un ruolo educativo in grado di partire dalle scuole per raggiungere, con i suoi solleticanti e allegri tentacoli, diversi ambiti della società.
Si sapeva di dover giocare in casa nei prossimi mondiali e questo caricava di ulteriore responsabilità ogni scelta che si compiva. I nostri audaci protagonisti di questa fantastica storia non si intimorivano affatto, tanto da rigonfiare il petto in avanti e alzare la testa e lo sguardo verso vette sempre più ambite: “Tutto è raggiungibile se gli sforzi di ognuno sono impiegati per un unico obiettivo, cioè la vittoria!”. Agli assist dei vari Donadoni e Vialli, nelle vesti di Michele Morritti e Alberto Fazzioli, Claudio assumeva sempre più le sembianze del nuovo bomber italiano Totò Schillaci. Le notti magiche venivano così illuminate da idee sempre più fervide e accese dei nostri piccoli e grandi eroi, che ormai da quattro anni avevano gettato le basi per nuovi e ristrutturati stadi da Canicattì a Caorle, aggiungendo nella propria rosa di fuoriclasse talenti quali Andrea Pancaldi, già presente nella primissima formazione, Mauro Sarti e Nicola Rabbi, nelle vesti anche loro di azzurri vincenti, quali Giannini, Baggio e Baresi. Dall’86 il telefono ha cominciato a squillare, chiedendo incontri amichevoli e ufficiali ai nostri campioni superdotati di idee geniali e originali, oltre che a tocchi di rimbalzo dialettico da vere e proprie stelle del firmamento. Il destino in forma di assist da parte di Maradona per Caniggia spezzava solo per un istante l’incanto di una sicura finalissima e audace vittoria da sottoscrivere agli annali della storia sportiva e umana.
Il bronzo a quei mondiali segnava comunque una rivoluzione copernicana, destinata a non interrompersi e a continuare la sua escalation intrepida e ricca di nuovi e rinnovati entusiasmi. Il telefono, infatti, da quel momento ha continuato a raddoppiare, se non triplicare o quadruplicare, i suoi squilli. Le richieste di nuovi incontri non hanno smesso, visto che la nuova équipe trovava una nuova guida in un rinnovato e messo a lucido Claudio, tanto da avere un look molto simile a quello di Arrigo Sacchi. “Ma noo, il gioco del Calamaio adesso si fa sempre più Imprudente! Non resisterà tutto il Mondiale!”. A Nashville, il fuso orario si congiungeva a quello del 2008, dove la nazionale del Calamaio avrebbe disputato, nella nostra storia, un Mundialito di successo; ma ci trovavamo ancora nel 1994, quindi procediamo con ordine: “Grande Giove!” direbbe lo scienziato pazzo “Doc” del film “Ritorno al futuro”. Molti nel ’94 avrebbero giudicato, e forse lo hanno fatto, come un’autentica pazzia quella di catapultare delle persone disabili nelle scuole italiane, a interloquire con inse- gnanti e studenti, ignavi ancora di esperienze alternative e diverse da quelle a cui abitualmente erano sottoposti. Questa volta era super finale con il favoloso Brasile, la cui storia affondava le sue radici nella Trimurti calcistica di Didì, Vavà e Pelè, che altro non erano che la cultura ancora imperante nel ’94 su temi scottanti come l’integrazione, la disabilità e la diversità. Era un rimbalzo dialettico e in itinere quello che vedrà, solo ai calci di rigore, trionfare un vincitore a metà, visto che lo scambio di informazioni e ammiccamenti era ancora in atto e solo all’inizio di nuove tappe da percorrere tutti insieme: Calamaio, scuole e istituzioni. Il compito dei nostri impavidi eroi non ha trovato un suo sereno e appagato epilogo, perché il tema della diversità, ci auguriamo, troverà sempre nicchie da colmare e arricchire di contenuti, sorprendenti e contraddittori nella loro ricchezza. Il superamento dell’imbarazzo, nella forma del vecchio modulo di gioco catenacciaro, o lo scavalcamento del timore, come di antiche logiche di marcamento a uomo, devono e dovranno sempre più trovare il coraggio di sposare forme più audaci e spumeggianti di gioco a zona con pressing. L’Inclusione deve e dovrà macchiare tutti gli spazi del rettangolo di gioco, dipingendo con ironia e autoironia, dapprima i propri animi di vivaci colori e, poi, investire di felice colorazione le tattiche altrui, ancora frenate da logiche obsolete di strategie d’approccio.
Questo era il compito di un rinnovato Calamaio, guidato da una nuova dirigenza tecnica, che trovava il suo originale nome in “Claudio Maldini”. L’apparente regresso verso un gioco più difensivo e riflessivo della nostra nazionale, con capitano l’ormai collaudata ed esperta Stefania Baiesi, trovava il suo ostacolo maggiore nei padroni di casa francesi nel mondiale ’98. Il bagaglio culturale ed esperienziale si arricchiva di più, trovando altri uditori attenti e pronti a imparare dal vissuto altrui. Infatti, a Nashville la nazionale del Calamaio trovava un amichevole e utile torneo pre-mondiale, durante il quale si sarebbe appreso, più che mai, come l’ascolto attento fosse elemento essenziale per ogni insegnamento efficace. Ogni relatore diventava un uditore di nozioni importanti, come chi ascoltava poteva contribuire con osservazioni e pareri al pari indispensabili per un lavoro più compiuto e privo di sciocche lacune, da non perdere e custodire preziosamente, di modo da rielaborarli tutti insieme. La palla rimbalzava tra un rigore francese e un rigore italiano, tra un parere del pubblico e un parere del Calamaio. Tutto arricchiva, in mondovisione, l’intera platea di nozioni e idee, contribuendo ad alimentare una conoscenza enciclopedica che, oltre a nutrirsi di tanti testi in materia di Diversità, metteva in campo tutto il proprio sapere in modo pratico e di scambio. Alla teoria si affiancava la pratica, spalleggiandosi l’una all’altra, da Nashville a Parigi, come da Roma alla potenziale Buenos Aires. Il Calamaio si apriva così, a ogni richiesta, da qualsiasi parte del mondo. Il goal sfiorato da Roby Ghezzo-Baggio, prima della sequela di rigori, faceva comunque ben sperare nel prosieguo di una vincente storia delle nostre nazionali, infatti, da lì a poco c’era la grande possibilità di una rivincita con gli Europei del 2000, recuperando ciò che si pensava aver stupidamente perso. Il Calamaio, sotto la guida tecnica di uno pseudo Dino Zoff, era già pronto a partire, ricco delle esperienze del passato, con una strategia più attendista, in vista di una rinnovata ripartenza in contropiede. La nuova tattica alla Enzo Bearzot sembrava voler sposare il nuovo Calamaio alle sue radici e il tentativo trovava buon esito nella finalissima raggiunta, proprio con i famigerati cugini francesi, ora campioni del mondo. In uno scambio di conoscenze ed esperienze, già vissute e da regalare agli altri, gli interlocutori incantavano ogni platea e non bastava uno Zidane o un Totti (quale Fabio Garavini) per riassumere tutto lì un discorso avviato molti anni prima. Tutto era ancora da scrivere e vivere sulla propria pelle, per tramandare co- noscenze imperdibili alle generazioni future. Lo scambio, infatti, trovava i suoi interlocutori non solo in quello che si viveva nel presente, giorno dopo giorno, ma anche in quello che si era vissuto e in quello che si desiderava vivere in futuro: “Grande Giove!” passato, presente e futuro erano assemblati in un unico spazio temporale, sicché tutto era, è e sarà nella mente di ognuno come un unico indimenticabile ricordo, in grado di ridisegnare l’ottica di tutti da una prospettiva diversa e più arricchente.
