di Alex Corlazzoli, maestro e giornalista
Nessuno mi ha mai fatto un corso sull’autismo: non c’è dirigente che mi abbia mai fatto avere la Legge approvata il 18 agosto del 2015. Nessuno mi ha mai spiegato come affrontare dal punto di vista didattico un dislessico, un discalculico o un disgrafico. So solo che li chiamano DSA: non so quanti siano, non c’è occasione in cui con i colleghi abbiamo letto insieme, in un collegio docenti, la Legge 170 dell’8 ottobre 2010.
Quando sono sbarcato sul pianeta scuola mi è persino capitato di essere catapultato a fare l’insegnante di sostegno senza avere le specifiche competenze: l’importante era coprire un buco, sorvegliare. Non c’è preside che mi abbia mai chiesto: “Maestro ma lei ha mai fatto un’esperienza, anche di volontariato, con i disabili?”. Ecco, l’handicap più grande ce l’ha la Scuola. Sono io il menomato, quello che parte in svantaggio nella realizzazione di quell’inclusione garantita, in teoria, sin dal 1977 dalla Legge 517 e poi dalla Legge 104 del 1992 che puntò poi a una piena integrazione della persona disabile.
Per anni siamo andati fieri della nostra educazione integrata e della lotta all’emarginazione nata con la chiusura degli istituti speciali per disabili e l’inserimento dei ragazzi con disabilità all’interno delle scuole comuni.
Ma non siamo più negli anni Settanta e da quarant’anni la Scuola, i maestri, non si pongono una domanda in maniera schietta, netta e sincera: “Che inclusione stiamo realizzando? Basta avere i ragazzi tra i banchi per poterci vantare della loro integrazione?”.
A farmi riflettere più di ogni altro è stato Mattia, un mio ex alunno con il quale ho scritto il libro Sai maestro che da grande voglio fare il premier (A. Corlazzoli, M. Costa, ADD Editore, 2015): “I nostri insegnanti non aiutano a realizzare davvero un’integrazione. Anzi sembra che si vedano le differenze. Spesso c’è qualche professore che in classe dice: “I DSA che hanno la fotocopia alzino la mano. Se fossi in loro mi vergognerei, mi sentirei etichettato”.
Basta questa frase per comprendere quanta strada dobbiamo ancora fare affinché ogni insegnante sia in grado di entrare in classe e garantire una scuola “aperta a tutti” come cita la Costituzione.
Ma la scuola dell’inclusione è troppo preoccupata e paralizzata dal fare verbali, relazioni, carta su carta per dire che per quel bambino è stato fatto tutto il possibile, dimenticando poi la vita quotidiana.
Una realtà fatta da un’inclusione fasulla, dalla mancanza di insegnanti di sostegno sostituiti da assistenti ad personam pagati otto euro lordi all’ora da cooperative sociali che sfruttano la manodopera di giovani precari neolaureati.
La continuità nel rapporto docente di sostegno–alunno con disabilità è importante non solo nel corso dell’anno scolastico ma anche per l’intero ciclo, eppure secondo l’Istat il 10,8% degli alunni diversamente abili della scuola primaria ha cambiato maestra a lezioni già avviate, così l’8,8% alla secondaria di primo grado.
Ancor più grave notare che il 44,1% dei bambini disabili e il 39,8% dei ragazzi delle medie, a settembre è costretto a conoscere un insegnante di sostegno diverso da quello che ha lasciato a giugno. Certo quest’ultimi sono aumentati ma anche i ragazzi: oggi si contano 110mila docenti per 210.909 alunni con disabilità, uno ogni due allievi in media, nonostante le differenze territoriali siano molto marcate.
Il problema che conoscono molto bene le famiglie delle persone disabili resta quello delle ore dedicate ai loro figli: nel Mezzogiorno si registrano 15,4 ore medie settimanali alle elementari (su 24) e 12,1 ore medie nella scuola secondaria, una cifra che scende rispettivamente a 13,3 e 10,0 al Centro e addirittura a 11,5 e 9,5 al Nord.
Un dramma per mamma e papà: dalle rilevazioni dell’Istat è emerso che il 10% delle famiglie della primaria e il 7% dei ragazzi tra gli 11 e i 13 anni ha presentato ricorso al Tar per ottenere un aumento delle ore.
L’inclusione passa prima di tutto dall’abbattimento di ogni tipo di barriera: mentale, culturale ma anche fisica. Per capire quanto sia falsa la nostra in Italia provate a pensare ai servizi igienici: i ragazzi che non hanno difficoltà hanno i bagni separati a seconda del sesso. Fin dalla scuola materna i maschi hanno i loro servizi igienici e le femmine pure.
Sfido chiunque a segnalarmi un bagno per disabili distinto per genere: questa mancanza è un fattore di ulteriore disagio considerato che in tutte le scuole questa distinzione per gli alunni cosiddetti normodotati esiste da sempre. Che inclusione ci può essere in una scuola che, secondo i dati dell’ultimo rapporto di “Cittadinanza attiva” ha il 18% delle segreterie con le barriere architettoniche? Ostacoli che si trovano anche in sala professori. Così per quanto riguarda le palestre, i laboratori e gli altri spazi, siamo di fronte a una scuola inaccessibile: le aule degli studenti hanno barriere architettoniche nel 29% delle scuole.
Ma la prima barriera alla reale inclusione è l’ignoranza. La lezione più bella l’ho avuta da una competente terapista che seguiva un ragazzo gravemente autistico che frequentava una scuola dove ho insegnato in passato. Mi propose di fare una serie di lezioni alla classe per spiegare loro cosa aveva il loro compagno. Venne a scuola non tanto per visionare il bambino autistico ma per osservare i compagni. Spiegò loro le risorse, i limiti, le capacità, le competenze del loro compagno. Diede ai ragazzi, ma anche al maestro, la possibilità di sapere, di conoscere, di non ignorare ma di comprendere in maniera quasi scientifica che cos’è l’autismo. Questa è la strada da percorrere. Non ci sarà Decreto delegato utile se prima non faremo un passo in questa direzione.