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Autore: Nicola Rabbi

3. Il processo inclusivo e la cooperazione internazionale: riflessioni su un’esperienza in Bosnia Erzegovina

a cura di Andrea Canevaro, docente di Pedagogia Speciale dell’Università di Bologna e delegato del Rettore della stessa Università per gli studenti con bisogni speciali, e M. Luisa Zaghi, coordinatrice del Centro di Documentazione per l’Integrazione con sede a Crespellano (Bologna)

Abbiamo chiesto al prof. Andrea Canevaro e alla dott.ssa Maria Luisa Zaghi di raccontarci il progetto di cooperazione internazionale “Tutela e reinserimento di minori con disabilità fisica e psichica e promozione di imprenditorialità sociale nel territorio della Federazione Bosnia Erzegovina e Repubblica Srpska” realizzato da un partenariato composto dalla ONG italiana EducAid, l’Università di Bologna e le regioni Emilia-Romagna e Marche. Si tratta di un progetto pluriennale che ha operato per aiutare a costruire un sistema educativo basato sull’inclusione dei bambini con disabilità cercando di superare il modello preesistente incentrato sull’educazione separata.

Premessa
Lo Statuto della Carta della Terra, e i suoi Principi, recita: 

1. Rispetta la Terra e la vita, in tutta la sua diversità:

a. riconoscendo che tutti gli esseri viventi sono interdipendenti e che ogni forma di vita è preziosa, indipendentemente dal suo valore per gli esseri umani;

b. affermando la fede nell’intrinseca dignità di tutti gli esseri umani, relativamente alle potenzialità intellettuali, artistiche, etiche e spirituali dell’umanità.

2. Prendi cura della comunità della vita con comprensione, compassione e amore:

a. accettando che il diritto di possedere, gestire, e utilizzare le risorse naturali si accompagna al dovere di impedire il danneggiamento dell’ambiente e di tutelare i diritti dei popoli;

b. affermando che l’aumento della libertà, delle conoscenze e del potere si accompagna all’aumento della responsabilità di promuovere il bene comune.

3. Costruisci società democratiche che siano giuste, partecipate, sostenibili e pacifiche:

a. facendo in modo che le comunità a tutti i livelli garantiscano i diritti umani e le libertà fondamentali e forniscano a tutti l’opportunità di realizzare appieno il proprio potenziale;

b. promuovendo la giustizia sociale ed economica permettendo a tutti uno standard di vita sicuro e dignitoso che sia ecologicamente sostenibile.

4. Tutela l’abbondanza e la bellezza della Terra per le generazioni presenti e future:

a. riconoscendo che la libertà di azione di ciascuna generazione è soggetta alle esigenze delle generazioni future;

b. trasmettendo alle generazioni future valori, tradizioni e istituzioni capaci di sostenere lo sviluppo a lungo termine delle comunità umane e ecologiche della Terra.

Il progetto
Il progetto “Tutela e reinserimento di minori con disabilità fisica e psichica e promozione di imprenditorialità sociale nel territorio della Federazione Bosnia Erzegovina e Repubblica Srpska” ha avuto inizio nel maggio 2005 dopo essere stato approvato dal Ministero degli Affari Esteri italiano e cofinanziato dalle Regioni Emilia-Romagna (capofila) e Marche.
L’idea originale per la parte educativa dello stesso risale al 1998, quando Alfredo Camerini (EducAid) e Andrea Canevaro, dopo vari soggiorni di osservazione e contatti nel territorio della Bosnia Erzegovina, elaborarono un progetto destinato ai minori, vittime dei conflitti armati. Bisogna tener conto che, come in gran parte dell’Europa centrale e orientale, l’approccio bosniaco ai bambini con bisogni speciali era stato guidato dalla tradizione “difettologica”, nata in Unione Sovietica negli anni Venti di questo secolo, con un approccio fondamentalmente medico improntato a una pratica di: valutazione, categorizzazione e intervento. Dal punto di vista educativo questo portava tendenzialmente all’esclusione dei bambini con bisogni speciali dal sistema educativo principale e il loro inserimento in un sistema di scuole speciali.
In Bosnia, con la fine della guerra e il grande numero di bambini traumatizzati psicologicamente e fisicamente, si è reso inevitabilmente necessario modificare questo approccio, favorendo il coinvolgimento di un elevato numero di bambini con difficoltà di apprendimento nel sistema educativo comune. Questo processo ha incontrato ostacoli sia per un sistema burocratico rigido che difficilmente accetta cambiamenti, sia per la presenza di una programmazione didattica che prevede ritmi molto intensi e competitivi; gli insegnanti si sono trovati così in seria difficoltà nel voler seguire con la dovuta attenzione quegli alunni che invece richiedono ritmi di insegnamento più personalizzati. Il sistema delle scuole speciali d’altra parte è risultato sempre più insostenibile anche per l’elevato costo, incompatibile con le risorse di cui il sistema educativo bosniaco dispone.
Negli ultimi anni poi la Bosnia Erzegovina ha visto notevoli mutamenti rispetto alla situazione per cui il progetto era stato pensato: un’importante novità, ad esempio, è stata l’approvazione, nel 2003, della riforma scolastica che indica l’inclusione come prassi da perseguire e promuovere; è un dato fondamentale a cui il lavoro di cooperazione ha potuto fare riferimento.
Il nuovo scenario ha richiesto una revisione del progetto originario acquisendo un’ottica, non più emergenziale, ma di sviluppo, di lotta all’esclusione e all’emarginazione sociale.

La componente educativa
La componente educativa del progetto ha avuto quindi come obiettivo generale lo sviluppo di un sistema basato sull’inclusione dei bambini disabili nelle scuole ordinarie e sulla progressiva riduzione del sistema educativo separato, attraverso la valorizzazione e la diffusione delle buone prassi organizzative.
Le attività hanno riguardato principalmente 50 scuole, in cui sono stati svolti lavori di ristrutturazione per favorirne l’accesso ai bambini con bisogni speciali, a cui è stato fornito materiale didattico e sostegno al lavoro degli insegnanti attraverso la proposta dei PEI (Piani Educativi Individualizzati), e dove sono stati attivati micro-progetti al fine di favorire la creazione di contesti educativi aperti, dinamici, plurali e sensibili alle diversità.
Per far maturare questi percorsi di educazione democratica si sono svolte altre attività esterne alle scuole che hanno coinvolto principalmente insegnanti, operatori sociali, genitori e gli altri soggetti adulti che si prendono cura dei minori con bisogni speciali. Si sono svolte periodicamente formazioni per insegnanti, sia su ciò che è strettamente legato alle specifiche disabilità, sia su possibili percorsi didattici da intraprendere in una classe aperta alla diversità. Per arricchire la formazione degli operatori sono state organizzate numerose visite studio in Italia presso varie scuole e Centri dell’Emilia-Romagna, con cui è stato possibile attivare processi di confronto, per una rielaborazione e presa di coscienza sulle diverse possibilità dell’inclusione.

Cambiamenti in corso
I contatti che abbiamo avuto in questi anni con tutte le istituzioni, dalle Università alle scuole, sono sempre stati improntati a grande cordialità, incontrata un po’ ovunque. Ma lo stile, con il tempo è cambiato: all’inizio era all’insegna dell’attesa (di un conforto, di un dono, di un indirizzo); poi è diventato molto di più all’insegna dello scambio fra pari, tra persone che stanno lavorando su temi che, per loro natura, incoraggiano la collaborazione.
Tale cambiamento non è stato sincronico, perché non tutto cambia in un tempo solo; ad esempio, le informazioni utili per prendere singole decisioni non sono state, a volte, condivise e, di conseguenza, le decisioni stesse non sono emerse da un processo partecipato.

Settori principali di intervento e collaborazione in ambito educativo: uno sguardo sintetico
Le scuole
Dal percorso e dai contatti avuti in questi anni emergono principalmente due elementi:
1) è uscita allo scoperto una molteplicità e una diversità di livelli e di impegni professionali; 2) la prospettiva inclusiva è avviata, pur nella varietà di riferimenti e di condizioni.
Il primo punto significa che si è “aperto” un modello didattico e programmatico che era molto normato (cioè: con regole già decise e che si presentano come stabili) e centralizzato, e che ora rivela le differenze dei singoli insegnanti, sia come singoli che come gruppi.
“Il retaggio del vecchio sistema di categorizzazione – spiega la prof.ssa Jelena Sipka di Baja Luka, in un’intervista a M. Luisa Zaghi in occasione del monitoraggio del progetto (ottobre 2007) – influisce ancora negativamente sull’inclusione. Quando un bambino viene categorizzato diventa lo ‘scemo’ che ha bisogno di un nuovo programma apposito formulato a seconda della categorizzazione. Senza capire le potenzialità, la storia e le possibilità del bambino, il problema nasce dalla strutturazione della lezione frontale. L’inclusione ha sconvolto tutto il sistema scolastico. Inoltre gli insegnanti regolari non capivano cosa vuol dire creare un programma individualizzato e ne chiedevano uno precostituito. Inoltre i professori che hanno bambini con bisogni speciali non hanno alcun riconoscimento economico per il lavoro in più svolto. In più, sono molto legati alla didattica classica e si ritiene che quando un professore ha un gesso e una lavagna non abbia bisogno di altro”.
Di contro, la visita alla scuola di Simin Hann a Tuzla (nel 2005) mostrava un modo di svolgere la didattica interattivo, capace di porsi nei confronti di un gruppo-classe eterogeneo, composto da differenze; mostrava una didattica capace di attivare modi di apprendimento non semplicemente organizzati su una gerarchia con una scala di valori che individua lo scolaro migliore e poi via via tutti gli altri. Si poteva osservare, ad esempio, un’attività di insegnamento della lingua inglese basata su un materiale “povero”: strisce di carta su cui erano disegnate quattro figure con quattro parole in inglese che le definivano. Vi era un gioco – un “bingo” – e l’insegnante nominava una parola che indicava una figura. Chi aveva la figura e la riconosceva sentendo la parola, doveva colorare la figura. Quattro figure colorate realizzavano un “bingo”.
Un’attività di questo tipo permette lo sviluppo di strategie diverse, e valorizza diverse capacità.
Ancora, la visita alla Scuola speciale Mjedenica, sempre nel 2005, a Sarajevo, anche se in quel momento non erano presenti i bambini, rivelava una pluralità di materiali e di organizzazioni diversificate degli spazi, e soprattutto era significativo, accanto a sottolineature della necessità della propria struttura, il bisogno della Direttrice di spiegare continuamente in che modo, anche all’interno della scuola speciale, si sviluppasse la prospettiva inclusiva. Per questo ci è chiaro che ormai ciascuna esperienza/struttura scolastica deve fare i conti con tale prospettiva.
“Nel 2003 la legge quadro nazionale per l’inclusione (confermata nel 2004 da una legge cantonale) ha reso possibile a tutti di frequentare la scuola regolare” – dichiara Azra Jasika, direttrice della scuola di Pasaric, in un’intervista a M. Luisa Zaghi. “Nell’aprile del 2003 alcuni genitori hanno chiesto di iscrivere i loro figli disabili; sono arrivati con i documenti medici, che certificavano il ritardo mentale; per l’esattezza una ragazza era paraplegica e due ragazzi avevano un ritardo mentale. Si è discusso con i genitori spiegando la disponibilità, ma anche la difficoltà ad affrontare la nuova situazione. I genitori hanno accettato il rischio, preferendo comunque lasciare la scuola speciale. Nel 2004, insieme a un’associazione non governativa, hanno fatto pressioni perché fosse attuata la legge regionale; il compito successivo è stato quello di migliorare l’accessibilità perché una ragazza era in sedia a rotelle. In seguito la collega Arianna (psicologa) ha esaminato i bisogni educativi degli alunni disabili con il compito di coordinare gli altri ad accogliere i compagni disabili (abbiamo anche fatto attenzione al numero di alunni per classe).
Importante è stato l’accordo con i genitori. Il primo obiettivo è stato quello di responsabilizzare i compagni più bravi perché fossero d’aiuto alla maestra: anche i genitori dei compagni degli alunni disabili sono stati scelti e poi sensibilizzati. Nella prima riunione con i genitori si è descritto il progetto e ci sono state delle perplessità: le obiezioni sono state soprattutto rispetto a un ragazzino con comportamenti non adeguati a una scuola normale. Il sostegno, ad accettare il ragazzino, c’è stato da parte di una mamma che lavora nel vicino ospedale psichiatrico; poi anche la mamma della ragazza paraplegica ha avuto il coraggio di raccontare la sua esperienza, le sue speranze; alla fine della riunione, tutti i genitori hanno deciso di contribuire a risolvere i problemi della classe.
Il secondo punto è stato creare piani individualizzati per gli alunni disabili ed è stato creato un gruppo di lavoro anche con l’aiuto di un esperto esterno (che lavora nell’ospedale psichiatrico) e che è intervenuto gratuitamente.
In aprile è stato inserito un altro insegnante (senza specializzazione) che ha lavorato sia in classe e anche in un altro spazio.
Tutta la circolazione di informazioni ha fatto sì che si creasse un ambiente inclusivo. La consapevolezza che l’educazione è per tutti è stata diffusa in tutti (anche ai bidelli)”.

Le Università
I contatti con le Università sono stati particolarmente finalizzati al lavoro con le scuole, compresa la ricerca di definire percorsi formativi per gli insegnanti; è stata però anche sottolineata l’importanza di favorire la prospettiva di studenti universitari disabili. E abbiamo trovato realtà attive, sensibili, capaci di capire quanto tali presenze possano rappresentare un valore aggiunto all’integrazione e alla prospettiva inclusiva.
È importante che vi siano esempi di realizzazione di progetti di vita adulta. L’assenza di una legge che sostenga queste possibilità rende, purtroppo, l’impegno dipendente esclusivamente dal volontariato.
Le Università rivelano una varietà di situazioni analoga a quella già indicata per il mondo scolastico. E anche in queste differenze vi sono punti di maggior sintonia con le nostre convinzioni tecniche, scientifiche e i valori etici connessi. Ma nell’ambito universitario vi sono i problemi di ruoli istituzionali che devono essere tenuti nel dovuto conto per procedere nella realizzazione dei progetti. È un problema quando chi ricopre un ruolo rivela un’adesione più formale che sostanziale.
Questo ci obbliga ad avere idee chiare su alcuni punti: 1) le competenze; 2) l’individuazione dei soggetti con bisogni speciali; 3) il passaggio da una didattica fondata sul modello trasmissivo a una didattica fondata sul modello interattivo.
Avendo chiari i riferimenti, possiamo più facilmente impostare le collaborazioni con i docenti universitari, nei progetti di formazione che sono impliciti nello sviluppo della prospettiva inclusiva.
Più volte abbiamo sentito citare i contatti avuti con altre ricerche e altri progetti, che hanno visto attive le Università di Oslo, della Finlandia, di Verona, dell’Austria.
Il collega Nenad Suzić, della Facoltà di Filosofia di Banja Luka e di Tuzla, ha svolto una ricerca che permette di fornire buoni indicatori sulla motivazione. Basandosi su un campione di 530 insegnanti, questa ricerca ha dimostrato che gli insegnanti desiderano studiare l’inclusione. Davanti al quesito che chiedeva se vogliono o no abilitarsi all’inclusione, c’era da aspettarsi una diversità tra le risposte degli intervistati in base al loro sesso, età, anni di servizio e competenza professionale.
La ricerca ha dimostrato che queste differenze non sussistono, che gli insegnanti ritengono di avere poca, ma non sufficiente, conoscenza dell’inclusione e che, inoltre, sentono di aver bisogno di una maggiore qualificazione professionale su questo tema. Oltre a ciò, la ricerca ha mostrato che gli insegnanti pongono una particolare attenzione alla collaborazione con la famiglia: sono disposti a inserire i genitori nei lavori che svolgono all’interno della classe e a istruirli su come progredire nel lavoro educativo con i bambini che hanno bisogni speciali.
Crediamo che questa fase sia importante per segnare il passaggio da rapporti nati per “aiutare” a un sistema aperto di scambi alla pari. È un passaggio che dobbiamo favorire, e questo dipende anche dal nostro modo di percepirci e presentarci.

La società civile
La sorpresa è stata scoprire, in diverse occasioni, che nascono o si rendono più visibili espressioni culturali, impegni sociali, organizzazioni, che per sintesi definiamo “società civile”.
A Sarajevo, nello stesso gruppo di EducAid, vi è Sead Kesevljiakovic, e a casa sua abbiamo potuto vedere l’archivio storico di famiglia, e un piccolo campione di immagini delle tante raccolte in videocassetta e DVD sulla guerra, sulle realtà delle famiglie in quel periodo, sulle pubblicità e i notiziari, con una passione per la ricerca che supera gli steccati. Un esempio molto interessante di un impegno culturale che può fare lievitare il progetto inclusivo, collegandolo con motivi culturali di ampio respiro.
A Sarajevo, la gentilezza dell’Ambasciatore italiano ci permette di avere la lista delle imprese italiane presenti in Bosnia.
Sempre a Sarajevo incontriamo la combattiva Difettologa dell’Associazione Duga, Vassililja Velikovic, che ci ospita a casa sua.
A Simin Hann veniamo a conoscenza che, oltre ad aver messo in rete altre 12 scuole, il gruppo di quella scuola ha in qualche modo ispirato e favorito la nascita di un’associazione che comprende anche cittadini del territorio, e che ha permesso la realizzazione di diverse iniziative, anche di aiuto alla scuola. Ad esempio: un libro-catalogo di proposte didattiche.
Nell’Università di Tuzla scopriamo l’associazione degli studenti universitari disabili. E nella stessa occasione prende la parola una rappresentante di un’altra associazione impegnata nella solidarietà. E tutte queste iniziative sono nate localmente. L’associazione degli studenti universitari disabili ha avuto uno spunto dal contatto con l’Università di Barcellona; ma ha caratteristiche tali da renderla radicata in Tuzla e nella sua Università.
Queste realtà sono di grande importanza, e sicuramente non tutte quelle esistenti sono venute a nostra conoscenza.
Alcuni esempi di impegno civile emergono anche dalle interviste fatte nel 2007: “Abbiamo cercato di influire anche sulla politica fuori della scuola, sui trasporti” – prosegue Azra Jasika, direttrice della scuola di Pasaric, in un’intervista a M. Luisa Zaghi. “Poi abbiamo lanciato un messaggio agli altri: ‘Se lo abbiamo fatto noi, lo potete fare anche voi!’.
La mamma della ragazza disabile ha potuto vedere tutto l’impegno della scuola, nei confronti di tutti i bambini, e gli insegnanti di altre scuole hanno cominciato a chiedere consulenze.
Il secondo ragazzo incluso è molto disponibile a lavorare e c’è stato un cambiamento interessante. Dopo un anno e mezzo è stato iscritto in una scuola speciale (per 2 mesi) per motivi sociali della famiglia. È stato inserito in un gruppo di ragazzi di capacità simili alle sue; ma gli specialisti hanno proposto di farlo tornare nella scuola normale perché il suo rendimento stava visibilmente calando; il ragazzo ha visto la scuola normale come una salvezza ed era molto felice di stare con i suoi compagni e di lavorare con l’insegnante di sostegno; mostrava anche più impegno di prima e chiedeva di più a se stesso.
Anche i genitori si sono convinti che per lui era meglio stare nella scuola di tutti, ma non hanno nascosto le loro difficoltà; allora abbiamo fatto un patto: abbiamo garantito il trasporto, la mensa e i libri gratuitamente e loro si sono impegnati a seguirlo nel tempo extra scuola”. 

La costituzione dei 6 Centri di Innovazione e di Documentazione Educativa come supporto al processo di inclusione scolastica e sociale
Alla sezione B-1.1 (Sviluppo delle Competenze di Pedagogia Speciale e dell’Integrazione nel sistema educativo bosniaco) del Programma originale “Tutela e reinserimento di minori con disabilità fisica e psichica e promozione di imprenditorialità sociale nel territorio della Federazione Bosnia Erzegovina e Repubblica Srpska”, come primo sottotitolo incontriamo “Centri di Innovazione e Documentazione Educativa” che vengono così sinteticamente descritti:
“In questo ambito, si prevede la istituzione di Centri di Innovazione e Documentazione Educativa (CIDE). Questo per rispondere alla necessità di creare strumenti che consentano alle istituzioni educative bosniache di sviluppare percorsi di innovazione pedagogica e di attivare e coordinare la ricerca e la sperimentazione per l’integrazione e l’educazione dei minori con bisogni speciali nella scuola.
I Centri di Documentazione sono strumenti di grande interesse per promuovere lo sviluppo graduale di nuove competenze e di conoscenze e metodologie innovative.
Le attività dei Centri saranno rivolte a uno scambio di informazioni e di esperienze, favorendo così la diffusione delle informazioni, attraverso la produzione e la diffusione di materiali e di documentazione”.
Queste sono le idee originali da cui sono nati i CIDE in Bosnia Erzegovina e i primi passi mossi dall’associazione EducAid per la loro costituzione è stata la visita-studio in Italia nell’aprile 2006 a cui hanno partecipato alcuni referenti dei 6 Istituti Pedagogici coinvolti per visitare i Centri di Documentazione delle Rete dell’Emilia-Romagna.
L’apertura effettiva dei Centri in Bosnia Erzegovina è avvenuta nell’autunno 2006 dopo la sistemazione dei locali e l’acquisto di attrezzature idonee.
L’intento di EducAid è stato fin dall’inizio di dare in gestione i Centri agli Istituti Pedagogici per garantire una sostenibilità futura anche al termine del progetto di cooperazione e per favorire lo sviluppo di politiche cantonali sempre più in direzione inclusiva; per questo motivo, prima delle varie aperture, sono stati firmati i Memorandum of Understanding dagli Istituti e dalla controparte italiana, per regolamentare la gestione degli stessi.

Le funzioni
Le funzioni principali dei Centri sono state definite nei termini seguenti:
– Documentazione e promozione di buone prassi: si sta parlando ovviamente del cuore dei Centri di Documentazione, che hanno come obiettivo quello di raccogliere i lavori attuati, evidenziarne le positività e i fattori organizzativi del contesto che ne hanno favorito la realizzazione, in modo da suscitare ragionamenti e riflessioni per un evolversi continuo delle pratiche educative.
– Formazione: in Bosnia è a carico degli Istituti Pedagogici, ma, soprattutto per quanto riguarda l’inclusione, i CIDE possono contribuire partendo proprio dalla pratica della documentazione e della sua diffusione; di fatto le attività formative (seminari, laboratori, workshop) costituiscono una parte rilevante delle iniziative proposte dai Centri.
– Lavoro di rete e informazione: un ruolo importante è il collegamento che il Centro tesse con e tra le altre realtà locali sensibili all’inclusione, grazie a incontri che offrono spazi di dialogo, e quindi scambio di idee ed esperienze, utili per avviare percorsi di progettazione condivisa. Una parte fondamentale della rete è quella che si va a costituire tra i sei Centri dei diversi Cantoni della Bosnia ottimizzando le risorse e valorizzando le professionalità.
– Ricerca permanente: per dare risposte adeguate ai bisogni che emergono, i Centri svolgono ricerche sul territorio per identificare le situazioni reali nelle scuole e nell’extra-scuola riguardanti le persone disabili e la loro inclusione nei contesti sociali.
Abbiamo potuto constatare in occasione di visite, monitoraggi e seminari, come il ruolo dei Centri sia vissuto come molto importante: come luoghi di incontro e come luoghi di formazione in termini innovativi; da più voci si sottolinea che la formazione universitaria, pur ricca, è soltanto teorica e i Centri potrebbero proprio diventare punti di raccordo tra formazione teorica e pratica e insieme aiutare a produrre documentazione sulle pratiche inclusive, per diffonderle.
“Anche i genitori – dice sempre la prof. Sipka – vengono spesso al Centro, soprattutto per lamentarsi, ma sono ospiti privilegiati”.