Non c’era assolutamente motivo per demordere, anzi, i successi ottenuti spronavano la Nazionale del Calamaio a ricercare nuove energie per ripartire e incantare piacevolmente ogni possibile avversario nei Mondiali del 2002. Novità delle novità era quella di tingere di rosa la figura del nuovo commissario tecnico, nella veste di Sandra Negri-Trapattoni: “Ma sì! Ci sembra la figura più adatta per il nostro storico modulo di gioco!”, “Ma noo! Non ha mica tanta esperienza con la tavoletta di Claudio-Herrera!”. Tutto sembrava riportarci a una tipologia di polemica legata a un passato remoto che, volenti o nolenti, tendeva sempre a riaffacciarsi con prepotenza. Le polemiche pre- partita erano elemento essenziale per la presentazione vincente di qualunque CT della nostra intrepida “Nazionale calamarina”. Gli schemi tattici si confacevano alle caratteristiche dei suoi fuoriclasse, trovando in una sempre giovane e poliedrica formazione del Calamaio, gli assist man per le involate al limite del fuorigioco di Cinzia Pirazzini-Inzaghi. Solo la svista arbitrale di un certo Moreno, alias la scarsa attenzione verso le posizioni, regolari o no, dei giocatori e protagonisti della nostra storia nel rettangolo di gioco, che altro non è che la vita, frenavano il cammino spedito verso una vittoria certa. Nessuno si rendeva conto, in quel momento, che solide basi vincenti erano ormai collaudate e cementate, più degli spinaci di Braccio di ferro: “Per cento pipe!”, alla faccia di Bruto-Moreno! Era nata da poco la Cooperativa Accaparlante ed era più che naturale sentirsi scoperti da ogni protezione di qualsivoglia deus ex machina; ma la funzione educativa della nostra Nazionale era ormai avviata a correggere le altrui storture comportamentali. Con il solo esempio offerto dalle proprie azioni concrete, ci si sentiva di agire alla pari dei presunti superiori popoli nordici. Infatti, il 2 a 2, concordato prima a tavolino e poi in campo, tra le rispettive Nazionali di Danimarca e Svezia nel corso dell’Europeo 2004, sembravano stringere in un angolo di isolamento perdente gli orgogli, mai sopiti, dei vari Gattuso-Galavini, Cannavaro- Parmeggiani. Davanti al televisore, non bastava assistere alle dovute scuse danesi e svedesi per dissipare l’urgente necessità di rivalsa. Cresceva sempre più la consapevolezza nelle proprie potenzialità, da spendere al meglio per raggiungere vette ambite, di modo da goderne i frutti prelibati di ogni successo. Il Calamaio sentiva di poter assolvere in pieno a questo compito di rivincita nei confronti della malasorte, mettendo in campo il meglio di sé, in termini di conoscenza tattica e di esperti su temi a noi cari, come la diversità, la disabilità, l’inclusione, l’integrazione, l’accessibilità, l’autonomia, la consapevolezza di sé.
L’occasione di rivalsa era offerta, due anni dopo, nel corso dei mondiali di Germania 2006, prima dei quali molti davano per perdente la squadra italiana di calcio. Si capiva, più che mai, che occorreva procedere passo dopo passo, come spesso sembra che faccia il Calamaio, senza farsi illusioni di grandi vittorie ma con la convinzione di lasciare, sempre e comunque, una macchia felice e indelebile nelle coscienze.
All’affermazione ottimistica del CT Azzurro, circa lo spirito di gruppo e la coesione dei giocatori da impiegare nel corso del torneo, seguiva un ironico e autocritico mormorio di disappunto: “Ma figurati se abbiamo la possibilità di arrivare in alto!”. La consapevolezza delle proprie potenzialità non bastava, occorreva lavorare, adesso, anche su un percorso di autostima, così anche il Calamaio era pronto a elaborare e affrontare laboratori interni, finalizzati proprio ad accrescere l’autostima dei suoi partecipanti. Lo spirito di gruppo e la voglia di mettersi in gioco, giorno dopo giorno, erano i punti di partenza indispensabili per raggiungere risultati quanto più co- struttivi e vincenti. La prima gara vedeva fronteggiarsi Italia e Ghana e l’avventura mondiale poteva partire, come il Calamaio avviava un percorso più accurato sulla conoscenza di sé, attraverso un riconoscimento e un’analisi più approfonditi delle proprie qualità. Le vittorie per 2 a 0, rispettivamente sul Ghana e sulla Repubblica Ceca, rispecchiavano appieno la doppietta siglata dal Calamaio al suo interno, affrontando, con successo, temi sull’immagine che si ha del proprio corpo e la relazione che ne consegue con il mondo circostante. Per affrontare con successo un avversario, sulla carta superiore o inferiore, occorreva tenere alta la concentrazione, attraverso un riscaldamento che fungeva anche da preparazione psicofisica. Occorreva avere a mente, il più possibile, una conoscenza sensoriale e motoria di sé, partendo da una pausa di riflessione, che permettesse di conoscere innanzitutto l’avversario rappresentato dalle proprie paure. È un esercizio introspettivo che aiuta ad affrontare ogni situazione, comoda o disagevole che sia, per superare ogni ostacolo, dato spesso da quei blocchi mentali che, in modo del tutto naturale, vengono a crearsi. Il Calamaio lasciava il suo iniziale colore grigio per tingersi di curiosità e allegria, rispecchianti più a colorazioni vivaci quali il giallo e l’indaco. L’Australia era il prossimo avversario della Nazionale italiana, mentre il Calamaio, nei suoi partecipanti, doveva scontrarsi, per ognuno, con il proprio alter ego, rappresentato dall’immagine reale nello specchio. Ognuno doveva descriversi nelle sue caratteristiche fisiche, sia positive che in quelle più negative: “Non è affatto facile descrivere se stessi!” esclamavano in tanti. La partita si trascinava stancamente su uno squallido 0 a 0, quando una simulazione di fallo in area di rigore australiana, da parte di Grosso, alias Lorella Picconi, portava l’indice dell’attenzione sul dischetto: “Vorrei essere un alieno con il seno più prosperoso e lo stomaco più piccolo!” affermava Lorella, calciando il rigore della vittoria e aprendo le porte alla prosecuzione di un Mondiale che, solo adesso, attirava le attenzioni anche dei più scettici. Le famiglie, sempre più, venivano coinvolte dalle prodezze degli eroici protagonisti dei match fin qui svoltisi. Dunque tutti davanti ai teleschermi delle proprie coscienze a tifare per risultati da raggiungere e realizzare, inimmaginabili solo fino a quel momento. Tutto taceva di giudizi e critiche, in un ammiccante scambio di emozioni ed entusiasmi a tinte sempre più azzurre: il prossimo ostacolo è rappresentato dall’Ucraina e non bastava nominarla, occorreva anche conoscerla per comprenderne il reale rischio. I membri del Calamaio iniziavano a scambiarsi informazioni su se stessi, facendo conoscere agli altri ciò che di più intimo e più personale si svelava in modo sempre più avvolgente, anche e soprattutto nei momenti di condivisione e relazione diretta, quale ad esempio il momento del pranzo. Così facendo si rivelava a ognuno dei protagonisti qualcosa di proprio, fino ad allora taciuto e nascosto per imbarazzo o rifiuto inconsapevole della disabilità, scambiandolo a beneficio di tutti. Il 3 a 0 sull’Ucraina rappresentava al meglio i tre livelli di crescita e di consapevolezza pre- senti in ogni individuo: la fanciullezza (goal di Zambrotta), quando il bimbo scopre la funzione delle sue capacità motorie in relazione all’ambiente che lo ospita, l’adolescenza (goal di Toni), quando il ragazzo agisce attivamente, modificando e adattando sempre più le sue capacità rispetto all’ambiente e viceversa, l’età adulta (secondo goal di Toni), quando la consapevolezza di sé e del mondo circostante ha raggiunto quasi la sua pienezza. Questi modelli base di comportamento vengono turbati e stravolti dall’evento malattia, sia sul versante della persona disabile che sul versante genitoriale, così il primo goal del Calamaio era siglato da Diego Centinaro, quando affermava che i suoi genitori lo descrivevano come simpatico, bello, buono ma troppo ingenuo per uscire da solo. Quanti, nel Calamaio, hanno trovato punti di contatto comuni con tale descrizione, avviando in modo spontaneo uno scambio di opinioni e di esperienze vissute nel concreto, quotidianamente. Il secondo e terzo goal erano realizzati da Danae Morales, affermando che i suoi genitori la vedono in grado di correre, saltare e giocare a pallone, oltre ad essere in grado di usare il telecomando della tv, scrivere e leggere. Il Calamaio si stava sempre più colorando di un azzurro penetrante, in quel gruppo di sette animatori disabili, due educatori e due volontari, intento tutto a coinvolgere, in un secondo momento, immediatamente successivo, chiunque ne volesse sapere e conoscere. La Germania, padrona di casa, era già pronta ad attenderci nel turno successivo, si trattava della semifinale, e negli azzurri si palesava un certo timore reverenziale. Bisognava tenere a freno la noradrenalina e i corticosteroidi, responsabili di stress e sofferenza psicologica, e guardare negli occhi i nostri avversari e le nostre paure, alzando in su il viso in segno di fierezza e rigonfiando il petto per intimorire ciò che maggiormente spaventava. Si mettevano in campo tutte le proprie capacità, per tenere in equilibrio il sistema nervoso simpatico e parasimpatico, riuscendo, così, a