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Autore: Nicola Rabbi

3. La vera mala educación? Adulti incompetenti e bambini soli su internet

di Nicola Rabbi, giornalista

Che senso ha proibire certi libri rivolti ai bambini perché ritenuti poco idonei alla loro crescita psicologica e culturale quando hanno la possibilità, grazie alla tecnologia digitale, di poter leggere e vedere ogni genere di informazione?

Un genitore, un insegnante o un educatore (e quest’ultimo dovrebbe comunque palpitare nel cuore dei primi due) hanno il dovere di porsi questo genere di domande riguardo alla formazione dei minori, ma questo dovere deve essere relazionato ai reali problemi. Che senso ha censurare dei libri per l’infanzia perché raccontano, per esempio, storie di famiglie diverse, quando i bambini, comunque, conoscono e imparano vedendo la realtà che ruota attorno a loro?

L’innocenza di internet

In realtà il tema che su cui dovremmo riflettere è un altro, soprattutto quando i nostri figli raggiungono i sei, sette anni e cominciano a usare i nostri stessi strumenti digitali. E qui può succedere di tutto. 

Su internet, infatti, non esiste una reale censura (e su questa cosa ritorneremo più avanti) e un bambino, che magari ha evitato certi libri che trattano temi considerati pericolosi nelle scuole dell’infanzia, potrebbe, navigando liberamente sul web, vedere immagini pornografiche o violente, con persone spiaccicate per terra dopo un volo suicida di dieci piani o altre che ritraggono esseri umani colpiti da malattie strazianti.

Questo, se prendiamo in considerazione un uso passivo del digitale.

Se passiamo a un suo uso attivo, quello cioè che ci mette in relazione con le altre persone, allora le cose si complicano. Con gli smartphone o i tablet queste relazioni sono ancora più semplici da creare. Nei casi dei contatti diretti ci si possono scambiare foto private e si possono stabilire relazioni dove il corpo è del tutto assente, e questa mancanza di fisicità, se può creare problemi di rispetto verso gli altri in una persona adulta, figuriamoci cosa può significare per un bambino. Internet e i dispositivi digitali sono quindi un pericolo per i nostri bambini? 

Sono un’altra cosa da proibire?  

No, non è così. La risposta deve essere ricercata altrove. Internet è ciò che siamo, non è niente di peggio di quello che già esiste, il problema semmai siamo noi, noi come genitori, insegnanti, educatori che non siamo all’altezza del nostro compito quando entriamo in relazione con le nuove tecnologie.

Quanti sono i minori in rete?

Secondo i dati Istat del 2013, in Italia solo il 56% delle persone usa regolarmente internet ponendoci al terzultimo posto nella graduatoria europea dei Paesi UE con una distanza di 16 punti dalla media. Se poi andiamo ad analizzare il dato relativamente al tipo di conoscenza che si ha in termini di competenze informatiche e telematiche, allora la percentuale di italiani che sanno usare con una certa padronanza il web si assottiglia all’11% della popolazione.

Questo significa che le probabilità di trovare dei genitori, degli insegnanti o degli educatori in grado di orientare il bambino sulla rete sono davvero poche.

Dall’altra parte, quanti sono i minori che usano la rete? 

Sempre in base ai dati Istat, questo tipo di utenza cresce di continuo. Se nel 2005 la fascia dei minori utenti forti (uso quotidiano di internet) compresi tra i 6 e i 10 anni era dell’1,1% del totale, nel 2013 era arrivata all’8%. Nella fascia dagli 11 ai 13 anni si passa dal 2,7% al 36,3%, mentre in quella tra i 14 e i 18 anni si passa dall’11,7% al 63,1%. Parlando invece di utenti deboli della rete (uso almeno settimanale di internet), nel 2013 sono il 25,2% dei minori tra i 6 e i 10 anni, il 34,8% di quelli tra gli 11 e i 13 anni, il 21,8% di quelli tra i 14 e 18 anni.

In conclusione, circa il 33,2% dei bambini tra i 6 e i 10 anni usa internet, quelli tra gli 11 e i 13 anni sono il 71,1%, quelli tra i 14 e i 18 anni sono l’84,9%.

Sempre più minori su internet e questo di fronte a un numero esiguo di adulti competenti.

“Tieni il mio cellulare ma sta’ buono per favore”

Internet non si può censurare o meglio, molti ci provano, anche nazioni potenti come la Cina e la Russia, ma con risultati non soddisfacenti. È questo, del resto, il bello della rete, la possibilità aperta a tutti di esprimersi liberamente. La libertà, però, porta con sé anche comportamenti scorretti o illeciti che devono essere individuati e puniti ma che ci saranno sempre, come nella vita reale. Per questo si ha bisogno sempre più di adulti che abbiano delle buone competenze, che sappiano accompagnare in rete il minore dandogli le informazioni necessarie per capire i rischi cui va incontro nell’esporsi pubblicamente, come anche gli strumenti per cercare di valutare la qualità delle fonti informative che incontra.

Da un’altra ricerca del 2013 (DuepuntoZero Research-Doxa) si viene a sapere che più della metà dei bambini tra i 5 e i 13 anni navigano da soli su internet. I genitori tendono a cedere i loro dispositivi: il 70% di coloro che hanno un tablet lo danno ai loro figli e il 16% lo fa senza nessun controllo. Così per gli smartphone, 4 volte su 10 i genitori li cedono ai figli in piena autonomia.

Sugata Mitra: “Lasciateli soli su internet, ma assieme”

Il comportamento peggiore per un genitore è quello di lasciare il proprio figlio da solo in rete, magari isolato nella sua stanza. Per un insegnante e per un educatore, invece, l’errore è quello di far lavorare il minore individualmente su internet, magari in competizione con gli altri. 

In situazioni di gruppo, invece, il modo migliore per entrare e conoscere la rete è quello di far sì che i compagni lo facciano tutti assieme; questo lavoro diretto su internet, fatto tra simili, con una quasi invisibilità della figura dell’adulto, non solo porta a un uso corretto di internet ma a una capacità di apprendimento e di soluzione dei problemi stupefacenti. È quanto sta dimostrando, da 15 anni a questa parte, un pedagogista indiano esperto in tecnologia, Sugata Mitra, che ha fatto numerosi esperimenti in giro per il mondo. In alcuni villaggi poveri dell’India ha incastonato nei muri lungo le vie pubbliche dei computer connessi alla rete, con i quali i bambini potevano interagire liberamente; nel giro di due mesi, senza alcuna istruzione per l’uso, i minori sono riusciti a comprenderne perfettamente il funzionamento e a informarsi su varie cose. In ambienti aperti e pubblici, dove i bambini vengono lasciati soli succedono cose meravigliose secondo Sugata Mitra; l’apprendimento dell’inglese cresce improvvisamente, problemi di varia natura posti anche in una lingua sconosciuta trovano una soluzione. E allora perché non proviamo anche noi? Proviamo a dare a un gruppo di bambini una serie di ricerche, magari difficili, magari scabrose (e in questo caso una figura di adulto competente ritornerebbe utile) perché ne discutano in gruppo e attraverso la rete se ne facciano un’idea: forse ci stupiremmo anche noi grandi scoprendo fino dove possono arrivare.

