Skip to main content

3. Il nostro Calamaio. Dialogo tra due animatori vecchia data

di Floriana De Nigris e Roberto Ghezzo, ex educatori e formatori del Progetto Calamaio

FLORIANA
Quando Sandra Negri ci ha chiesto di scrivere un articolo sui primi anni del Calamaio ho pensato che sarebbe stato bello intitolarlo così: “Il nostro Calamaio”, un po’ seguendo le orme de “La mia Africa” della Blixen.

ROBERTO
Perché no? Il Calamaio è sempre stato qualcosa di molto personale, inscindibile dalle persone in carne e ossa che lo compongono. Il Calamaio è una dimensione dell’Io e del Noi, del mio e del nostro: abbiamo vissuto un grande senso di appartenenza a questo lavoro. Un Progetto sempre uguale nella ispirazione di fondo e sempre diverso a seconda delle persone che lo compongono. Parlare di come era nei suoi primi anni e parlare di noi stessi è la stessa cosa. Inizia tu.

FLORIANA
Mi chiamo Floriana De Nigris, sono nata a Bologna nel maggio del 1963, ho fatto studi sociopedagogici e avevo già fatto un corso di specializzazione come Tecnico della riabilitazione settore handicap e avevo lavorato per l’AIAS in un servizio di sostegno scolastico nelle scuole elementari prima di entrare nella sede del CDH, la prima sede, quella di via Alamandini: due stanze, credo, o tre… piccole, insomma un buco, sede della rivista “Accaparlante”. Tutte le mattine si faceva una riunione per impostare il lavoro e relazionarsi col resto del gruppo. Talvolta durava più la riunione del lavoro stesso.
C’era un bel fermento: tutti i progetti che dopo sono diventati famosi, e chi conosce il CDH sa di che parlo, erano agli esordi, germogli rivestiti di entusiasmo e forti idea- li. Persone giovani che affiancavano persone giovani con disabilità, tutti sullo stesso piano, fianco a fianco a costruire un mondo nuovo, quella che chiamavamo una nuova cultura dell’handicap. Che bell’aria si respirava! Era la Bologna della cultura e della solidarietà!

ROBERTO
È vero! Anche io, che sono arrivato qualche anno dopo, mi sentivo nel posto giusto proprio per l’atmosfera che tutto poteva essere possibile, tutto si poteva costruire, con un sano ottimismo, realistico, e anche divertimento. Il lavoro con persone con disabilità si trasformava: da noioso, ripetitivo, assistenziale, a qualcosa di coinvolgente, sorprendente, un’avventura. Il Calamaio era un nuovo lavoro che ci trasformava, nei ruoli, nella relazione tra chi era con disabilità e chi non lo era.

 FLORIANA
Infatti, inizialmente ero lì per una borsa lavoro con una ragazza affetta da tetraparesi spastica. Il suo compito era inserire i dati degli abbonati per stampare le etichette per la spedizione della rivista “Accaparlante”. Io ero al controllo perché il lavoro venisse eseguito bene, trainer motivazionale e assi- stente alla toilette naturalmente; è lì che ci ho rimesso la schiena: L1, L2, L3, L4… Era pesantino sollevarla di peso, busto compreso. Ma ero giovane, le volevo bene, era il mio lavoro e pensavo di essere invincibile. Eh sì, perché Stefania era deliziosa e lo è tuttora che ha già tutti i capelli bianchi e qualche rughetta attorno agli occhi: aveva occhi grandi e nocciola, espressivi, con il di- to indice un po’ curvo puntato verso l’alto quando asseriva delle cose inarcando la schiena, con il capo riccioluto all’insù per far uscire fuori meglio la voce. Era dolcissima e lo è tuttora, insisto col concetto!
Naturalmente il lavoro, inserire dati, era noiosissimo: qualche volta sbagliavamo entrambe la dicitura delle etichette (lei a scriverle e io a controllarle: complici?). Apparentemente intente a guardare lo schermo, origliavamo in realtà ciò che avve- niva alle nostre spalle: incontri nelle scuole, handicap come tesoro… tesoro? Quale tesoro? Contatti con le scuole… interessante, altro che abbonati!
Idea geniale: e se anche Stefania cominciasse a collaborare e la borsa lavoro si veicolasse su questo progetto? Detto, fatto! L’idea all’ASL piacque. Ci ritrovammo coinvolte in riunioni, programmazioni, incontri istituzionali e io mi trasformai in animatrice, promotrice, ideatrice di percorsi didattici. Stefania è diventata col passare del tempo una bravissima animatrice nelle scuole, un lavoro molto più gratificante e creativo che inserire dati!
Mi venne in mente che ogni incontro doveva essere pagato. All’inizio chiedemmo un contributo forfettario e negli incontri iniziali, quelli più importanti (io non avevo ancora esperienza) ci aiutò Andrea Pancaldi, il coordinatore storico del CDH. Una volta preso il coraggio, certi del significato e dell’importanza di ciò che si proponeva, stabilimmo un giusto tariffario e non fu cosa da poco, perché ogni progetto deve avere un proprio sostentamento, una base solida.