Il “valore aggiunto” delle funzioni
Molte iniziative si stanno prendendo nei vari Centri di Documentazione; la Direttrice del Centro di Mostar racconta: “Abbiamo creato un gruppo di pedagogisti che hanno partecipato a sei seminari e al tirocinio e hanno visitato la scuola speciale di Sarajevo.
Ci siamo fermati anche a considerare la terminologia, perché nella nostra prassi si usano termini superati; poi c’è stato un training per l’osservazione delle competenze dei bambini e su come l’insegnante può fare l’osservazione.
C’è stato anche un seminario sui pregiudizi.
Poi sono state proposte esercitazioni su come preparare piani individualizzati e anche laboratori pratici su come migliorare le relazioni con i genitori.
Si è ideato il ‘salotto pedagogico’ per discutere le esperienze delle varie scuole, abbiamo avuto contatti con gli altri Centri di Documentazione con formazioni comuni e ricerche.
I nostri piani per il futuro riguardano prima di tutto il continuare a lavorare sulla formazione con insegnanti della scuola dell’infanzia, elementare e medie (in gennaio è già previsto un seminario di 5 giorni)”.
La direttrice Sipka di Banja Luka sottolinea che “molti insegnanti che sono contrari all’inclusione, lo sono perché non conoscono i problemi e gli strumenti per affrontarli; gli insegnanti che hanno partecipato ai seminari organizzati dal Centro sono stati molto contenti e bisogna creare una rete di consulenza”.
Abbiamo anche potuto constatare come l’impostazione organizzativa dei Centri di Documentazione tenga conto, in prospettiva, della possibilità che ci sia da parte di un soggetto disabile il controllo del proprio percorso di apprendimento, proprio attraverso l’attività di documentazione; e questo è un elemento di grande importanza, che va integrato alla capacità di conoscere l’esistenza originale dei soggetti, tenendo conto delle soglie percettive dei soggetti stessi.

Un modello dinamico
In sintesi, si possono individuare alcuni punti interessanti nella realtà bosniaca: innanzitutto i diversi modi di intendere le stesse parole, come ad esempio il termine inclusione o altri della stessa famiglia significativa. Un collega, docente dell’Università di Sarajevo, presente a una riunione a Banja Luka, lo rilevava come bisogno di raggiungere una maggior chiarezza e punti comuni. Naturalmente tutto ciò all’interno di un processo che impegna le varie parti nel dialogo, oltre che nel confronto con fonti autorevoli. Ma le stesse fonti, pur autorevoli, non possono accorciare il processo secondo un principio di autorità: sarebbe un danno. Certamente, il momento attuale può far vivere ai singoli professionisti (insegnanti, difettologi, docenti universitari…) un senso di grande incertezza, perché manca un modello unico centrale. Ci sono molti modi di reagire: a) cercare una nuova autorità, magari in un’autorevole Università di un altro Paese; b) chiudersi in uno scetticismo individualistico, magari mascherato da qualche dichiarazione opportunistica; c) sentirsi presi dall’avventura scientifico-professionale di costruire una pluralità di modelli, capaci di confrontarsi, e un modello comprensivo e dinamico (meta-modello).
Comprendendo che tutti i comportamenti hanno delle ragioni, e che ogni difesa è umanamente giusta, noi dobbiamo sostenere e aiutare l’ultimo modo che abbiamo indicato.
La situazione attuale è molto dinamica, e contiene posizioni differenziate. Accanto a chi ritiene di avere ancora bisogno di aiuti, di sussidi, di risorse, vi è chi si sente inserito in un sistema di scambi, di confronti, di scoperte e richiami. Non crediamo si debba mantenere una neutralità benevola considerando tutte le posizioni con lo stesso atteggiamento. Questo sarebbe un modo paternalistico, pur dettato da generosità, e riporterebbe le cose al momento dell’assistenza unilaterale. Occorre invece mostrare le preferenze, senza esclusioni di altri; indicare le realtà che consideriamo più valide, mantenendo lo spirito di curiosità, o di interesse, e di accoglienza per tutte le realtà, e valorizzando tutti gli sforzi, tutti gli impegni.
D’altra parte la cooperazione in quanto metodo è in grado di realizzare un processo di conoscenza e di riconoscimento reciproco, in cui le ragioni di chi porta l’aiuto e di chi lo riceve si incontrano in un percorso di crescita comune. È probabile che questo approccio conduca al confronto-conflitto fra le ragioni di chi riceve e di chi porta l’aiuto generando così un conflitto interpersonale (fra diverse persone) o interistituzionale (fra diverse istituzioni o gruppi). Ed è, anche, altrettanto importante la fase del conflitto intrapersonale (all’interno dello stesso individuo).
Queste fasi della cooperazione sono fondamentali perché possono portare a comprendere che il soggetto non è assoluto, e i suoi valori non possono proporsi come assoluti. Ogni soggetto è in rapporto di dipendenza da una dimensione più ampia. Crediamo questo uno dei fondamenti della cooperazione, che si conquista attraverso un processo anche faticoso; è l’ampliamento dell’orizzonte in una riconquista di un senso di appartenenza.

Le sfide
Quindi ci sembra di poter affermare che lo sviluppo del Progetto, in questi anni, ha vinto alcune sfide, rappresentate da altrettanti rischi:
– bisognava evitare che ogni operatore (insegnante, specialista, ma anche genitore, amministratore…), come ogni soggetto istituzionale (scuola, struttura socio-sanitaria, amministrazione locale…) non sentisse più il senso di appartenenza a uno sfondo proprio; e ritenesse che fosse necessario “importare” uno sfondo da altre situazioni, da altri paesi;
– bisognava evitare il pericolo opposto, ovvero il mantenimento di uno “sfondo segreto” da non contaminare e non confessare, sepolto nel passato, e tale da costituire una sorta di doppia coscienza: una formale di facciata, e, nascosta, quella ritenuta vera, del “proprio” sfondo, incompreso e da proteggere;
– bisognava altresì evitare un meticciato improvvisato e confuso, fatto di giustapposizioni frettolose e mal comprese, più dovute a ragioni di cosmesi che a convincimenti.
C’è da ritenere – senza trionfalismi, e con l’umiltà che è anche consapevolezza di quanto siano fragili, sempre, le strutture educative – che le scommesse siano in buona parte vinte. E che il guadagno sia dovuto alla strutturazione dei Centri di Documentazione, che hanno permesso di avere uno spazio di riflessione connesso all’operare. Questo aspetto va sottolineato, perché in gran parte l’esclusione (il contrario dell’inclusione) è al più riflesso condizionato, e mai riflessione e azione che si intrecciano. Le stesse Università, in molte parti del mondo, pretendono di dover tenere le distanze dell’operativo. In questo modo, l’operativo diventa esecutivo, e non può che escludere l’inquietante originalità delle differenze.
Il Progetto quindi si è realizzato affrontando problemi che nessuna delle parti in gioco aveva e ha realmente risolto. Non era più possibile interpretare la parte di chi ha trovato la soluzione e non deve fare altro se non convincere gli altri ad adottarla. Era invece necessario, e sentito come utile, mettersi a lavorare sui problemi ancora da risolvere.

Il futuro: costruire innovazione sostenibile
Il futuro è legato alla promozione dell’inclusione, attivando il territorio con il protagonismo dei soggetti implicati, con l’esercizio della mediazione culturale e con la costruzione di una maggiore tolleranza che significa una capacità di vedere oltre il momento attuale. Noi abbiamo bisogno di far capire e di capire che gli incontri con l’altro – il primo punto richiamava questo – l’incontro con la differenza è inquietante ma è produttivo, è un arricchimento.
Abbiamo bisogno che questo diventi l’elemento costante della nostra produzione di inclusione; e abbiamo bisogno quindi di avere una buona mediazione attraverso i mezzi di comunicazione, sapendo molto bene che i mezzi di comunicazione ci possono giocare degli scherzi terribili perché possono deformare e rendere spettacolarizzazione quello che invece è un serio lavoro di promozione umana.
Ma anche su questo avremmo bisogno di lavorare. Perché non pensare alla formazione di chi deve fornire informazione nel nostro settore? Sappiamo che già altri ci hanno pensato, colleghiamoci, permettiamoci di produrre qualcosa di serio che riguardi l’inserimento sociale e lavorativo e gli echi che può avere nel campo dell’informazione. Non pensiamo unicamente a rubriche di nicchia: pensiamo soprattutto alle informazioni intrecciate, a quelle che entrano nelle orecchie e negli occhi senza che il soggetto abbia capito che si parla di quell’informazione.
Noi sappiamo che sull’informazione c’è molto da lavorare. Molto da lavorare significa che possiamo lavorarci anche noi; non vorremmo delegare ad altri questi aspetti. Se noi abbiamo una consapevolezza di una conoscenza di un settore, se creiamo in noi la maggiore conoscenza delle nuove povertà, delle nuove sofferenze, delle nuove marginalità, abbiamo anche la possibilità – forse anche il dovere – di creare competenza in chi informa implicitamente ed esplicitamente, in tutti i campi, dalla pubblicità all’informazione delle possibilità di prospettiva.
C’è la necessità di costruire innovazione sostenibile. La sostenibilità è un concetto che si ricollega alle pratiche, e comporta l’esaminare quali cambiamenti possono essere realizzati per un certo numero di anni, senza provocare dei rigetti. Ora è chiaro che la sostenibilità non è unicamente l’introdurre una novità efficace ma anche il cambiare il modo di pensare, a volte, alla novità, quindi fare aderire alla novità avendo cura di operare dei processi di cambiamento formativo, culturale, nei soggetti che la adottano.

Alcune parole-chiave
Svolto questo compito per punti vorremmo aggiungere alcune note di riflessione cogliendo gli elementi che sembrano essere propri di una letteratura riflessiva sull’aria del tempo. 

Sicurezza e benessere sociale
Un riferimento molto importante per tanti di noi è Bauman. In particolare in Bauman troviamo una riflessione importante che riguarda il deterioramento della triade certezza/sicurezza collettiva/sicurezza personale. Riflettiamo su questi deterioramenti così diffusi e sulla conseguenza che possono avere nel non collegare il bisogno individuale alla soluzione sociale. Sempre più si fa un discorso e una riflessione con le proposte che ne derivano che riguardano un individuo isolato che vive i suoi problemi come se fossero esclusivi – i suoi – e che quindi cerca le soluzioni che devono essere altrettanto esclusive, le sue.
Questo certamente è anche dovuto al fatto che una certa interpretazione di cause sociali ha deresponsabilizzato il singolo, ma da questo, a cancellare il collegamento tra bisogno individuale e risposta sociale, dovrebbe passarci molto. E invece il cortocircuito a volte è stato immediato, con una grave crisi espressa appunto da Bauman in questa dichiarazione di deterioramento. È saltata – per semplificare le cose – la sicurezza collettiva, o meglio è diventata una sicurezza di categoria, legata unicamente a un proprio ristretto mondo che può coincidere con la collocazione abitativa, il percorso nel traffico e altri elementi di vita quotidiana, cancellando la possibilità che collettiva significhi di tutti.

Superare la sindrome della vittima
Altra cosa è cercare di smontare quell’ingranaggio – come lo abbiamo chiamato – che ha accostato e accosta spesso sofferenza a disabilità. Perché bisogna immaginare che la disabilità sia sempre e solo sofferenza? Perché dobbiamo immaginare o ritenere che laddove si manifesta la disabilità il contorno familiare sia dominato dalla sofferenza?
La sofferenza può esserci, come può esserci lo sgomento, lo sbigottimento di una situazione a cui nessuno è preparato. Ma si può anche scoprire la gioia, che non è un termine sentimentale. Non è un’affermazione dominata da una speranza un po’ gratuita: è un impegno. È la possibilità di capire nella pratica, qualcosa che viene a volte nominato con un termine tecnico o presunto tale: empowerment.
A volte invece, ma più raramente, viene esplorato attraverso un termine che nasce da Paulo Freire in un altro contesto e che richiama la coscienza: coscientizzazione. Tra empowerment e coscientizzazione abbiamo la possibilità di intravedere un percorso che rovescia i termini e da “dolore” fa nascere arricchimento di conoscenze, competenze, ruoli sociali, possibilità di contatti, piste emergenti e possibili nuovi progetti.

Alcune schede: tra operatività e riflessione:

Scheda 1
Come lavora chi è impegnato con persone diverse e non con il presupposto di un gruppo-classe omogeneo?
Con quali pensieri pensiamo che operi?

  • di sbagliare, di paura
    “Quando entro in classe, ho paura. Ce la farò? Ce la farò a tenerli? Sono qui, solo, davanti a 25, 35, 40 persone che non sanno sempre quale è il senso di quello che fanno in questo posto. Non ho scelto i miei alunni, loro non mi hanno scelto, e non si sono scelti fra loro” (B. Defrance, in A. Bentolila, École et modernités, Paris, Nathan, 1999, p. 65).
  • dell’ignoto
    “C’è un rapporto profondo fra educazione e esodo. È d’altra parte quasi la stessa parola. Educazione viene dal latino, e esodo dal greco. Il latino e-ducere vuol dire ‘uscire da’, come l’esodo. Nei due casi, c’è qualcosa dell’ordine dell’estrazione, della messa a distanza. Uscire da se stesso è educare ed educarsi: prendere le distanze da se stesso” (P. Queau, in A. Bentolila, op. cit., p. 79).
    “Abramo partì senza sapere dove andava” (Paolo, Lettera agli Ebrei, 11, 8).
  • della sfida

“Sono professore del liceo Maurice-Utrillo, a Stains, in Seine-Saint-Denis, e abbiamo tutto il pianeta in classe. Dico ai miei ragazzi: i vostri genitori o i vostri nonni hanno varcato le frontiere e gli oceani forse nella speranza di farvi sfuggire alla sorte che è ancora quella di 250 milioni di bambini nel mondo, senza diritto alla scuola.
Li abbiamo davanti, in classe, e abbiamo la grande possibilità, storica e nuova, di poter riflettere alla costruzione di una nuova cittadinanza, non più solo francese o repubblicana, ma planetaria” (B. Defrance, in A. Bentolila, op. cit., p. 61).

Scheda 2
Che rischi sono nel “brodo di cultura” di chi vive un periodo di grandi cambiamenti?
Capacità di conflitto.
Disponibilità al dialogo
Volontà di compromesso
 Immedesimazione nell’altro
 Pazienza.

Vista in profondità, ogni questione controversa presenta tre lati: il tuo, il mio, e quello giusto.
“Voglio chiarire subito che sviluppo sostenibile indica fondamentalmente un processo di consensus building, di costruzione del consenso; cioè: nessuno ci può dire tecnicamente che cos’è ‘sviluppo sostenibile’; il contenuto è sempre e necessariamente il risultato di un processo di negoziazione. Ho notato che in Italia spesso il concetto di negoziazione ha un uso limitato: è l’ultima fase di una trattativa di patteggiamento, in cui in qualche modo si va a una spartizione: tu prendi questo, io prendo questo altro. Nel mutual gains approach, nel consensus building è invece l’intero processo a essere inteso come negoziazione. La negoziazione comincia quindi con la preparazione, con l’analisi degli interessi; non è affatto solo l’ultima fase in cui si divide la torta. La negoziazione allora è un concetto molto più ampio; praticamente ogni comunicazione in cui ci sono degli interessi in gioco inizia a essere una negoziazione”. (I. Koppen, intervista a, Mutuo vantaggio, in “Una città”, Forlì, settembre 2003. Ida Koppen è vice presidente della Sustainability Challange Fondation).

Scheda 4
Le competenze

  • La competenza si trova solo in luoghi speciali?
  • La competenza è solo degli specialisti?
  • La competenza è una dinamica sociale.
  • No la logica della competenza che risarcisce, che compensa. Sì la logica della competenza della costruzione insieme, del dialogo per costruire.
  • Il dialogo esige il riconoscimento dell’altro come soggetto originale.
  • Dalla competenza del professionista alla competenza sociale cui il professionista dà contributo.
  • I contesti competenti

Scheda 5
L’individuazione dei soggetti con bisogni speciali

  • La logica dell’ICF fa scoprire che ci sono contesti, che la discontinuità può essere positiva, che le valutazioni sono l’incontro di tanti testimoni, e non solo di specialisti.
  • I bisogni sono relativi al singolo contesto.
    La dizione di “soggetto con bisogni speciali” deve essere messa in relazione con i microcontesti.

Scheda 6
l passaggio da una didattica fondata sul modello trasmissivo a una didattica fondata sul modello interattivo

  • Il modello trasmissivo è centrato sul sapere, e punta sulla capacità recettiva del soggetto ad acquisire un contenuto esposto sottoforma “dichiarativa”; ha come presupposto la coincidenza e il puntuale incontro fra logica espositiva e logica recettiva; e considera omogeneo e universale il modo di apprendere.
  • Il modello attivo interattivo si fonda sulla didattica della mediazione, e sulla pluralità dei mediatori. Considera importante l’attività del soggetto, le sue rappresentazioni, il ruolo positivo dell’errore, dell’esplorazione, delle procedure mentali. Il ruolo interattivo o dialogico è centrale. Imparare è imparare ad apprendere, con l’aiuto del mediatore più adatto al soggetto.

2. Esperienze di de-istituzionalizzazione e inclusione in Serbia: l’Iniziativa per l’inclusione  VelikiMali

a cura di VelikiMali
ONG serba

Il primo contatto con VelikiMali (una ONG serba che opera per favorire l’inclusione sociale e scolastica dei bambini con disabilità) c’è stato solo un paio di mesi fa, durante un ciclo di appuntamenti sulla disabilità organizzati dalla cooperazione italiana a Belgrado. È bastato poco per capire quanto le energiche rappresentanti dell’organizzazione lì presenti fossero addentro al processo di de-istituzionalizzazione dei bambini con disabilità. Il passo per collaborare insieme è stato breve: la ghiotta occasione è arrivata con questo numero di “HP-Accaparlante”, che ci dà la possibilità di dare voce alle storie di molti bambini e ragazzi. Ne emerge uno spaccato dell’attuale situazione di inclusione delle persone con disabilità che vivono in Serbia.
Il processo di de-istituzionalizzazione in Serbia è appena partito, e gli esempi di inclusione (nel sistema educativo, nella vita della comunità locale, nel sostegno alle esigenze nel vivere quotidiano) sono ancora scarsi e principalmente messi in atto dalle organizzazioni non governative. La maggioranza dei bambini con disabilità non sono inclusi in alcun tipo di sistema educativo (ordinario o speciale) a causa dell’applicazione per decenni dell’approccio medico, di una legislazione obsoleta e incoerente, dell’esistenza di sistemi paralleli (speciale e ordinario) per bambini e adulti e della forte opposizione dei professionisti che lavorano in questo ambito. Per dirla in breve, non è ancora stato compreso che ogni bambino ha il diritto all’educazione. Per ragioni legislative le scuole speciali in Serbia possono accogliere solo alcuni tipi di disabilità (es. per bambini con lievi disabilità mentali, bambini con menomazione visiva o uditiva). In aggiunta, le scuole speciali sono situate solo nelle città più grandi, così i bambini devono viaggiare avanti e indietro dalla scuola ogni giorno, oppure le scuole speciali sono organizzate come collegi, il che significa che i bambini sono separati dalla famiglia in una fase molto precoce (quando hanno sette anni). Un tale sistema lascia la maggioranza dei bambini con disabilità fuori dal sistema educativo. Dal momento che i servizi di sostegno locale sono sotto-sviluppati, i bambini generalmente affrontano isolamento e stigma. Benché alcuni bambini frequentino asili e scuole normali con il sostegno dei programmi delle organizzazioni non governative e di personale insegnante interessato, sono costantemente a rischio di essere esclusi o istituzionalizzati e il loro futuro è ancora incerto. Il movimento della disabilità in Serbia è ancora molto debole e subisce transizioni e cambiamenti riguardo all’approccio e al modello sociale dei diritti umani.
Il processo delle riforme è partito e il governo, influenzato dalla società civile, ha iniziato a fare cambiamenti nelle legislazioni, nelle politiche e a riconoscere per certi versi l’inclusione.
Daremo qui alcuni esempi dall’esperienza dell’Iniziativa per l’inclusione VelikiMali, e questi esempi danno spiegazioni su aspetti positivi e negativi del processo. Queste sono le storie dei nostri utenti.
Si stima che la maggioranza dei bambini con disabilità intellettive (specialmente Sindrome di Down) siano collocati in istituti residenziali di lungo periodo quando sono ancora neonati– dall’ospedale agli istituti, e non vengono nemmeno a casa. Ciò a causa della pressione imposta sui parenti e dell’opinione dell’autorità.