2. L’uomo è un nodo di storie. Il bisogno delle storie e delle narrazioni

di Giovanna Di Pasquale, pedagogista

“L’uomo è un nodo di storie”. Con queste parole Peter Bichsel, maestro di scuola e scrittore, illumina la trama di narrazioni che coesistono nella casa intima di ognuno di noi.
Sono storie che spesso neanche sappiamo di possedere, che abitano il nostro mondo interiore in modo sotterraneo e che possono fuoriuscire anche senza preavviso richiamate all’esterno da una sensazione, da un odore, da un incontro…
Da sempre, fin dagli inizi dell’umanità, gli uomini hanno sentito il bisogno di narrare e di ascoltare storie, e questo molto tempo prima della nascita di una letteratura vera e propria.
Ci dice ancora Bichsel che “il raccontare storie si occupa di una cosa evidente: che esiste il tempo e che la nostra vita è vissuta in quanto tempo. Raccontare storie significa occuparsi del tempo ed esperire la nostra vita come tempo ha a che vedere col fatto che la nostra vita ha un termine”.
È evidente il legame con la memoria: gli uomini hanno sempre narrato perché ci sono cose importanti che non debbono andare perdute. Una società senza storie è una società senza memoria senza, cioè, quel sapere condiviso e collettivo che, seppur per frammenti e strappi, costituisce il ponte fra le generazioni.
Su questo concetto diventa illuminante un breve racconto dalla tradizione chassidica.
“Quando il Baal Schem Tov doveva assolvere un qualche compito difficile, qualcosa di segreto per il bene delle creature, andava allora in un posto dei boschi, accendeva un fuoco, diceva la preghiera e tutto si realizzava secondo il suo proposito. Quando una generazione dopo, il Rabbi Mosché Laib doveva assolvere lo stesso compito, anche egli andava nel bosco e diceva ‘Non possiamo più accendere il fuoco e non conosciamo più le segrete meditazioni che vivificano la preghiera, ma conosciamo il posto del bosco dove tutto ciò accadeva’. E ciò era sufficiente. Ma quando, di nuovo, una generazione dopo, il Rabbi Ystrael doveva anche egli affrontare lo stesso compito se ne stava seduto in una sedia d’oro e diceva: ‘Non possiamo più fare il fuoco, non possiamo dire le preghiere e non conosciamo più il luogo del bosco; ma di tutto questo possiamo raccontare la storia’. E così il suo racconto da solo aveva la stessa efficacia delle azioni degli altri”.
La narrazione, le storie sono possibili porte di ingresso alla nostra identità come singole persone e come parte di una comunità.
Abbiamo anche bisogno di storie per fare nostro il mondo; per questo molti studiosi pensano che la funzione dei libri sia quella di costruire, nella loro pluralità, un immenso inventario del mondo.
Inventario che non parte da definizioni e convinzioni assolute ma dalle domande.
Sono le domande a generare le storie: “Che cosa succederebbe se?”.
La storia di Ulisse narrata nell’Odissea non esisterebbe se l’autore non si fosse posto questa domanda. Se Ulisse e i suoi compagni approdassero in un’isola dove risiede un Mostro ciclopico dall’unico occhio? Che cosa succederebbe se i viaggiatori passassero accanto alla dimora delle Sirene, e se si fermassero proprio nell’isola di Maga Circe, l’incantatrice capace di trasformare gli uomini in maiali?
Insieme ad Alice nel paese delle meraviglie ci chiediamo in tanti modi: “Chi sono io? Ditemi questo prima di tutto!”.
Del resto, anche un bambino guarda il mondo attraverso le domande. Quante volte, posto davanti al “Che cos’è?” il bambino comincia a rispondere: “È come…”, “È come se…”, “È come quando…”. E in questo modo si dà il via a una nuova storia.
La narrazione è importante nella costruzione della consapevolezza di sé e della propria storia perché mette in moto memorie, le attualizza in contesti diversi, le scompone per ricomporle in una trama narrativa significativa.
Abbiamo anche bisogno di storie per essere rassicurati sul nostro essere nel mondo, per sentirci raccontare che siamo nel tempo e nello spazio, siamo dentro una storia che, almeno nelle forme della nostra esperienza umana, ha un inizio e una fine.
Riprendiamo la citazione di Peter Bichsel con cui abbiamo aperto queste riflessioni: “L’angoscia di fronte a questo dover finire può naturalmente essere tenuta a bada… Ciò che però non scompare è la tristezza per questa finitudine. La tristezza non la si può vincere, può soltanto essere rifiutata o accettata. Il raccontare storie ha a che fare col fatto di accettarla. La tendenza degli uomini alla tristezza li fa diventare narratori di storie”.
Il tempo finito della storia è profondamente rassicurante proprio nel suo ricominciare dall’inizio ogni volta che la ri-narriamo attraverso una formula che è capace di introdurci istantaneamente nella storia stessa, così come succede con la frase del “C’era una volta…” che, di consueto, apre le storie della tradizione.
Da questo bisogno di rassicurazione e di presenza nasce la necessità dei bambini di sentirsi ripetere sempre la stessa storia con le medesime e precise parole.
E dallo stesso bisogno di rassicurazione e ricerca di senso, possono nascere i narratori che oppongono alla durezza delle realtà spesso difficili che attraversiamo, la concretezza generativa delle storie e la loro capacità di restituire senso.
Così racconta Rubem Alves:
“Io sono narratore di storie. Ho scoperto d’esserlo narrando storie per la mia bimbetta. Le storie si formano allo stesso modo in cui si forma una perla dentro all’ostrica. Ostriche felici non fanno perle. Occorre che un granello di sabbia entri nell’ostrica e raggiunga la sua carne molle. Il granello di sabbia rende l’ostrica infelice. Per liberarsi dal dolore provocato dal granello di sabbia, l’ostrica avvolge pazientemente l’aspro granello di una sostanza liscia, senza punte e rotonda: la perla. Le storie nascono allo stesso modo. Mia figlia è nata con il viso difettoso. E io le raccontavo storie per cambiare tale dolore in bellezza. Ma per fare questo era necessario che io possedessi il potere dei maghi. Sì, le storie sono riti magici”.