ROBERTO
Questa è stata un’idea fondamentale, l’essere pagati per un lavoro professionale svolto da persone con disabilità nel ruolo di animatori protagonisti. È qualcosa che ha cambiato qualitativamente tutto, lasciandosi definitivamente alle spalle una certa mentalità pietistica e instradando il gruppo del Calamaio verso una consapevolezza più alta, una maggiore autostima, direi.

FLORIANA
Se ci pensi sono passati 30 anni e il progetto esiste ancora e conta 20 persone al suo attivo. Se non ci fosse stata una base solida sarebbe stata una bellissima e brevissima meteora (e, nel sociale, quante se ne vedono in giro). Iniziammo a differenziare gli interventi per gli ordini di scuola e contattammo Regione, Provincia, Comune, Provveditorato, Assessori Scuola e Cultura, Direttori, Presidi, Associazioni: quante porte bussate!
Toc, Toc… Toc, Toc… Lunetta Gamberini: siamo ora nella nuova sede. Riunione con Imprudente, il suo obiettore Luigi Burzi, Stefani Baiesi, io… Toc, Toc… È Fazzioli, un handy che gioca a calcetto in carrozzina, collabora al CDH da un sacco di tempo, questa mattina col suo nuovo operatore: Roberto Ghezzo!

ROBERTO
Eccomi qua. Il mio Calamaio è iniziato per puro caso: l’allora responsabile degli educatori dell’AIAS di Bologna, Rita Serra, mi aveva chiesto di fare l’assistente domiciliare di Alberto Fazzioli, un ragazzo con tetraparesi spastica. Dovevo prelevarlo da casa e portarlo al CDH, in via degli Orti 60. 16 ore settimanali. A tempo determinato.
Era il mio primo lavoro vero (mi ero laureato in Filosofia a Venezia e durante il periodo di obiezione di coscienza mi ero interessato alla disabilità): un’amica, con la quale avevo fatto il volontario in una vacanza a Fano organizzata dall’ANFFAS, mi aveva detto che cercavano persone all’AIAS.
Ho iniziato così, portando Alberto al CDH che allora era vicino a casa mia: il CDH era una piccola struttura piacevole inserita in un bel parco, tutto piano terra senza barriere, vicino a un centro anziani. Alberto si occupava della società sportiva S.P.Q.R., Sportivi a Quattro Ruote, che aveva inventato il calcetto in carrozzina. Dentro al CDH era tutto un ribollire di idee e attività: la rivista HP, la biblioteca e ovviamente il Progetto Calamaio. Mi colpivano le persone, alcune decisamente intellettuali, altre più creative, l’ambiente era allegro, sereno, fuori dagli schemi per essere un luogo di lavoro. Mi aspettavo di trovarmi di fronte a un centro riabilitativo o qualcosa del genere, e invece l’attenzione non era centrata sulla disabilità delle persone, ma sulla loro creatività, sulla loro voglia di costruire una “nuova cultura dell’handicap”, allora la chiamavamo così.