Le storie
Una famiglia di Belgrado ebbe una bambina con Sindrome di Down e i dottori nell’ospedale dissero loro che il modo migliore era metterla nell’istituto. Alla madre non fu nemmeno data la neonata perché le si raccomandava di non attaccarsi emotivamente alla bambina, e le fu anche fatta un’iniezione per bloccare la produzione di latte (oltre che fortemente consigliato di non allattare la neonata). La famiglia era molto confusa, impaurita e non aveva nessuno su cui contare, così ascoltarono il consiglio del dottore e la bimba fu messa in un istituto direttamente dall’ospedale. I suoi genitori iniziarono a chiedere informazioni sulla vita dei bambini e delle persone con Sindrome di Down e si rivolsero per maggiori informazioni a un’organizzazione, dove ottennero anche sostegno. Dopo un mese, la famiglia prese la bambina e la portò a casa. Ora lei ha tre anni e vive con la famiglia.
Un’altra famiglia con una storia simile ci ha contattato: il loro bambino (che oggi ha 18 mesi) vive da quando è nato in un istituto residenziale di lungo periodo per bambini con disabilità. Il trasferimento nella struttura avvenne direttamente (e a cura) dall’ospedale. Il bambino ha entrambi i genitori e due sorelle più grandi, ma il padre rifiuta di riprenderlo a vivere con loro; spesso minaccia di lasciare la casa o di prendere le figlie più grandi con sé se il bambino ritornerà a casa. La madre visita il bambino in istituto tutti i giorni e progetta di prenderlo a casa per i weekend, ma è ancora molto impaurita e confusa per la situazione familiare complessiva. Il dottore, specialista pediatrico, diede il suo parere da esperto spiegando che: 1) il bambino non sarebbe mai stato capace di riconoscere i membri della famiglia; 2) il bambino avrebbe avuto un influsso dannoso sullo sviluppo delle sue sorelle più grandi; 3) il bambino avrebbe avuto un impatto negativo sull’intera famiglia e la sua presenza avrebbe causato traumi e danni di lungo termine a tutti i membri della stessa. Alla fine il dottore raccomanda la separazione dalla famiglia e la collocazione nell’istituto. Il personale nell’istituto sta dicendo alla madre di non venire così spesso a visitare il bambino, perché “il bambino ha bisogno di abituarsi alla vita nell’istituto”. Stiamo provando a trovare i modi per rafforzare la madre a prendere il bambino a casa.
Un’altra bambina con Sindrome di Down è utente della nostra organizzazione da cinque anni. Anche sua madre visse un “trattamento” in ospedale simile a quello dell’esempio precedente, ma prese la bambina a casa. Oggi la bambina ha otto anni e mezzo e vive con i genitori e il fratello più piccolo in un paese vicino a Pancevo (è nella città di Pancevo che l’Iniziativa per l’inclusione VelikiMali ha la sua sede). Il padre è il solo occupato in famiglia. Quando la bambina aveva sei settimane, finì in ospedale a causa di un problema respiratorio e il dottore consigliò alla madre di metterla nell’istituto residenziale di lungo periodo per bambini con disabilità, perché la famiglia, per causa sua, avrebbe avuto problemi per tutta la vita. La madre iniziò a soffrire a quel tempo di seri problemi di salute causati dallo stress, e pensa di non essere ancora riuscita a superarli. La famiglia si rivolse a noi per un sostegno nello sviluppo della bambina quando la stessa aveva tre anni. Nel paese in cui vivono non c’erano asili, ma solo un gruppo pre-scolare per bambini di sei e sette anni. La bambina fu inclusa nel nostro programma di sostegno, cioè in attività individuali e di gruppo. Al fine di essere continuativamente inclusa nel nostro programma di sostegno, la bambina doveva viver con sua nonna nella nostra città, e nei weekend stava con la famiglia nel paese nativo. Quando aveva tre anni e mezzo, la includemmo nel gruppo dell’asilo ordinario due volte alla settimana (per due o tre ore) ed ebbe un’assistente personale dal momento che era l’unica possibilità di inclusione concordata tra l’organizzazione VelikiMali e l’istituto pre-scolare. Poiché non c’erano possibilità di includerla tutti i giorni nell’asilo ordinario sebbene fosse sostenuta dall’assistente personale da un anno, la includemmo nell’asilo integrativo, ma tre volte alla settimana continuammo a sostenerla nel gruppo ordinario (con l’assistente personale). Quell’anno, la bambina cambiò anche il gruppo ordinario, perché l’insegnante dell’asilo non voleva accettarla e l’organizzazione VelikiMali non poté influenzare tale decisione in alcun modo. L’assistente personale forniva sostegno diretto alla bambina nell’includerla in attività di gruppo, comunicazione con i coetanei, sostegno all’insegnante di asilo attraverso consultazione e programmazione congiunta di un piano di sostegno individualizzato cui anche sua madre partecipava. In seguito, la bambina frequentò il gruppo pre-scolare nel paese nativo per due anni e lo fece senza assistente personale. L’organizzazione contattò l’asilo e la sua insegnante nel paese e si consultò sulle funzionalità della bambina e sul sostegno richiesto per realizzare un’educazione di qualità. Quando la bambina aveva sette anni e mezzo e avrebbe dovuto iniziare la scuola, alla madre fu consigliato di iscriverla in una scuola speciale, che è a 25 chilometri dal paese (sebbene ci sia una unità di classe speciale entro la scuola ordinaria nel paese, ma questa unità è registrata solo per bambini con lievi disabilità mentali e la bambina ha una diagnosi di moderate disabilità mentali – questo esempio mostra l’approccio illogico e discriminatorio, che non riconosce i bisogni e le possibilità effettive del bambino). La famiglia voleva iscrivere la bambina nella scuola ordinaria, che avrebbe frequentato con i coetanei e gli amici del gruppo pre-scolare. Sebbene avessimo consultazioni con il preside della scuola, l’insegnante e il servizio di esperti della scuola (psicologo e pedagogista) sui vantaggi e l’importanza dell’educazione inclusiva con i coetanei, la scuola non voleva accettarla e insistette perché andasse di nuovo alla Commissione di valutazione dei bambini con disabilità. La decisione della Commissione fu di raccomandare che la bambina andasse al centro diurno, che è un istituto delle politiche sociali e non un istituto educativo. Cioè, la Commissione dichiarò che la ragazza non può andare a scuola per nulla (nemmeno alla scuola speciale). Con il sostegno dell’organizzazione VelikiMali, la famiglia presentò un reclamo e richiese l’educazione ordinaria per la bambina. La Commissione di secondo grado cambiò la decisione, ma di nuovo raccomandò la scuola speciale e non quella ordinaria. Durante quell’anno, la bambina non frequentò per nulla la scuola e stette a casa. Dopo la raccomandazione della Commissione di secondo grado, la famiglia propose di nuovo un ricorso richiedendo un’educazione ordinaria e di qualità per la bambina, ma il tribunale decretò di nuovo la scuola speciale. La bambina sarà inclusa nell’unità di classe speciale nella scuola ordinaria nel paese dopo un anno. La madre dice che lo farà, perché non ha più forze e fiducia che il prossimo potenziale ricorso sarebbe a loro favore.
Questo è l’esempio di come a una bambina che aveva il sostegno ed era inclusa nell’asilo ordinario è stato in seguito negato il diritto all’educazione di qualità. Questa famiglia aveva il sostegno (aiuto legale gratuito e sostegno professionale) da parte della nostra organizzazione e non è riuscita a raggiungere il diritto all’educazione ordinaria, e a un certo punto la bambina era a rischio di non andare a scuola per nulla. La maggioranza delle famiglie non hanno sostegno aggiuntivo dalle organizzazioni della società civile e sono costrette a seguire la decisione della Commissione di valutazione dei bambini con disabilità, che sono in questo modo lasciati fuori dal sistema educativo e dalla prospettiva di essere inclusi nella vita della comunità locale.
Quando parliamo di centri diurni in Serbia, parliamo di piccoli istituti di servizio sociale nelle comunità locali, che sono principalmente registrati per bambini/adulti con disabilità più gravi, ma a tutti i bambini valutati come “non adatti” per l’educazione dalla Commissione di valutazione dei bambini con disabilità si raccomanda di andare in questi centri. I centri diurni non hanno alcun valore educativo, non offrono alcun tipo di programmi di sostegno (sviluppare l’indipendenza, le capacità e la conoscenza per l’inclusione nella comunità locale, le capacità per il lavoro, ecc.) e in genere i bambini dell’età della scuola primaria e gli adulti (30 anni o più) sono insieme nei centri. Fondamentalmente, tutto si riduce solo a prendersi cura di bambini/adulti e non a offrire od organizzare dei programmi che sostengano l’inclusione. D’altra parte, ci sono parecchi centri diurni gestiti da organizzazioni non governative e questi offrono programmi di sostegno con più qualità. Tuttavia affrontano molti ostacoli nel mantenersi – mancanza di sostegno dal governo, mancanza di risorse finanziarie e umane, nessun sostegno sistematico, ecc.
D’altra parte, ci sono esempi positivi di educazione inclusiva, che dipende dalla perseveranza dei genitori, dal sostegno da parte delle organizzazioni della società civile e dalla “buona volontà” degli istituti educativi.
Un ragazzo di 16 anni con Sindrome di Down vive con i genitori e il fratello più piccolo nella città di Pancevo. Anche sua madre ci racconta della pressione dei dottori in ospedale, quando lo diede alla luce, per mettere il bambino nell’istituto residenziale di lungo periodo (la madre ci ha detto che il dottore disse: “Sia felice che ha un bambino con Sindrome di Down, almeno potrà essere un pastore; cosa avrebbe fatto se avesse dato alla luce una bambina con disabilità?”). La famiglia all’inizio rifiutò e decise di includere il bambino in ogni attività possibile nella comunità locale. Il bambino frequentò l’asilo ordinario e vari programmi/attività delle organizzazioni non governative. Fu iscritto alla scuola primaria ordinaria e, sebbene ci fossero molti ostacoli e bisogno di continui e costanti aggiustamenti e accordi con il personale della scuola, la squadra di VelikiMali ebbe molte consultazioni e incontri con i suoi insegnanti e congiuntamente preparammo un piano educativo individuale per il bambino, che venne educato e valutato in quella maniera. Quando finì la scuola primaria, la famiglia decise che avrebbe frequentato la scuola secondaria ordinaria e tre scuole furono offerte. Il ragazzo sta ora finendo il primo grado della scuola secondaria ordinaria con i suoi coetanei (impara a diventare cuoco). Partecipa inoltre a varie attività extra-curriculari (attività sportive, viaggi, attività regolari in città). Ora è incluso nelle nostre attività come volontario e nel maggio 2009 è andato con il gruppo dei giovani con disabilità in scambio giovanile in Svezia.
Il bambino ha sette anni e mezzo e ha disordini dello spettro autistico. Vive con sua madre, una sorella più piccola (due anni di età), la zia e la nonna in una vecchia casa. La madre è l’unica occupata e gli altri membri della famiglia contribuiscono al bilancio familiare attraverso pensioni e sussidi sociali. Sua madre lavora a Belgrado e arriva a casa il pomeriggio tardi e, quando il bambino non è all’asilo, la zia o la nonna si prendono cura di lui. La zia ha avuto un trattamento psichiatrico e non lavora, ma mette un grande impegno nel prendersi cura del bambino. Quando il bambino aveva tre anni, sua madre lo portò all’istituto sanitario (Istituto per i disordini psico-fisiologici e la patologia del linguaggio) a Belgrado, dove ebbe processo diagnostico, trattamento psicologico individuale e terapia del linguaggio presso esperti che cooperano con l’organizzazione VelikiMali. Per due anni, lo sostenemmo direttamente nel gruppo dell’asilo per due volte la settimana. Nel gruppo, i suoi assistenti personali (attivisti di VelikiMali) gli davano sostegno diretto nell’includerlo in attività di gruppo, comunicazione con i compagni, sostegno diretto agli insegnanti attraverso consultazione e programmazione congiunta utilizzando un piano di sostegno individualizzato in cui sua madre era attivamente coinvolta. Ai suoi insegnanti di asilo fu data una Guida per lavorare con bambini con disordini dello spettro autistico nell’asilo ordinario, ma loro non risposero al nostro invito di sperimentare il cambiamento in questo ambito, e spiegarono il comportamento del bambino come un aspetto del suo carattere a causa dell’atteggiamento della famiglia verso di lui. L’ostacolo più grande per l’educazione inclusiva era un approccio lavorativo molto rigido e duro degli insegnanti dell’asilo, che l’organizzazione VelikiMali non riuscì a influenzare. Quando il bambino terminò l’educazione pre-scolare, la sua scuola locale posticipò l’avvio della scuola primaria di un anno, quindi lui aveva il diritto di ripetere il gruppo-prescolare. Tuttavia, nessuno degli insegnanti voleva accettarlo nel gruppo e il servizio di esperti dell’istituto pre-scolare lo spiegò con il fatto che gli insegnanti avevano grandi numeri di bambini nei gruppi (28 o 29). Nello stesso tempo, la madre cercò di ottenere alcuni diritti dal servizio sociale (sussidi finanziari mensili dallo Stato) di cui aveva appreso dalla nostra organizzazione, ma per i quali non voleva provarci prima perché aveva paura che al bambino sarebbe stato negato il diritto all’educazione. Dal momento che aveva bisogno del parere della Commissione di valutazione dei bambini con disabilità per questi sussidi finanziari (la stessa Commissione decide sui diritti all’educazione, ai servizi sociali, alla salute, agli aiuti ortopedici, ecc.), lo portò all’esame. La Commissione raccomandò il centro diurno e gli esperti dissero che la ragione era la seria disabilità del bambino, e che non poteva essere educato. Sebbene la legge dica che i genitori sono obbligati a fare quel che la decisione della Commissione dice, la madre si rifiutò e il bambino continuò l’educazione nel gruppo integrativo dell’asilo nell’istituto pre-scolare. Il lavoro di questo gruppo integrativo è coordinato da VelikiMali.
In questo anno scolastico, la scuola primaria locale del bambino ha posticipato di nuovo l’avvio della scuola. Il servizio di esperti nella scuola stima che ci saranno possibilità di iscriverlo l’anno prossimo, perché c’è un’insegnante che è aperta all’inclusione dei bambini con disabilità. Tuttavia, nessuno nella scuola può garantire che il bambino sarà effettivamente incluso. Fino ad allora, l’organizzazione VelikiMali e il servizio di esperti dell’istituto pre-scolare hanno considerato l’inclusione del bambino nel gruppo pre-scolare ordinario con l’insegnante che ha mostrato grandi competenze professionali per includere e sostenere i bambini con disabilità nel proprio gruppo. Lei è disponibile ad accettare il bambino. Purtroppo, la futura educazione del bambino nella scuola primaria è completamente incerta. L’organizzazione VelikiMali offre aiuto legale gratuito e sostegno professionale nell’inclusione nel sistema educativo, ma il diritto all’educazione dipende ancora dalla buona volontà del preside e degli insegnanti della scuola.
Al momento di scrivere queste storie, si stanno preparando e mettendo in discussione pubblica i cambiamenti della Legge sui principi fondamentali del sistema educativo in Serbia. L’organizzazione VelikiMali ha mandato commenti e raccomandazioni sull’educazione inclusiva al Ministro dell’Educazione, che ha incorporato alcune delle nostre raccomandazioni nella bozza della Legge. Nei prossimi mesi, sapremo se la situazione nell’educazione, almeno in termini legislativi, sarà migliorata per i bambini con disabilità.

1. Introduzione

di Luca Baldassarre

Negli ultimi mesi al nostro gruppo di lavoro è capitato più volte di intrecciare il cammino di riforma delle politiche sociali rivolte alle persone con disabilità in terra balcanica. Abbiamo infatti seguito con attenzione un paio di iniziative progettuali culminate nella partecipazione ad alcuni appuntamenti seminariali tenutisi a Belgrado e a Sarajevo. I contatti con le ONG (Organizzazioni Non Governative) locali, le scuole, gli amministratori pubblici e il mondo della comunicazione serba e bosniaca ci hanno molto interrogato avviandoci alla conoscenza di una regione che porta in dote un grande potenziale umano oltre che una tradizione culturale ed educativa di tutto rispetto. In verità, accomunare sotto l’etichetta “Balcani” la variegata costellazione di autonomie nazionali nata dalla dissoluzione della Jugoslavia è una semplificazione che non aiuta a comprendere fino in fondo una realtà tanto complessa. Per quanto ci riguarda è stato davvero illuminante ascoltare le esperienze altrui, partecipare al confronto sugli obiettivi da perseguire, sull’approccio alla disabilità e alle comunità locali di riferimento, sugli stili di lavoro, le modalità di impiego di risorse, la soluzione dei problemi. Come rivedere il film di una vita lavorativa in pochi secondi. A noi è servito moltissimo per fermarsi e riflettere sulla situazione dell’inclusione sociale e scolastica delle persone con disabilità nel nostro Paese. Una sorta di rilettura per comparazione che attualizza gli oltre trent’anni di lavoro già fatto e introduce alle prospettive future. A rafforzare questo parallelismo contribuisce l’ultima parte della monografia, dedicata interamente ai colleghi con disabilità del nostro gruppo di lavoro della cooperativa Accaparlante e Centro Documentazione Handicap, che hanno accettato di raccontare le proprie esperienze di inclusione attraverso contesti chiave quali la famiglia e la scuola. Oltre a queste, nel numero approfondiremo il lavoro della ONG Serba, VelikiMali (in italiano: Grande Piccolo), che da anni si occupa di concrete azioni educative di inclusione di bambini con disabilità, soprattutto nelle scuole. E, infine, daremo spazio a un progetto di cooperazione internazionale, nato da un’idea della ONG italiana EducAid e dell’Università di Bologna realizzato in Bosnia Erzegovina o, com’è più corretto dire, Federazione Bosnia Erzegovina e Repubblica Srpska, sovvenzionato dal Ministero degli Affari Esteri italiano col cofinanziamento delle regioni Marche ed Emilia-Romagna. Alla chiusura del numero la lettura del materiale ci ha restituito delle belle sensazioni. Forti. L’auspicio è che l’intensità di queste pagine, trasudanti di storie, fatiche e qualche bella soddisfazione, catturi l’attenzione anche dei nostri lettori fornendo loro qualche spunto di riflessione. 

11. Qualche consiglio di lettura

a cura di Giovanna di Pasquale, pedagogista

Mario Lodi, Il paese sbagliato. Diario di una esperienza didattica innovatrice, Milano, Feltrinelli, 2007 (ultima edizione)
Il libro racconta il diario di una esperienza didattica innovatrice, realizzata con i miei alunni nella scuola di Vho di Piadena (Cremona) dal 1964 al 1969. Un’esperienza incentrata sulla libera creatività del bambino, documentata giorno per giorno dalle conversazioni dei ragazzi, dai loro testi, dalla loro vita reale.
Quando uscì, Il paese sbagliato rappresentava per me la conclusione di un percorso iniziato negli primi anni del dopoguerra quando, dopo la caduta del fascismo e la fine del conflitto, il problema di fondo era la ricostruzione materiale e morale dell’Italia sui nuovi valori espressi dalla Liberazione. E proprio nel 1948, l’anno in cui veniva promulgata la Costituzione, io giovane maestro ancora fresco di studi ma inesperto sul piano didattico venni mandato allo sbaraglio in una scuola ancora verticistica e autoritaria, con nel cuore e nella mente i valori della libertà, della democrazia e della partecipazione che dovevano essere alla base della nuova società da costruire.
Era un momento storico stimolante soprattutto per noi giovani docenti diplomati in una scuola dove esperienze dirette non si facevano. Nella mia stessa situazione psicologica erano tanti altri docenti convinti che i nuovi valori dovevano entrare nella scuola per rinnovarla.
La libertà di pensiero e di parola, la democrazia, la partecipazione alla cosa pubblica, non erano cose da imparare leggendole sui libri, ma momenti da vivere dentro la scuola. Ma come si potevano cambiare le cose?
Ricevetti circa diecimila lettere e risposi a tutte. La prima fu quella di un prete, don Sandro Lagomarsini che, come don Milani, ha trasformato la sua parrocchia in scuola, a Cassego di Scurtalò (SP). Mi scrissero genitori, maestri, studenti, soldati, poeti, scrittori, casalinghe, e tante altre persone che volevano sapere perché nella loro scuola non avevano fatto quelle esperienze, che avevano trovato nel libro una speranza, una concreta proposta di cambiamento della scuola autoritaria. Persone alle quali la lettura di questo libro aveva portato riflessioni profonde e stimoli nuovi.
(Mario Lodi)

Albino Bernardini, Un anno a Pietralata, Firenze, La Nuova Italia, 1968
Un maestro come “essere sociale” attivo.
Bernardini è insieme una figura isolata e partecipe del complesso Movimento della “pedagogia popolare” italiana. Nato e cresciuto, come uomo e come maestro, in una fra le terre più “primi­tive” del nostro Paese, la Barbagia, e trasferitosi nel cuore urbano e istituzio­nale dell’Italia, Roma e le sue borgate, ha saputo rimanere “essere sociale” anche dentro l’aula scolastica (fatto tutt’altro che comune) e insieme esprimere una carica eversiva a difesa degli altri, gli uomini-bambini, umiliati e piegati nella società contadino-pasto­rale da una cultura tradizionale violenta o assediati e corrosi da una sottocultura di marginalizzazione e di violenza so­ciale caratteristica dello sradicamento culturale migratorio delle periferie ur­bane metropolitane.
La sua testimonianza di educatore è molto diversa da quella “razionale” di Ciari o “poetica”di Lodi; egli è un crudo fotografo della “sua” scuola: quella che è riuscito a realizzare.
Senza concedere nulla alla mistificazione e all’abbellimento di sé, egli ci ha lasciato una testimonianza viva di nuo­va storia: storia della pedagogia vera (quella praticata e non solo predicata), della didattica viva, della cultura popo­lare non mitizzata.
La sua, comunque, non è stata solo ope­ra di testimonianza trasferita attraverso la capacità della scrittura ma è stata in­sieme quella della militanza pedagogica: certamente meno partecipe sul terreno associativo alla vita della “cooperazione educativa” ma comunque condivisa sul piano metodologico della prassi di­dattica e della relazione educativa, svi­luppata all’interno di una cultura laica e di una visione sociale di liberazione.
(Rinaldo Rizzi)

Sandro Onofri, Registro di classe, Torino, Einaudi, 2000
È un libro esile Registro di classe: soltanto cento pagine, ma di grande peso morale, perché vi si avvertono le ansie, i timori e le riflessioni dell’autore, ovvero Sandro Onofri, professore d’italiano in un liceo romano di periferia e scrittore di romanzi (Luce del Nord, Colpa di nessuno e L’amico di infanzia) e reportages (Vite di riserva e Magnifiche sorti). Registro di classe era nato come un libro sulla scuola, solo in seguito Onofri si era risolto a utilizzare la forma del diario e ne aveva iniziato la stesura nel 1998: questo volume raccoglie i testi scritti dall’autore (nato nel 1955) prima della sua prematura scomparsa. È un diario, a tutti gli effetti, che accorpa le classiche “schegge” e riflessioni che un insegnante potrebbe scrivere sull’onda di uno spunto indotto dai suoi alunni, dai loro tagli di capelli o dalle mode più in voga nella classe. Onofri si arrovella in continuazione nel tentativo di comprendere i suoi studenti, di lanciare loro appropriati salvagenti culturali: e, come accade anche ai bene intenzionati, a volte è compreso e seguito, altre no. Ma i ragazzi hanno sempre salutari riserve di immaginazione, e in qualche modo alla fine riescono a stupirlo, nonostante assistano freddamente a una proiezione di Train de vie o si lascino contagiare dall’appiattimento degli show televisivi. Magari entusiasmandosi nella scoperta del Pinocchio di Collodi, molto al di sopra della riduzione disneyana a cartoni animati, oppure apprezzando oltre le più rosee previsioni Se questo è un uomo di Primo Levi e Un borghese piccolo piccolo di Vincenzo Cerami. Dentro Registro di classe c’è un anno di scuola raccontato in tralice: i compiti (ovvero il divertimento) per le vacanze natalizie, i colloqui con i genitori, i temi degli alunni, la gita scolastica, il topico momento del voto sul registro ovvero l’insostenibile circoscrizione dell’intelligenza adolescenziale. È il diario di un insegnante che s’interroga di continuo sul proprio compito di educatore, che si chiede cosa possa mai cambiare anche un solo professore dotato di buona volontà: forse poco, ma significativo e per fortuna questa esperienza Onofri l’ha riversata in Registro di classe.
(Paolo Boschi)

Eraldo Affinati, La città dei ragazzi, Milano, Mondadori, 2007
Si chiamano Nabi, Faris, Francisco, Ivan, Mihai, Angus, Adulali ecc., sono giunti in Italia nei modi più imprevedibili e tortuosi, scaraventati da tutte le parti del mondo, hanno quattordici, quindici anni e alle spalle un carico di esperienze talmente sconvolgenti che ci si stupisce a pensare che riescano ancora a parlare, a sorridere, a vivere. Sono i paria della globalizzazione e del fanatismo ultraliberistico, i lazzarilli e gli sciuscià del nuovo millennio, gli Oliver Twist dei giorni nostri. Alla fine dell’apprendistato scolastico narrato in questo volume, sapremo che uno sarà scaricatore di bagagli in un albergo a Termini, un altro venditore di frutta sulla Portuense, un altro ancora commesso in un negozio di fotocopie sull’Anagnina e così via. Aver avuto il privilegio di essere stato loro insegnante significa non solo “compiere un’opera umana”, come dice l’epigrafe in apertura di libro di Teilhard de Chardin, ma anche offrirsi indifesi a una sequela di squassanti emozioni, vere e proprie fitte del cuore: significa arrendersi alla “tenerezza che sentivo invadermi quando spiegavo il Risorgimento agli slavi e il groppo che mi attanagliava la gola nel momento in cui elencavo i gradi di parentela italiana agli afgani”.
In tempi assai grami per l’istituzione scolastica, Affinati riconsegna all’esperienza dell’insegnamento quel ruolo che le spetta di diritto: “Quello che accade in aula produce effetti indelebili. È la potenza dell’insegnamento”. È questo che spinge l’insegnante-scrittore a ricopiare, con la stessa paziente acribia con la quale un severo copista trascriverebbe preziosi codici manoscritti, le lettere che questi ragazzi gli inviano. Tutte iniziano con una struggente e bellissima storpiatura “caro raldo”. Tutte sono ovviamente piene di sgrammaticature, di svarioni ortografici, di punteggiatura sconnessa, ma rivelano una straordinaria, incontenibile urgenza comunicativa che pochi altri testi hanno. In quelle righe sbilenche c’è un sapore inconfondibile: quello della vita vissuta che chiede ascolto e comprensione. Affinati reagisce alla sfida che proviene da queste vite di scarto: vuole scoprire l’enigma delle radici, vuole sapere come e perché essi sono giunti lì. Si ingegna a proseguire lungo quel tracciato che aveva già sperimentato nelle altre sue opere, restituendo alla letteratura la sua ineludibile responsabilità morale e sociale: studiare i fatti, decifrare le incurie, scoprire le distrazioni, accertare le responsabilità.
(Linnio Accorroni)