1. Come (NON) dirlo ai bambini. Non se ma come

di Roberto Parmeggiani

Da che mondo è mondo genitori ed educatori si sono, prima o poi, trovati di fronte alla domanda: “Come dirlo ai bambini?”, cioè come raccontare ai bambini le cose della vita, quelle più difficili da comprendere ma anche quelle che mettono maggiormente in crisi noi adulti.
Come dire ai bambini che mamma e papà stanno per divorziare, come spiegare che il nonno è morto, come parlare di guerra, violenza e ingiustizia, come dare informazioni rispetto a una malattia o alla disabilità, ecc.
Anche in Italia e più in generale in Europa, nel 2015 ci siamo trovati spesso a porci questa domanda rispetto a diversi eventi pubblici: come spiegare ai bambini gli attentati in Francia o i morti nel Mediterraneo, come condividere culture diverse o differenti orientamenti sessuali, solo per fare alcuni esempi.
Il fatto nuovo, però, con cui ci siamo dovuti confrontare è che di fianco al come è stato inserito un se. Non, quindi, come dirlo ai bambini ma se dirlo ai bambini. Se, cioè, è giusto dire le cose della vita ai bambini, se è corretto informarli della realtà che li circonda, oppure se, invece, ci sono cose che devono essere lasciate alla libera iniziativa dei genitori, che devono, cioè, anche nel momento in cui riguardano la vita pubblica di una società, rimanere di gestione privata perché difficili, perché ritenute da qualcuno non adatte quando invece per altri rappresentano aspetti normali della quotidianità.
Questa monografia, che nasce a seguito e a completamento della tavola rotonda “Come (non) dirlo ai bambini” realizzata a novembre 2015 presso il MAMbo – Museo d’arte moderna di Bologna e da cui sono tratti anche alcuni degli articoli che presentiamo, vuole affermare e offrire tesi a sostegno del fatto che non esistono temi per i quali è necessario chiedersi se è bene o male parlarne ai bambini ma che quello che possiamo e dobbiamo fare è chiederci e scegliere il come.
Non se parlarne, quindi, ma come.
Con quali strumenti, quale consapevolezza, quali parole e immagini adatte all’età e al contesto sociale e culturale.
Con quale orizzonte educativo, culturale e sociale perché è responsabilità di tutti la costruzione di una società capace di offrire gli strumenti necessari a comprendere le cose della vita.

Achtung?

a cura di Annalisa Brunelli, pedagogista, e Roberto Parmeggiani, educatore e scrittore 

“Un giorno Beatrice mi ha chiesto se mi sarebbe piaciuto rivederla mia madre. Non sapevo cosa rispondere. E a lei sarebbe piaciuto rivedermi? Volevo chiederlo a Beatrice, ma a che sarebbe servito? La risposta non è certo nei libri che mi presta. O forse sì, chissà? I libri contengono tante di quelle risposte che mi confondono. I libri mi trasportano dappertutto e io mi lascio trasportare. Ogni tanto Beatrice me ne suggerisce qualcuno che le è piaciuto in modo particolare, così poi possiamo parlarne. E quando parli dei libri, accade sempre un fatto strano: ti accorgi di come le stesse parole possano suscitare nelle persone sentimenti diversi, sorprendenti, misteriosi. Tante risposte diverse a una stessa domanda: perché? Perché la gente nasce, muore, ride, piange, viaggia, corre, cammina, si ammazza, aiuta, respinge? Perché la gente se ne va? Perché io non voglio fermarmi mai? Tante risposte, nessuna risposta”.

Barbara Garlaschelli, Davì, Camelozampa, Monselice, 2013 (p. 23)

23. Bibliografia di riferimento

K. Jaspers, Allgemeine Psychopathologie; trad. it. R. Priori, Psicopatologia generale, Il pensiero scientifico, Roma, 1964.
D. Woods Winnicot, Dalla pediatria alla psicoanalisi, Martinelli, Firenze, 1975.
R. D. Laing, The divided self: an existential study of sanity and madness: trad. it. D. Mezzacapa, L’io diviso, Einaudi, Torino, 1969.
S. Scarpa, Il corpo nella mente. Adolescenza, disabilità, sport, Calzetti Mariucci, Perugia, 2011.
S. Chiarilli; C. Mancini, Io sono. Dalla disabilità intellettiva all’abilità affettiva e relazionale, Themis editore, Firenze, 2011.
V. Cisini; M. C. Mazzia; E. Pozza; L. Ughetto Budin, Sul filo del limite. Ben- essere e apprendimento con persone in difficoltà, La Meridiana, Molfetta (BA), 2013.
F. Briganti, Corpo, tecnologie e disabilità. Le tecnologie integrative, invasive ed estensive,  Edizioni Manna, Napoli, 2010.
G. Dall’Ara, “Come mi trovi?”. Percezione del proprio corpo, della malattia e della disabilità, Il Ponte Vecchio, Cesena, 2007.
B. Pea, Matematica nella scuola di base volume 1: i concetti dello spazio e del tempo nella scuola materna e nel primo ciclo della scuola di base, Vannini, Gussago (BS), 2001.
B. Pea, Matematica nella scuola di base volume 2: i concetti della logica e della aritmetica nel primo ciclo della scuola di base, Vannini, Gussago (BS), 2001.
V. Ruggeri, L’identità in psicologia e teatro: analisi psicofisiologica della struttura dell’io, Edizioni Scientifiche Magi, Roma, 2001.
A. Canevaro; A. Gamberini, Esploro il mio corpo e l’ambiente: giochi e attività per bambini dai due ai sette anni, Erickson, Trento, 2002.
G. B. Camerini; C. De Panfilis, Psicomotricità dello sviluppo: manuale clinico, Carrocci Faber, Roma, 2003.
S. Lancioni, Tra il corpo e gli affetti, Gruppo Donne UILDM, 1999:
E. Ripamonti; R. Sinzu, Il corpo negato, Edizioni CSV, Roma, 2003.
A. Lapper, La vita in pugno, Corbaccio, Milano, 2006.
A. Benedetti, Trucco e parrucco. Estetica e cura di sé, Gruppo Donne UILDM, 2005:
D. Anziliero, I miei passi dicono di me. Tracce di un percorso terapeutico con il malato psichiatrico adulto attraverso una possibile riconquista del corpo, Del Cerro, Tirrenia (PI), 2005.
A. Mannucci, L’emozione fra corpo e mente: educazione, comunicazione e metodologie, Del Cerro, Tirrenia (PI), 2006.
A. Mannucci; L. Collacchioni, Diversabili e teatro. Corpo ed emozioni in scena, Del Cerro, Tirrenia (PI), 2008.
I. Gamelli (a cura di), I laboratori del corpo, Raffaello Cortina, Milano, 2009
E. Amurri, Il gabbiano dalle ali ferite, Albatros, Roma, 2012.
M. Eugenia, Macchia, la ragazza mal disegnata, Callis, Settimo  Milanese (MI), 2012.