tenere un controllo, quanto più alto possibile, della situazione da affrontare. Si alternavano, con piena lucidità e voglia di sfida, le diverse fasi di allarme e stress con quelle di maggiore calma e tranquillità. L’armonia magica, offerta da quell’alchimia di benessere più intimo e personale, i cui effetti prodigiosi andavano poi a confluire sui confini dell’ambiente esterno, rendevano gli ostacoli da superare meno invalicabili e, per certi versi, più attraenti. Le attenzioni delle nostre due nazionali, quella Azzurra e quella del Cala- maio, erano ormai incentrate verso i “Limoni aurei” dell’Olimpo, dove giganteggia da sempre l’unica “dea della vittoria”. Gli stati d’animo incominciavano a forgiare sempre più un carattere vincente, partendo da un’analisi reverenziale e rispettosa nei riguardi di chi e cosa si trovava di fronte, come avversario o difficoltà da superare. A questo punto, il Calamaio avvertiva l’urgenza di ridisegnare i propri confini esplorativi e di intervento, ampliandoli attraverso la collaborazione con altre realtà culturali, operanti anch’esse attorno al tema della Diversità, intesa come elemento essenziale per avviare un processo di Inclusione. “È stato facile raccontare come è fatto un limone, anche nelle sue ammaccature e imperfezioni!” affermava Francesca Aggio – Totti, iniziando, così, un processo conoscitivo fino ad allora imprevisto, perché forse dato per scontato, ma che finiva con l’interrogare tutti, sul livello di conoscenza e consapevolezza di ciò che si vive. Il pensiero rimbalzava tra una considerazione sull’altro e su di se stesso, in quanto tutti appartenenti a un noi “universale”. In questo scambio introspettivo di valutazioni reciproche, emergeva sempre più l’esigenza di una più profonda consapevolezza delle proprie qualità, da impiegare al meglio per fronteggiare ogni situazione di fuorigioco o di corner o, come per il Calamaio nello specifico, di rimessa con allungamento del proprio corpo per raggiungere un tasto lontano del PC. La frase di Diego Centinaro valeva come il primo gol di Grosso: “Mi sono sentito bene a descrivere il limone, molto meglio che a descrivere me stesso…”. Il secondo gol di Del Piero concludeva l’iperbole di tutto un laboratorio sulla cura di sé con l’affermazione di Stefania Baiesi: “Non sono abituata a delineare i miei parti- colari e una parte del corpo che non uso faccio fatica a raccontarla”. Il proprio corpo esprime sempre, volenti o nolenti, tutto di sé in chiave comunicativa e costruttiva. Le nostre nazionali, cariche del proprio bagaglio culturale ed esperienziale, si avviavano, speranzose, verso la finale di Berlino. Gli occhi luccicavano di speranza e fiducia: “Allora su col morale a suon di Musik, con Schuhplattler a seguito e impregnato di Azzurro vivo del Calamaio!”. Per la finale era già tutto pronto. A fronteggiarsi erano francesi e italiani da una parte e Calamaio e “specchi della coscienza” dall’altra; la tensione e la voglia di sfidare e sfidarsi erano palpabili anche lungo le corde invisibili dell’aria. “Ho sentito il calore nelle gambe, le mie gambe esistono e mi sento grande!”, l’affermazione di Giacomo Romagnoli apriva nel miglior modo possibile ogni scambio di opinioni e di idee, un po’ nello stile di capitan Fabio Cannavaro: “Nel corso di questo Mondiale tutta la squadra è cresciuta ed è diventata un grande gruppo!”. Le nostre nazionali, nelle loro storie, trovavano ancora tanti punti di contatto comuni. La carta stampata e gli esperti, in materia di tatticismi e conoscenza di sé, potevano affinare le proprie conoscenze, confrontandosi direttamente con gli stati d’animo, oltre che quelli fisici dunque, degli atleti in campo. Si sperimentava, così, il piacere come volano per ricaricarsi di energia, per riconnettersi al proprio essere nella sua totalità. Il benessere è una porta girevole, attraverso cui alternativamente scorrono, mutuandosi per mescolarsi, gli appagamenti dei desideri fisici e quelli spirituali. Tutti i laboratori svoltisi all’interno del Gruppo Calamaio rispecchiavano, con sistematicità e in modo del tutto naturale e spontaneo, le caratteristiche peculiari del metodo del suo operare. Si partiva sicuri di affrontare un’esperienza positiva e costruttiva, ogni volta per ogni laboratorio, partendo da un processo di Conoscenza su quello che c’era da affrontare, in relazione al proprio sentire da mettere in comunione, per crescere reciprocamente. L’imbarazzo, a tal proposito, manifestato da Francesca Aggio-Zambrotta nella affermazione “Non mi ero mai guardata allo specchio ed ero in difficoltà a parlarne”, offriva durante il laboratorio sul corpo, il pretesto per una simulazione di fallo in area propria da parte di un avversario da superare, il quale guadagnava un generoso penalty. Il calcio di rigore, calciato a parabola da cucchiaio, da parte di Zidane ai danni di Stefania Baiesi-Buffon, aggiungeva al danno anche la beffa, riassumibile tutta nella frase di Stefania: “Avevo paura di dire le cose di me che mi piacciono e che non mi piacciono, perché ho paura del giudizio!”. Dalla panchina, intanto, giungevano voci di restare calmi e non perdere la bussola, attraverso le parole di Giacomo Romagnoli-Gattuso: “Mi è piaciuto far vedere come sono!”. Allora palla al centrocampo e si ripartiva con spirito battagliero e di strategico tatticismo a zona con pressing, di modo da coprire ogni zolla dell’ambiente che ospitava ogni tipo di disputa, Stadio di Berlino o Sala da pranzo del Calamaio. Le energie, le emozioni e ogni sensazione, anche minima, venivano trasmesse e, costruttivamente, trasferite in uno scambio psicofisico e di approccio stile Tagger. Si combatteva tenacemente su ogni esercizio o palla di rimbalzo, non tralasciando nulla, di modo che nulla fosse dato al caso ma tutto giostrasse attorno. “Mi piacerebbe con tutte le mie forze imparare a cucinare la pasta, mettendola nell’acqua calda!” era la spinta di Danae Morales-Camonaresi per conquistare caparbiamente un corner, da condividere empaticamente e senza indugi con Stefania Mimmi-Materazzi, per il goal del pareggio. Si attraversava e si superava la seconda fase, quella dell’Incontro dell’Altro, dove ogni differenza era varcata, per essere condivisa da tutti, dapprima all’interno del Gruppo Calamaio e poi con chi si incontrava lungo il cammino lavorativo o quotidiano, scoprendo qualcosa più in profondità, come tassello nuovo e indispensabile nella costruzione di una nuova Cultura sull’Handicap e sulla Diversità. Si procedeva a tamburo battente tra un palo di Francesca Aggio-Gilardino: “Io non vorrei andare dentro me stessa, per- ché scoprirei cose che non vorrei” e una traversa di Danae Morales-Camoranesi, rafforzando la convinzione di potercela fare a conseguire ogni vittoria. In questa convinzione, il Calamaio poteva, a pieno titolo, assumere le forme più disparate di uno Scandalo, di fronte al quale chi ne veniva travolto non poteva che controbattere con testata giornalistica, per divulgare al mondo un falso e istintivo diniego. La vittima consapevole era Zidane, come opinione pubblica e sentire comune che si inter- rogavano nel silenzio meditabondo di un’espulsione, nel tentativo di una rivalutazione delle proprie certezze, viste ora da prospettive diverse e spiazzanti. La Grande Forza del Calamaio è quella di rimettere in discussione tutto ciò che è precariamente certo, per ridisegnarne i contenuti di un azzurro sempre più originale e imprevedibile. Ogni dibattito poteva, può e potrà avere inizio, trovando sempre la sua evoluzione cadenzata, naturale e proficua. Trasformare la sfiga in un’appassionante Sfida è il compito primo, come il primo rigore realizzato da Mario Fulgaro-Pirlo, mentre il secondo rigore è rappresentato dal desiderio di mettersi in gioco, assimila- bile a quello di Stefania Mimmi-Materazzi; il terzo di Tatiana Vitali-De Rossi associabile alle dinamiche del gioco di ruolo e dell’immedesimazione, quando l’adrenalina inizia a salire; il quarto di Andrea Mezzetti-Del Piero, sornione e austero al contempo nella sua franchezza disarmante; infine la concretezza di Vittoria del rigore professionale e allegro di tutto il Gruppo Calamaio, nelle vesti azzurre di Grosso: “È sempre azzurro l’inchiostro nel Calamaio!”… To be continued, parola del “Grande Giove”…