Paola Tavella, Gli ultimi della classe, Milano, SuperUE Feltrinelli, 2007
Paola Tavella riferisce l’esperienza di un anno accanto a Cesare Moreno, il coordinatore del gruppo di sei insegnanti che si è occupato dei quartieri di Barra e San Giovanni. Si racconta la vita di questi ragazzi (24 in tutto), emerge il quadro desolante del loro contesto familiare e sociale, si segue il tentativo di strapparli a un destino segnato e lo sviluppo del progetto educativo. Quando si parla dei ragazzi, l’autrice ricorre ovviamente a uno pseudonimo, mentre può mantenere i nomi autentici degli insegnanti. “Chance” nasce nell’indifferenza, se non ostilità, delle istituzioni. Dotato di un budget miserabile, ha come sede un edificio in condizioni fatiscenti. Mentre la Tavella scriveva queste pagine, non era nemmeno sicuro che il progetto venisse nuovamente autorizzato e finanziato. Sembra però che proprio la lettura di questo testo abbia spinto il ministro Livia Turco a impegnarsi e a mettere a disposizione le risorse necessarie. Non si tratta comunque del resoconto di un esperimento sociale, per quanto interessante e nobile. Ciò che più rende apprezzabile Gli ultimi della classe è invece da una parte la profonda umanità che traspare da ogni pagina, dall’altra la qualità letteraria. Umanità che si esprime nelle storie individuali dei protagonisti, ma anche nella passione civile ed etica che anima gli insegnanti, fino a coinvolgere l’autrice stessa. Qualità letteraria che conferisce un aspetto romanzesco alla narrazione, tanto che l’editore ha sentito la necessità di chiarire, in ultima di copertina: “Le storie di questo libro sono vere, non sono inventate”.
(Paolo Perazzolo)

Altri libri:
Daniel Pennac, Diario di scuola, Milano, Feltrinelli, 2008
Andrea Bajani, Domani niente scuola, Milano, Einaudi Stile Libero, 2008
Francois Bégadeau, La classe, Milano, Einaudi Stile Libero, 2008
Margherita Oggero, Orgoglio di classe. Piccolo manuale di autostima per la scuola italiana e chi la frequenta, Milano, Mondadori, 2008

10. Il giardino dei ricordi. Laboratorio di narrazione autobiografica e creativa per donne migranti

di Alessandra Gruppioni, insegnante di scuola Primaria, counselor e conduttrice di laboratori di scrittura

L’idea di questo laboratorio nasce camminando.
Ho insegnato per tanti anni in un paese della provincia di Bologna, ad alto tasso di immigrazione fin dagli anni ’80.
Quando uscivo da scuola, camminavo per le strade, nei negozi, al mercato.
Camminando incontravo le donne “straniere”, mamme, zie, sorelle, dei miei scolari: avevano abiti colorati, spesso bambini in braccio, coglievo i loro sguardi intensi, ma ne avvertivo l’isolamento.
Le donne migranti non possono condividere le loro storie, i loro pensieri.
Vivono accanto a noi, senza la possibilità di parlarci, di comunicare.
Non conoscere la lingua del Paese in cui vivono e crescono i loro figli è per loro fonte di disagio e solitudine, che si vanno a sommare al senso di sradicamento e di non appartenenza dovuti alla lontananza dalla loro terra.
Difficilmente partecipano ai corsi di italiano per adulti, poiché hanno quasi sempre bambini molto piccoli e quindi non escono la sera.
Camminando pensavo: come fare? Come fare ad aiutare loro ad esprimersi, ad aiutare noi a non perderci l’immensa ricchezza di poter avvicinare altre culture?
Camminando e guardandole negli occhi, rispondendo ai loro sorrisi, ho cercato un modo di insegnare loro la nostra lingua, un modo nuovo che permettesse anche di raccontarsi e di condividere sentimenti ed emozioni.
Ed ho pensato al metodo autobiografico: la narrazione di sé è stata proposta come possibilità diversa di apprendere la lingua, non attraverso acquisizioni grammaticali, ma esprimendo la propria sensibilità e soggettività, le proprie emozioni, passioni, inclinazioni.
Il Laboratorio di Narrazione Autobiografica ha dato voce a queste donne, fornendo loro la possibilità di raccontare la propria storia, certamente ricca di ricordi, emozioni, esperienze.

Diario
È il primo incontro: non si presenta nessuna delle iscritte.
Penso che forse la mia idea non era tanto buona.
Poi, insieme alle organizzatrici del Comune, ricordiamo che quel giorno è la festa del Ramadan, la più importante per la Comunità Islamica.
Al secondo incontro vengono in tante, sono una dozzina, quasi tutte marocchine e tunisine, un paio rumene.
Sono giovani donne, dai 20 ai 30 anni circa, molte hanno con sé i bambini piccoli di 1 o 2 anni.
Alcune parlano un po’ l’italiano, quanto basta per capirsi con i negozianti, in posta, dal medico.
Qualcuna non ha neppure questa conoscenza di base.
Io sorrido, parlo lentamente e spiego che lì, in quello spazio, si parlerà di loro, delle loro storie, che poi scriveremo.
Mi guardano perplesse. Intanto un cellulare squilla, la signora parla nella sua lingua ventosa dentro il telefono, il suo bambino si sveglia e strilla.
Accanto a loro un’altra bimba succhia paciosa al seno della mamma.
Mi accorgo che dovrò accettare un po’ di confusione, qualcuna che viene, qualcuna che va.
Qualche altro bimbo gattona in giro; una più grandicella, e assai birbante, mi cancella con gusto la lavagna.
Le donne ridono.
Si può iniziare.
La lista di piaceri e dispiaceri, utilizzata per una prima conoscenza nel gruppo, viene scritta al termine del primo incontro.
Qualche ragazza è dubbiosa all’idea di scrivere in italiano, poi si lascia andare all’aspetto giocoso e… scaturisce questa delicata poesia collettiva.

PIACERI
Mi piace:
imparare bene l’italiano per aiutare i miei figli,
studiare,
tornare nel mio Paese per vedere mia madre,
avere la mia famiglia vicino,
abitare vicino alla scuola dei miei figli,
il cous-cous,
cucinare,
tenere pulita la mia casa,
portare a spasso il mio cane,
fare ginnastica,
il verde della natura,
il bianco, il rosso, il viola, il rosa, il nocciola.

DISPIACERI
Non mi piace:
il nero,
la sporcizia e i vestiti sporchi,
la matematica,
qualcuno bugiardo,
il rumore,
avere problemi,
la guerra.

La volta successiva, prima di iniziare a scrivere ascoltiamo una canzone marocchina che ha portato Jamila, parla di un bimbo che disegna e colora.
Poi ascoltiamo la musica berbera, proposta da Aicha: è allegra, da festa.
Le donne si alzano e danzano leggere, ridono.
Poi scrivono e disegnano.
C’è bisogno, dicono.
C’è bisogno, dico anch’io.
Infine scriviamo.

COLORI
Nero come il buio,
come i miei capelli,
il mio fazzoletto.
Verde come l’albero.
Bianco come la colomba,
il vestito del matrimonio,
lo zucchero,
la panna nella torta,
le uova.
Rosso come i fiori.
Marrone come la castagna,
il miele scuro,
il tronco degli alberi,
la porta, la cannella.
Bianco come la nuvola,
il formaggio,
i globuli bianchi nel sangue.
Verde come il giardino,
gli occhi della mia nipotina,
le montagne in primavera.
Bianco come il cuore delle mamme,
i fiori bianchi,
le montagne d’inverno.
Nero come un vestito bello,
gli occhi del mio bimbo,
le belle serate.
Rosso come la bocca dei bimbi piccoli.
Viola come i piccoli fiori che si chiamano viole.
Verde come l’erba,
l’albero,
l’insalata.
Bianco come la neve.
Rosso come la fragola.
Andando avanti nel percorso, condividiamo ricordi d’infanzia.
A tratti, fra le risate, si insinua la nostalgia di una Terra lasciata per necessità, la nostalgia per le persone care, rese ancora più distanti dal costo dei biglietti aerei.

DA PICCOLA, IO MI RICORDO…
“Non volevo che i denti cadevano. Mi ricordo la nonna che me li voleva togliere ma io scappavo!”.
“Io mi ricordo quando andavo in campagna a trovare i nonni.
C’erano le mucche con i vitelli: io li toccavo, loro mi leccavano.
Mi piaceva guardare mentre succhiavano il latte”.
“Da piccola mi piaceva andare ai matrimoni per andare dal parrucchiere e avere vestiti belli.
Mi piaceva guardare la sposa e ballare!”.
“Io mi ricordo quando, con le amiche, facevamo “la sposa”.
La “sposa” era una bambola e noi cucivamo i vestiti”.
Tutte le donne provenienti da Marocco e Tunisia, ricordano grandi scuole con splendidi giardini fioriti.
Raccontano di insegnanti severi ed esigenti, ma attenti a seguire classi con 35 e anche 40 alunni.
L’alunno più bravo, in ogni classe, riceveva un regalo.
In molte scuole, un giorno all’anno, c’era la festa della pulizia, durante la quale insegnanti e studenti pulivano insieme la scuola per renderla più bella.

A SCUOLA, IO MI RICORDO…

“La mia scuola era bellissima, le maestre erano molte: erano buone con i bambini bravi, mentre erano severe se non facevamo i compiti.
Mi ricordo quando sono arrivata tardi e il direttore mi ha picchiato sulle mani.
Era una classe femminile, c’erano 36 bambine”.
“Mi ricordo quando mettevamo i fiori in classe, il giorno della festa della pulizia.
Ho un ricordo triste: in palestra una mia amica è morta, nessuno sapeva che lei era malata al cuore”.
“A scuola avevo una maestra buona e una nervosa: si arrabbiava subito e urlava.
Mi faceva paura.
Mi piaceva studiare l’arabo: ero la prima della classe e ricevevo in premio dei regali”.
“Mi ricordo che il maestro era rigido.
Quando entrava noi dovevamo alzarci tutti in piedi e dire: “Bonjour monsieur!”.
Eravamo 36 alunni, mi piaceva quando giocavamo in giardino, l’intervallo durava circa 30 minuti”.
Alla fine di uno degli incontri precedenti le feste di Natale e Capodanno decidiamo di salutarci con una festa fra donne, col contributo di tutte.
Ce lo diciamo un po’ in fretta, già sulla porta, con i bimbi che, infagottati nei cappottini, premono per uscire.
Arriva il giorno della festa, io porto bibite e cioccolatini; risucchiata dalla mia vita frenetica non ho potuto preparare nulla.
Vista l’estemporaneità organizzativa, mi domando se le mie donne si ricordino della festa.
Eccole.
Arrivano alla spicciolata, con gli occhi che ridono e le braccia cariche di delizie, una addirittura con un “trolley” munito di ruote.
La tavola si ricopre di prelibatezze preparate con le loro mani e servite su preziosi piatti da portata.
Oumani, dalla valigia, estrae il the alla menta e il servizio “buono” per servirlo: teiera dorata sontuosa e deliziosi bicchierini variopinti e finemente decorati.
Nascondo gli orridi bicchieri di plastica che avevo predisposto e assaporo con grande piacere sia il cibo sia la lezione di stile che ho appena ricevuto.
Poi, via alle danze!
La preparazione dei piatti elaborati conduce al tema della manualità.
Negli incontri successivi conversiamo, pensando a tutte le azioni pratiche, quotidiane, ma anche creative che possiamo compiere attraverso le nostre mani.
Insieme creiamo una pittura collettiva con le impronte delle nostre mani intinte nei colori.
Infine Gail ci insegna uno stupendo gioco della tradizione Maori: in Nuova Zelanda, gli anziani lo insegnano ai giovani.
È un allenamento per imparare a usare le lance: ci mettiamo accovacciate, a coppie, Gail canta una canzone mentre noi, a ritmo, battiamo le mani e ci lanciamo i bastoni colorati, che teoricamente dovremmo afferrare al volo…
Che ridere! Quanto ci fa bene!

GRAZIE ALLE MANI
Perché toccano e sentono,
perché possono dare una carezza,
perché scrivono,
perché preparano il cibo, poi lo portano alla bocca,
perché sanno cucire,
perché pregano,
e aiutano i bambini,
perché sono utili,
perché danno tanto amore,
perché per i piccoli sono strumenti di conoscenza,
perché giocano,
perché fanno tante cose e curano le piante,
perché si stringono per dare amicizia e aiuto.

Spero, attraverso il diario, di avere saputo raccontare il clima relazionale accogliente, solidale, affettivo che si è creato nel gruppo.
Le donne sono state molto disponibili a darsi sostegno a vicenda, sia tenendo in braccio il piccolo di chi stava scrivendo, sia traducendo i racconti di chi non riusciva ancora a spiegarsi in italiano.
Mi sono sentita spesso in empatia con loro, poiché vivevo – per un istante – un rovesciamento della situazione in cui esse si trovano quotidianamente: immersa in varie lingue musicali e sconosciute, cercavo di comprenderne i contenuti captando intonazioni, espressioni del volto, gestualità.
Il rispetto reciproco, trasformatosi presto in affetto, ha portato a una positiva comunicazione: insieme abbiamo riso, cantato, danzato e – qualche volta – pianto.
Attraverso i loro racconti e la condivisione dei vissuti, le partecipanti hanno riflettuto sul proprio passato, sui cambiamenti, sulla propria condizione di donne in bilico tra due culture: quella d’origine e quella in cui vivono, lavorano, interagiscono quotidianamente.
In questo ambito, socializzante ma protetto, esse hanno potuto gettare le basi di un ponte per la loro effettiva inclusione nella realtà sociale in cui ora vivono.
Nel confronto con le loro diverse culture (Marocco, Tunisia, Pakistan, Romania, California, Nuova Zelanda) ho potuto verificare, ancora una volta, come il metodo autobiografico abbia un positivo riflesso in ambito sociale.
La storia personale di ciascuno di noi, se scritta e condivisa, diviene documento prezioso e si inserisce storia della comunità in cui viviamo.
Grazie a tutte le donne hanno condiviso con me questa esperienza, regalandomi momenti di tenerezza, commozione, divertimento e piacere. Grazie al cuore e ai pensieri delle amiche di Associazione d’iDee (www.associazioneidee.net) e di Adriana L’Altrelli, Assessora alle Pari Opportunità del Comune di Calderara di Reno.

9. Stregoni e clown. La “formazione” dell’insegnante

di Guido Armellini, ex insegnante di Scuola Secondaria Superiore, docente di letteratura comparata all’Università di Verona

Chi insegna pedagogia allUniversità, i ragazzi non ha bisogno di guardarli. Li sa tutti a mente come noi si sa le tabelline.
(Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1966)

L’insegnante, come è stato riconosciuto almeno a partire dal Menone di Platone, non è in primo luogo qualcuno che sa e che istruisce qualcuno che non sa. Egli è piuttosto una persona che tenta di ricreare il soggetto nella mente del discepolo, e la strategia che guida la sua azione consiste soprattutto nellottenere che lo studente riconosca ciò che potenzialmente già sa, il che presuppone la sconfitta delle forze repres­sive presenti nella mente e che gli impediscono di sapere ciò che sa.
(Northrop Frye, Il grande codice. La Bibbia e la letteratura, Torino, Einaudi, 1986)

Insegnare a insegnare
Il nostro paese è pieno di persone che pensano di poter inse­gnare a insegnare agli insegnanti: pedagogisti, psichiatri e psi­cologi, sociologi, ispettori ministeriali, accademici delle più varie discipline. Fino a oggi questa idea non è suonata strana alle orecchie delle competenti autorità: se c’è da istituire un corso di formazione per insegnanti, si ricorre immancabilmente alle sopra citate categorie. Ne nascono anche dei conflitti: non molto tempo fa i quotidiani hanno ospitato un acceso dibattito tra pe­dagogisti e specialisti disciplinari sul ruolo che ciascuna delle due corporazioni avrebbe dovuto ricoprire nei corsi universitari per la formazione iniziale dei docenti. A nessuno degli interve­nuti è passata per la mente l’idea molto banale che, se c’è qual­cuno che sa insegnare, quello è un o una insegnante.
Se uno psicologo, o un medico, va a un corso d’aggiornamento, dall’altra parte del tavolo trova quasi sempre uno psicologo, o un medico considerato particolarmente bravo, che si è specializzato in qualche strategia terapeutica, che ha esperienze interessanti da raccontare, che ha scritto libri a riguardo. Se ci fossero corsi di formazione per ciabattini, sarebbero sicuramente tenuti da ciabattini esperti, non da idraulici, orologiai o elettricisti; e l’eventuale presenza di podologi, massaggiatori riflessologici, scuoiatori di cinghiali e coccodrilli sarebbe considerata un contributo interessante ma collaterale. Solo agli insegnanti – cate­goria il cui mestiere ha molto di artigianale, di soggettivo, di idiosincratico – tocca invariabilmente andare a lezione da pro­fessionisti che svolgono un altro lavoro: il senso comune esclude che dalla pratica dell’insegnamento possa scaturire un sapere degno di questo nome. Non a caso, se si pensa a una carriera per il personale docente, immediatamente ci si preoccupa di pre­miare le attività di gestione, di progettazione, di coordinamento, come se il contatto diretto con i ragazzi e con le ragazze fosse una pedissequa applicazione di modelli e di tecniche prestabiliti e non quell’arte complessa, avventurosa, sorprendente che gli insegnanti seri e appassionati conoscono e amano.

Chi forma chi
È fin troppo ovvio che un buon insegnante di matematica, o di storia, deve avere una buona conoscenza della matematica, o della storia. Ma non si capisce perché, subito dopo aver conse­guito una laurea in queste discipline, occorrerebbe fargli inca­merare un sovrappiù di formazione specialistica: o l’Università è capace di far imparare i capisaldi delle discipline che insegna, e allora un normale corso di laurea è più che sufficiente; oppure non ne è capace, e allora un’aggiunta di due anni dello stesso tipo di formazione non può certo risolvere il problema.
Quanto alla pedagogia, da quando il ruolo dello studioso si è scisso nettamente da quello dell’insegnante (cosa che non avve­niva ai tempi di Pestalozzi, Freinet, Montessori), i suoi percorsi epistemologici sembrano calcare le orme di quei dotti del Seicento che dettavano legge sul funzionamento dell’universo e sui moti degli astri rifiutandosi decisamente di dargli uno sguardo diretto con il cannocchiale di Galileo. La separazione fra chi insegna e chi teorizza sull’insegnamento è uno dei fondamentali motivi dell’inaridimento del sapere pedagogico e dell’avvilimento del mestiere dell’insegnante. In altri paesi europei i docenti univer­sitari che si occupano di didattica devono passare, per contratto, molta parte del loro tempo nelle classi, a contatto diretto con insegnanti e studenti; penso che questo salutare bagno di realtà li aiuti a elaborare modelli interpretativi e operativi ragionevoli, maneggevoli, sottoponibili al vaglio dell’esperienza: cosa che nel nostro paese avviene assai raramente.

L’Università e la didattica
Del resto è noto che in Italia l’attività didattica occupa l’ultimo posto tra gli interessi e le preoccupazioni della larga maggioranza dei professori universitari. Sembra alquanto paradossale che coloro che dovrebbero insegnare a insegnare provengano proprio da una categoria che si preoccupa così poco del suo stile di insegnamento: in fondo, la più autentica pedagogia del pedagogista non è quella enunciata a parole, ma quella pra­ticata all’Università, nella sua relazione con i suoi studenti. Nei corsi d’aggiornamento si enunciano illuminate teorie secondo le quali i bambini e le bambine non sono scatole vuote e non biso­gna trattarli come oggetti ma come soggetti; ma ci si guarda bene dall’applicare questa strategia pedagogica anche agli inse­gnanti destinatari del corso. Non c’è da stupirsi poi se nelle scuole si diffondono quegli atteggiamenti gregari e rivendicativi che si rimproverano giustamente alla corporazione degli insegnanti: se chi mi insegna a fare il mio mestiere non tiene al­cun conto di ciò che so e che so fare, non mi resta che adagiarmi sulle ricette didattiche preconfezionate che giungono dall’alto (e brontolare rancorosamente quando scopro che non funzionano).

Come il clown o la pornostar
Ciò che motiva la spartizione della formazione dei docenti tra specialisti disciplinari e pedagogisti è l’idea dell’insegnamento come “trasmissione” di saperi codificati: da un lato le discipline da insegnare, dall’altro le tecniche per farle penetrare, a dosi crescenti, nella testa dei discenti. Specialisti e pedagogisti spiegano all’insegnante ciò che deve sapere e saper fare, in modo che lui o lei possano spiegare ai bambini ciò che dovranno sape­re e saper fare per essere accolti a pieno titolo nella società degli adulti; illustrano anche gli strumenti adatti a “misurare” la quantità di apprendimento entrato nella testa del bambino o della bambina e le strategie adatte a correre ai ripari quando la dose non è sufficiente. Ma la scuola, quando va come deve, non è questo. È il luogo (forse l’unico, a parte la famiglia, in questo momento storico) in cui si incontrano generazioni diverse, su uno sfondo per molti aspetti lacerante di crisi di valori e di mo­delli. Pensare che tutto si risolva in un asettico e unidirezionale passaggio di valori e di saperi è illusorio.
Fattori come la crescente distanza culturale fra le generazio­ni, la perdita di prestigio sociale della scuola e dell’istruzione, la sfasatura tra cultura scolastica ed extrascolastica richiedono che chi insegna sia prima di tutto capace di motivare all’apprendimento. Da questo punto di vista i principali requisiti di un buon inse­gnante sono la passione e la curiosità per ciò che insegna e per le persone che ha di fronte, il gusto per l’avventura e per l’imprevisto insiti in ogni relazione umana, il senso della com­plessità e dello straordinario valore sociale del suo lavoro, la consapevolezza della vastità della propria ignoranza e la propensione a ripensare ogni giorno al significato di ciò che fa in classe con i suoi studenti. Come lo stregone, il clown e la pornostar, un buon insegnante lavora con il corpo, con la voce, con le emozioni. Come l’antropologo, esplora usi e costumi di una tri­bù sconosciuta, si sforza di gettare ponti fra culture diverse, cer­ca di costruire contesti comunicativi comuni. Questo genere di cose non si impara esponendosi passivamente allascolto degli ultimi sviluppi del sapere specialistico o delle più recenti rasse­gne di obiettivi, indicatori e descrittori elaborate da qualche su­percilioso sezionatore dei comportamenti umani.