22. La voce dei partecipanti


L’anno scorso insieme alla cooperativa Accaparlante abbiamo svolto un percorso che aveva lo scopo di rendere me, e tutti i miei colleghi partecipanti, consci dei nostri limiti e anche delle nostre capacità.
Questo anno stiamo svolgendo un laboratorio un po’ speciale sul nostro corpo, perché basato sul fatto di trasmetterci piacere attraverso esso. Solitamente lo conosciamo soltanto dal punto di vista medico o perché chi ci aiuta ce lo descrive, oppure con l’unico scopo di mantenere quello che si ha e di cercare di  raggiungere nuove mete. Nel primo incontro che abbiamo svolto ci è stato spiegato lo scopo di questa giornata; subito dopo alcuni educatori hanno messo delle bacinelle nella stanza con acqua calda, hanno disteso i nostri teli e ci hanno aiutato a scendere dalle carrozzine, per poi sdraiarci a terra in costume da bagno. Questa richiesta mi è sembrata molto strana, in quel momento mi sono sentita molto imbarazzata, perché non mi era mai capitata un’esperienza simile anche al di fuori dell’ambito lavorativo. All’inizio non mi sentivo molto a mio agio, perché avevo un po’ paura di essere criticata dai miei colleghi, credo anche perché indossavo una protezione di cui mi vergogno. Ma comunque mi sono voluta mettere in gioco, e ho deciso di sottoporre me stessa a questa prova. Prova anche sui miei sentimenti riguardo me stessa e tutto quello che concerne il mio corpo e sensazioni ed emozioni mai provate prima. Subito non ero calma, ma dopo poco grazie ai miei educatori, i quali hanno cominciato a sfiorami con l’acqua, mi sono rilassata; e mi sono concessa a loro. Ho chiuso gli occhi, e per me il fatto di concedermi ad altre persone che non sia la mia famiglia è stata una grande impresa, perché ho la necessità di avere le situazioni che mi capitano sempre sotto controllo. Ho capito che invece devo lasciarmi anche guidare dagli altri, fidarmi di loro.
Penso che questo laboratorio con il tempo mi aiuterà a crescere, a sviluppare un po’ di sicurezza. Credo che questo laboratorio sia molto complesso, ma è diventata una sfida con me stessa e con il mio modo di essere. So già che all’inizio, al di fuori di un ambiente sicuro e protetto come l’Accaparlante, mi sembrerà impossibile, ma voglio cambiare questo lato della mia personalità, perché non accetto più che tutto lo debba fare la mia famiglia. Vorrei diventare un vera adulta, perché vorrei una mia vita autonoma anche da questo punto di vista, perché credo che sia arrivato il momento che esca anche io un po’ di più dal nido che mi ha sempre tutelato durante questi anni. Però devo un po’ impormi di non voler avere sempre la conferma su tutto quello che faccio. Ritengo sia stato molto positivo, sono stata bene e lo rifarei. 
Invece nell’incontro successivo a quello appena descritto, oltre ai miei educatori vi era presente un fisioterapista che non era venuto per farci fisioterapia, ma per lavorare con il nostro corpo. Noi dovevamo soltanto farci fare quello che lui ci chiedeva di fare. Il nostro unico compito era quello di fare respiri profondi e farci coccolare da lui e dagli educatori. Potevamo dire agli educatori o a lui in quale parte del corpo volevamo essere coccolati e accarezzati un po’ di più di altre. Io ho scelto le spalle, perché di solito sono molto più dure di altre parti.
Questo incontro si è svolto tutto a terra sul pavimento e già la situazione era alquanto strana per me, dato che sono poche le occasioni che ho per starci e per cambiare postura. Quando mi hanno messo giù mi è sembrata una sensazione completamente nuova, ma del tutto positiva, perché il mio corpo non aveva mai avuto questa opportunità, mi sentivo come un bambino che sta esplorando il mondo circostante per la prima volta. Non ho avuto nessun tipo di rifiuto e mi sono rilassata subito. Volevo concedermi con molta più facilità agli educatori, perché mi sentivo protetta e ben accolta tra le loro braccia. Appena il fisioterapista ha provato a toccarmi, mi sono lasciata fare tutto soprattutto nelle parti alte, perché le percepisco maggiormente, mentre le altre le utilizzo molto meno. Il senso di benessere è perdurato per più giorni, avvertivo le spalle molto più morbide ed è una sensazione molto piacevole. Ho capito da questo incontro che devo accettare di più il mio corpo e che anche se ho difficoltà motorie importanti, posso comunque trarre benessere e piacere. Inoltre, credo, di poter e dovere ancora fare molto, sarà un percorso più lungo di questi incontri, ma intanto ho iniziato: vorrei diventasse qualcosa che riguarda sì il mio corpo, ma anche la mia testa, la mia persona.
(di Francesca Aggio, animatrice con disabilità del Progetto Calamaio)

E alla fine?
D: Spesso evito di ammettere le mie difficoltà e cerco di nascondere i miei limiti perché non voglio deludere le persone cui voglio bene: la mia mamma e i miei colleghi.
Questo laboratorio mi ha fatto capire che devo sperimentare e prima di chiedere qualcosa posso provare anche a farla da sola… Perché ho capito che spesso riesco!
D: Il laboratorio mi è piaciuto molto e mi sono trovato molto bene perché ho potuto dire tutto… Mi sono reso conto che parlo male e ho capito che posso cercare strategie per farmi capire meglio, così da poter parlare senza che nessuno traduca quello che dico.
T: Questo laboratorio mi è servito per conoscere cose nuove di me, mi ha permesso di pensare a ulteriori strategie creative per sfruttare le mie abilità… Fino a ieri ero convinta di non potere usare la mano destra, poi ho provato a prendere un pennarello… Ho fatto una grande fatica ma ce l’ho fatta! Ho provato un’emozione incredibile!
F: All’inizio di questo percorso mi sentivo davvero un pesce fuor d’acqua… Ammetto di non conoscere per niente il mio corpo dunque ero molto imbarazzata, e avevo paura di scoprire me stessa. Ho capito che in futuro mi servirà molto conoscermi bene per iniziare un percorso di accettazione!
G: Questo laboratorio mi ha permesso di parlare di me, della mia storia, mi sono sentito libero di raccontarmi così come sono… I miei colleghi mi hanno conosciuto meglio e anch’io mi sono conosciuto meglio!
S: Grazie al lavoro con Luca e Tristano ho avuto la possibilità di raccontarmi e ho imparato nuovi modi per presentarmi! Ho inventato dei nomi per gli ausili che utilizzo per il mio corpo e questo facilita la loro accettazione!
S: Ho capito che non conoscevo bene il mio corpo. Grazie ad alcuni esercizi pratici svolti nel laboratorio, che non avevo mai provato, ho sperimentato le mie vere capacità e i miei limiti.

21. Essere canali dell’energia vitale

di Susetta Sacchi, operatore reiki, diplomata presso Usui Reiki Italia Kenkyukai per trattamenti di primo livello (shoden). Si è avvicinata al reiki per completare la sua formazione di insegnante Hata yoga.

Essere coinvolta come praticante yoga e reiki in un progetto sul benessere e piacere è stato alquanto stimolante considerando che la proposta era rivolta a persone disabili psico-fisiche medio- gravi alle quali non mi sono mai rivolta dal punto di vista olistico.
Considerando il poco tempo a disposizione la mia prima risposta non poteva essere che negativa; lavorare con l’energia vitale richiede percorsi sicuramente più lunghi e complessi. Ma perché non offrire un assaggio di quel benessere che sento attraversare il mio corpo quando pratico?
Il reiki è una disciplina di riequilibrio energetico naturale che utilizza le mani di un operatore come canale attivo di energia vitale per ripristinare la connessione tra l’energia individuale della persona e quella dell’universo. Essere canali dell’energia vitale significa avere la possibilità di dirigerla e utilizzarla per riportare equilibrio energetico dove questo è venuto a mancare. Indipendentemente dalle condizioni psico-fisiche, ogni essere vivente ha bisogno di energia vitale. Senza energia in quantità sufficiente l’organismo non è in grado di svolgere neppure le proprie funzioni portando sovente a blocchi emozionali.
Senza nulla pretendere in termini di cambiamento ho quindi semplicemente proposto un’esperienza in pillole di un piacere che passa attraverso un tocco leggero e dolce come è quello di un trattamento reiki. Le mani vengono imposte, spesso neppure toccando il corpo, seguendo quelli che sono i canali e i centri di energia della persona e… qualcosa passa! Succede proprio così, come quando nei rapporti interpersonali l’energia del gruppo influenza lo stato psico-fisico della singola persona, è questione di vibrazioni che si trasmettono con la semplice presenza.
La disabilità ha richiesto tempi lunghi per la preparazione che diviene essa stessa trattamento: il distendersi senza ausili su un tappetino, il rilassarsi in un contesto improvvisato fatto di cuscini, luci soffuse e musiche dolci con a fianco una persona non conosciuta che propone un trattamento fatto di coccole invisibili è così insolito e nuovo, un’esperienza che ridesta curiosità e diffidenza.
Come operatore reiki devo riconoscere la sfida ad accostarsi per la prima volta a una persona la cui energia scorre attraverso rigidità e canali così poco allineati ma tortuosi nel vero senso della parola.
Riconosco anche il piacere di vedere un corpo abbandonarsi al rilassamento e abbandonare il controllo per lasciarsi andare al piacere del momento.
È bello, anche dopo solo 15 minuti, raccogliere commenti quali “Che bello che è stato!” o “Mi sono sentito bellissimo”: vivere un’esperienza che attinge dalla bellezza pura e naturale dell’universo, fa diventare bella la persona stessa.