5. Perché a scuola. L’esperienza di un maestro

di Alex Corlazzoli, maestro e giornalista

Nessuno mi ha mai fatto un corso sull’autismo: non c’è dirigente che mi abbia mai fatto avere la Legge approvata il 18 agosto del 2015. Nessuno mi ha mai spiegato come affrontare dal punto di vista didattico un dislessico, un discalculico o un disgrafico. So solo che li chiamano DSA: non so quanti siano, non c’è occasione in cui con i colleghi abbiamo letto insieme, in un collegio docenti, la Legge 170 dell’8 ottobre 2010.
Quando sono sbarcato sul pianeta scuola mi è persino capitato di essere catapultato a fare l’insegnante di sostegno senza avere le specifiche competenze: l’importante era coprire un buco, sorvegliare. Non c’è preside che mi abbia mai chiesto: “Maestro ma lei ha mai fatto un’esperienza, anche di volontariato, con i disabili?”. Ecco, l’handicap più grande ce l’ha la Scuola. Sono io il menomato, quello che parte in svantaggio nella realizzazione di quell’inclusione garantita, in teoria, sin dal 1977 dalla Legge 517 e poi dalla Legge 104 del 1992 che puntò poi a una piena integrazione della persona disabile.
Per anni siamo andati fieri della nostra educazione integrata e della lotta all’emarginazione nata con la chiusura degli istituti speciali per disabili e l’inserimento dei ragazzi con disabilità all’interno delle scuole comuni.
Ma non siamo più negli anni Settanta e da quarant’anni la Scuola, i maestri, non si pongono una domanda in maniera schietta, netta e sincera: “Che inclusione stiamo realizzando? Basta avere i ragazzi tra i banchi per poterci vantare della loro integrazione?”.
A farmi riflettere più di ogni altro è stato Mattia, un mio ex alunno con il quale ho scritto il libro Sai maestro che da grande voglio fare il premier (A. Corlazzoli, M. Costa, ADD Editore, 2015): “I nostri insegnanti non aiutano a realizzare davvero un’integrazione. Anzi sembra che si vedano le differenze. Spesso c’è qualche professore che in classe dice: “I DSA che hanno la fotocopia alzino la mano. Se fossi in loro mi vergognerei, mi sentirei etichettato”.
Basta questa frase per comprendere quanta strada dobbiamo ancora fare affinché ogni insegnante sia in grado di entrare in classe e garantire una scuola “aperta a tutti” come cita la Costituzione.
Ma la scuola dell’inclusione è troppo preoccupata e paralizzata dal fare verbali, relazioni, carta su carta per dire che per quel bambino è stato fatto tutto il possibile, dimenticando poi la vita quotidiana.
Una realtà fatta da un’inclusione fasulla, dalla mancanza di insegnanti di sostegno sostituiti da assistenti ad personam pagati otto euro lordi all’ora da cooperative sociali che sfruttano la manodopera di giovani precari neolaureati.
La continuità nel rapporto docente di sostegno–alunno con disabilità è importante non solo nel corso dell’anno scolastico ma anche per l’intero ciclo, eppure secondo l’Istat il 10,8% degli alunni diversamente abili della scuola primaria ha cambiato maestra a lezioni già avviate, così l’8,8% alla secondaria di primo grado.
Ancor più grave notare che il 44,1% dei bambini disabili e il 39,8% dei ragazzi delle medie, a settembre è costretto a conoscere un insegnante di sostegno diverso da quello che ha lasciato a giugno. Certo quest’ultimi sono aumentati ma anche i ragazzi: oggi si contano 110mila docenti per 210.909 alunni con disabilità, uno ogni due allievi in media, nonostante le differenze territoriali siano molto marcate.
Il problema che conoscono molto bene le famiglie delle persone disabili resta quello delle ore dedicate ai loro figli: nel Mezzogiorno si registrano 15,4 ore medie settimanali alle elementari (su 24) e 12,1 ore medie nella scuola secondaria, una cifra che scende rispettivamente a 13,3 e 10,0 al Centro e addirittura a 11,5 e 9,5 al Nord.
Un dramma per mamma e papà: dalle rilevazioni dell’Istat è emerso che il 10% delle famiglie della primaria e il 7% dei ragazzi tra gli 11 e i 13 anni ha presentato ricorso al Tar per ottenere un aumento delle ore.
L’inclusione passa prima di tutto dall’abbattimento di ogni tipo di barriera: mentale, culturale ma anche fisica. Per capire quanto sia falsa la nostra in Italia provate a pensare ai servizi igienici: i ragazzi che non hanno difficoltà hanno i bagni separati a seconda del sesso. Fin dalla scuola materna i maschi hanno i loro servizi igienici e le femmine pure.
Sfido chiunque a segnalarmi un bagno per disabili distinto per genere: questa mancanza è un fattore di ulteriore disagio considerato che in tutte le scuole questa distinzione per gli alunni cosiddetti normodotati esiste da sempre. Che inclusione ci può essere in una scuola che, secondo i dati dell’ultimo rapporto di “Cittadinanza attiva” ha il 18% delle segreterie con le barriere architettoniche? Ostacoli che si trovano anche in sala professori. Così per quanto riguarda le palestre, i laboratori e gli altri spazi, siamo di fronte a una scuola inaccessibile: le aule degli studenti hanno barriere architettoniche nel 29% delle scuole.
 Ma la prima barriera alla reale inclusione è l’ignoranza. La lezione più bella l’ho avuta da una competente terapista che seguiva un ragazzo gravemente autistico che frequentava una scuola dove ho insegnato in passato. Mi propose di fare una serie di lezioni alla classe per spiegare loro cosa aveva il loro compagno. Venne a scuola non tanto per visionare il bambino autistico ma per osservare i compagni. Spiegò loro le risorse, i limiti, le capacità, le competenze del loro compagno. Diede ai ragazzi, ma anche al maestro, la possibilità di sapere, di conoscere, di non ignorare ma di comprendere in maniera quasi scientifica che cos’è l’autismo. Questa è la strada da percorrere. Non ci sarà Decreto delegato utile se prima non faremo un passo in questa direzione.