Ampliare la gamma dei punti di vista
Per quel che mi riguarda, il maggior contributo alla mia formazione di insegnante è venuto da un’esperienza giovanile di educatore in un’associazione volontaria, dagli scambi di esperienze con colleghe e colleghi esperti e appassionati e dall’incontro con narrazioni come quelle di Janus Korczak, Mario Lodi, don Milani: esseri umani diversissimi, accomunati da una forte spinta etica e da un rapporto appassionato e fantasioso con i ragazzi e le ragazze. Per ciascuno di loro l’esperienza educativa non si poneva come una trasmissione unilaterale di valori e saperi, ma come costruzione cooperativa di un mondo possibile in cui i modelli sociali dominanti (a volte feroci, come nel caso di Korczac) potessero essere messi in discussione e sovvertiti: le tecniche, sempre discutibili e reinventabili, venivano di conse­guenza, e ognuno si costruiva ogni giorno le sue. Si obietterà che i casi citati sono eccezionali, che non si può pretendere che ogni insegnante sia un genio o un eroe, che bisogna portare i grandi numeri a un livello medio di decenza. A me sembra che la tra­smissione unidirezionale di metodologie didattiche standardiz­zate, anziché sollevare le situazioni più mediocri, rischi di de­primerle ulteriormente: il generale deterioramento della qualità delle esperienze scolastiche dagli anni del trionfo delle tassonomie e della programmazione fino a oggi ne è una riprova. Per quanto scarse siano le doti di un attuale o futuro insegnan­te, credo che l’unico modo per aiutarlo a migliorare consista nel farlo diventare protagonista della propria formazione, offrendogli la possibilità di ampliare, attraverso esperienze e incontri si­gnificativi, la gamma dei suoi punti di vista sulla straordinaria complessità del mestiere che svolge o che svolgerà.

Due proposte
In base ad alcune ricerche sembra che circa tre insegnanti su dieci sono quasi degli eroi, molto competenti e ottimi didatti: suppliscono con l’impegno personale, si aggiornano, ma non sono per niente valorizzati e non hanno alcun riconoscimento. Una metà dei restanti due terzi è inadeguata. L’altra metà tira a campare. Se le cose stanno così, è chiaro che una formazione in servizio concepita come semplice aggiornamento disciplinare, unito alla mera trasmissione di nozioni psicologiche e pedagogiche, ri­schia di lasciare il tempo che trova. E anche la differenziazione retributiva di cui si parla come di una panacea non mi sembra possedere il potere salvifico che le si attribuisce. Si tratta invece di restituire senso al mestiere dell’insegnante: il che, dal punto di vista della formazione, significa offrire tempo e occasioni per metacomunicare sul proprio lavoro quotidiano, per recuperare il suo valore etico e conoscitivo, per elaborare e far circolare il sapere che ne scaturisce. Se per mettere in moto un processo di questo tipo sia necessario ricorrere all’apporto di interventi esterni al mondo della scuola o sia più utile la valorizzazione delle competenze esistenti tra gli insegnanti, dovrebbero essere gli stessi destinatari della formazione a deciderlo di volta in volta. Una premessa indispensabile è comunque il radicale sfol­timento dell’inutile lavoro burocratico che attualmente intasa la vita della scuola e l’istituzionalizzazione di tempi “sabbatici” dedicati alla ricerca e allo studio.
Per quanto riguarda invece la formazione iniziale, un ruolo fondamentale andrebbe offerto agli insegnanti capaci di interagi­re con i loro futuri colleghi in un lavoro che si svolga anche e soprattutto nelle classi, insieme con ragazze e ragazzi in carne e ossa. Insomma, quel “tirocinio” che nei progetti ufficiali è relegato a una funzione subordinata dovrebbe essere un cardine della formazione, non come “esercitazione pratica” in cui si “applicano” e si verificano a posteriori teorie pedagogiche preconfezionate, ma come esperienza diretta della sconfinata va­rietà di osservazioni, di strategie, di implicazioni che possono scaturire dall’atto dell’insegnare e dell’imparare. Qualcosa di simile si potrebbe realizzare anche all’interno di significative esperienze educative extrascolastiche, specie in situazioni so­ciali e psicologiche “a rischio”.
Mi pare che queste ipotesi potrebbero funzionare bene ad alcune condizioni: che gli insegnanti “formatori” (ma la parola ha qualcosa di ripugnante, e bisognerebbe inventarne un’altra) non siano totalmente esonerati dall’insegnamento ma mantengano un contatto costante con le classi e con i ragazzi, attraverso forme di distacco parziale; che l’organizzazione della formazione in servizio degli insegnanti sia radicalmente decentrata e sottratta al ceto buro-pedagogico che l’ha gestita fino ad ora; che i rapporti tra ricerca didattica e sapere accademico, e tra scuola e università, non si svolgano più in termini gerarchici e unidire­zionali ma di scambio alla pari.

8. La memoria fa parte dell’intelligenza. Incontro con A.N.E.D. di Bologna

di Sandra Negri

Il primo insegnamento che traggo dalla chiacchierata di questa mattina è l’umiltà e la capacità di lasciare entrare l’esperienza, la storia, una vita vissuta attraverso emozioni forti, non sempre rielaborate, ma che sempre hanno dettato le azioni, le scelte, i cambiamenti delle persone.
Sono entrata in questa casa con un mio schema preciso rispetto a questo incontro. La mia bella traccia di domande, i miei obiettivi rispetto ai contenuti che per me erano prioritari.
Ma è bastato poco. Sono state sufficienti poche parole, pochi istanti per capire e sentire che dovevo lasciarmi condurre.
Non sarebbe stato attraverso la risposta alle mie domande che avrei avuto le informazioni che cercavo. Ma attraverso la forza di quel racconto, quella esperienza ancora così presente, quel bisogno di raccontare e fare circolare quella, e tante altre storie.
Ed ecco il secondo insegnamento. Il soggetto educativo di questa storia non è solo e in primo luogo il ragazzo, il gruppo classe. La forza e la passione del racconto sono uno strumento di crescita e di evoluzione per chi lo riceve e per chi lo dona.
Franco Varini è un educatore delle giovani generazioni che, attraverso la sua esperienza di prigioniero delle SS e internato in diversi campi di concentramento e di lavoro durante il secondo conflitto mondiale, trasferisce un sapere che viene da un pezzo molto drammatico della nostra storia vissuto in prima persona.
Dopo la sua liberazione e il rientro in Italia, trascorre molto tempo nel silenzio e nella difficoltà a raccontare, a condividere l’orrore di quei mesi di prigionia e torture. Fino a quando non sente il bisogno di lasciare un segno, una traccia, un qualcosa di accessibile a tutti, di condivisibile.
È così che nel giro di pochi giorni nasce il suo libro Un numero un uomo (Torino, EGA editore, 2008). Così comincia il suo peregrinare per le scuole della regione Emilia-Romagna. Incontra centinaia di ragazzi delle Scuole secondarie inferiori e superiori. Vuole lanciare un seme, dice. Ed è consapevole che quel seme avrà in ogni persona che incontra tempi e modi diversi di crescere e portare il frutto di una cultura apparentemente così lontana dalla nostra.
Il mio interesse è legato ai ragazzi, all’aspetto educativo e didattico di questa storia. Vorrei che mi raccontasse le loro facce, le loro domande, le loro reazioni. E lo fa. Mi racconta del clima che si crea quando lui comincia il racconto. Dei lavori che i ragazzi gli inviano dopo averlo incontrato. Degli abbracci. Dell’interesse che suscita nei ragazzi disposti a sballare l’orario dell’uscita di scuola pur di non far finire quel momento.
Ma capisco che per arrivare a loro devo passare da lui. Dal protagonista della storia. Di allora e di oggi. Quando gli chiedo “E tu? Tu cosa provi quando parli con i ragazzi?”, il suo viso si illumina e mi risponde con un tono molto deciso: “Gioia!”.
Allora cambia il mio focus. E cambia il punto centrale del mio ipotetico scritto. Ciò che risiede nell’educatore, che poi viene trasmesso nella relazione educativa diventa il vero il punto centrale.
La forza con cui Franco accede alle mie emozioni e alla mia curiosità è la stessa forza con cui lui vive quell’incontro. E immagino che avvenga lo stesso meccanismo quando egli si trova a scuola. Quando sia lui che i ragazzi si alimentano di quella energia che solo l’incontro delle esperienze e delle singole storie può far nascere. Tanto i ragazzi attingono da quella vita, tanto lui può attingere dal loro bisogno di avere risposte, informazioni, conoscenza. I primi importano un’esperienza che amplia il proprio bagaglio personale e integra la propria identità di uomini in crescita. Il secondo, attraverso il riconoscimento e il valore attribuitogli da quell’incontro, vive ogni volta dentro il ruolo di educatore e formatore la conferma di una identità che è passata attraverso la storia, sua e nostra.
Ancora una storia. Ancora una persona che fa del racconto della propria esperienza drammatica e miracolosa per esserne uscito, la propria carta di identità, la propria licenza a occupare un posto importante nell’oggi che egli abita.
Armando Gasiani condivide con Franco Varini l’esperienza del campo di sterminio, l’esperienza dell’oblio nel tentativo di disfarsi di quel pezzo di storia insopportabile, e il bisogno di riappropriarsene per sentirsi parte di quella stessa storia; non solo di quel preciso momento, ma quella che ha portato a quel momento, quella che è venuta dopo quel momento. E quella di oggi. Quella dove, dice Armando, diamo per scontata la libertà.
Anch’egli incontra i ragazzi delle scuole. “Noi lo sappiamo cosa significa perdere la libertà. E proprio per questo ne conosciamo il valore. Oggi voi la libertà la avete in mano. E la avete grazie a noi, a ciò che abbiamo vissuto, alle scelte che abbiamo fatto. Per conoscere e apprezzare cosa tutto ciò significa… Bisogna che mi ascoltiate, che capiate…”.
Nella nostra lunga e emozionante chiacchierata mi parla dei ragazzi. “L’età più bella è quella dai 13 ai 17 anni… Ascoltano, fanno domande, sono curiosi. Poi, è come se crescendo, non sentissero più il bisogno di sapere, di conoscere”.
E si arrabbia con gli adulti. “Loro non sanno ascoltare. Forse sanno già tutto! Ma di sicuro la mia esperienza non la conoscono…”.
I luoghi degli incontri e dei racconti non sono solo le scuole. Armando accompagna i gruppi al campo di Mauthausen, in Austria, dove egli ha trascorso quattro mesi di prigionia. Dove ha visto e vissuto situazioni che… “non potreste mai capire. Anche quando ve le racconto, difficilmente sono credibili. A volte fatico io stesso a credere a ciò che ho visto. Questa è terra sacra. Un luogo che ha visto la morte e il dolore di centinaia di migliaia di persone”. Un luogo che oggi diventa contesto privilegiato di conoscenza, di esperienza, di apprendimento. “Quando entriamo al campo non perdo un solo ragazzo per la strada. Sento che capiscono, sono interessati a stare in ascolto di quello che lì dentro è accaduto. Mi stanno vicini, chiedono. E stanno in silenzio. In pullman durante il viaggio sono vivaci. Ma dentro sono attenti e interessati”.
Mentre lo ascolto sento che l’apprezzamento per l’interesse e l’ascolto diventa una richiesta di rispetto per ciò che lui porta in sé, per ciò che racconta, che ha vissuto, che ha fatto di lui l’uomo che è oggi.
Armando dice di dovere la sua rinascita a Roberto Benigni che con il film La vita è bella lo ha svegliato dall’oblio e gli ha restituito una identità legata anche a quella parte del suo passato così duro da digerire. Gli ha ridato la vita attraverso la possibilità di parlare. E da allora, quando egli racconta si scarica, si libera. Ogni volta che fa di quella condivisione un regalo, si alleggerisce e sente, ne è certo, di dare qualcosa di importante. Perché, dice, i ragazzi ne hanno bisogno. Le loro domande lo fanno emozionare, sente che sono contenti, che anche attraverso quell’istante sono cresciuti. Lui si mette a nudo. È a loro disposizione perché essi possano trarre da lui ciò che occorre loro per fare un altro pezzo di strada. Ed è lì che gli orrori che ha vissuto e che lo hanno portato così vicino alla morte si trasformano meravigliosamente in uno strumento unico per contribuire alla evoluzione dell’umanità. Ogni volta accade questa grandiosa alchimia.
Il desiderio e il bisogno di raccontarsi hanno preso anche la forma scritta: Finché avrò voce. Armando Gasiani; una storia autobiografica (a cura di Milena Bandieri, Anzola dell’Emilia, Associazione intercomunale Terre d’Acqua, 2003); Nessuno mai ci chiese. La vita del partigiano Armando Gasiani deportato a Mauthausen (di Alessandro De Lisi, Portogruaro, Edizioni Nuovadimensione, 2008).
Parlando di sé gli sfugge “Sono un povero ragazzo…”. Armando quando entra in classe è il diciassettenne che è entrato a Mauthausen sessantaquattro anni fa, che va a incontrare i ragazzi di oggi. E dice loro “Io vi porto la mia esperienza. Ma voi dovete farvi la vostra. E non in poco tempo. Non in fretta. Una lunga esperienza di vita che vi porta a diventare uomini e donne protagonisti della vostra vita. La vostra vita individuale e la vita sociale. Una società e un futuro che richiedono la vostra presenza. Perché la vostra presenza ha un peso nella storia”.
Proprio come Armando e Franco portano la loro presenza di oggi attraverso la loro presenza di allora. Attraverso tutti i passaggi e i percorsi che la vita li ha portati a compiere.
Questo diventa un regalo che essi fanno ai ragazzi che incontrano. Ma un regalo che hanno fatto a loro stessi attraverso il riconoscimento e la rivendicazione di una storia, di una vita che, attraverso l’azione educativa di oggi, sperano e desiderano possa contribuire alla crescita collettiva di domani.
(Franco Varini e Armando Gasiani lavorano e svolgono la loro preziosa attività all’interno di A.N.E.D, l’Associazione Nazionale Ex Deportati politici nei campi nazisti. I suoi aderenti sono i sopravvissuti allo sterminio nazista e i familiari dei caduti nei Lager. È una associazione senza fini di lucro, eretta Ente morale con decreto del presidente della Repubblica italiana il 5 novembre 1968.

Per saperne di più:
www.deportati.it). 

7. La parola e il gesto. Barbiana e il Mugello, una Scuola per l’Integrazione

di Luigi Goffredi, Presidente Fondazione Il Forteto onlus

Le parole e i gesti hanno funzione prevalentemente educativa in ogni dinamica che si sviluppi nella relazione.
Don Lorenzo Milani in questo senso è stato un mirabile precursore nel portare all’attenzione di tutti, prima ancora che nascesse la “società della comunicazione”, la forza della parola e del gesto che l’accompagna. Con grande capacità intellettuale, testimoniale, con spirito provocatorio e sofferenza, lo spiegò alla scuola del suo tempo.
La scuola che, pachidermica, distratta, rituale, obsoleta, non apprezzava i saperi soggettivi e i valori culturali diversi dai propri, anzi escludeva sistematicamente gli allievi non appartenenti alla classe sociale di riferimento, allora ancora definita borghesia. Era una dimensione dove l’allievo bisognoso di appartenere, di rappresentarsi e avere una dignità nel contesto della classe e sociale, veniva invece discriminato.
Operando con la Scuola di Barbiana, don Milani ha delineato con chiarezza la figura dell’educatore come un modo di essere, di porsi, universale, ancora attuale e forse senza tempo, come una persona disposta a vivere con l’allievo tempo, spazi, agi e disagi, costruendo una relazione in sintonia con i bisogni che quest’ultimo esprime. La sua proposta concreta profilava la figura dell’educatore con caratteristiche e funzioni che andavano anche al di là di quelle istruttive, didattiche e disciplinari. Autorevole e disposto a scontrarsi con chi non vuol crescere. Ai ragazzi di Barbiana e alla società, manifestava senza infingimenti la sua idea, il suo essere educatore, l’importanza di essere se stessi sempre, anche nelle proprie funzioni. Si mostrò un uomo con tutte le proprie contraddizioni, reazioni, arrabbiature, slanci, gratificazioni, contrasti paterni senza paternalismo, proiettato a sollecitare negli allievi dinamiche vitali, comprensibili alla ragione ma anche alle emozioni, ai sentimenti che, in una unità di intelletto e psiche, producono conoscenza e formazione equilibrata della personalità.
L’apprendimento, come ci confermano oggi le ricerche delle scienze umane e le scoperte delle neuroscienze, è infatti un processo di elaborazione sinergica tra dimensione razionale e dimensione emotiva. La scuola invece, spesso, pretende che bambini, ragazzi, abili o diversamente abili, felici o depressi portino in classe solo il cervello e lascino fuori corpo e anima.

  1. Il senso dell’iniziativa nelle scuole
    Si tratta di un percorso triennale basato sull’integrazione di idee pedagogiche, competenze professionali, metodologie, didattica e di figure educative, sviluppatosi attraverso laboratori teorico/pratici guidati da educatori esterni alla scuola, volontari e Università, in condivisione con gli insegnanti delle classi. I momenti operativi sono di educazione e animazione per far emergere dinamiche relazionali difficili nell’ambito del gruppo classe e per trovare soluzioni innovative nella collaborazione e nel confronto. Il supporto didattico è costituito da attività svolte con la metodologia dell’educazione cooperativa, sviluppando attività creative, drammatizzazione, simulazione, attività video-cinematografiche e momenti di riflessione personale.
    Macrobiettivi del progetto:
    1. azione di prevenzione al disagio scolastico;
    2. azione di contrasto al disagio quando è conclamato
    3. fornire gli strumenti per sviluppare capacità di relazione e per costituire gruppi classe integrati e collaborativi.

Obiettivi di percorso: 

  1. agevolare le dinamiche del gruppo classe attraverso i laboratori in aula, per la comprensione di sé e delle proprie emozioni, sentimenti e reazioni;
  2. formare educatori, insegnanti, volontari e studiosi universitari, a lavorare insieme attraverso le procedure della ricerca-azione;
  3. integrare le competenze emergenti dalle diverse professionalità (educatori del non formale, insegnanti curriculari, volontari, universitari);
  4. stabilire migliori e proficue relazioni tra scuola e famiglie.

Sono state coinvolte: 

  • nel primo anno 21 classi (14 classi di terza elementare, 4 classi di 1° media, 3 classi di 1° secondaria), con 530 allievi, 40 insegnanti e dirigenti scolastici, 20 volontari, 20 educatori del non formale, 6 consulenti universitari,  genitori;
  • nel secondo anno, 16 classi (9 classi di quarta elementare, 4 classi di 2° media, 3 classi di 2° secondaria), con 370 allievi, 26 insegnanti e dirigenti scolastici, 20 volontari, 18 educatori del non formale, 6 consulenti universitari, genitori;
  • nel terzo anno, 6 classi (2 classi di quinta elementare, 2 classi di 3° media, 2 classi di 2° secondaria), con 150 allievi, 15 insegnanti e dirigenti scolastici, 10 volontari, 8 educatori del non formale, 6 consulenti universitari, genitori;
  • per la verifica del metodo sono state coinvolte 16 classi nel periodo ottobre-dicembre 2008 con 6 laboratori di due ore per ogni classe.

La Fondazione ha portato nel progetto i risultati prodotti dall’esperienza trentennale di comunità vissuta dai soci della cooperativa Il Forteto che hanno condiviso, e tutt’ora condividono, vita, lavoro e un forte impegno di solidarietà attraverso l’accoglienza nei loro nuclei familiari di minori con situazioni di disagio e adulti motivati idealmente o problematici. L’impegno sociale e solidale assunto ha posto le famiglie della comunità davanti a persone con l’urgente bisogno di reintegrare affettivamente e cognitivamente le proprie esperienze per raggiungere l’equilibrio personale; le famiglie hanno perciò avuto necessità di acquisire competenze educative “speciali”.
Il chiarimento, una prassi consolidata nelle relazioni interpersonali a Il Forteto, è un processo che può e deve svilupparsi, soprattutto nei rapporti tra i pari. È fondato sulla ricerca della trasparenza di emozioni, reazioni, sentimenti, nella dinamica interpersonale e intrapsichica, che porta a un approfondimento della conoscenza dei propri meccanismi psicologico/affettivi, mentali, emotivi e alla possibilità di compararli con quelli degli altri nelle occasioni di confronto. Il chiarimento è l’idea sperimentata da Il Forteto nelle scuole, un modo di porsi dal quale emerge una consolidata scala di valori improntata alla reciprocità e alla solidarietà. Valori e idee di grande attualità per una società in forte “recessione”, non solo economica ma soprattutto culturale, che ha urgente necessità di superare l’ebbrezza dell’abbandono all’edonismo, all’effimero e all’ambigua, e per molti versi dannosa, filosofia del “benessere”, tutte ideologie che hanno imperato negli ultimi decenni lasciando chi vi ha aderito tra macerie esistenziali, illusioni, fuga dalla realtà e spesso con la strada sbarrata alle aspirazioni di futuro.