20. Scheda tecnica/“Il Reiki”

Partecipanti:
7 animatori con disabilità
2 educatori 

Durate del laboratorio:
3 ore circa
15 minuti di riscaldamento
2:15 ore di attività
30 minuti di condivisione

Luogo:
ampia stanza

Obiettivo generale:
conoscere il proprio corpo e utilizzarlo come strumento di piacere

Obiettivi specifici:
abbiamo utilizzato le mani di un operatore esperto come canale attivo di energia vitale per ripristinare la connessione tra l’energia individuale della persona e quella dell’universo.

Attività:
1) Riscaldamento.
2) Reiki: con Susetta Sacchi abbiamo realizzato un’esperienza di rilassamento psico-fisica attraverso la tecnica orientale del reiki. L’esperta ha incontrato singolarmente ognuno dei partecipanti per una durata individuale di circa 20’.
3) Condivisione.

Materiali:
tatami, cuscini, stereo 

Commenti dei partecipanti
F: Io non vorrei andare dentro me stessa, perché scoprirei delle cose che non vorrei, che non accetterei… Penso che stimolando il corpo, alcune di queste cose potrebbero saltare fuori, però io cercherei di farle tornare dentro per paura di affrontarle.
D: A me ha fatto pensare a quello che ho avuto che non è una malattia che è venuta nel tempo, ma che sono nato così; posso comunque arrivare a provare piacere e la malattia passa in secondo piano.

19. Trasferire sensazioni: il metodo Trager

di Luca Manghi, educatore Trager e operatore della relazione d’aiuto/counselor in Gestalt.

Il progetto si è svolto in tre mattinate, a cadenza settimanale, in ottobre e novembre 2014.
È stato utilizzato il metodo Trager, altrimenti detto Integrazione Psicofisica o approccio Trager.
Nel corso di ogni mattinata, l’operatore corporeo/educatore Trager che ha condotto l’attività ha inizialmente offerto dei semplici momenti di trattamento agli educatori, seduti su una sedia. Questi hanno poi a loro volta, coadiuvati dal conduttore, somministrato la stessa esperienza a tutti gli altri operatori, evocando in essi alcune specifiche sensazioni di benessere. Così facendo, tutti gli operatori si sono appropriati delle sensazioni, e poi, opportunamente guidati dai suggerimenti evocativi del conduttore, le hanno trasmesse agli utenti attraverso il contatto attento, rispettoso e dolce delle loro mani sul loro corpo. Sono così passate sensazioni di accoglienza, di alleggerimento, di sentirsi più liberi nel proprio corpo, di rilassamento dei tessuti, di abbandono del sistema nervoso, di scioglimento della tensione cronica, per arrivare fino al rilassamento profondo. Questo, pur in persone in condizione di spasticità cronica.
Chi ha ricevuto è stato posto in una condizione il più possibile rilassata e comoda, di fiducia nell’operatore, in modo da favorire la disponibilità all’aprirsi e l’esperienza passiva. Per tutti, è stato creato l’ambiente adatto a potersi immergere nel presente, in modo da favorire il vuoto mentale. Per chi ha operato, è stato indispensabile il fatto di essere privi di pensieri distraenti, totalmente presenti alla sensazione del proprio corpo, del corpo dell’altro e del silenzioso passaggio di informazione che avviene durante il contatto.
In estrema sintesi: sulla base del metodo Trager, abbiamo trasferito un certo stato di sensazione dall’operatore al ricevente, attraverso le mani dell’operatore che, toccando il soggetto in zone recettive e attraverso particolari modalità, hanno raccontato al corpo/mente del ricevente come sarebbe il suo corpo – o quella parte del suo corpo – se tutto fosse a posto, in condizione ideale. E il ricevente ha accettato il messaggio, lasciando la sua condizione [di tensione, n.d.r.] di partenza per adottarne – temporaneamente – una nuova e migliore. Così descritta sembra una cosa un po’ fantascientifica, ma il messaggio è effettivamente sempre passato: anche se gli operatori non erano degli esperti del contatto corporeo, è passato.
Il metodo Trager, che prende nome dal medico americano che lo ha concepito e poi diffuso in tutto il mondo occidentale, Milton Trager, può essere praticato a livello individuale o in incontri di gruppo. Durante le sedute individuali il soggetto può ricevere l’approccio Trager da seduto, da sdraiato o in movimento, in base alle sue esigenze e alle sue possibilità motorie. Grazie a movimenti leggeri e per nulla invasivi, l’approccio Trager aiuta a sciogliere tensioni fisiche e mentali, portando una sensazione di rilassamento e di profondo benessere e incrementando la mobilità del corpo. Non si occupa della patologia in quanto tale, ma della persona, operando sul tutt’uno corpo/mente, e mobilizzando tessuto, muscoli, ossa e articolazioni, ecc, ma soprattutto indirizzando, attraverso il sistema nervoso, informazioni di cambiamento terapeutico alla mente del paziente. È utile per tutti, trattando efficacemente problemi come cervicale, lombalgia, mal di schiena o dolori articolari; ma è soprattutto osservando i risultati ottenuti sulle persone più gravi che ci si rende conto della profondità della sua efficacia. Impiegato sotto controllo medico e in sinergia con terapie cliniche ha dato risultati positivi anche nel trattamento di sclerosi multipla, morbo di Parkinson, forme spastiche acute, lombalgie e sciatalgie acute e croniche, malattie polmonari croniche come l’asma e l’enfisema.
I messaggi trasmessi dall’educatore sono sempre inviti, mai imposizioni. È la persona che decide di accettare, fare proprie e integrare le sensazioni che percepisce nel proprio percorso.
Lo stato di presenza in cui si trova l’educatore durante la sessione è uno stato rilassato e meditativo di contatto con il proprio Sé, condizione essenziale per stabilire una connessione profonda con l’utente.