4. Un’idea forte

di Luca Baldassarre, ex animatore e formatore del Progetto Calamaio

Gli oltre vent’anni passati al CDH sono stati più di un’esperienza professionale, ma un vero percorso di vita che ha accompagnato e scompaginato la mia crescita umana e personale. È stata una fortuna poter condividere ideali forti e grande sintonia con un bel gruppo di lavoro che ha avuto voglia di stare assieme e migliorare. Non a caso siamo riusciti a focalizzare e concretizzare obiettivi importanti. Credo che parte del merito vada riconosciuto a un contesto territoriale favorevole, con una comunità attenta e una rete di servizi sociali davvero all’avanguardia e di prim’ordine, che per parecchi anni ha potuto contare su competenze, idee innovative e risorse economiche importanti.
Venendo a me, dell’esperienza nel Calamaio conservo tutto: le facce e le vite delle persone, la dimensione del gruppo, le soddisfazioni, la fatica e le pesantezze e le tante tantissime risate spensierate. Nel Calamaio sono stato bene. Negli anni in cui ne ho fatto parte ho sentito il fermento creativo e ho visto partorire tanti spunti interessanti che sono diventati anche progetti reali.
Se dovessi scegliere, penso che l’idea forte del Calamaio, la più innovativa e creativa, sia stata quella di proporre le persone con disabilità come educatori e formatori, quando la loro immagine sociale li relegava a un ruolo da utenti di servizi, definendoli “non collocabili al lavoro”. Per me, anche il passaggio da un’associazione di promozione sociale a una cooperativa sociale di produzione lavoro scommetteva su questo. Sul concetto che le persone con disabilità potessero essere parte attiva e partecipata della società, nei limiti e nel rispetto delle proprie difficoltà ma con un protagonismo competente e una funzione da educatori riconosciuta e apprezzata. Il passaggio successivo è stato quello di trovare una mediazione tra questa istanza, di proporsi in un mercato libero con prodotti culturali, e un quadro generale di sostenibilità dell’impresa cooperativa alla luce anche dei bisogni del territorio, dei servizi sociali e delle esigenze delle famiglie.
Pur dentro un mercato protetto, è stato chiaro da subito che la sostenibilità della cooperativa non poteva prescindere dall’affiancare a prodotti culturali a mercato, servizi di natura socio-assistenziale, pagati dalle aziende sanitarie locali o di servizi alla persona, che fornissero risposte alle famiglie. Di qui, la scelta logica di associarsi ad altri enti cooperativi proponendosi come soggetto gestore di servizi educativi, socio riabilitativi e di inserimento lavorativo, rivolti a persone con disabilità.
Non so se questa impostazione sia il giusto compimento alle grandi ispirazioni iniziali ma forse era e resta l’unica strada percorribile…

3. Il nostro Calamaio. Dialogo tra due animatori vecchia data

di Floriana De Nigris e Roberto Ghezzo, ex educatori e formatori del Progetto Calamaio

FLORIANA
Quando Sandra Negri ci ha chiesto di scrivere un articolo sui primi anni del Calamaio ho pensato che sarebbe stato bello intitolarlo così: “Il nostro Calamaio”, un po’ seguendo le orme de “La mia Africa” della Blixen.

ROBERTO
Perché no? Il Calamaio è sempre stato qualcosa di molto personale, inscindibile dalle persone in carne e ossa che lo compongono. Il Calamaio è una dimensione dell’Io e del Noi, del mio e del nostro: abbiamo vissuto un grande senso di appartenenza a questo lavoro. Un Progetto sempre uguale nella ispirazione di fondo e sempre diverso a seconda delle persone che lo compongono. Parlare di come era nei suoi primi anni e parlare di noi stessi è la stessa cosa. Inizia tu.

FLORIANA
Mi chiamo Floriana De Nigris, sono nata a Bologna nel maggio del 1963, ho fatto studi sociopedagogici e avevo già fatto un corso di specializzazione come Tecnico della riabilitazione settore handicap e avevo lavorato per l’AIAS in un servizio di sostegno scolastico nelle scuole elementari prima di entrare nella sede del CDH, la prima sede, quella di via Alamandini: due stanze, credo, o tre… piccole, insomma un buco, sede della rivista “Accaparlante”. Tutte le mattine si faceva una riunione per impostare il lavoro e relazionarsi col resto del gruppo. Talvolta durava più la riunione del lavoro stesso.
C’era un bel fermento: tutti i progetti che dopo sono diventati famosi, e chi conosce il CDH sa di che parlo, erano agli esordi, germogli rivestiti di entusiasmo e forti idea- li. Persone giovani che affiancavano persone giovani con disabilità, tutti sullo stesso piano, fianco a fianco a costruire un mondo nuovo, quella che chiamavamo una nuova cultura dell’handicap. Che bell’aria si respirava! Era la Bologna della cultura e della solidarietà!

ROBERTO
È vero! Anche io, che sono arrivato qualche anno dopo, mi sentivo nel posto giusto proprio per l’atmosfera che tutto poteva essere possibile, tutto si poteva costruire, con un sano ottimismo, realistico, e anche divertimento. Il lavoro con persone con disabilità si trasformava: da noioso, ripetitivo, assistenziale, a qualcosa di coinvolgente, sorprendente, un’avventura. Il Calamaio era un nuovo lavoro che ci trasformava, nei ruoli, nella relazione tra chi era con disabilità e chi non lo era.

 FLORIANA
Infatti, inizialmente ero lì per una borsa lavoro con una ragazza affetta da tetraparesi spastica. Il suo compito era inserire i dati degli abbonati per stampare le etichette per la spedizione della rivista “Accaparlante”. Io ero al controllo perché il lavoro venisse eseguito bene, trainer motivazionale e assi- stente alla toilette naturalmente; è lì che ci ho rimesso la schiena: L1, L2, L3, L4… Era pesantino sollevarla di peso, busto compreso. Ma ero giovane, le volevo bene, era il mio lavoro e pensavo di essere invincibile. Eh sì, perché Stefania era deliziosa e lo è tuttora che ha già tutti i capelli bianchi e qualche rughetta attorno agli occhi: aveva occhi grandi e nocciola, espressivi, con il di- to indice un po’ curvo puntato verso l’alto quando asseriva delle cose inarcando la schiena, con il capo riccioluto all’insù per far uscire fuori meglio la voce. Era dolcissima e lo è tuttora, insisto col concetto!
Naturalmente il lavoro, inserire dati, era noiosissimo: qualche volta sbagliavamo entrambe la dicitura delle etichette (lei a scriverle e io a controllarle: complici?). Apparentemente intente a guardare lo schermo, origliavamo in realtà ciò che avve- niva alle nostre spalle: incontri nelle scuole, handicap come tesoro… tesoro? Quale tesoro? Contatti con le scuole… interessante, altro che abbonati!
Idea geniale: e se anche Stefania cominciasse a collaborare e la borsa lavoro si veicolasse su questo progetto? Detto, fatto! L’idea all’ASL piacque. Ci ritrovammo coinvolte in riunioni, programmazioni, incontri istituzionali e io mi trasformai in animatrice, promotrice, ideatrice di percorsi didattici. Stefania è diventata col passare del tempo una bravissima animatrice nelle scuole, un lavoro molto più gratificante e creativo che inserire dati!
Mi venne in mente che ogni incontro doveva essere pagato. All’inizio chiedemmo un contributo forfettario e negli incontri iniziali, quelli più importanti (io non avevo ancora esperienza) ci aiutò Andrea Pancaldi, il coordinatore storico del CDH. Una volta preso il coraggio, certi del significato e dell’importanza di ciò che si proponeva, stabilimmo un giusto tariffario e non fu cosa da poco, perché ogni progetto deve avere un proprio sostentamento, una base solida.