I risultati
Sebbene i dati qualitativi e quantitativi della ricerca siano ancora in via di definizione, i risultati del progetto appaiono superiori alle aspettative, soprattutto in relazione ai punti critici rilevati durante i primi due anni di lavoro. Si ritiene di poter affermare questo attraverso l’osservazione, le interviste a tutti i protagonisti del lavoro e le loro dichiarazioni emerse durante i momenti di riflessione.
Molto significativa, ad esempio, è stata una discussione e la manifestazione dei sentimenti dei bambini della 5° elementare di Dicomano (FI) quando hanno riflettuto sul dolore personale dell’esclusione. Lo hanno fatto spontaneamente, in seguito ad alcuni eventi conflittuali scoppiati nella classe. Poche parole scritte su un cartoncino anonimo: “Come si sentirebbero loro se non venissero presi mai?”. Invece che parole tracciate su un cartoncino apparivano parole incise sulla pietra. Aprirono una discussione pacata, molte lacrime, l’ascolto silenzioso delle parole dei compagni che quasi per magia erano importantissime. Il dolore sincero, un po’ di vergogna, tanta liberazione nel condividere quello che li rendeva più uguali. In primo piano c’era la prospettiva di appartenere, di stare bene insieme:
1° bambino: “A calcio ero uno degli ultimi e restavo sempre solo. Toccava sempre a me andare a chiedere che mi prendessero, però stavo male”.
2° bambino: “Beh io l’ho provato mille volte. Non so se tutti lo hanno realmente provato ma si sta male. Tante volte io vado a chiedere ma mi dicono sempre no. Mi ricercano solo quando devo fare delle bischerate e mi dicono sempre: rifalle rifalle”.
3° bambino: “A me mi escludono tante volte fuori dalla scuola. Sembra che altri bambini non mi vogliano proprio come amico e questo mi fa star male”.
1° bambina: “Quando siamo in palestra e si fa le squadre io vengo sempre scelta per ultima e questo mi fa sentire sempre più male, imbranata”.
 2° bambino: ”Sì è vero, infatti io tanto volte per non far vedere che mi scappa da piangere dico sempre: vuoi che ti picchio?”.
La bambina, da cui era nata la discussione, e che prima aveva pianto, non parlò ma rimase tutto il tempo abbracciata alla sua amica, “assorbendo” avidamente ciò che dicevano gli altri.
Queste sono alcune frasi di getto, un flusso di coscienza, racconti, complesse considerazioni e collegamenti dettagliati. Le parole dei bambini erano un fiume in piena, ricordavano e disegnavano la storia di quasi cinque anni insieme e le pietre miliari della loro breve ma intensa esistenza. Un incontro che ha rappresentato un momento di sintesi e un giro di boa della loro crescita, del loro conoscersi, l’occasione costruita per vedersi al di là della competizione e dei propri timori.
In ogni classe ci sono stati episodi frutto di una lenta maturazione, dell’avere personalmente compiute alcune scelte aderenti ai propri bisogni più veri, dell’avere acquisito nuovi e comprensibili parametri interpretativi della propria realtà intima e quella degli altri.
Dopo alcuni laboratori nelle classi del primo anno di un istituto professionale, nel corso di una discussione i ragazzi hanno detto: “Ora ho meno paura, mi sentivo goffo, con il naso troppo grande, le orecchie a sventola, stavo sempre con la paura di venir preso in giro. Fare le attività del laboratorio mi ha fatto capire che potevo parlare davanti agli altri, che posso scherzare, muovermi davanti a loro e nessuno ha mostrato di guardare i miei difetti. Quando abbiamo parlato dopo gli esercizi, dopo le recite, anche dagli altri veniva fuori la timidezza simile alla mia, era come se raccontassero le mie paure”.
Due ragazze, di un altro laboratorio, sono state un paio di settimane arrabbiate con i professori e il preside e non davano confidenza ai compagni, se ne stavano tutto il tempo dispettose in disparte; poi hanno abbandonato questo atteggiamento e una racconta: “Mi era presa la fissazione di andare in classe con la mia compagna delle medie, per una settimana sono andata tutti i giorni dal preside a chiedergli di cambiarmi sezione. Ora mi accorgo che avevo paura a tentare di fare amicizie nuove. Gliel’ho detto anche alla mia ex compagna. È stata contenta, ma di più io. Non me ne rendevo conto ma avevo paura di non farcela. A fare i giochi e a parlare davanti a tutti nei laboratori, mi è costato molto, ero incazzata, ma se saltavo un esercizio ero gelosa. È andata bene. Ci sto bene qui. La mia compagna mi ha suggerito di ballare davanti a tutti perché sa che mi piace molto. L’ho fatto e ho avuto una montagna di applausi anche dai prof.”.
In molte classi, oltre a questi temi, si è discusso anche dell’immigrazione e della disabilità con toni problematici, seri, empatici, anche se le prime volte che venivano affrontati questi temi gli educatori ascoltavano, invece, un prevalere di battute arroganti, di disprezzo gratuito.
In un’altra classe, 3° professionale, esclusivamente maschile, i primi incontri sono stati difficili, l’atteggiamento della classe era di dura opposizione al progetto a cui avevano partecipato anche gli anni precedenti: criticavano il metodo, le cose proposte, l’insegnante di classe e soprattutto non volevano essere filmati con la cinepresa. La composizione della classe era molto variegata, frutto di successive ricomposizioni all’inizio di ogni anno: ragazzi sedicenni insieme a diciottenni e ventenni, un’alta percentuale di immigrati, una coesistenza di mondi molto diversi per età, maturazione personale, esperienze, cultura. I problemi erano costituiti dalle divisioni in gruppi della classe, la lotta sottile per il potere, tentativi di sopraffazione e qualche discriminazione. Il gruppo di lavoro, insegnante, educatori, volontari e ricercatrice universitaria, affrontarono direttamente le questioni proposte, fortemente pretestuose, con una determinazione proporzionale alla provocazione. Nacque una discussione accesa. Il programma dei laboratori prevedeva lo studio della comunicazione negli aspetti psicologici, informativi, attraverso le immagini, temi e concetti che gli educatori inserirono subito nella discussione che, sebbene effervescente, assunse connotati di rispetto e di serietà. Sembravano due ore intense spese per un nulla di fatto.
Nel laboratorio successivo i ragazzi mantennero un atteggiamento di sfida ma c’era minor tensione. Il terzo laboratorio fu molto deludente, c’erano molti assenti, i più giovani, presenti, erano demotivati e spiegarono che molto probabilmente gli altri non avrebbero più partecipato. Il quarto laboratorio era semideserto, era nevicato e i mezzi di trasporto erano rimasti bloccati: sei i presenti, anche in questo caso i più giovani con i quali si era creato un buon affiatamento. Il laboratorio proseguì, si poté parlare di tutto, delle ragazze, degli spinelli, dell’uso della cinepresa, furono fatte alcune prove di regia, poi il discorso tornò sulla classe.
Dopo un breve battibecco con l’insegnante i ragazzi hanno delineato alcune delle ragioni di disagio e, chiedendo di mantenere il segreto, hanno parlato dei compagni più grandi. Si sentivano sostenuti. Si sono sfogati. Mentre parlavano, studiavano strategie: “Deve cambiare! Così non ci trattano più!”. Non erano piani di vendetta, pretendevano giustizia. Al di là dell’ingiustizia percepita misuravano bene i fatti e chi avevano di fronte, mentre coglievano le insicurezze dei grandi nelle bravate. Volevano la possibilità di confrontarsi da pari, con le proprie risorse. Infatti, agli educatori che proponevano una mediazione “organizzata”, hanno risposto che ora si sentono di potercela fare da soli: “Basta dirgli la verità, basta avere il coraggio di dire quello che si pensa! Che possono fare? Da soli sono degli sfigati”. Il responsabile del progetto, nei giorni successivi parlò alla classe spiegando le aspettative che il gruppo di lavoro nutriva nei loro confronti, sottolineò che il progetto aveva bisogno del loro contributo, fu una discussione importante, tra adulti, durante la quale si chiarirono e condivisero di nuovo gli obiettivi. I laboratori successivi, a parte due defezioni, funzionarono molto bene, si respirava un clima diverso. È stato prodotto un cortometraggio contenente l’intervista dei ragazzi; attraverso il corto la classe ha espresso grande creatività e intelligenza e soprattutto responsabilità e voglia di autonomia. Avevano infatti progettato una sceneggiatura e come girare, appoggiandosi agli educatori solo per la realizzazione finale, per i suggerimenti tecnici della regia, per i tempi, per la fotografia, mantenendo così un forte protagonismo e autonomia che erano riusciti a coinvolgere tutti i ragazzi. Si era rotta una contrapposizione dura, ed era nato un senso di gruppo che aveva dato molto entusiasmo e la forza di confrontarsi.
Pochi esempi, semplici, apparentemente banali ma densi di significati che danno la misura dell’efficacia di un modello diverso che tiene conto della totalità della persona e del bisogno di partecipazione che accomuna bambini, giovani e adulti in ugual misura.
Gli effetti della partecipazione e del chiarimento hanno funzionato altrettanto bene anche agli altri livelli: gruppi di lavoro interprofessionali e rapporto scuola famiglia. Auspichiamo, comunque che questo modello pedagogico e operativo possa ripetersi per formare gli insegnanti, arricchire il modello didattico corrente e che possa fare da barriera di prevenzione ai molteplici disagi che esplodono nelle scuole.

6. Siamo tutti nella stessa barca. Intervento in situazione di conflitto: una proposta di procedura 

di Maurizio Stuppiggia, psicoterapeuta, direttore della Scuola di specializzazione in psicoterapia biosistemica di Bologna

Il gruppo è causa del nostro malessere e al tempo stesso la possibilità della cura. Questo è l’assunto di base da cui voglio partire per descrivere la metodologia di intervento che adotto costantemente nei contesti scolastici quando devo operare nelle situazioni di crisi.
La sensazione che infatti provo ogni volta che vengo chiamato in una scuola, è quella di giungere a un capezzale di qualche moribondo (l’alunno), con tutti i sani (insegnanti e operatori) che lo stanno a guardare dall’alto, e quando me ne vado ho invece l’immagine di una barca a vela alle prese con un vento troppo forte o con un equipaggio squinternato: se la barca affonda nessuno resta asciutto.   Il tentativo iniziale dei partecipanti al gioco del moribondo è infatti quello di sbilanciare pesantemente il peso delle colpe-responsabilità, caricando completamente qualcuno e scaricando contemporaneamente tutti gli altri; questo si fa, di solito, pensando che valga l’equivalenza responsabilità = sofferenza, ma poi ci si accorge che questa è solo un’illusione e che addirittura chi si chiama fuori dalla mischia subisce alla fine dei grossi sensi di impotenza.
Di solito infatti gli insegnanti che avvertono l’esigenza di “fare qualcosa” sono al limite di una condizione di passività ed estraneazione mentale ed emotiva dalla questione problematica che li riguarda. Si tratta appunto di far capire loro che “siamo tutti nella stessa barca”.
Questo è il primo passo. La prima consapevolezza utile è cioè quella di essere tutti insieme partecipi della stessa avventura, pur con compiti differenti, e tutti ugualmente responsabili di ciò che accade.
La responsabilizzazione che esigono queste situazioni non è qualcosa di formale e burocratico, ma una doppia presa in carico di sé rispetto agli eventi: un coinvolgimento esterno, fatto di azioni e di relazioni concrete, e un coinvolgimento interno, dato dall’ascolto dei propri vissuti emozionali, sia positivi che negativi.
Questo è un punto molto importante perché il suo esito condizionerà tutto l’intervento che ne segue.   Due sono le ragioni di ciò:
1) solo se mi assumo la responsabilità degli accadimenti esterni sarò in grado di padroneggiarne la crescente complessità;
2) solo se mi assumo la responsabilità degli accadimenti interni sarò nella condizione di avere un atteggiamento empatico nei confronti degli altri partecipanti al problema.

Il secondo criterio è facile da soddisfare, perché è sufficiente chiedere all’insegnante: “Come si sente in questa situazione?”; la risposta, se non è data in maniera troppo intellettualizzata, rende immediatamente consapevoli di un generico disagio o addirittura di un malessere emotivo che inizialmente confondono e stizziscono l’insegnante stesso, ma che poi finiscono col farlo sentire più vicino all’alunno problematico.
Per il primo criterio le cose sono invece più difficili: non è facile far accettare a un insegnante il fatto che il problema non è solo affare personale dell’Altro ma è frutto sempre di una relazione e mette quindi in gioco almeno due persone o due gruppi. La cosa più importante è porre il coinvolgimento dell’educatore sotto una luce positiva e non dentro il territorio della colpa.
Non dire mai: “Se le cose stanno così, da qualche parte c’entri anche tu!”, e nemmeno “Si è sempre in due a litigare”; queste comunicazioni creano un’immediata barriera difensiva da parte dell’altro, e le risposte che si otterranno saranno del tipo: “Cosa credono di venirci a insegnare?”, oppure “È facile venir qui a predicare, poi chi rimane siamo noi!”.
Sono invece più indicate comunicazioni del tipo: “Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti”, oppure “Solo chi vive quotidianamente il problema sa quanto è urgente intervenire e quanto è importante l’apporto di ognuno di noi”.

Il conflitto come risorsa
La prima mossa è perciò il coinvolgimento dell’operatore nei suoi tre aspetti: cognitivo (“capisco che c’entro anch’io”), comportamentale (“devo darmi da fare”) ed emozionale (“siamo tutti a disagio”).
Il secondo passo è, a questo punto, un corollario del primo assunto e ci dice che ogni problema individuale è il risultato di una sconfitta relazionale in una generica situazione di conflitto. Ciò implica dover guardare a ogni comportamento individuale patologico come a un effetto di precedenti e/o attuali relazioni vissute come schiaccianti e perdenti, e in cui uno solo dei poli rimane scottato, “incandescente” e quindi visibile. Di nuovo quindi procediamo con un allargamento dell’ottica e dell’area di intervento per poter operare in un contesto-non-solo-individuale, che è secondo me il “terreno” di base da cui si sviluppa il sintomo patologico.
“Scovare il conflitto” può così essere il motto di questo secondo momento della prassi di intervento; ciò non vuol dire “creare” dei contrasti artificiali come elementi di deviazione dell’attenzione per una ristrutturazione strategica del problema (questa potrebbe essere l’ottica “sistemico-strategica” che io ritengo valida solo nei casi semplici), ma tendere più possibile l’orecchio a quelle relazioni significative, sia attuali che del passato, che creano un’eco nel comportamento e che possano essere la cornice di senso del disturbo: trovare la domanda a cui, ciò che ora vediamo, è la risposta.
Anche in un ragazzo che se ne sta in disparte tutto il giorno ed evita la discussione e lo scontro a tutti i costi non è difficile individuare la cornice relazionale della sua “atarassia”: chissà quante volte ha partecipato in passato a situazioni in cui veniva zittito, deriso o trattato con noncuranza e chissà quante altre volte nella classe gli sarà parso di vivere le stesse cose!
Di nuovo vediamo come l’idea dell’assunzione di responsabilità sia fondamentale in questo schema di procedura.
Vi è una ragione fondamentale per favorire l’esplicitazione di situazioni di contrasto e di conflitto: è un metodo per ristabilire il legame sociale che spesso viene perduto nell’etichettamento di un comportamento antisociale, sia esso individuale o di un’intera classe. La cosa che più colpisce il tecnico chiamato a un intervento psicopedagogico è infatti l’evidente solitudine e isolamento in cui versa il soggetto da “curare”: per quante persone abbia al suo capezzale è da solo nel suo letto.  Non è poi diversa la situazione di un’intera classe, che certo non soffre l’isolamento al proprio interno, ma che vive ghettizzata all’interno della scuola.
L’obiezione più rilevante a queste argomentazioni è che, alimentando o esplicitando conflitti e disaccordi, si può peggiorare notevolmente la situazione; nella risposta a questa obiezione sta il fulcro di questa procedura, che in fondo si caratterizza come metodo per la composizione dei conflitti.
Prendere il conflitto unicamente nella sua dimensione di malattia relazionale e sociale è infatti riduttivo, perché se ne perde la rilevanza energetica e strutturale e non se ne mette in evidenza la caratteristica di tentativo di autoguarigione da parte dell’organismo sociale in esso impegnato.
La sua rilevanza energetica sta nella capacità di mobilitare una grossa quantità di energie che dimostrano lo stato di potenziale salute (al pari di un’alta febbre che solo un individuo forte può sviluppare); questa energia può poi essere convertita in altre forme più vicine alla cooperazione.
L’importanza strutturale sta nel fatto che, finché c’è un conflitto, c’è anche un legame sociale, e questo è certamente meglio di tutto ciò che è prodotto dall’isolamento e l’indifferenza.
Anche il tentativo di autoguarigione tramite conflitto si inserisce in quest’ottica: esso contrasta l’attuale tendenza sociale all’esasperazione individualistica che arriva ai limiti della competizione narcisistica più sfrenata; il conflitto non è quindi un sintomo da eliminare, ma un’interfaccia che da una parte delimita il territorio dello scontro distruttivo, e dall’altra il terreno della possibilità dell’incontro.

Una situazione concreta: il primo passo
Quando entro in una classe e qualche ragazzo mi comunica con una certa ansia l’esistenza di un litigio o di una discordia cronica, io mostro ovvia preoccupazione di fronte al problema, ma anticipo subito l’idea per cui l’indagine del contrasto può portarci a scoperte interessanti, istruttive e anche piacevoli. Cerco cioè di creare un’atmosfera ludica intorno alla cosa, stimolando tutti a partecipare come se fosse un gioco di società.
Vorrei qui di seguito elencare i passi salienti di una procedura pratica, che io applico nei casi di conflitto o di comportamenti genericamente antisociali: l’esempio concreto che si affiancherà di volta in volta alla descrizione dello schema d’intervento riguarda una classe prima superiore (Istituto professionale) femminile che versava in uno stato di grave malessere a causa dei ripetuti e diffusi contrasti tra molte delle ragazze. Per brevità non si accennerà qui alla complessità del caso, ma solo si prenderà come esempio significativo lo svolgersi del lavoro in un frangente particolare.
Entriamo perciò nell’ambito specifico della procedura di composizione dei conflitti: che cosa fare concretamente, passo dopo passo?
Primo gradino: “trovare l’accordo sul reciproco disaccordo”; fare in modo, cioè, che ambedue le parti siano d’accordo su ciò che costituisce l’oggetto del disaccordo.
È la prima cosa da fare per riattivare canali comunicativi altrimenti bloccati ed è inoltre un piccolo stratagemma per cominciare l’apprendimento della cooperazione: i due litiganti si troveranno infatti d’accordo almeno su qualcosa, senza accorgersene, e senza rinnegare nessuno dei loro cavalli di battaglia.
Solitamente, una volta innescato il conflitto i partecipanti si scordano il punto di partenza e si imbarcano in un’escalation che crea sempre più attrito e aumenta la percezione delle reciproche differenze (di carattere, di gusti, di comportamento, ecc.) creando gradualmente un baratro emotivo; i codici interpretativi della realtà divergono sempre più, fino a rendere impossibile qualsiasi gesto riconciliante. “Quando entro in classe e la vedo fare le sue solite moine, mi viene da girarmi dall’altra parte per non vederla, perché anche un suo colpo di tosse mi dà fastidio”: questa frase, detta da una delle ragazze della classe in questione, è tipica del punto di non ritorno a cui un conflitto può arrivare.
Urge quindi non cercare inizialmente la soluzione del conflitto (l’operatore verrebbe inesorabilmente risucchiato nei gorghi delle accuse e delle lamentele), ma solo la legittimità dei contendenti e del contenuto del contendere.
Vi sono sempre alcune difficoltà in questo primo passo; il caso trattato ne mostra una tipica: lo scoglio rappresentato dall’uso di parole come “presuntuosa”, “aria di superiorità”, “invadente” e “rompiscatole”, che invece di chiarire le cose le complicano, perché sono parole pre-interpretate e pregne di giudizio morale.
L’intervento immediato che ha fatto evolvere il processo è dato da domande del tipo: “Che cosa intendi per ‘presuntuosa’ o ‘invadente’? Puoi spiegarlo concretamente con esempi che tutti possano capire e discutere?”.
All’inizio queste richieste da parte dell’operatore stupiscono gli interessati, perché non sono abituati a ricevere interesse per le loro parole negative, ma solo rimprovero; al tempo stesso sono in difficoltà perché non pensano che tali parole possano essere scomposte, analizzate e che si possa separare la componente emozionale dalla descrizione puramente fisicalista degli eventi. Anche per le ragazze del caso in questione la “presunzione” o “l’invadenza” erano impressioni basiche e oggettive: rimasero molto stupite, per esempio, quando la discussione evidenziò il fatto che la causa dell’irritazione di una delle due ragazze era data da alcuni ripetuti gesti e posture della sua compagna, gesti che in sé non contenevano immediatamente l’evidenza delle intenzioni sotto accusa, ma erano passibili di più di una interpretazione.
L’importanza del primo stadio della procedura non è però la messa in evidenza della polisemia interpretativa, ma, al contrario, la fissazione degli elementi conflittuali su cui tutti possono concordare.
Questo fa sì che essi sperimentino un senso momentaneo di parziale accordo che li tranquillizza: “È vero, è proprio questo che ci divide, discutiamo di questo e non di tutte le altre cose che tiri sempre fuori!”, disse la ragazza che era accusata di “darsi sempre troppe arie”.
È un po’ come trasformare una zuffa in un duello con regole e testimoni.

Secondo passo: cosa c’è in ballo?
Il secondo gradino è: “svelare le proiezioni”, scoprire, cioè, qual è il tema, in ballo tra le parti, che è diventato oggetto di proiezione da una parte e di negazione dall’altra.
Il caso a cui accenniamo qui è chiarificatore di questo passaggio: dopo del tempo impiegato ad analizzare le continue accuse di “darsi troppe arie” (e tutta un’altra serie di tematiche che qui per brevità tralasciamo), l’accusatrice, che non sopportava che “l’altra si comportasse come se fosse una top model”, ammise che avrebbe voluto essere bella, che avrebbe desiderato essere notata da tutti, ma che non osava imbellettarsi o assumere atteggiamenti seduttivi perché si riteneva brutta e sarebbe stata in tal caso ridicola.
La proiettività di questo atteggiamento è evidente a chiunque: puniva la sua compagna che, pur non essendo bellissima, osava atteggiarsi tale. L’ammissione di queste aspirazioni frustrate cambiò l’atteggiamento anche dell’altra alunna, che si rilassò e abbandonò la facciata di indifferenza e di freddezza che aveva tenuto in precedenza.
A questo punto il tema si estese e diventò patrimonio dell’intera classe: quanto e perché è importante essere bella?
Il calore e l’eccitazione che pervase la classe fu una prova, per le due ragazze, della validità del conflitto e dell’universalità dei loro temi. A volte è sufficiente giungere a questo livello per sciogliere i nodi della discordia, ma nella maggioranza dei casi non è così; quando un conflitto è forte e persistente c’è un’angoscia latente che spinge i duellanti a non darsi mai per vinti, pena la perdita della pienezza di sé.

Terzo passo: la paura
Siamo così al terzo gradino: “accogliere l’angoscia latente”, ascoltare, cioè, il contenuto minaccioso che accompagna la spinta conflittuale.
Dopo che tutta la classe si fu sbizzarrita e appassionata a dissertare della bellezza (propria, altrui, degli attori, ecc.), cominciò a subentrare dapprima uno stadio di breve impasse, in cui gli argomenti cominciarono a girare su se stessi e poi gradualmente l’atmosfera si incupì, qualcuna ammutolì repentinamente e qualcun’altra iniziò a distrarsi. Stava succedendo qualcosa di interessante, l’attenzione per il discorso sembrava decaduta e anche lo sguardo dell’insegnante presente in aula aveva un’espressione eloquente: “Siamo alle solite” – pareva dire – “qui l’interesse dura un attimo e poi si ripiomba nel marasma”. Uno sguardo “didattico” avrebbe certamente confermato la preoccupazione dell’insegnante, ma uno sguardo “clinico” poteva vedere ben altre cose: le ragazze infatti stavano per entrare spontaneamente in un territorio poco conosciuto, da sempre vissuto ma mai esplorato, il territorio delle loro “paure essenziali”.
Qual è infatti il rovescio della medaglia di tutta quell’energia spesa al raggiungimento dell’ideale di bellezza se non l’urgenza di scacciare da sé fantasmi inquietanti di dis-identità e di sparizione nell’inesistenza dell’anonimato?
La nostra ipotesi, precedentemente esposta, trovava qui la sua conferma: il livello più profondo di analisi di sé non si tocca nel momento in cui si incontrano la bramosia sessuale e l’ostilità (i capisaldi di certa teoria pulsionale), ma quando si sperimentano il vuoto interiore, la depressione e il fallimento empatico delle relazioni significative; o almeno questo è ciò che è lecito attendersi quando abbiamo a che fare con situazioni che mettono in gioco e a rischio il senso di identità.
E così qualche ragazza cominciò a confidare le sue ansie in merito all’argomento: “Certo, io non posso sperare di diventare chissà cosa! Anche se sto a dieta, poi, non riesco a dimagrire più di così.  A volte mi piacerebbe essere come mia sorella piccola che gioca tutto il giorno e del resto non capisce niente…”. Da quel momento la situazione precipitò come in una reazione a catena e le ragazze cominciarono a parlare delle loro paure; la paura di non essere belle fu solo l’inizio di una serie inaspettata di confessioni, dalle prime delusioni amorose fino ai racconti più angosciosi delle due ragazze precedentemente in conflitto: entrambe, e questo insospettato fenomeno di specchio profondo commosse il resto della classe, confidarono di aver tentato di togliersi la vita e di avere al tempo stesso il costante terrore della morte.
A parte l’elemento catartico, che trasformò l’atmosfera scolastica in un’aura di sacralità, vi è qui la conferma di quanto esposto finora: il conflitto viene rimandato sullo sfondo ed emerge invece il senso di minaccia sottostante che qui è dato, addirittura, dalla paura della morte.
In questo caso vi è anche un elemento in più, un’apparente contraddizione che conferma l’ipotesi mutuata dalla psicologia del Sé: non si capirebbe infatti la compresenza di impulsi suicidi e paura di morire se quest’ultima non potesse essere accostata a quella che Kohut chiama “angoscia di disintegrazione”, che è diversa da quella che viene chiamata solitamente paura della morte perché ciò che si teme non è l’annientamento fisico, ma la perdita di umanità, la “morte psicologica”. Ciò che Kohut intende per morte psicologica non è nient’altro che il risultato dei fallimenti empatici che il soggetto ha sperimentato nel corso del suo sviluppo con le figure di accudimento: è la risonanza empatica infatti che consente e favorisce la formazione del Sé e quindi la stabilità del senso di identità.
Mi rendo conto che il terreno è diventato pesante, forse troppo pesante secondo qualcuno; non sono forse l’adolescenza e il periodo scolare quelle parti della nostra vita in cui si sviluppa il nostro massimo vigore psico-biologico e rappresentano quindi l’espressione massima di vitalità e di pienezza? Concordo sul fatto che questo è ciò che ci auspichiamo, ma trovo pericoloso al tempo stesso negare e rimuovere quelle pesanti ombre che la crescita si porta dietro, e colludere quindi con i tentativi di far tacere una nostra parte molto umana, o come direbbe Nietzsche, troppo umana.