18. Scheda tecnica/“Massaggi Trager”

Partecipanti:
– 7 animatori con disabilità
– 2 educatori
– 5 tra tirocinanti e volontari

Durata del laboratorio (sono stati realizzati tre incontri):
2 ore circa 15 minuti di riscaldamento
1:15 ora di attività
30 minuti di condivisione

Luogo:
ampia stanza

Obiettivo generale:
consapevolezza nella percezione del proprio corpo

Obiettivi specifici:
– il metodo Trager. La ricerca del benessere e del piacere a partire dal massaggio corporeo per arrivare a coinvolgere la psiche e l’anima

Attività:
1) Riscaldamento.
2) Massaggi. Dopo aver illustrato su di noi i movimenti, l’esperto ha spiegato e supervisionato sull’attività che veniva svolta con rapporto uno a uno.
3) Condivisione.

Materiali:
materassini, stereo, cuscini

Commenti dei partecipanti
T: Ho fatto fatica a rilassarmi. La seconda attività è stata a terra stesi: mi sono sentita libera e mi sono rilassata.
G: Mi sono sentito coccolato.
S: Ho provato una sensazione di sentirsi bene anche dentro di me, di benessere, di essere morbida.
S: È stato piacevole quando ero sdraiata completamente e l’affidarmi agli altri.
G: Il mio corpo diceva che Luca è molto bravo: ci siamo sciolti in due.
D: Il mio corpo mi ha detto che devo fidarmi di voi.

17. L’esperienza di una volontaria

di Tosca Barbara Rodi, volontaria del Servizio Civile

Partecipando a questo laboratorio, condotto dagli educatori del “Progetto Calamaio” Luca e Tristano, con la collaborazione di altri professionisti esterni, ho avuto la possibilità di riflettere sulla rilevanza dell’esperienza corporea incentrata sulla scoperta del piacere e del benessere, aspetto che spesso viene trascurato e/o marginalizzato nel caso delle persone con disabilità, il cui corpo viene considerato solo ed esclusivamente oggetto di cure e assistenza.
Questi incontri hanno dato a ognuno di noi (disabili e non) validi suggerimenti che hanno indotto a riflettere sul nostro sé corporeo in un contesto di partecipazione e condivisione, e fornito delle strategie, spingendo chi più, chi meno a intraprendere un percorso individuale al di fuori.
Negli ultimi anni, i miei colleghi Luca e Tristano hanno lavorato e approfondito accuratamente la tematica del corpo, in quanto la maggior parte degli animatori disabili del gruppo Calamaio non era propriamente consapevole della sua fisicità: l’educazione al e con il corpo su cui è stato improntato questo percorso laboratoriale, ha dato a tutti la possibilità di intraprendere un cammino conoscitivo su se stessi (sui propri limiti, sulle proprie risorse) e sugli altri, definendo così la relazione con l’ambiente circostante, con il Sé e l’alterità, e alcuni degli obiettivi necessari alla realizzazione del proprio progetto di vita e di autonomia.
Ho avuto, dunque, la possibilità di seguire in prima persona alcuni degli otto incontri previsti; durante il primo dei quali, gli animatori disabili hanno preso parte alla c.d. attività de “l’asciugamano”: sono stati stesi per terra e ricoperti a segmenti con un asciugamano bagnato; successivamente, ciascuno di loro, man mano che dell’ acqua calda veniva versata sui corpi, è stato massaggiato dagli educatori o da noi volontari/ ragazzi del Servizio Civile. Questa esperienza ha permesso a molti di riconoscere le singole parti del corpo, dal momento che i partecipanti, avendo anche deficit di natura motoria, siedono su una carrozzina e si considerano un tutt’ uno con essa, ragion per cui la maggior parte non è pienamente consapevole di quali siano le proprie zone più sensibili.
Inizialmente, per me è stato davvero imbarazzante toccare i loro corpi, soprattutto, vedere le loro reazioni ed espressioni di disagio o di piacere provocate dal contatto con l’acqua o da una mano diversa da quella dei propri famigliari. D’altro canto, ho notato come per molti degli animatori disabili sia stato difficile affidarsi a una figura non professionista, che non si occupa quotidianamente della loro assistenza e/o cura personale.
I successivi tre incontri sono stati condotti da Luca Manghi, massaggiatore, esperto in psicomotricità e del cosiddetto “Metodo Trager”: tale metodo ha come principale scopo quello di portare l’altro a uno stato di totale rilassamento psico-fisico, mediante movimenti di varia natura (dondolii, allungamenti, pressioni leggere, movimenti dolci) aventi il fine di facilitare e aumentare la capacità motoria della persona con disabilità, e di rievocare lo stato di benessere acquisito, per poi fissarlo in gesti e movimenti praticabili nella vita quotidiana.
Caratteristica peculiare del metodo è la predisposizione all’ascolto del corpo dell’altro: è stato difficile, in un primo momento, comprendere in che modo fosse possibile procurare una sensazione di piacere all’altro, scoprire quali fossero le parti del corpo più sensibili, e su cui lavorare in misura maggiore. Queste difficoltà, però, sono state poi superate attraverso la relazione empatica, la comunicazione, lo scambio con le persone disabili che molto spesso hanno manifestato i propri bisogni e desideri, ed espresso delle richieste.
Ho notato, soprattutto all’inizio, la tendenza di alcuni corsisti a voler “tenere la situazione sotto controllo”, a guardarsi intorno durante l’atto del massaggio; questo li ha portati ad abbandonarsi con più fatica; in quei momenti, perciò, sono stata io a fare loro delle domande, a non avere il timore di chiedere cosa gli piacesse di più, e rispetto alle prime volte, l’imbarazzo nel vedere le loro reazioni era diminuito notevolmente; anzi, osservare sui loro volti un sorriso, delle espressioni rilassate ed estasiate, non mi creava più disagio, bensì, mi infondeva calma e serenità: è stato bello essere l’artefice del loro benessere!
Davvero interessante è stato anche l’incontro condotto dall’esperto massaggiatore Marco Galli, che ci ha mostrato la pratica dei “Massaggi a tempo di musica”, dando a tutti, non solo a chi riceveva il massaggio ma anche a chi lo praticava, la possibilità di rievocare sensazioni, emozioni, vissuti, ricordi, e di dare libero sfogo alla propria immaginazione.
Il percorso laboratoriale si è concluso con lo scambio di ruolo: durante l’ultimo incontro gli animatori disabili hanno indossato le vesti di massaggiatori e noi educatori e volontari ci siamo prestati a ricevere. È stato bello lasciarsi andare e affidarsi a loro poiché dai loro gesti, dalle loro movenze traspariva la voglia di farmi stare bene; è stato gratificante vedere la gioia dei miei colleghi con disabilità: sono stati abili ad accogliere e ascoltare le nostre esigenze, questo dimostra come anche le persone disabili possano essere fautrici del piacere altrui, come anche un corpo con difficoltà di varia natura possa essere contenitore di innumerevoli risorse.