La giornata iniziava invariabilmente attorno a un tavolo per la riunione quotidiana e poi ci si metteva a lavorare in maniera individuale. È stato a quel tavolo che una volta, trovandomi da solo e un po’ spaesato, ho provato a comunicare con Claudio Imprudente, che era lì che mi fissava, attendendo il momento in cui avrei avuto voglia di prendere in mano la lavagnetta trasparente che gli permette di comunicare. Pensare a quante cose abbiamo fatto da allora con quel primo gruppo di persone mi riempie di orgoglio.
La formazione base era costituita dai disabili Claudio, Stefania, Cinzia e Alberto, con gli operatori Floriana, Roberto e Luca, che aveva iniziato come obiettore a Maranàtha e poi si era trasformato in operatore di Claudio. Ma la distinzione disabili-operatori era più per l’esterno, per i rapporti formali. In realtà ci sentivamo parte di un unico gruppo di persone che aveva in mente un ideale: ridurre l’handicap a livello culturale, con tutta la creatività e immaginazione che avevamo.
1992. Mi ricordo i primi incontri in una scuola materna, a Borgo Panigale: gli incontri del Calamaio di Claudio funzionavano alla grande, sia alle elementari che alle medie e ancor meglio alle superiori. Ma la materna è stata un’incognita… Come parlare di disabilità con bambini di 4-5 anni? Mi ricordo con affetto e gratitudine Andrea Canevaro, il nostro nume tutelare, che alla riunione con i genitori e le maestre ci aiutava a spiegare le ragioni del Calamaio, dell’integrazione possibile.

 FLORIANA
E da allora, Roberto, il mio Calamaio è diventato anche il tuo Calamaio perché tu non ti sei solo incuriosito, ti sei appassionato e hai sposato la causa: tanto che io nel 1995 andrò via e tu invece ti fermerai ancora 10 anni. Finalmente non ero più sola. Qualcuno potrebbe protestare: gli obiettori con i quali ho lavorato prima di te, e ne ho contati diversi, andavano e venivano, ogni anno dovevo rispiegare tutto. Certo a ognuno di loro devo tanto, ma in primis devo tanto a Claudio Imprudente, il disabile che per primo ha costruito l’idea coniandola sulla propria persona, come un bel vestito cucito su misura, l’idea del Progetto Calamaio. Carta e penna, parole e sguardi, inchiostro e incontri, parliamo della disabilità ma con una piccola-grande rivoluzione copernicana: protagonista è la persona con disabilità che parla di sé. Il motto era: non più sull’handicap, ma con l’handicap. Idea geniale, frutto di Claudio Imprudente e del suo collaboratore dei primi anni, Triche (Marco Tibaldi).

ROBERTO
È vero Flò, il Calamaio è soprattutto fatto di incontri, a tu per tu, a tu per noi, a noi per voi… Sempre incontri, inviti a pranzo, contatti per vedersi all’ora x nel posto y per incontrare bambini, famiglie, insegnanti, in tutta Italia. Quando ti muove un sogno, una causa importante, alla fine incontri persone che credono in quello che credi anche tu. Si fa contatto: in modo naturale, sembra di averli conosciuti da sempre, ci si incontra ma è quasi come fosse un rincontrarsi. Ho in mente un sacco di volti amici, persone che ci hanno voluto bene e a cui noi abbiamo voluto bene, con le quali ci siamo fatti un sacco di risate o abbiamo condiviso un’emozione.