ROBERTO
Questa è stata un’idea fondamentale, l’essere pagati per un lavoro professionale svolto da persone con disabilità nel ruolo di animatori protagonisti. È qualcosa che ha cambiato qualitativamente tutto, lasciandosi definitivamente alle spalle una certa mentalità pietistica e instradando il gruppo del Calamaio verso una consapevolezza più alta, una maggiore autostima, direi.

FLORIANA
Se ci pensi sono passati 30 anni e il progetto esiste ancora e conta 20 persone al suo attivo. Se non ci fosse stata una base solida sarebbe stata una bellissima e brevissima meteora (e, nel sociale, quante se ne vedono in giro). Iniziammo a differenziare gli interventi per gli ordini di scuola e contattammo Regione, Provincia, Comune, Provveditorato, Assessori Scuola e Cultura, Direttori, Presidi, Associazioni: quante porte bussate!
Toc, Toc… Toc, Toc… Lunetta Gamberini: siamo ora nella nuova sede. Riunione con Imprudente, il suo obiettore Luigi Burzi, Stefani Baiesi, io… Toc, Toc… È Fazzioli, un handy che gioca a calcetto in carrozzina, collabora al CDH da un sacco di tempo, questa mattina col suo nuovo operatore: Roberto Ghezzo!

ROBERTO
Eccomi qua. Il mio Calamaio è iniziato per puro caso: l’allora responsabile degli educatori dell’AIAS di Bologna, Rita Serra, mi aveva chiesto di fare l’assistente domiciliare di Alberto Fazzioli, un ragazzo con tetraparesi spastica. Dovevo prelevarlo da casa e portarlo al CDH, in via degli Orti 60. 16 ore settimanali. A tempo determinato.
Era il mio primo lavoro vero (mi ero laureato in Filosofia a Venezia e durante il periodo di obiezione di coscienza mi ero interessato alla disabilità): un’amica, con la quale avevo fatto il volontario in una vacanza a Fano organizzata dall’ANFFAS, mi aveva detto che cercavano persone all’AIAS.
Ho iniziato così, portando Alberto al CDH che allora era vicino a casa mia: il CDH era una piccola struttura piacevole inserita in un bel parco, tutto piano terra senza barriere, vicino a un centro anziani. Alberto si occupava della società sportiva S.P.Q.R., Sportivi a Quattro Ruote, che aveva inventato il calcetto in carrozzina. Dentro al CDH era tutto un ribollire di idee e attività: la rivista HP, la biblioteca e ovviamente il Progetto Calamaio. Mi colpivano le persone, alcune decisamente intellettuali, altre più creative, l’ambiente era allegro, sereno, fuori dagli schemi per essere un luogo di lavoro. Mi aspettavo di trovarmi di fronte a un centro riabilitativo o qualcosa del genere, e invece l’attenzione non era centrata sulla disabilità delle persone, ma sulla loro creatività, sulla loro voglia di costruire una “nuova cultura dell’handicap”, allora la chiamavamo così.
La giornata iniziava invariabilmente attorno a un tavolo per la riunione quotidiana e poi ci si metteva a lavorare in maniera individuale. È stato a quel tavolo che una volta, trovandomi da solo e un po’ spaesato, ho provato a comunicare con Claudio Imprudente, che era lì che mi fissava, attendendo il momento in cui avrei avuto voglia di prendere in mano la lavagnetta trasparente che gli permette di comunicare. Pensare a quante cose abbiamo fatto da allora con quel primo gruppo di persone mi riempie di orgoglio.
La formazione base era costituita dai disabili Claudio, Stefania, Cinzia e Alberto, con gli operatori Floriana, Roberto e Luca, che aveva iniziato come obiettore a Maranàtha e poi si era trasformato in operatore di Claudio. Ma la distinzione disabili-operatori era più per l’esterno, per i rapporti formali. In realtà ci sentivamo parte di un unico gruppo di persone che aveva in mente un ideale: ridurre l’handicap a livello culturale, con tutta la creatività e immaginazione che avevamo.
1992. Mi ricordo i primi incontri in una scuola materna, a Borgo Panigale: gli incontri del Calamaio di Claudio funzionavano alla grande, sia alle elementari che alle medie e ancor meglio alle superiori. Ma la materna è stata un’incognita… Come parlare di disabilità con bambini di 4-5 anni? Mi ricordo con affetto e gratitudine Andrea Canevaro, il nostro nume tutelare, che alla riunione con i genitori e le maestre ci aiutava a spiegare le ragioni del Calamaio, dell’integrazione possibile.

 FLORIANA
E da allora, Roberto, il mio Calamaio è diventato anche il tuo Calamaio perché tu non ti sei solo incuriosito, ti sei appassionato e hai sposato la causa: tanto che io nel 1995 andrò via e tu invece ti fermerai ancora 10 anni. Finalmente non ero più sola. Qualcuno potrebbe protestare: gli obiettori con i quali ho lavorato prima di te, e ne ho contati diversi, andavano e venivano, ogni anno dovevo rispiegare tutto. Certo a ognuno di loro devo tanto, ma in primis devo tanto a Claudio Imprudente, il disabile che per primo ha costruito l’idea coniandola sulla propria persona, come un bel vestito cucito su misura, l’idea del Progetto Calamaio. Carta e penna, parole e sguardi, inchiostro e incontri, parliamo della disabilità ma con una piccola-grande rivoluzione copernicana: protagonista è la persona con disabilità che parla di sé. Il motto era: non più sull’handicap, ma con l’handicap. Idea geniale, frutto di Claudio Imprudente e del suo collaboratore dei primi anni, Triche (Marco Tibaldi).

ROBERTO
È vero Flò, il Calamaio è soprattutto fatto di incontri, a tu per tu, a tu per noi, a noi per voi… Sempre incontri, inviti a pranzo, contatti per vedersi all’ora x nel posto y per incontrare bambini, famiglie, insegnanti, in tutta Italia. Quando ti muove un sogno, una causa importante, alla fine incontri persone che credono in quello che credi anche tu. Si fa contatto: in modo naturale, sembra di averli conosciuti da sempre, ci si incontra ma è quasi come fosse un rincontrarsi. Ho in mente un sacco di volti amici, persone che ci hanno voluto bene e a cui noi abbiamo voluto bene, con le quali ci siamo fatti un sacco di risate o abbiamo condiviso un’emozione.

FLORIANA
E cresci… cresci personalmente, cresci professionalmente, cresci senza accorgertene, cresci senza sforzo, come una pianta che non può fare a meno di crescere, partendo dal germoglio che con forza prorompente spacca l’involucro, contrasta la forza di gravità e sale facendosi spazio in quella terra fredda e nuda di Carducci per uscire allo scoperto e guardare il cielo. È stata dura, in fase iniziale, per il Calamaio rompere il germoglio. Ma non avevamo detto senza sforzo? Sì ma non da subito. Il primo germoglio da rompere eravamo noi stessi, il nostro pregiudizio. Col tempo siamo anche diventati consapevoli che poteva essere un limite contare troppo su un’immagine di disabilità vincente. Tetraparesi sì, con tanto di carrozzina: ma quanta intelligenza però, quanta sensibilità… e che arguzia… fanno pure le battute spiritose. Ci rendevamo conto che agli occhi degli altri si poteva passare per fenomeni, per l’eccezione che conferma la regola, passando dall’immagine perdente e pietistica verso un’altra immagine altrettanto costruita e perdente, saltando a piè pari la normalità.
L’autoconsapevolezza, costruita giorno per giorno attraverso il dialogo tra di noi, cresceva unita a tanto entusiasmo e ottimismo per i risultati raggiunti, grazie agli incontri e al dialogo con persone che ci aiutavano a crescere. Tutta questa positività in parte guadagnata con le fatiche di una vita, in parte costruita come una riserva per i periodi di vacche magre, andava di tanto in tanto scaricata per costruire altre certezze, altre possibilità: non è forse vero che bisogna levare l’attracco e prendere il mare aperto per trovare nuovi porti, nuovi paesi e genti?