16. Scheda tecnica/“L’asciugamano”

Partecipanti:
7 animatori con disabilità
– 2 educatori
– 2 volontari

Durata del laboratorio:
3 ore circa
15 minuti di riscaldamento
2:15 ora di attività
30 minuti di condivisione

Luogo:
ampia stanza

Obiettivo generale:
conoscere il proprio corpo e utilizzarlo come strumento di piacere

Obiettivi specifici:
riconoscere il proprio corpo prima in segmenti poi nella sua totalità,  individuando le zone più sensibili

Attività
1) Riscaldamento.
2) I corsisti sono stati messi in costume e fatti sdraiare. Con un asciugamano sono stati ricoperti a segmenti fino a coprire totalmente il loro corpo. Dell’acqua molto calda veniva versata dolcemente nei vari segmenti coperti del corpo per cercare di individuare le zone più sensibili, le zone del piacere.
3) Condivisione dell’esperienza.

Materiali:
asciugamani, recipienti con coperchi per l’acqua calda, materassini, scodelle, cuscini (i cuscini sono fondamentali… Ogni volta che stendevamo a terra le persone con disabilità era importante riuscire a garantire una posizione comoda riempiendo i vuoti lasciati dai loro corpi).  

Commenti dei partecipanti
G: Ho sentito il calore nelle gambe, le mie gambe esistono. Trovo differenza tra la ginnastica del terapista e quello che facciamo qui perché voi mi fate diventare grande.
S: Quando faccio la doccia è diverso e non sento le parti del corpo…
S: Quando l’acqua mi è arrivata sulla vagina, ho provato piacere, calore, ho sospirato…
D: Quando mi lava mia mamma il mio corpo non dice niente.
F: Io devo controllare tutto e il fatto di dovermi lasciare andare nelle mani dell’altro mi dava fastidio, non mi fido.
T: L’acqua mi ha massaggiato la vagina. Una sensazione nuova.

15. Il corpo e i piaceri. Il corpo che desidera e sogna. Il corpo che fa e agisce, il corpo che riceve e accoglie

Terza parte
“Il corpo sa tutto o quasi
Il corpo conosce l’acqua perché la beve
conosce l’aria perché la respira
il corpo conosce i baci che dà e riceve.
Molta fatica fa con le parole
che ascolta o dice,
lì si confonde
tra linfa e parassita, tra la chioma
e la radice”.
(Elogio del corpo)

“A partire dalla sua valenza semantica, il piacere designa dunque un qualcosa che ha a che fare direttamente con l’esperienza dell’Io corporeo. Essere corpo significa esperire il mondo e insieme essere collocati in esso. La sensazione traccia un confine tra il dentro e il fuori, è un punto di tensione ove l’oggetto – o l’alterità di cui si ha percezione – si formula come termine di repulsione o di desiderio”.
(Estratto da L’universo del corpo di Salvatore Natoli)

L’obiettivo di questo terzo anno di laboratorio si incentra su una reale conoscenza del proprio corpo, non solo dal punto di vista medico-fisioterapico, ma anche come strumento di piacere. Questo permette, ai disabili e non solo, di avere una maggiore consapevolezza di sé.
Perché corpo e piacere sono strettamente connessi.
Il piacere è il senso di viva soddisfazione che deriva dall’appagamento di desideri, fisici o spirituali, come pure di aspirazioni di vario genere. Nel suo significato più immediato e corrente il termine è sinonimo di godimento o, più esattamente, di esaltazione dei sensi.
Il piacere ci ricarica di energia, ci rende dinamici, scaccia la fatica, ci rilassa, ci permette di guarire, ci ridona la gioia. Ci riconnette al nostro corpo, agli altri e al mondo.
Partendo da queste definizioni vogliamo spiegarvi perché il nostro percorso sulla “Conoscenza di sé attraverso il corpo” doveva passare e concludersi con il piacere.
Il percorso è durato tre anni. Nei primi due anni abbiamo scoperto che i disabili partecipanti al laboratorio conoscevano benissimo il loro corpo dal punto di vista fisioterapico: cosa funziona e cosa non funziona, ma non possedevano nessuna conoscenza del corpo come fonte di piacere. Piacere che non deve essere collegato solo alla sessualità, ma alla scoperta di parti di corpo che, se stimolate, possono creare momenti di benessere. Il raggiungimento di uno stato piacevole avviene attraverso lo scambio affettivo con il massaggiatore. Per questo motivo ci siamo avvalsi di massaggiatori olistici che con le loro mani hanno permesso ai disabili di fare una esperienza nuova. Infatti il loro corpo non veniva toccato per togliere un dolore fisico ma per creare un piacere. Questo permetteva loro di mettersi in contatto con ogni centimetro del corpo e le sensazioni che scorrevano dentro di loro nel momento in cui veniva effettuato il massaggio. Queste pratiche olistiche hanno aiutato i disabili ad avere una maggiore conoscenza della realtà e a sentirsi maggiormente gratificati dal fatto che non venivano considerati  persone diverse e non venivano visti in maniera pietistica, aumentando la loro consapevolezza e l’autostima.

14. Corpi che cambiano forma

di Marco Ardemagni, fisioterapista, esperto di riabilitazione Neuromotoria delle Cerebrolesioni dell’Adulto e dell’Infanzia, consulente, docente di Interazione Guidata, presidente dell’associazione Hans Sonderegger.

Le persone con disabilità grave che sia essa esclusivamente motoria o, come più spesso accade, psicomotoria hanno corpi che più di altri sono segnati dal tempo. Il corpo è l’involucro del nostro essere, è lo strumento con il quale l’Io comunica ed entra in relazione col mondo, è la porta d’accesso dello sviluppo e della conoscenza. Per chi studia la fisiologia del nostro corpo è la propaggine con cui il nostro cervello tocca e conosce il mondo.
Ma cosa succede quando tale strumento è guasto, non funziona bene?
Pensiamo alle persone con disabilità motoria o psicomotoria: il loro corpo è oggettivamente diverso, visibilmente alterato, l’involucro con il quale si presentano al mondo spesso è malconcio, decadente o, come minimo, disfunzionale. E tutti sappiamo come è difficile non giudicare dalle apparenze. Molti hanno capito di dover superare le apparenze, in generale, e con chi appare diverso in particolare, ma quanti ancora si allontanano da ciò che appare diverso e non piacevole?
E se il corpo che agisce serve per svilupparsi e per apprendere, quanto difficile deve essere per chi ha un corpo che non funziona?
Senza falso buonismo e ipocrisia bisogna dichiarare che chi ha una disabilità psicomotoria che ne limita l’autonomia si trova nella condizione di riduzione dei contatti sociali e delle possibilità di apprendere e svilupparsi. Ritengo che questo sia il primo diritto che viene leso!
Di fronte a queste considerazioni, prendersi cura del corpo diventa l’impalcatura di sostegno di qualsiasi progetto educativo. Qui si intende ricordare quanto le caratteristiche del corpo, e i suoi limiti nella menomazione, siano importanti come focus specifico su cui costruire la promozione della persona. Ed è quindi doveroso ricordare agli addetti ai lavori che un corpo che non funziona bene, soprattutto quando comincia a svilupparsi, da neonato, può e deve essere aiutato a funzionare meglio. Perché è possibile intervenire in maniera efficace con qualsiasi livello di gravità.
Sgombriamo subito il campo da falsi sensazionalismi ottimistici: le menomazioni ci sono, si mantengono, ma molte delle conseguenze che vediamo possono e devono essere evitate.
Le persone con disabilità congenita, che hanno cominciato la propria vita già in debito, che hanno uno sviluppo atipico, alterato, posseggono corpi che presentano un funzionamento atipico, alterato. Richiedono solo più attenzione e determinazione nel cercare di vincere le conseguenze della menomazione.
Ricordiamo tutti che il sistema motorio si sviluppa e cresce partendo da una programmazione predeterminata dal nostro corredo genetico, ma poi sfrutta le relazioni fisiche che nascono dalla interazione col mondo. I comportamenti motori alterati, che si vedono già all’inizio dello sviluppo nelle persone con disabilità, possono e devono – non mi stancherò mai di ripeterlo! – essere condizionati da trattamenti riabilitativi specifici, così come i deficit di apprendimento e sviluppo cognitivo meritano progetti e programmi educativi specifici.
Troppo spesso atteggiamenti fatalistici degli addetti ai lavori sono concausa di conseguenze gravi.
Invece, il primo dovere da adempiere per chi lavora con la disabilità è incidere in maniera positiva e propositiva nei confronti dei deficit e dei bisogni del disabile, ovviamente ciascuno per la propria specifica professionale. Per poterlo fare ricordiamo tutti che è necessario conoscere bene il problema che si va ad affrontare, in particolare conoscere bene quali sono gli interventi più efficaci sul lungo periodo. Perché chi è affetto da disabilità congenita dovrà lottare tutta la vita con le conseguenze del suo problema.
Per chiarire meglio il concetto proviamo a partire dall’origine del problema. La disabilità congenita è provocata da una alterazione genetica o avvenuta in fase di sviluppo embrionale (spesso di natura infettiva), o di poco successiva alla nascita, oppure conseguente a problemi al momento del parto.
Si parla di danni più o meno gravi del Sistema Nervoso Centrale che hanno come conseguenza diretta problemi del movimento o delle capacità cognitive e di apprendimento (queste ultime dipendono dal movimento). Ma avere avuto un danno non significa necessariamente che tutto è perduto, che non ci sono possibilità di sviluppo. Fortunatamente il nostro cervello, sebbene non sia in grado di rigenerarsi, ha una grande capacità di riadattarsi e riorganizzarsi.
Le opportunità offerte al cervello attraverso gli stimoli dell’ambiente circostante condizionano enormemente la sua riorganizzazione. Quindi se qualcosa si manifesta alterato, per esempio nelle caratteristiche del movimento, perché, ricordiamolo bene, all’inizio solo questo fanno gli esseri umani, si può provare a condizionarlo per recuperarne il più possibile le caratteristiche normali o limitare i danni che il muoversi in maniera anomala provocherà col passare del tempo.
A distanza di decenni dall’inizio dello sviluppo delle tecniche e dei metodi e delle filosofie di riabilitazione neuro psicomotoria, o dei programmi di stimolazione cognitiva e dell’apprendimento rivolti alla disabilità congenita, le conseguenze e gli effetti delle buone prassi e del buon lavoro sono evidenti.
Ma cosa si può fare di fronte alla situazione ormai definitiva della disabilità stabilizzata, nell’età adulta?
Con la stessa determinazione e specificità è necessario continuare a stimolare lo sviluppo della persona e promuoverne l’apprendimento, non trascurando mai che le menomazioni motorie del corpo devono essere prese in seria considerazione. Perché un corpo che ha cambiato forma rispetto alle caratteristiche naturali è una possibile fonte di sofferenza fisica. Un corpo che non si muove, o che si muove male, va incontro più facilmente al decadimento organico e al dolore. È doveroso prendersene cura! Così come una riduzione delle possibilità di muoversi e fare conduce a una direttamente proporzionale riduzione della possibilità di collezionare esperienze, vitali per lo sviluppo e l’autodeterminazione dell’individuo.
Nella realizzazione dei programmi educativi di sostegno alla disabilità bisogna quindi tenere ben presente la necessità di offrire opportunità di positive esperienze fisiche.
Ma non pensiamo ai semplici programmi di ginnastica di mantenimento o mobilizzazione finalizzata alla prevenzione del decadimento del corpo: questo è nobile, ma riduttivo. Le stesse pratiche di manutenzione corporea possono e devono essere inserite nel contesto di attività significative e arricchenti per l’individuo.
Esistono ormai infinite soluzioni per abbinare il piacere e il divertimento alle pratiche motorie che, anche con una limitata fatica, possono essere adattate a qualsiasi menomazione motoria.
È stimolante, nonché doveroso guardare la persona nel suo insieme quando si pianificano e si realizzano attività per la stimolazione motoria.
Così come è ancora più accattivante escogitare maniere per coinvolgere nelle attività laboratoriali, artistiche addirittura, anche i soggetti con le menomazioni motorie più gravi.
Dico questo perché sono numerosi gli approcci riabilitativi e/o educativi finalizzati alla presa in carico completa della persona disabile, esempi di innumerevoli esperienze virtuose di cui far tesoro e da cui attingere per completare e arricchire i progetti ancora incompleti.
Gli individui sono costituiti da diverse dimensioni: fisica, psicologica, affettiva, ecc.: per questo tutti questi aspetti devono essere considerati.
Guidare le mani o il corpo di una persona che non si muove a fare esperienza diretta, concreta, fisicamente significativa, di una attività rende tale esperienza ancora più completa e arricchente.

13. Scheda tecnica/“Lo specchio”

Partecipanti:
– 7 animatori con disabilità
– 2 educatori (di cui uno conduce il laboratorio)

Durata del laboratorio:
2 ore circa
15 minuti di riscaldamento
1:15 ora di attività
30 minuti di condivisione

Luogo:
ampia stanza

Obiettivo generale:
consapevolezza nella percezione del proprio corpo

Obiettivi specifici:
– verificare le caratteristiche reali del proprio corpo
– riconoscere se stessi

Attività
1) Riscaldamento.
2) Cosa mi piace e non mi piace del mio corpo: i partecipanti sono stati messi in costume da bagno e poi posti davanti a uno specchio per vedersi nella loro totalità. Dopo sono stati posti in cerchio e a voce hanno risposto alla domanda: “Cosa mi piace e cosa non mi piace del mio corpo?”.
Il conduttore scrive quello che dicono i partecipanti.
3) Condivisione: come siamo stati nel fare questa attività, su cosa ci ha fatto riflettere, cosa ha mosso in noi.

Materiali:
specchi, fogli, biro

Commenti dei partecipanti
T: non ho problemi perché sono abituata, non ho avuto difficoltà a dire le cose che mi piacciono o no, perché ho fatto un percorso di accettazione personale. Mi piace condividere il lavoro con il gruppo.
F: imbarazzante perché non mi ero mai guardata ed ero in difficoltà a condividere perché, non conoscendomi, faccio fatica a parlarne.
G: mi è piaciuto perché sono contento di fare vedere il mio corpo.
D: mi sono sentito bene, anche se non sono abituato a farlo. Non mi ero mai visto per intero.
S: mi sono sentita bene, avevo paura di essere imbarazzata di dire le parti di me che mi piacciono o non mi piacciono, perché non è una cosa facile perché ho paura del giudizio.