Quarto passo: il vissuto di riparazione
Siamo giunti così al terreno che i partecipanti al conflitto hanno in comune e il cui rinvenimento dà la possibilità di riaprire la comunicazione e a far crescere le relazioni in un ambito di rispecchiamento e cooperazione, ma occorre un altro passo perché il processo sia completo; l’ultimo gradino: “affrontare un’esperienza riparativa”.
Con ciò si intende un processo che mira a colmare quelle lacune del Sé che ne minano la completezza strutturale e funzionale. È il momento finale di questa procedura, ma non è mai definitivo, è un infinito work in progress in cui le vecchie angosce possono venire esplicitate, condivise e messe in scena al fine di trovare nuove e più efficaci soluzioni a quei problemi che hanno limitato e distorto il senso di esistenza e identità.
È un momento essenzialmente pratico, di azione ludica e creativa dove il principio cardine diventa la sperimentazione.
Nel caso qui trattato la classe ha voluto lavorare con la scrittura, immaginando di mandare una lettera alla propria madre e immaginando poi anche una ipotetica risposta. Sono emerse idee molto interessanti che hanno messo in luce soprattutto il bisogno di riparare un vuoto di risonanza empatica: “Voglio essere capita”, “Se tu fossi nei miei panni…”.
L’esperienza riparativa, come possiamo notare qui, implica una riflessione attiva su come le reazioni condizionate dal passato possono essere superate e trasformate da nuove decisioni e dalla crescita di nuove capacità, e su come possiamo più adeguatamente influenzare l’ambiente in modo tale da non esserne più le sue vittime.

5. Sapere dove si vuole andare! Un’esperienza alla Scuola dell’Infanzia

di Roberto Parmeggiani, educatore e formatore del Progetto Calamaio

“L’educatore… che mestiere stupendo… anche se faticoso: dico stupendo perché chi lavora in questo campo si trova collocato in uno spazio fuori dal tempo. Per esempio, chi come me lavora nella scuola dell’infanzia (dai 3 ai 6 anni), passa tre anni con i bambini e le loro famiglie per poi salutarli e riprendere il rapporto con altri bambini della stessa età e quindi lasciarli nuovamente a 6 anni. È come essere dentro a uno spazio dove il tempo si è fermato a quella età. Come educatore hai la possibilità, il valore di vedere come si modifica il contesto sociale, la famiglia, le relazioni: la scuola vive immediatamente l’influenza della società e dei suoi cambiamenti e l’insegnante, se vuole, ha la possibilità di aggiornarsi e di approfondire ciò che accade attorno, provando ad agire per realizzare una buona educazione… Stupendo ma faticoso soprattutto quando tutto attorno a te ti spinge a lasciare!”.
Con queste parole inizia l’intervista a Rina, insegnante alla Scuola dell’Infanzia Don Milani del Quartiere Reno di Bologna. Parole provenienti dalla lunga esperienza di Rina e uscite di getto, come un fiume in piena, appena le ho chiesto cosa pensava del mestiere educativo. Parole sincere, cariche di orgoglio ma anche di consapevolezza: quella derivante dalla consapevolezza maturata dopo tanti anni di lavoro e da tante lotte per costruire un sistema di insegnamento che risponda in modo realistico alle necessità della società.
La Scuola Don Milani e le insegnanti che lì lavorano sono un bell’esempio di scuola che tenta (con ottimi risultati, aggiungo io) di realizzare nel quotidiano un’idea di scuola che riesca nel connubio tra funzionalità, partecipazione, creatività e accoglienza dell’imprevisto.
Una scuola che, a partire dalla struttura fisica per arrivare a quella umana, fa dei limiti un trampolino di lancio scegliendo di farsi mettere in discussione dalla realtà che la circonda e dai bambini che accoglie. Una scuola, quindi, che non rimane solo idea ma che diventa realtà.
A sostegno di questo Rina mi dice che “gli obiettivi didattici e educativi vengono definiti a partire dalla realtà che incontriamo: i bambini, le famiglie, il gruppo educativo con cui mi rapporto. A ogni modo ritengo che mettere al primo posto i bisogni dei bambini e lo stare bene a scuola predisponga al lavoro di gruppo e stimoli il desiderio della curiosità e della conoscenza. È da qui che nasce l’esigenza di una buona accoglienza, non solo il primo giorno ma ogni mattina, di una osservazione mirata a capire i bisogni del singolo e a renderli agiti per favorire le sue conoscenze, la cura agli atteggiamenti, ai gesti e alle parole dette per diventare un gruppo che sappia convivere e condividere”. Quando Rina parla di gruppo si riferisce alle colleghe e ai bambini, passando l’idea che la scuola non la fanno le maestre e basta, bensì è un percorso comune fatto di scelte e di condivisione, quella vera però. Un impegno quotidiano alla stregua del tagliare la carne o pulire un sedere.
Rispetto al gruppo inoltre, Rina sottolinea un altro aspetto importante, il fatto di “poter cogliere anche ciò che la quotidianità e il coinvolgimento emotivo può farti sfuggire. Più teste infatti riflettono meglio e ognuno con le proprie specificità arricchisce il gruppo e la sua progettazione”.
Ecco un’altra parola chiave: la progettazione, che insieme alla valutazione, sono i due perni attorno ai quali si struttura tutta l’attività didattica. La prima è settimanale, in modo da consentire riflessioni e scelte efficaci che rispondano alle istanze che la vita scolastica ti sottopone; la seconda invece viene realizzata a metà anno attraverso una osservazione sul campo e a fine anno attraverso un’analisi dentro al gruppo operatori coinvolti. Inoltre un’altra verifica è quella con i genitori, sia a metà che a fine anno.
A proposito di genitori, le chiedo quali ritiene strumenti validi per costruire un’educazione in cui tutti siano attori. Rina si illumina: “La partecipazione, parola troppo abusata, ma mai usata pienamente. Credo che condividere idee e obiettivi rispetto al significato dell’educare, affrontando il tutto con chiarezza, senza pensare ai giudizi e impegnandosi per trovare anche un solo elemento condiviso, sia il punto da cui partire, consapevoli ognuno del proprio ruolo e della propria responsabilità”. In effetti, il ruolo dei genitori, alle Don Milani, è molto importante. Un esempio su tutti: alla festa di fine anno sono invitati a sperimentare i giochi che i lori figli hanno giocato durante l’anno, avendo la possibilità di condividere e valutare, in questo modo, non solo le idee e gli obiettivi didattici, ma anche le modalità di realizzazione. Bella prova di coraggio di queste maestre che non hanno paura di aprire la scuola… perché in fondo non è di loro proprietà anzi, nel caso specifico, di tutto il quartiere che ne usufruisce.

I limiti come risorsa
Certo che tutto questo è molto interessante e anche molto positivo, poi però ci si scontra con le pratiche quotidiane, le attività, la monotonia, il giorno dopo giorno, la noia, le discussioni…
Insomma, per quanto ci si possa impegnare, sarà necessario fare i conti con i limiti propri di ogni scelta e di ogni persona. È necessario allora che scopriamo un altro tassello di questo puzzle.
I limiti vengono visti, da Rina e dalle sue colleghe, come risorsa e non come impedimento. A partire da quelli fisici/strutturali per arrivare a quelli umani.
La scuola infatti è costituita su tre piani, ci sono grandi scalinate che portano a spazi rialzati con balaustre che danno sul piano inferiore. Non certo quello che potremmo definire edilizia scolastica da manuale, attenta ai bisogni dei bambini. Rina e le sue colleghe, però, hanno scelto di vedere tutto ciò come un’opportunità soprattutto per realizzare quella che viene definita “destrutturazione degli spazi”. Hanno colto la possibilità di muoversi, di spostarsi, di modificare l’uso e il modo di stare in un determinato luogo. Una gradinata diventa allora un teatro, mentre una stanza sottoterra diventa un’esperienza, un viaggio fantastico tra lenzuoli bianchi, neri o colorati. Anche il giardino, oltre che spazio di gioco libero e svago, offre la possibilità di realizzare avventure, costruire percorsi tra tessuti o materiale riciclabile.
Insomma limiti che attraverso la fantasia, vengono superati in modo creativo e divertente permettendo al bambino di mettere in gioco le proprie abilità.
Lo stesso poi succede con i limiti delle insegnanti e degli operatori, non negati ma accolti e valorizzati secondo due modalità.
La prima, di cui abbiamo già parlato, è il gruppo che diventa vitale in quanto luogo di accoglienza, di confronto e di crescita.
La seconda è la formazione per la quale Rina si auspica “più aderenza ai contesti di cambiamento perché sembra che siamo sempre un passo indietro rispetto a quello che succede a livello sociale. Non per adeguarci ma per attrezzarci”.
Le parole di Rina suonano davvero molto sincere, proprio perché, come dicevo all’inizio, hanno origine dall’esperienza e anche dal grande amore che lei nutre verso la scuola, i bambini e il mestiere educativo.
Le chiedo infine, cosa pensa dell’affermazione “l’educazione è un posto dove ci piove dentro”.
“Dentro l’educazione ci piove di tutto perché è un momento di relazione tra bambino e educatore (genitore, insegnante, animatore…) relazione che, in quanto tale, è aperta ai condizionamenti del contesto sociale con tutte le variabili di cambiamento che si porta dietro. Che poi l’educazione debba subire tale condizionamento è un altro discorso… Deve sapersi relazionare con il cambiamento e soprattutto deve sapere dove vuole andare”.

4. Momenti che lasciano il segno

di Claudia Cervellati, insegnante di scuola primaria, conduttrice di laboratori di scrittura per adulti e bambini

Per crescere educativamente bisogna creare relazioni, perdere tempo, comunicare con i gesti, con le parole, con gli sguardi, ascoltare gli umori, i sapori, gli odori, le emozioni, usare le mani, il sorriso, il cuore, il tempo.
(Gianfranco Zavalloni, La pedagogia della lumaca, Bologna, EMI, 2008)

Quando la mamma di un mio scolaro venne a un colloquio con una sporta di quaderni della figlia grande, ne fece una pila sulla cattedra dicendo: “Ecco, questi sono i chili di sapere trasmessi a mia figlia nella scuola elementare!”. Per un attimo ebbi paura di una recriminazione. Il suo bambino piccolo, affidato anche alle mie cure da un solo anno scolastico che stava per finire, non aveva prodotto tutti quei chili di sapere! In un lampo mi passarono davanti alla mente, come in una serie di immagini in dissolvenza tutto quello che avevamo vissuto in quell’anno e che non era stato pesato nelle pagine: la cura per una sola pagina scritta finalmente senza paura, con la mano che non tremava più, con la passione di un pittore, le ore passate a leggere gratis sdraiati sul prato nel giardino della scuola, tutti quei lunedì mattina a raccontarsi come stavano, ad ascoltare chi era buio per un piccolo o grande affanno e a ridere con chi nel fine settimana l’aveva combinata grossa. Tutte quelle ricreazioni passate a guardarli mentre giocavano, solo per conoscerli. Tutto quel tempo impiegato a incoraggiarli, ad aiutarli a mettere posto i loro 25 zaini, a orientarsi nel caos della scuola di 300 bambini, 40 maestri, 6 bidelli e dell’orario fatto di mille incastri. Tutto quel tempo impegnato a dare un nome a un sentimento, certa che di alfabetizzazione si trattava e di che alfabetizzazione! La gioia di sentirli leggere, da soli, di vederli tagliare la loro bistecca, di scoprire che la scrittura li stava appassionando. Quanto pesava tutto questo in chili di pagine?
Non fu necessario spiegare nulla a quella mamma: era venuta per dirmi il contrario di ciò che temevo. Lo capii dalle domande seguenti: “Cosa c’è di diverso qui? Perché mio figlio sorride, anche se ha iniziato la scuola elementare? Perché noi ora possiamo goderci i fine settimana anche se lui ha i compiti per casa?”.
Già, cosa c’è di diverso? Cosa c’è, dopo 26 anni, che mi tiene ancora viva nella giungla di riforme, registri, tagli, documenti, riunioni deliranti?
In modo sottile si è fatta un varco indelebile in me una strada, una scelta, che altro non è se non cercare di lavorare stando alla presenza del mio sentire, dei miei gusti, delle mie inclinazioni, dei miei ideali.
Il grande Bruno Munari mi illuminò quando scrisse in Verbale scritto (Mantova, Corraini, 2008) che semplificare è più difficile:
Per complicare basta aggiungere,
tutto quello che si vuole:
colori, forme, azioni, decorazioni,
personaggi, ambienti pieni di cose.
Già, per complicare la scuola basta aggiungere: riunioni, schemi, fotocopie, quaderni, materiali, parole, guide didattiche
Per semplificare bisogna togliere,
e per togliere bisogna sapere che cosa togliere,
come fa lo scultore quando a colpi di scalpello
toglie dal masso di pietra tutto quel materiale che c’é in più.
Bella sfida, avventura affascinante, nuova strada per il mio lavoro.
Per togliere devo essere sempre pronta a correre il rischio che si arrivi all’essenziale, che la sostanza, spogliata di tutti i suoi abbellimenti, delle sue magnifiche infiocchettature altisonanti emerga e, in quanto sostanza, possa essere assaporata, guardata e anche giudicata. 
E per togliere devo decidere cosa togliere, quindi distinguere ogni giorno ciò che per i bimbi è essenziale e ciò che non lo è. E prendermene la responsabilità.
Togliere invece che aggiungere
vuol dire riconoscere l’essenza delle cose
e comunicarle nella loro essenzialità.
Questo processo porta fuori dal tempo e dalle mode.
Ecco, lavorare così significa anche essere pronta a essere meno popolare, meno alla moda, più attaccabile. Occorre avere ben chiaro cosa sto facendo per motivare tutto a chi, ogni giorno, mi affida nientemeno che il proprio figlio chiedendomi di educarlo, di insegnargli qualcosa.
Lavorare così significa rinunciare a molte certezze date dalle unità didattiche preconfezionate, ma soprattutto da tutto ciò che fa tendenza, didatticamente parlando. Significa per esempio rinunciare a presentarsi alle famiglie con la infallibile carta d’identità di un Progetto di informatica piuttosto che di Linguaggi Teatrali, ma parlare, fin dalla prima assemblea di classe di ascolto, di contenimento, di emozioni, di clima, di stare bene, di semplificazioni. E spiegare che non mancheranno il teatro, l’informatica e molto altro.
Lavorare così per me significa anche prendermi un serio impegno a livello di contenuti, poiché troppo spesso chi ha fatto scuola in questo modo è stato scambiato, a torto, ma spesso ahimè a ragione, per uno che non crede nella grammatica e nella analisi logica, nelle regole e nei contenuti.
Allora sfatare questi pregiudizi diventa un impegno feriale, per dimostrare che semplificando in modo saggio è possibile imparare i verbi e leggere gratis, avere tempo per colorare e per ascoltarsi, per entrare nei meandri della grammatica e del cuore con la stessa passione.
Ma allora, tornando alla domanda di quella mamma: cosa c’è di diverso?
Forse la relazione, forse un esserci non asettico, ma presente. Forse un far passare attraverso il mio cuore, oltre che attraverso la mia mente, la mia idea di fare scuola.
Proprio in questi giorni di battaglie furibonde contro il maestro unico mi chiedevo: e se ognuno di noi cercasse di diventare un vero maestro unico, non nel senso orario del termine, ma nel senso di uniche persone che incontrano altre uniche persone, in un tempo dilatato, senza frenesia?
Per tentare piano piano di fare questo ho dovuto resistere alla tranquillità che quintali di pagine e chili di schede appiccicate sui quaderni sanno dare.
E credere che anche l’incontro con i bambini, anche l’incontro tra loro sono momenti di vita e di scuola che lasciano un segno.

3. Una pedagogia per tempi di crisi

di Alain Goussot, docente di Pedagogia speciale e formatore

La scuola ha accumulato in questi anni una serie di problemi, ha dimostrato di poter innovare ma anche di cristallizzarsi in risposte stanche e ripetitive. Gli insegnanti non sono dei marziani, sono anche loro dei prodotti di questa società, e come molti ne assorbono, ne respingono o approvano il funzionamento. Molti dicono che il livello si è abbassato pericolosamente, che gli alunni escono senza sapere scrivere correttamente, che l’insegnante non trasmette più saperi e conoscenze, che vi sono troppi bambini difficili che frenano gli apprendimenti dei “migliori”, che studiare è mal visto dalla maggioranza, che l’assenza di voti e bocciature ha provocato questa Caporetto della scuola italiana. Il dialogo tra scuola e famiglie è sempre più difficile, le stesse famiglie sembrano oscillare tra la presenza ossessiva nel “proteggere” i figli contro i bulli o le angherie di qualche insegnante, sembrano chiedere insieme più severità e meno severità. Una situazione alquanto confusa.
Ma crediamo che le questioni poste al mondo della scuola siano nei fatti le cose che vivono ogni giorno gli insegnanti e gli alunni nelle classi: classi numerose, situazioni sempre più difficili e complesse da gestire per la trasformazione sociale e culturale in atto da diversi anni, presenza significativa di bambine e bambini con problemi legati al disagio sociale, cambiamenti della composizione antropologica della popolazione scolastica con la presenza di alunni provenienti da altri orizzonti culturali, risorse sempre più scarse per realizzare dei progetti educativi individualizzati o fare sperimentazioni vere sul piano pedagogico, precarizzazione accentuata del corpo docente con migliaia di insegnanti con dei contratti instabili, introduzione di forme di lavoro a chiamate, scarse risorse per la formazione e la preparazione pedagogica e psicopedagogica degli insegnanti, impossibilità di realizzare un vero lavoro di rete tra scuola, famiglie e servizi territoriali, discontinuità nei progetti sperimentali avviati nella scuola, taglio serio alla presenza degli insegnanti specializzati o di sostegno, non chiarezza nel come realizzare il curriculum dell’insegnante ma anche dell’alunno, tendenza a proporre una formazione generica abbinata a un orientamento precoce che porti verso una specializzazione che non tiene conto del processo di sviluppo e di maturazione del bambino nel processo dei suoi apprendimenti, corsi di aggiornamento che sembrano più seguire le mode del momento (vedi i corsi sul bullismo) che non formare i docenti alla riflessione pedagogica. Tutte queste questioni finiscono per destabilizzare la scuola, e soprattutto il mondo degli insegnanti sembra continuamente subire le situazioni imposte dai cambiamenti politici ma anche strutturali; diciamo anche che le questioni che riguardano la scuola dovrebbero essere poste partendo da chi lavora sul campo; ma anche chi lavora sul campo dovrebbe esprimersi sui contenuti pedagogici e didattici, sui modelli educativi e d’insegnamento e non limitarsi a una protesta sacrosanta sulle condizioni economiche del trattamento degli operatori della scuola. In fondo vi è qui una responsabilità nei confronti delle future generazioni, la scuola è un luogo importante per la formazione d’individui che diventeranno anche cittadini e forse classi dirigenti un domani. Ma la scuola non è più l’unico luogo d’istruzione e ha dei concorrenti con una più grande efficacia sul piano della formazione delle giovani menti: media, pubblicità, internet, sistema dei consumi propongono dei modelli e degli stili di vita con i quali identificarsi. La scuola ha ancora un ruolo nella società del futuro 21° secolo? Quale futuro? Non stiamo andando verso la realizzazione della profezia di Ivan Illich cioè la descolarizzazione della società? In fondo bambini e adolescenti trovano dei modelli con i quali identificarsi nei media, acquisiscono tramite la televisione e internet delle forme di sapere e delle conoscenze. Il problema è: come e quali saperi e quali conoscenze? 

Descolarizzare la società? La vera emergenza pedagogica
La descolarizzazione della società può trovare un suo punto di forza con l’appoggio delle politiche di privatizzazione in atto che rafforzano le disuguaglianze davanti all’istruzione. Non solo la formazione e la delega delle giovani menti ai media permette di eliminare la figura dell’insegnante o del maestro (unico o meno che sia); i media offrono dei nuovi maestri: uomini di spettacolo, giornalisti tuttologi, politici che assomigliano molto ai sofisti di cui parlava Platone e attori, attricette, veline, gente reale che per quattro soldi esibiscono, veri o falsi che siano, i loro problemi più privati in pubblico. In questo modo tutti diventano spettatori, viene conservata la forma della logica cattedratica della trasmissione e quindi dell’auditorio, potenziata dalle luci abbaglianti dello spettacolo televisivo, per meglio passivizzare chi guarda. In questa grande operazione di bombardamento pubblicitario non vi è più tempo e spazio per scoprire da sé e costruire da sé con l’aiuto del maestro le conoscenze, non vi è più la possibilità di distinguere i saperi che contano perché permettono di comprendere come funziona il mondo nel quale si vive. In questo modo la descolarizzazione in atto amplifica le disuguaglianze sociali e trasforma la massa dei bambini e adolescenti in futuri sudditi. Rispetto a questo cosa fa la scuola? Quale consapevolezza pedagogica hanno gli insegnanti e in che misura sono davvero pronti a fare “la battaglia dell’intelligenza”, per usare una espressione del filosofo Bernard Stiegler, sul piano pedagogico? Eppure i grandi pedagoghi ed educatori della scuola nuova del Novecento, da John Dewey a don Milani, ci hanno insegnato che l’educazione è formazione del cittadino di domani; di un cittadino consapevole e in grado di prendere posto nella società con senso di responsabilità ma anche con il senso della centralità della libertà, come attore che fa delle scelte.
Ma non si può neanche ignorare il quadro sociale e culturale nel quale oggi la scuola si sta contorcendo alla ricerca di un nuovo equilibrio in un mondo in cui la forza pedagogica dei media, del sistema dei consumi e della pubblicità plasma e trasforma in profondità le persone. Gli alunni, come gli insegnanti, non vivono su un altro pianeta, sono il prodotto di questo mondo che fa dell’individualismo, del narcisismo, dell’arricchimento e del consumismo i valori fondanti del riconoscimento. Inoltre condividiamo la tesi del filosofo francese Bernard Stiegler che sottolinea, in un bel libro intitolato Prendre soin de la jeunesse et des générations, che sta avvenendo una “inversione generazionale”, a opera dei media che funzionano come un vero “psicopotere”, dove i genitori e i nonni appaiono nella cinematografia, nelle trasmissioni televisive e nella pubblicità come infantilizzati, come esseri immaturi in balìa alle loro emozioni non controllabili, e dove i bambini appaiono come degli esseri responsabili e maturi che prendono le decisioni. Da una parte gli adulti vengono delegittimati come punti di riferimento autorevoli e dall’altra i bambini vengono sovraccaricati di responsabilità che non sono in grado di assumersi e gestire. Stiegler parla e descrive a lungo quelle che chiama le “tecniche di captazione dell’attenzione” del nuovo dispositivo mediatico; tecnica la chiama anche “psicotecnologia”, che ha la capacità di provocare una “eccitazione emotiva immediata” che non esercita nel bambino la facoltà di attenzione e la strutturazione di una memoria ricca. L’attenzione diventa superficiale come il gesto consumistico dell’usa e getta; non fa funzionare la concentrazione e lo sforzo per apprendere, disattiva il desiderio di apprendere e diseduca a sublimare attraverso l’apprendimento. Per Stiegler si tratta di una grande operazione di destrutturazione dei meccanismi profondi dell’apparato psichico dei bambini e degli adolescenti che diventano dipendenti dall’eccitazione immediata e che non riescono a strutturare nel tempo una capacità profonda di attenzione e una tensione intellettiva in grado di farli diventare “maggiorenni”, cioè esseri che si autodeterminano; don Milani avrebbe detto “sovrani”.
Ma chi si prenda la pena di farne davvero un’analisi, chi si chiede quale ne è l’impatto formativo e psicologico sulle nuove generazioni? Quali lavori di ricerca vera vengono condotti in questo ambito per comprendere come condurre la “battaglia dell’intelligenza” di cui parla Stiegler? Talvolta sembra che il mondo stesso della scuola sia ormai paralizzato e anche parte di questa nuova industria culturale che tende a rendere sempre meno maggiorenne e sovrano l’individuo. L’essere sovrano e maggiorenne fa parte del vecchio progetto illuminista che oggi è radicalmente messo in discussione; la scuola ha quindi una funzione importante perché rimane ancora un luogo dov’è possibile vivere l’esperienza della relazione vera e non virtuale, del confronto vivo dove sentimenti e passioni si costruiscono nell’esperienza di apprendimento. Ma per poter aiutare gli alunni a sviluppare una deep attention, una attenzione profonda, occorre non ignorare il mondo delle “psicotecnologie” che oggi dominano il mondo della comunicazione virtuale nel quale sono immersi i nostri ragazzi. Quando è nata la stampa vi fu una rivoluzione culturale, il rischio era che una minoranza potesse avere la capacità tecnica di gestire questo strumento escludendo la maggioranza; oggi la situazione è ancora più complessa perché non si tratta solo di tecnica ma di tecnologie complesse e sofisticate che hanno il potere di determinare i cambiamenti mentali. Eppure occorre farvi i conti per rovesciare l’utilizzo attuale di queste tecnologie e farle diventare supporti alla “battaglia dell’intelligenza” per fare uscire migliaia di alunni e di persone dalla “servitù volontaria” nella quale si trovano perché la loro attenzione è ormai captata e provoca un effetto di “minorazione”. 

Una pedagogia per tempi di crisi
La questione è tuttavia sapere in quale misura vi sia ancora oggi una connessione tra il carattere educativo della comunità scolastica e l’esperienza nel gruppo classe sia sul piano dell’acquisizione di saperi e conoscenze sia su quello affettivo-relazionale. In che misura l’esperienza scolastica e quella vissuta in classe riesca ancora a collegare vissuti esperenziali significativi per la crescita personale, l’acquisizione del sentimento di socialità e l’acquisizione di saperi e conoscenze fondamentali per lo sviluppo della capacità di pensare con la propria testa per comprendere il mondo. Gli insegnanti si trovano a dover rispondere a questioni antiche ma in termini nuovi: come interessare gli alunni che sembrano non interessarsi a nulla, come superare le resistenze di chi dovrebbe imparare ma non vuole imparare, cosa significa valutare l’alunno sul piano degli apprendimenti e del rendimento didattico, come gestire le classi numerose con tanti alunni e alunne “difficili”, come rispondere all’aggressività e al conflitto, quali metodi utilizzare e chiedersi se esistono metodi risolutivi, chiedersi se sia importante avere una filosofia dell’educazione oppure se bastano le tecniche (su quest’ultimo punto vedere quale rapporto deve esistere tra tecniche, strumenti, metodi, alunni, docenti e oggetto disciplinare), quali mediazioni e mediatori utilizzare per favorire gli apprendimenti e facilitare l’inclusione di chi presenta delle difficoltà. Questioni antiche della storia dell’educazione ma questioni che si pongono in termini nuovi in un mondo che ha subito delle profonde trasformazioni sia sul piano tecnologico sia antropologico e culturale.
Vi sono poi tutte le questioni che riguardano la formazione delle competenze pedagogiche e didattiche del personale docente e degli educatori; spesso si afferma che vi è una scarsa preparazione dell’insegnante, in effetti non basta conoscere la propria disciplina per sapere trasmettere i saperi e le conoscenze che vi sono connessi. Qualcuno afferma, giustamente, che l’insegnante o il formatore deve avere delle competenze psicologiche, cioè essere in possesso degli strumenti di lettura psico-sociale relazionale delle difficoltà che possono incontrare alcuni alunni nonché di lettura delle dinamiche del gruppo classe. Tutte cose giuste ma vi è anche il rischio di trasformare l’insegnante in uno psicologo che passa il suo tempo a fare diagnosi; vi è un rischio di uso improprio della psicologia e quindi di scivolare verso lo psicologismo.
Psicologismo che rappresenta spesso un alibi da parte dell’insegnante e dell’educatore o del formatore per nascondere le proprie difficoltà o incompetenze sul piano pedagogico e didattico. Tentare di spiegare psicologicamente tutti i comportamenti degli alunni rischia di togliere spazio alla comprensione che può avvenire tramite l’attività d’insegnamento; è in questa attività, nel modo di organizzarla con il gruppo che si realizza quella osservazione che funziona come processo di conoscenza dell’altro e di se stesso. Ma per fare questo l’insegnante non deve nascondersi dietro le posture dello psicologismo ma neanche dietro la certezza pragmatica delle tecniche e degli strumenti. Questi ultimi sono importanti nel senso che è importante essere detentori di saperi tecnici per insegnare e stimolare il processo di apprendimento, ma sono anche un rischio se chiudono l’operatore pedagogico dentro una razionalizzazione rigida della sua azione didattica non creando più lo spazio necessario per sperimentare tramite la relazione l’esplorazione di percorsi inediti e lo sviluppo creativo delle potenzialità dell’alunno. Già ai primi del Novecento il grande pedagogo italiano Giuseppe Lombardo Radice distingueva didatticismo e didattica. Il didatticismo corrisponde a una modalità rigida, precostituita d’intendere l’insegnamento, un “formalismo metodologico” che non tiene conto dell’imprevisto, dell’incertezza della relazione pedagogica e anche delle potenzialità presenti in questa zona del non prevedibile; la didattica invece tenta di programmare e di usare strumenti e metodologie in modo flessibile tenendo conto delle situazioni e dando spazio alla sperimentazione del processo di apprendimento. La composizione eterogenea delle classi, la presenza di vaste aree di disagio psico-sociale collegato alla crisi che vivono molte famiglie, la pressione dei messaggi pubblicitari della società dei consumi con i suoi modelli culturali e i suoi stili di vita basati sull’autoreferenzialità, la presenza di alunni con “bisogni speciali” che presentano disabilità e anche disturbi dell’apprendimento che molti insegnanti non sanno come gestire, la presenza significativa di tanti bambini figli di migranti che hanno profondamente modificati la struttura antropologica culturale delle nostre scuole, la presenza di fenomeni legati all’aggressività o alla depressione tra tanti adolescenti che sembrano come lasciati a se stessi, tutti questi fattori mettono gli insegnanti e gli educatori in grande difficoltà soprattutto quando non sanno trasformare queste criticità in una nuova “pedagogia per tempi di crisi”, per utilizzare una espressione del pedagogista francese Philippe Meirieu, cioè di una pedagogia in grado di rispondere alle sfide di una società invasa da nuovi linguaggi e anche alla ricerca di nuovi punti di riferimento per navigare e orientarsi in un’epoca di tempeste sociali, economiche, politiche e culturali. Condividiamo il punto di vista del pedagogista francese che afferma che l’innovazione pedagogica, anzi l’atto pedagogico, che sia in classe con l’insegnante o nel quartiere con l’educatore, nasce di fronte alla resistenza dell’alunno, dell’educando in un contesto di crisi e di apparente impossibilità di cambiamento. Parlare di una “pedagogia per tempi di crisi” vuol dire reinvestire passioni, intelligenze, motivazioni ideali, principi etici, ragione critica e competenze scientifiche nell’esperienza di relazione che coinvolge la figura del maestro e quella dell’educando senza temere il confronto con quest’ultimo. Una delle cose che caratterizza la situazione di tanti insegnanti ed educatori è proprio la paura del confronto, la paura della gestione educativa del conflitto, la paura dell’incerto. 

2. Formazione: una cura sociale. Pensieri e modi di intendere l’apprendimento

di Antonio Zanardo, educatore, formatore e consulente

La comunicazione in quest’epoca pare essere diventata una linfa vitale senza la quale si va incontro a una morte certa. Vi è una sorta di intolleranza al silenzio che accompagna la solitudine di coloro che non possono mostrarsi o distinguersi nella miriade di messaggi che quotidianamente ci bombardano. Alcuni sono palesemente casi si disagio, ma questo è a dire il vero già un modo per essere visti, altri sono semplicemente restii per varie ragioni a esporsi, a lanciarsi, a far valere ragioni e pensieri. Non è una qualsivoglia manifestazione patologica; esistono semplicemente persone con un tono di voce più basso che, per quanto si sforzino, non riescono ad attirare l’attenzione su di sé o, più semplicemente, non lo vogliono fare.
Tuttavia la comunicazione, ossia la capacità di rimanere a contatto con gli altri abitanti del mondo, di scambiare con loro informazioni o di affermare la propria identità, è solo la prima essenziale caratteristica di un individuo a cui di norma segue una costruzione graduale di competenze specifiche, utili per il proprio lavoro e per la propria vita. È insindacabile, infatti, che il mondo del lavoro non è, come spesso si dice o si vorrebbe che fosse, un ambito del tutto scollato dalla propria vita privata. Le conoscenze e le competenze si intersecano, le emozioni travasano da un ambito all’altro e, soprattutto, i propri nodi conflittuali li attraversano inevitabilmente entrambi. Pensare alla formazione come un qualcosa che riguarda un solo e unico “territorio” della persona diviene quindi profondamente riduttivo, oltre a rappresentare un punto di vista che rischia di considerare l’apprendimento come un processo parziale o, peggio ancora, che riguardi unicamente il livello cognitivo, confondendo la formazione con altre pratiche come ad esempio “l’informazione” o “l’istruzione”. Non che queste siano necessariamente secondarie, tuttavia è bene stabilire le giuste distanze tra dei singoli frammenti e un processo che invece riguarda la persona nel suo insieme. Questa confusione non è in verità del tutto nuova e molta della “formazione formale” all’interno delle organizzazioni pubbliche si è svolta secondo il principio, o perlomeno ritenuto tale, dell’apprendimento indolore. Una specie di laser che opera in assenza di anestesia e che produce cambiamenti parziali, cancellando qua e là le piccole rughe del ruolo e procedendo a un lifting funzionale. Tuttavia, come ben sappiamo, questo genere di interventi si collocano in un tempo del tutto relativo e necessitano di costanti e continue correzioni per mantenere la loro efficienza. Si tratta, in sostanza, di modificazioni temporanee che si innestano su degli schemi motivazionali deboli e che, quando va bene, funzionano grazie al fascino che il docente è in grado di esercitare per far presa sull’attenzione del suo pubblico. La scuola, ad esempio, è stata per anni il prototipo dell’aggiornamento soggettivo.

Formazione come strumento di raccordo
Il problema è quindi sostanzialmente di “cosa” la formazione si deve occupare e di “come” lo deve fare, piuttosto che ritenerla un ambito passivo in cui ascoltare le più recenti teorie o le migliori soluzioni alle questioni socio-organizzative. Si tratta di considerarla come uno strumento di raccordo tra uno stato di fatto, il cambiamento, e la nuova forma che il ruolo assumerà una volta interiorizzate le modificazioni ritenute necessarie. Questo processing pone l’accento sulla trasformazione, non sulla somma dei saperi e non sul reset di quest’ultimi per far spazio al nuovo. È un’angolazione molto particolare e profondamente legata all’andragogia, scienza considerata in modo dignitoso solamente nell’ultimo decennio.  Si parte dal presupposto che vi sia una “struttura di base”, con differenti tonalità evolutive, costituita da saperi, da competenze e da esperienze rispetto alle quali posizionarsi per offrire una certa gamma di stimoli. Esiste una sorta di leva primordiale nell’affrontare uno dei tanti temi che la formazione propone, che consiste nel socratico atteggiamento del fare domande appropriate e orientate all’insinuazione del “dubbio”. Lo schema motivazionale dell’individuo ha il pregio di garantire risposte comportamentali stabili nel tempo e strutturalmente organizzate secondo quanto queste sono percepite come vantaggiose in termini di soddisfazione dei propri bisogni. Tuttavia sono proprio questi stessi schemi a rappresentare l’ostacolo più importante alla trasformazione, in quanto questa si colloca in un terreno sconosciuto e quasi sempre privo delle certezze che lo stato precedente è in grado di assicurare. Ed è proprio il “dubbio” che va a mettere in discussione il sistema motivazionale, aprendo la porta alla novità e alla possibilità di intraprendere nuovi percorsi di ricerca personale. L’ottica evolutiva è intrisa di opportunità, di scelte, di correnti emozionali e di relazioni in cui riconoscersi o differenziarsi, da cui apprendere attraverso incontri o scontri, da cui prendere distanza per osservare e riflettere. Come possiamo dedurre, la prospettiva della formazione si presenta in modo profondo e denso di significati a cui occorre attribuire un valore univoco ed essenziale. Più che dubbi vi sono certezze circa quanto l’esperienza del docente non possa essere limitata a quanto appreso nel proprio percorso di laurea, ma necessiti di una codifica importante che permetta di allacciarsi a competenze ben più allargate della singola cerchia del sapere. Ai classici “saper fare” e “saper essere” aggiungerei non solo un inevitabile “saper divenire”, ma anche un indispensabile “saper stare”, all’interno del quale manifestare la capacità di occuparsi degli altri, dei loro ruoli, delle loro emozioni, del loro modo di affrontare la vita professionale.
Questa “virtù” si contrappone in un certo qual modo alla visione classica del marketing della formazione, dove le leggi della vendita e della fidelizzazione sconfinano spesso in una dipendenza inconsapevole, almeno da parte del cliente, che finisce per manifestare la propria autonomia di scelta cambiando fornitore. Ciò che in realtà accade è che il bisogno del cliente e il bisogno del fornitore si sovrappongono entrando in conflitto tra loro; il bisogno di autonomia, che tanto viene promosso attraverso un’azione formativa strutturata, si scontra con l’elementare struttura organizzativa del fornitore, il quale si trova nell’imbarazzante condizione che, per rispondere in modo adeguato a questa incombente necessità, finirà per trovarsi tagliato fuori dal suo stesso business. 

Ruoli e identità
Il tema del ruolo, come elemento puramente pragmatico e circoscritto a un campo di azione relativo a uno scopo, distingue in modo sommario le molteplici sfaccettature della persona nel suo agire. Il ruolo è una “forma operativa”, ovvero la manifestazione visibile del modo in cui un soggetto entra in relazione con un altro. Non quindi una struttura elementare ancorata a uno stereotipo sociale, o a un organigramma formale, ma una catena di elementi complessi che interagiscono tra loro e che producono significato nelle interazioni. Su di esso sono riversate aspettative, pressioni e attribuzioni di vario genere; è la modalità attraverso la quale vengono definite, oltre agli scopi, le identità dei soggetti in gioco. Per questo motivo se ne parla in termini di sviluppo e di evoluzione, sino ad affermare che la realizzazione dell’uomo è profondamente legata alla capacità di assumere ruoli nuovi, sconosciuti o inibiti da arcaiche paure. È in questa chiave, ad esempio, che interviene l’approccio psico-sociodrammatico. Questo, come descritto ampiamente nel mio libro Action Methods nella Formazione-Approcci e strumenti per la conduzione di piccoli e grandi gruppi (Bologna, Pardes Edizioni, 2007), considera l’individuo come un insieme di ruoli modificabili e attraverso i quali organizzare le proprie strutture di apprendimento. La valorizzazione della persona, e del gruppo come agente di cambiamento, viene affermata nel riconoscimento delle risorse personali fruibili e nella scoperta di nuove opportunità. Il metodo psicodrammatico utilizza la “scena”, nel senso teatrale del termine, come ambito di esplorazione del proprio mondo interno. È chiaro che, trattandosi di interventi di formazione, tutto ciò rimane primariamente circoscritto a quell’area relativa ai ruoli professionali. Tuttavia, come accennato in precedenza, il mondo privato non ne può rimanere totalmente estraneo, manifestandosi chiaramente come uno sfondo o una cornice della stessa rappresentazione.
È rispetto a questo panorama che si sviluppano i termini del cambiamento, nonché nella concreta possibilità di sperimentare attivamente i suoi effetti per poterli tradurre in esperienza interiore. Tutto questo genere di modificazioni hanno a che fare con le strutture mentali, motivazionali, emotive, comportamentali, ecc., che possono trovare risposte più armoniche e concilianti. L’obiettivo, o per meglio dire il punto nevralgico, si traduce nella ricerca di equilibrio tra le necessità interne, in termini di realizzazione e bisogni personali, e quelle organizzative, in quelli di mission, di business o di gestione. È infatti su tale rapporto che si basa l’articolazione delle relazioni tra la direzione e i collaboratori.
Potremmo pertanto azzardare alcune importanti conclusioni su cosa si intenda esattamente per formazione e cosa occorra per renderla efficace. Se l’importanza di un catalogo strutturato, o comunque di un ventaglio di opportunità formative da offrire, rappresentano sostanzialmente una buona chance per orientare il proprio cliente nel mondo della formazione, è il vero e proprio lavoro di contesto che caratterizza l’identità dell’azione. Sia nella quantità che nella qualità, il vero problema che si pone non riguarda semplicemente il “fare”, quanto il “cosa serve”. Spesso si sottolinea il proprio stile di lavoro come un qualcosa di insindacabile e imprescindibile dall’intervento, senza però porsi il problema di quanto gli strumenti a propria disposizione siano effettivamente spendibili per quella specifica popolazione. Occorre pertanto avere la capacità di selezionarne alcuni, rinunciare ad altri, acquisirne o crearne di nuovi. E’ una forma di flessibilità assolutamente necessaria, almeno quanto le stesse conoscenze dei temi che si propongono. L’abilità di chi si occupa di formazione consiste proprio nel saper collocare in modo opportuno la novità all’interno di una rete di relazioni esistente senza che non solo essa non rappresenti un ostacolo, ma venga del tutto assimilata e interiorizzata in modo funzionale. La comprensione dell’ambiente e delle persone che vi abitano è quindi un atto di formale avvicinamento, per ridurre quelle distanze che potrebbero condizionarne la visione o l’interpretazione. In pratica è lo stesso ambito della formazione a dover essere in un costante e virtuoso movimento, proprio a rappresentare in tal modo una spirale adattiva con la quale confrontarsi e dalla quale attingere l’energia necessaria al cambiamento. 

1. La teoria del genio è un’invenzione borghese

di Sandra Negri

Che siete colti ve lo dite da voi. Avete letto tutti gli stessi libri. Non c’è nessuno che vi chieda qualcosa di diverso?
Così scrivono i ragazzi della Scuola di Barbiana nel lontano 1966 in Lettera a una professoressa (Firenze, Libreria Editrice Fiorentina), forti della esperienza straordinaria e rivoluzionaria della scuola di don Milani. In quella denuncia si coglie la rabbia di chi vuole affermare una verità per lui assoluta ma che si scontra con la rigida staticità che non si apre al nuovo, all’inedito.
È la rabbia di chi non trova comprensione per la propria grande verità. Per la propria specificità.
Ed è la verità di una esperienza forte. Passata da importanti incontri, rivoluzionarie scoperte di sé e del fuori da sé, dalla messa in gioco, dal superamento della difficoltà, dall’accoglimento del proprio e altrui limite e dalla grande soddisfazione per l’acquisizione di conoscenze, competenze, sicurezza di un metodo di studio e di lavoro che sono, per ogni membro del gruppo, assolutamente rispettosi della propria individualità.
Facendo riferimento alla citazione iniziale… i libri degli studenti di Barbiana sono molteplici e variegati. Gli strumenti per l’acquisizione del sapere sono i più diversi. I canali di apprendimento tengono in grande considerazione tutto ciò che compone e caratterizza i contesti di vita e di crescita delle persone reali che li vivono.
Questa è la contestazione alla scuola del tempo. L’assenza di una valorizzazione della molteplicità e della ricchezza di occasioni di conoscenza e formazione, per una didattica uniformata e conformata. Una mancanza di conoscenza dell’alunno, il protagonista sovrano dell’apprendimento. E di qui l’impossibilità ad applicare le necessarie attenzioni nel rispetto delle differenze.

E non capiva, poveretta, che era proprio di questo che era accusata. Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali?
Ciò che abbiamo raccolto in questa monografia è l’esperienza, l’innovazione, la creatività che vivono in molte situazioni di didattica, educazione e formazione che vogliano utilizzare “altri libri”, “che chiedano qualcosa di diverso”.
Con grande gioia abbiamo verificato l’enorme quantità di situazioni, all’interno della scuola e dei molteplici contesti formativi, in cui la presa in cura del singolo nella sua individualità e nelle sue differenze è possibile e necessaria per la crescita personale e intellettuale di tutto il gruppo.
È poi molto stimolante e divertente avvicinarsi con sguardo curioso e attento alle diverse esperienze e constatare che gli strumenti utilizzati per fare ciò non richiedono formule magiche, costi esorbitanti, organizzazioni impossibili. In realtà ci siamo imbattuti in persone, esperienze e contesti che partono da elementi, a dire il vero, elementari: la propria esperienza, le proprie capacità, le proprie passioni.
Un elemento è comune a tutte le esperienze che abbiamo conosciuto: il coraggio di ricercare e sperimentare il proprio approccio, il proprio metodo. Partendo dalle basi sicure delle proprie competenze.

18. Un violinista nella metro

Un uomo si mise a sedere in una stazione della metro a Washington DC ed iniziò a suonare il violino; era un freddo mattino di gennaio.
Suonò sei pezzi di Bach per circa 45 minuti. Durante questo tempo, poiché era l’ora di punta, era stato calcolato che migliaia di persone sarebbero passate per la stazione, molte delle quali sulla strada per andare al lavoro.
Passarono 3 minuti e un uomo di mezza età notò che c’era un musicista che suonava.
Rallentò il passo e si fermò per alcuni secondi se poi si affrettò per non essere in ritardo sulla tabella di marcia.
Alcuni minuti dopo, il violinista ricevette il primo dollaro di mancia: una donna tirò il denaro nella cassettina e senza neanche fermarsi continuò a camminare.
Pochi minuti dopo, qualcuno si appoggiò al muro per ascoltarlo, ma l’uomo guardò l’orologio e ricominciò a camminare.
Quello che prestò maggior attenzione fu un bambino di 3 anni. Sua madre lo tirava, ma il ragazzino si fermò a guardare il violinista.
Finalmente la madre lo tirò con decisione e il bambino continuò a camminare girando la testa tutto il tempo. Questo comportamento fu ripetuto da diversi altri bambini. Tutti i genitori, senza eccezione, li forzarono a muoversi.
Nei 45 minuti in cui il musicista suonò, solo 6 persone si fermarono e rimasero un momento. Circa 20 gli diedero dei soldi, ma continuarono a camminare normalmente. Raccolse 32 dollari.
Quando finì di suonare e tornò il silenzio, nessuno se ne accorse.
Nessuno applaudì, né ci fu alcun riconoscimento. Nessuno lo sapeva ma il violinista era Joshua Bell, uno dei più grandi musicisti al mondo. Suonò uno dei pezzi più complessi mai scritti, con un violino del valore di 3,5 milioni di dollari.
Due giorni prima che suonasse nella metro, Joshua Bell fece il tutto esaurito al teatro di Boston e i posti costavano una media di 100 dollari.
Questa è una storia vera. L’esecuzione di Joshua Bell in incognito nella stazione della metro fu organizzata dal quotidiano “Washington Post” come parte di un esperimento sociale sulla percezione, il gusto e le priorità delle persone.
La domanda era: “In un ambiente comune a un’ora inappropriata: percepiamo la bellezza? Ci fermiamo ad apprezzarla? Riconosciamo il talento in un contesto inaspettato?”.
Ecco una domanda su cui riflettere: “Se non  abbiamo un momento per fermarci e ascoltare uno dei migliori musicisti al mondo suonare la miglior musica mai scritta, quante altre cose ci stiamo perdendo?”

(pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 10.04.2007)