ROBERTO
Il Calamaio è stato un lavoro continuo che ci ha trasformato. Io all’inizio, agli incontri di animazione soprattutto con i più piccoli, ero un po’, come dire, di legno, piuttosto cerebrale: poi imparando da te mi sono lasciato contagiare dalla magia dell’animazione, del divertirsi imparando. Credo che la specificità del Calamaio, che poi non ho sperimentato in nessun altro luogo di lavoro, stia nel coniugare l’attenzione alle persone (i loro ritmi, le loro capacità, i loro talenti, le loro difficoltà) con la ricerca dell’efficacia, del risultato di qualità, sempre perseguiti attraverso il benessere di un lavoro creativo, che coinvolge tanti aspetti di noi. La piccola comunità del Calamaio, inserita nella piccola comunità del CDH, è la riprova che se le persone stanno bene, vengono riconosciute, allora riescono a comunicare agli altri benessere. Tutte le persone che abbiamo incontrato (in particolar modo, secondo me, i genitori di persone con disabilità) ci hanno riconosciuto una capacità di vivere la disabilità non in modo passivo ma attivo, consapevole (talora imprudente e incosciente!), insomma vivo e creativo. Questo è l’aspetto filosofico che mi ha entusiasmato e tuttora, adesso che faccio l’insegnante di sostegno, mi entusiasma, mi acchiappa, mi sorprende: la disabilità non tanto come oggetto di cura, di assistenza, di conoscenza specialistica, ma come punto di vista sul mondo, come prospettiva che tiene conto del limite e delle risorse di tutti, uscendo dalla logica della riserva, degli addetti ai lavori, per farsi patrimonio di bellezza e creatività di un contesto, di una comunità. Il nostro Calamaio fa parte della nostra storia, ci ha aiutato a trasformarci in quello che siamo diventati e tu, cara Flò, sei diventata naturopata.

FLORIANA
Eri di legno, ma di legno buono, di quel legno che se lo metti nel camino, il fuoco dura e si spande un gradevole profumo. Ma bisogna bruciarlo quel legno perché questo avvenga e tu hai accettato di ardere. Di legno, mica poi tanto… Suonavi, scaricavi carrozzine, materiali, e poi suonavi ancora le note delle nostre canzoncine che cantavamo assieme ai bimbi e io ho creduto persino di essere intonata mentre cantavo a squarciagola “Sveglia il mattino e guardalo con gioia”, nel pratone della scuola materna di Borgo Panigale di fronte a centinaia di persone fra bambini, nonne, genitori, insegnanti. Tutti insieme a guardare con gioia i due orsi, Alberto Fazzioli e Stefania Baiesi, che hanno rischiato più volte di morire di caldo nel loro travestimento di pelliccia (le feste di fine anno naturalmente si fanno a fine maggio) e tutti i piccoli nei loro vestitini, animaletti, fiori, farfalle, attorno, a quei due handicappati che anziché essere utenti erano animatori.
In effetti, a ripensarci, sembravamo una famiglia. Mi è sempre piaciuto creare dei varchi, sperimentare e nello steso tempo fare casa. Lavorare e fare casa curando i rapporti nella quotidianità in un clima familiare, di impegno ma anche di divertimento.
Quando andavamo in trasferta con Claudio, la Baiesi, il Fazzioli, Toschi, la Cinzia, guai a non divertirsi! Il clima buono e festaiolo era uno degli elementi indicatori che le cose stavano procedendo bene e fu questo stare bene insieme a essere il segreto del nostro successo.
Eravamo come un virus, contagiavamo: i bambini, i ragazzi, i genitori e pure gli insegnanti e anche gli assessori che, contagiati, riuscivano a trovare con mille escamotages i finanziamenti, spulciando i comma di leggi e leggine per investire su di noi, sulla buona scuola, quella buona davvero, quella che fa stare bene.
Ma stare bene secondo quale tipo di concezione? Si può parlare di benessere e disabilità? Questa è una buona domanda. È un ossimoro o realtà vivibile e fattibile?
Facciamoci aiutare dalle immagini, linguaggio di antichi archetipi. Quando diciamo benessere subito pensiamo ai centri con terme e beauty farm, candele accese e orchidee, vapori e mani sapienti che decontraggono anche l’impossibile… e poi suggestioni di aromi che attivano e disattivano, fragranze che dialogano con l’infinito.
E la disabilità, come si colloca al mondo delle fragranze? Il contatto con la disabilità avrà un effetto de-stressante? Un buon incontro con la disabilità crea un’essenza? Il Progetto Calamaio nelle scuole, una presenza qualitativamente gradevole ed efficace, non continua forse tutt’oggi a creare quella scenografia olfattiva la cui fragranza dipende dalla presenza di ognuno (disabili e non)? E allora qualcosa di antico, di profondo, di arcaico, viene risvegliato. Da cosa? Dal torpore dei consumi, dell’omologazione, del sempre uguale, del “non si può fare perché è inutile”, dal torpore della morte che non muore mai e non morendo ti logora, ti consuma, ti spegne ciò che non ha mai acceso, senza che tu lo sappia, che tu te ne accorga, così non fai in tempo neppure a reagire.
Ma c’è un ricordo che qualcuno ha risvegliato…c’è un profumo che persiste, come se fosse un primo ricordo, che risale all’infanzia. Cos’è questo odore che mi fa star male, che se lo prendo anche in dose massiccia mi fa star bene?
Allora abbondiamo, senza misura, dove non c’è misura, dove ci si apre al crescendo e il troppo non dà disgusto. Chi l’ha mai detto che la via giusta è quella che sta nel mezzo?
Il mezzo non sa di niente, non sta né da una parte né dall’altra, il mezzo è mezzo mica è uno! E io voglio l’uno, io sono l’uno.
Il Calamaio: tanti uni ma per fare gli uni e gli altri. Come fanno gli altri a stare senza gli uni? Noi, uno+uno+uno, noi uni del Calamaio, volevamo essere uni per incontrare altri uni, quelli interi, mica mezzi, mica pressappoco.
E mentre cercavamo questo, si spandeva quell’odore strano, quell’odore che riguarda me, che riguarda te, che ci fa riconoscere, quell’odore che fa rima con amore, dolore, sapore, migliore, valore… Un odore che è come un colore, quello del cuore.

2. I Fab Four

Le origini del Calamaio secondo Claudio Imprudente.