FLORIANA
E cresci… cresci personalmente, cresci professionalmente, cresci senza accorgertene, cresci senza sforzo, come una pianta che non può fare a meno di crescere, partendo dal germoglio che con forza prorompente spacca l’involucro, contrasta la forza di gravità e sale facendosi spazio in quella terra fredda e nuda di Carducci per uscire allo scoperto e guardare il cielo. È stata dura, in fase iniziale, per il Calamaio rompere il germoglio. Ma non avevamo detto senza sforzo? Sì ma non da subito. Il primo germoglio da rompere eravamo noi stessi, il nostro pregiudizio. Col tempo siamo anche diventati consapevoli che poteva essere un limite contare troppo su un’immagine di disabilità vincente. Tetraparesi sì, con tanto di carrozzina: ma quanta intelligenza però, quanta sensibilità… e che arguzia… fanno pure le battute spiritose. Ci rendevamo conto che agli occhi degli altri si poteva passare per fenomeni, per l’eccezione che conferma la regola, passando dall’immagine perdente e pietistica verso un’altra immagine altrettanto costruita e perdente, saltando a piè pari la normalità.
L’autoconsapevolezza, costruita giorno per giorno attraverso il dialogo tra di noi, cresceva unita a tanto entusiasmo e ottimismo per i risultati raggiunti, grazie agli incontri e al dialogo con persone che ci aiutavano a crescere. Tutta questa positività in parte guadagnata con le fatiche di una vita, in parte costruita come una riserva per i periodi di vacche magre, andava di tanto in tanto scaricata per costruire altre certezze, altre possibilità: non è forse vero che bisogna levare l’attracco e prendere il mare aperto per trovare nuovi porti, nuovi paesi e genti?

ROBERTO
Il Calamaio è stato un lavoro continuo che ci ha trasformato. Io all’inizio, agli incontri di animazione soprattutto con i più piccoli, ero un po’, come dire, di legno, piuttosto cerebrale: poi imparando da te mi sono lasciato contagiare dalla magia dell’animazione, del divertirsi imparando. Credo che la specificità del Calamaio, che poi non ho sperimentato in nessun altro luogo di lavoro, stia nel coniugare l’attenzione alle persone (i loro ritmi, le loro capacità, i loro talenti, le loro difficoltà) con la ricerca dell’efficacia, del risultato di qualità, sempre perseguiti attraverso il benessere di un lavoro creativo, che coinvolge tanti aspetti di noi. La piccola comunità del Calamaio, inserita nella piccola comunità del CDH, è la riprova che se le persone stanno bene, vengono riconosciute, allora riescono a comunicare agli altri benessere. Tutte le persone che abbiamo incontrato (in particolar modo, secondo me, i genitori di persone con disabilità) ci hanno riconosciuto una capacità di vivere la disabilità non in modo passivo ma attivo, consapevole (talora imprudente e incosciente!), insomma vivo e creativo. Questo è l’aspetto filosofico che mi ha entusiasmato e tuttora, adesso che faccio l’insegnante di sostegno, mi entusiasma, mi acchiappa, mi sorprende: la disabilità non tanto come oggetto di cura, di assistenza, di conoscenza specialistica, ma come punto di vista sul mondo, come prospettiva che tiene conto del limite e delle risorse di tutti, uscendo dalla logica della riserva, degli addetti ai lavori, per farsi patrimonio di bellezza e creatività di un contesto, di una comunità. Il nostro Calamaio fa parte della nostra storia, ci ha aiutato a trasformarci in quello che siamo diventati e tu, cara Flò, sei diventata naturopata.