In principio furono i Fab Four. Io, Michele Morritti, Andrea Tinti e Alberto Fazzioli, tutti e quattro persone con disabilità, con cui ci incontravamo a casa mia tre mattine a settimana, a Bologna in zona Corticella. Insieme ad Alberto c’era anche Andrea Pancaldi, un ragazzo che all’epoca faceva l’obiettore di coscienza all’AIAS (Associazione Italiana Assistenza Spastici), venti mesi in tutto.
Prima però riavvolgo il nastro e vi riporto alle origini dell’antefatto.
Era il 1968, anni di contestazione a Bologna e nel mondo, anni di apertura, di ricerca di una cultura e di un’educazione nuove, anni di uomini grandi come il sindaco Giuseppe Dozza che aveva appena terminato il suo mandato insieme al cardinale Lercaro, anni in cui imperversavano gli hippies, le minigonne e i Beatles cambiavano la storia del rock.
Un panorama pieno di vita insomma in cui i quattro di Liverpool non erano certo i soli giovani scarafaggi irrequieti. Ogni scarrafone d’altronde è bell’a mamma soja ed è sulle note di “Imagine” che quattro ragazzetti senza molti peli sulla lingua cominciavano a muovere i loro primi passi nella città delle due Torri.
Ovviamente sto parlando di me, Michele, Andrea e Alberto, un’amicizia di lunga data, la nostra, condivisa sui banchi di scuola, a cominciare dalle elementari alla Scuola Beltrame, all’epoca delle scuole speciali, tutti e tre nella stessa classe. Quando è arrivata la legge sull’integrazione scolastica, nel ’77, alle scuole medie “Irma Bandiera” ci siamo divisi, stessa scuola ma classi diverse, eccetto io e Alberto, per il quale rappresentavo un riferimento importante e che la nostra insegnante ha cercato di inserire con me. Non per questo mancavano gli incontri con Michele e Andrea nei corridoi, parlando di calcio, giochi e fughini.
Alle superiori c’è stata la diaspora, io ho fatto lo scientifico, Alberto le magistrali, Andrea il classico e Michele ragioneria. Il pomeriggio però ci si ritrovava tutti al cosiddetto Centro Bernardi, il Centro Riabilitazione Spastici di Bologna, in via Bernardi per l’appunto, dove, tra un esercizio e l’altro, ci si scambiava opinioni e ci si confrontava.
Sullo sfondo, ad accompagnare i nostri passaggi di vita e le battaglie per l’integrazione c’era sempre l’AIAS, a cui avevamo aderito già alle medie, quando a scuola, inviavano gli obiettori di coscienza ad affiancarci e si creavano subito forti legami. Ovviamente dietro c’erano anche le famiglie, famiglie rivoluzionarie, che non avevano paura di in- ventare soluzioni prima ancora di cercarle. Così, una volta terminate le superiori, ci siamo guardati intorno e insieme a tutto questo gruppo di persone ci siamo chiesti: “E adesso? Che cosa combiniamo? Chi ce lo trova un lavoro? E soprattutto quale?”.
Io, Michele, Andrea e Alberto cominciammo allora a incontrarci più spesso, per stare insieme ma anche con l’idea di cominciare un’ipotetica attività. Da lì è nato il primo nucleo del CDH, il Centro Documentazione Handicap che oggi conoscete, costituito quindi da Imprudente, Morritti, Tinti, Fazzioli e il giovane Pancaldi, che citavo all’inizio, a cui si è poi aggiunto Mauro Sarti, oggi noto giornalista, che ha cominciato a fare l’obiettore di coscienza affiancando Andrea e insieme abbiamo continuato il lavoro, prima dell’82. Successivamente abbiamo trovato una sede per il CDH, all’interno dell’AIAS.
Là in via Alamandini, nei pressi di via Mirasole a Porta San Mamolo, sempre a Bologna, è proseguito il tutto.
Il Professor Andrea Canevaro, allora pedagogista e ricercatore presso l’Università di Bologna, che già bazzicava la nostra realtà, ci ha poi donato 100 libri per cominciare così a concretizzare la nostra idea, quella cioè che per rendere visibile la disabilità bisognasse cominciare a parlarne, da lì l’idea di fare documentazione e soprattutto la nascita di una domanda fondamentale: “Che cosa può fare un disabile grave per la società e non viceversa?”.
Prima di documentare ci siamo infatti resi conto che era anche importante informare e soprattutto pensare a come fare un’informazione che mettesse al centro la faccia e il ruolo delle persone con disabilità, che fossero presenti, visibili e riconosciute con un’immagine corrispondente alla realtà, che superasse il pietismo, la paura e i pregiudizi, proprio come cantava Lennon in “Imagine”.
Cominciammo a farlo con un giornalino fotocopiato in bianco e nero, il primo numero di “HP-Accaparlante”, allora solo “Accaparlante”, che fece subito discutere, dalla scelta del nome che pretendeva di dare voce a una lettera muta, contrapponendosi provocatoriamente a una rivista allora in voga e dedicata alla disabilità chiamata proprio “H muta”.
Dopodiché da cosa nasce cosa ed essendosi sparsa la voce che era nato il Centro Documentazione Handicap la gente chiamava Andrea per avere delle informazioni su quello che il Centro offriva e sui nostri progetti. Un bel giorno ci ha telefonato una scuola di Finale Emilia, chiedendoci di parlare di diversità ai loro bambini.
Andrea mi ha detto: “Aoh, Claudio, io da solo non me la sento, se vuoi proviamo insieme”. E io ho accettato. L’incontro ha avuto un gran successo e da lì è cominciata un’altra storia. Io usavo ancora la tavoletta di legno e una cosa del genere rappresentava per me una grossa novità oltre che una grande sfida. Come posso fare a raccontare ai bambini cos’è la diversità in maniera diretta e accattivante? Parlando il loro linguaggio, questa fu la mia risposta di allora, e fu così che nacque la favola di Re 33 che gettò le basi di quello che poi nel 1986 sarebbe diventato il Progetto Calamaio, un contenitore e un gruppo di persone disabili e non (e non più solo io) che con il suo passaggio ha cominciato a macchiare la realtà della scuola, lasciando il segno dell’inclusione e della creatività.
Grazie a Re 33, infatti, la voce che c’erano persone con disabilità e non che insieme raccontavano ai bambini la diversità con il gioco e l’ironia è diventata insistente e insieme a lei le richieste di incontri e laboratori, che si sono poi sviluppati molto lentamente in fieri, mentre ruotavano obiettori di coscienza, operatori, volontari e si inserivano nuove persone con disabilità inviata dall’AIAS, che piano piano hanno accresciuto e modificato la storia del gruppo. Tra i molti che sono passati ricordo con affetto Lorenzo Fanti, un caro amico che abitava nel mio quartiere, a Corticella, e che stava praticamente tutto il giorno con me, ventiquattro ore su ventiquattro.
Persone, informazione e educazione, queste sono state le parole che hanno cominciato a scrivere la storia del CDH e parallelamente del Progetto Calamaio, una storia che cambia di anno in anno, così come cambiano le persone con disabilità, oggi con molti più diritti ma non ancora completamente incluse, così come cambiano le politiche, i confini, il mondo del lavoro, della comunicazione, i giovani e i nuovi cittadini in fuga con cui sempre più ci troviamo a confronto.
Fare memoria di questo percorso vuol dire oggi prendere in mano le nostre origini per non smettere di scrivere la storia, la nostra storia. Lo scenario che ora si apre è infatti molto più ampio di quello dei primi anni Settanta e non si limita più al semplice tessuto sociale.
Ora siamo chiamati a mescolarci. Mescolarci nella cultura, nella politica, nello sport, nell’arte e nel tempo libero, creare una cultura di pace che abbia nella diversi- tà il suo valore. Sporcarsi le mani per un mondo più pulito.
Perché la storia siamo noi, cantava Francesco De Gregori, anche lui, insieme ai Beatles uno dei preferiti dei Fab Four di Corticella.

E poi la gente [Perché è la gente che fa la storia]
Quando si tratta di scegliere e di andare
Te la ritrovi tutta con gli occhi aperti
Che sanno benissimo cosa fare:
Quelli
che hanno letto milioni di libri
E quelli che non sanno nemmeno parlare;
Ed è per questo che la storia i brividi,
Perché nessuno la può fermare.
La storia siamo noi, siamo noi padri e figli,
Siamo noi, bella ciao, che partiamo
La storia non ha nascondigli, la storia non passa la mano.
La storia siamo noi
Siamo noi questo piatto di grano.