FLORIANA
Eri di legno, ma di legno buono, di quel legno che se lo metti nel camino, il fuoco dura e si spande un gradevole profumo. Ma bisogna bruciarlo quel legno perché questo avvenga e tu hai accettato di ardere. Di legno, mica poi tanto… Suonavi, scaricavi carrozzine, materiali, e poi suonavi ancora le note delle nostre canzoncine che cantavamo assieme ai bimbi e io ho creduto persino di essere intonata mentre cantavo a squarciagola “Sveglia il mattino e guardalo con gioia”, nel pratone della scuola materna di Borgo Panigale di fronte a centinaia di persone fra bambini, nonne, genitori, insegnanti. Tutti insieme a guardare con gioia i due orsi, Alberto Fazzioli e Stefania Baiesi, che hanno rischiato più volte di morire di caldo nel loro travestimento di pelliccia (le feste di fine anno naturalmente si fanno a fine maggio) e tutti i piccoli nei loro vestitini, animaletti, fiori, farfalle, attorno, a quei due handicappati che anziché essere utenti erano animatori.
In effetti, a ripensarci, sembravamo una famiglia. Mi è sempre piaciuto creare dei varchi, sperimentare e nello steso tempo fare casa. Lavorare e fare casa curando i rapporti nella quotidianità in un clima familiare, di impegno ma anche di divertimento.
Quando andavamo in trasferta con Claudio, la Baiesi, il Fazzioli, Toschi, la Cinzia, guai a non divertirsi! Il clima buono e festaiolo era uno degli elementi indicatori che le cose stavano procedendo bene e fu questo stare bene insieme a essere il segreto del nostro successo.
Eravamo come un virus, contagiavamo: i bambini, i ragazzi, i genitori e pure gli insegnanti e anche gli assessori che, contagiati, riuscivano a trovare con mille escamotages i finanziamenti, spulciando i comma di leggi e leggine per investire su di noi, sulla buona scuola, quella buona davvero, quella che fa stare bene.
Ma stare bene secondo quale tipo di concezione? Si può parlare di benessere e disabilità? Questa è una buona domanda. È un ossimoro o realtà vivibile e fattibile?
Facciamoci aiutare dalle immagini, linguaggio di antichi archetipi. Quando diciamo benessere subito pensiamo ai centri con terme e beauty farm, candele accese e orchidee, vapori e mani sapienti che decontraggono anche l’impossibile… e poi suggestioni di aromi che attivano e disattivano, fragranze che dialogano con l’infinito.
E la disabilità, come si colloca al mondo delle fragranze? Il contatto con la disabilità avrà un effetto de-stressante? Un buon incontro con la disabilità crea un’essenza? Il Progetto Calamaio nelle scuole, una presenza qualitativamente gradevole ed efficace, non continua forse tutt’oggi a creare quella scenografia olfattiva la cui fragranza dipende dalla presenza di ognuno (disabili e non)? E allora qualcosa di antico, di profondo, di arcaico, viene risvegliato. Da cosa? Dal torpore dei consumi, dell’omologazione, del sempre uguale, del “non si può fare perché è inutile”, dal torpore della morte che non muore mai e non morendo ti logora, ti consuma, ti spegne ciò che non ha mai acceso, senza che tu lo sappia, che tu te ne accorga, così non fai in tempo neppure a reagire.
Ma c’è un ricordo che qualcuno ha risvegliato…c’è un profumo che persiste, come se fosse un primo ricordo, che risale all’infanzia. Cos’è questo odore che mi fa star male, che se lo prendo anche in dose massiccia mi fa star bene?
Allora abbondiamo, senza misura, dove non c’è misura, dove ci si apre al crescendo e il troppo non dà disgusto. Chi l’ha mai detto che la via giusta è quella che sta nel mezzo?
Il mezzo non sa di niente, non sta né da una parte né dall’altra, il mezzo è mezzo mica è uno! E io voglio l’uno, io sono l’uno.
Il Calamaio: tanti uni ma per fare gli uni e gli altri. Come fanno gli altri a stare senza gli uni? Noi, uno+uno+uno, noi uni del Calamaio, volevamo essere uni per incontrare altri uni, quelli interi, mica mezzi, mica pressappoco.
E mentre cercavamo questo, si spandeva quell’odore strano, quell’odore che riguarda me, che riguarda te, che ci fa riconoscere, quell’odore che fa rima con amore, dolore, sapore, migliore, valore… Un odore che è come un colore, quello del cuore.



Categorie:

naviga: