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Autore: Nicola Rabbi

1. Sostenere il cielo

Come racconta Renato Kizito Sesana, in Occhi per l’Africa (Editrice Emi, 1999) c’è un guerriero masai nel pieno del suo vigore giovanile, armato di lancia e scudo e il corpo pitturato con una cera rossa: mentre passeggia vede per terra un passerotto con le zampe rivolte al cielo. Lo crede morto ma poi osservandolo s’accorge che non lo è. “Perché stai in quella posizione?” – gli domanda e il passerotto risponde – “Ho sentito dire che il cielo sta per cadere e io mi sto preparando per sostenerlo!”. Quando sente queste parole il guerriero masai si butta per terra a ridere, si rotola addirittura preso da un’ilarità incontenibile. “Come puoi sperare di sostenerlo tu con quelle zampette che sembrano degli stecchetti di paglia?… Sostenere il cielo!”. Il passerotto non cambia posizione ma risponde: “Io faccio del mio meglio, e tu cosa fai?”.
Questa storia africana descrive perfettamente il senso di un lavoro lungo trent’anni. Il Progetto Calamaio è come quel piccolo passerotto che, senza pensarci due volte, di fronte alla sfida dell’inclusione, della valorizzazione delle diversità, della partecipazione attiva delle persone con disabilità alla vita sociale e culturale, oggi come trent’anni fa, si mette in gioco facendo del suo meglio.
Non recriminando, non lamentandosi, non chiedendo a qualcuno di fare, bensì sporcandosi le mani e mostrando un cammino, una possibile direzione.
Per questo oggi festeggiamo, non solo per ricordare il tempo passato ma soprattutto per rinnovare la sfida, l’entusiasmo, il valore di un progetto che ha ancora il compito di affermare che la diversità è un valore se è messa al centro dell’organizzazione dei nostri contesti.

Ritratti sensibili

a cura di Lucia Cominoli

Lenz Fondazione, nata nel 2015 a Parma dall’unione tra le Associazioni Culturali Lenz Rifrazioni e Natura Dèi Teatri, raccoglie l’eredità del gruppo fondato nel 1986 da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto. Rivolto anche ad attori con disabilità psichica, intellettiva e sensoriale, il lavoro del gruppo si è contraddistinto negli anni per il forte segno pittorico e contemporaneo.
Dal 1996 il gruppo cura la direzione artistica del festival Natura Dèi Teatri, dedicato alle performing arts nazionali e internazionali.
Un organismo complesso, quello di Lenz e dei suoi “attori sensibili”, che spazia tra i classici, architetture massive e dispositivi tecnologici sofisticati, utilizzando spesso spazi non convenzionali a favore del coinvolgimento dei pubblici.
Ne abbiamo discusso con la drammaturga e regista Maria Federica Maestri.

Lenz Fondazione compie trent’anni e si definisce oggi come uno spazio di creazione performativa contemporanea, una definizione che quindi non include come identificativa la presenza al proprio interno di attori con disabilità psichica e intellettiva. La maggior parte degli attori di Lenz, tuttavia, ne seguono da tempo il percorso artistico parallelamente a uno più personale di autoconsapevolezza e espressione creativa. Quali sono le origini di questo incrocio che ha portato a sovvertire i confini imposti dalle etichette e a costituirvi invece davvero come gruppo eterogeneo?
Il percorso, come io penso poi valga per ogni formazione artistica, era scritto all’origine, nel senso che il primo lavoro che tra l’altro ci battezza nel 1986 è stato proprio Lenz, tratto dalla novella di Karl Georg Büchner, una delle opere più intense dedicate al poeta e intellettuale Jakob Michael Reinhold Lenz, la cui indentità è palesemente sensibile… Lenz, pazzo, che vaga per le vie della città…
Questa dedica iniziale, importante e identitaria, è stata una premessa e anche una nostra sensibilità che non si manifestava direttamente con la presenza dell’attore “sensibile” ma che lo conteneva, l’identità poetica conteneva insomma in sé l’idea del contagio e della contaminazione psichica con le persone differenti. L’incontro vero e proprio avviene più avanti, alla fine degli anni ’90, precisamente nel ’98 ed è un incontro illuminante che non si esaurisce nella meraviglia e nello stupore di quella che è la fenomenologia e l’evidenza della sensibilità ma è un incontro che si trasforma in una lunga presentazione e trasformazione artistica, un lungo matrimonio che matura ogni anno dal punto di vista esperienziale nostro e del linguaggio.
Questo incontro folgorante dal punto di vista emotivo e intellettuale si è trasformato nella costruzione di una lingua comune che viene interpretata e ristrutturata dal nostro attore sensibile.

La tua è stata definita una “drammaturgia della materia”, che attinge ai classici, alla poesia, che non rifiuta la parola, amplificandola piuttosto nel corpo e nello spazio. Come accompagnare o forse non accompagnare una persona con disabilità intellettiva nella creazione collettiva di un organismo così complesso? È possibile parlare di scambio oltre che di improvvisazione? Quanto contano in questo il ruolo dell’immagine e dei nuovi linguaggi?
Credo che sia inevitabile e non sostituibile la dimensione del tempo. Avere un tempo sufficiente però non significa solo avere un tempo lungo ma conoscere profondamente la persona con cui lavori, l’artista con cui lavori, perché di questo parliamo e trovare il tempo di quell’artista. Penso anche alle nostre esperienze più complesse e radicali dal punto di vista spaziale, l’ultima in senso immaginifico è stata in un padiglione dell’Ospedale Maggiore di Parma, un luogo complesso dal punto di vista architettonico che ci ha permesso di lavorare in stanze, con una compresenza assoluta di tutti gli elementi. Un altro grande allestimento è stato quello di Amleto nel 2012 all’interno del Teatro Farnese o altri spettacoli alla Galleria Nazionale. Come sono entrati gli attori? Che tempo abbiamo utilizzato per far sì che non fosse un’esperienza imposta in cui l’attore semplicemente prendeva posto ma renderla un’esperienza condivisa e coabitata? Ecco per quanto riguarda l’Amleto la differenza direi che sono stati i quattro anni precedenti di studio e di lavoro, quindi un percorso lunghissimo che ha portato a una pratica della drammaturgia shakespeariana profonda anche se poi è stata restituita in un percorso relativamente breve di circa un mese all’interno di uno spazio per l’appunto complesso. Per Il Furioso i tempi sono stati brevissimi, c’è una furia drammatica insita al testo che ha creato le condizioni per un tempo brevissimo ma è stato un progetto a cadenza biennale, per cui sono comunque due anni che noi siamo all’interno della materia con il nostro gruppo di attori. E poi, non dimentichiamoci, ci sono sedici anni di lavoro alle spalle, sedici anni di forte aderenza reciproca, di un forte colloquio dove la lingua che trattiamo è una lingua che si fa in comune. Non solo strumenti decorativi di un’installazione dunque ma con i nostri e i loro tempi abbiamo ottenuto un’assoluta partecipazione coerente, poi a livello intellettivo le risposte sono ovviamente diverse a seconda dell’attore.

Il vostro è un teatro sospeso, basato sulla lentezza e il tempo dilatato, un teatro che arriva alle radici animali pur toccando riferimenti colti e sofisticati, un’esplorazione del corpo complessa che può arrivare a giocare su strumenti e ausili più strettamente legati alla disabilità. Penso per esempio allo spettacolo Daphne dove sulla scena ci sono anche gli zoccoli ortopedici. Un richiamo così diretto alla difficoltà più quotidiana come viene percepito dal pubblico?
L’uso drammaturgico sempre coerente dei linguaggi e dei dispositivi tecnologici contemporanei è fondamentale per rafforzare il potenziale enorme che hanno i nostri attori e dare a volte luce e suono all’oscurità espressiva, dall’amplificazione delle voci o alla registrazione o a dare luce all’espressività nascosta. La luce crea la dilatazione della figura e della figurazione. Penso alla ritrattistica drammaturgica di Francesco Pititto che ha portato proprio luce nell’espressività, potenziando già quella che è la loro straordinaria bellezza, la loro straordinaria intensità.
Questi mezzi sono dunque degli amplificatori che fanno maturare la presenza anche rispetto alla fruizione dello spettatore. Questo dal punto di vista dell’esito spettacolare.
Dal punto di vista invece dell’organizzazione costruttiva del lavoro, io ho impostato nel tempo una forma che non prescinde mai da alcuni elementi che sono le scritture orali stimolate in maniera molto diretta e tematica che vengono registrate e ritradotte e poi riportate all’attenzione per essere nuovamente ritrascritte dal drammaturgo. Ci sono una serie di stratificazioni fondamentali insomma alla base di tecnologie che su entrambi i lati, quello dell’attore e quello dello spettatore, fanno maturare l’esperienza scenica.
Per quanto riguarda l’uso degli oggetti, si uniscono a più “campi oggettuali”, non si tratta cioè di attrezzi, li considero di più sotto un codice estetico e insieme prolungamenti corporei e visivi della personalità dell’attore e della sua sensibilità.
Ogni elemento nel suo minimalismo o nel suo essere massivo dipende di volta in volta dagli allestimenti ed è in relazione determinata con l’attore, è sempre molto forte l’interscambio personale.

Nel 2016 avete dato vita a cinque nuove produzioni particolarmente ambiziose, come Il Furioso, una creazione “installativa” a episodi, in luoghi non specificatamente teatrali. Perché proporre a una città come Parma questa sfida?
La forma di dialogo con il pubblico si è estremamente rafforzata da quando creiamo opere site-specific, dove andiamo davvero con la nostra identità specifica a trasformare i luoghi che ci ospitano e questa trasformazione è un nutrimento per chi è parte della città ma anche per chi si sottrae ai propri luoghi di riferimento, a volte necessariamente nascosti, a volte per mancanza di stimolazione. Quello che in questo senso stiamo perseguendo è un po’ quello che oggi fanno tutti i musei internazionali, rendiamo quei luoghi vitali, non solo perché dentro c’è uno spettacolo ma perché crei una sommatoria di segni che rende quel luogo contemporaneo. Sentiamo forte la continuità, più che con un pubblico generico, con i nostri spettatori che sono parte integrante nei lavori che anche a livello spaziale ti chiedono una presa di posizione diversa rispetto all’altro, al performer, una dislocazione. Penso ai Promessi Sposi, nella grande sala questa volta di Lenz Teatro, in quello spettacolo non c’era più direzione nello sguardo, era davvero una sorta di grande romanzo dove ogni spettatore guardava e leggeva la propria pagina.
Anche se Parma è una piccola città, resta una città che negli anni è stata ricca di stimoli e che negli anni ha percepito la nostra lezione come importante e necessaria.

Sempre all’interno di una cornice contemporanea, Lenz non rinuncia mai all’utilizzo dei classici, classici che ci parlano della storia di ieri e di quella attuale. Come vivono questa dimensione gli attori di Lenz?
È una domanda interessante e senza dubbio complessa. Credo che la risposta debba essere intesa coralmente. Ogni soggetto sensibile ha chiaramente una propria visione del mondo, del tempo e dello spazio, questa è forse la policromia psichica del gruppo, formato da una decina di attori.
È chiaro che in alcuni di essi, come nel caso di Barbara Voghera, un’attrice con Sindrome di Down che lavora con noi dal 1998, c’è una consapevolezza diversa.
Al Tempio della Cremazione di Valera, un luogo molto austero, la sua percezione di essere in una lingua contemporanea è stata più forte di un altro attore sensibile che ha anche un’alfabetizzazione di altro tipo.
Abbiamo però per tutti una resa dei conti finale, tutto dipende da quanto ne parlano dopo, a fine spettacolo e percorso, da quanto è rimasto. Più se ne riparla, più si conferma la loro presenza in una dimensione assolutamente innovativa.

Di cosa si è occupata l’ultima edizione del festival Natura Dèi Teatri?
Mentre noi portavamo lo spettacolo Punto Cieco c’è stato il passaggio da Il Furioso agli spazi del Tempio di Valera e l’intervallarsi di presenze tra danza e musica di artisti internazionali. Uno dei punti più alti è stato Autodafé all’interno del Festival Verdi, una grande installazione complessa ma a cui teniamo molto, maneggiare il materiale verdiano è diventata una delle funzioni del nostro percorso. Il festival ha previsto molti appuntamenti da Simon Mayer, che ha rimaneggiato Il Furioso dal punto di vista di un austriaco e Tim Fuhrer, un artista poliforme che lavorerà sul nostro Macbeth, il nostro ultimo lavoro dedicato ai quattrocento anni di Shakespeare con gli attori ex detenuti dell’ospedale psichiatrico giudiziario, un altro tassello molto forte e grosso della nostra storia che ci ha messo in fascinazione e tensione profonda.

 

 

Jonas Burgert: ciò che potrebbe essere

di Roberto Parmeggiani

Un artista contemporaneo che dipinge, che dipinge grandi tele a olio e che riflette sul rapporto tra illusione e fisicità non poteva essere cresciuto se non a Berlino, tra il prima e il dopo che vede nella caduta del muro il suo spartiacque. Un artista in bilico, quindi, continuamente in trattativa tra ciò che vediamo da una parte del muro e ciò che inventiamo che ci sia dall’altra; tra ciò che posso toccare e ciò che posso sentire, sia esso reale o inventato.
La riflessione che sta alla base dell’opera artistica di Jonas Burgert prende spunto da tutto ciò e in particolare dall’indagare quel desiderio dell’umanità di trovare un significato alla vita al di là della fisicità. Da sempre questo bisogno ha portato l’uomo a percorre il limite tra reale e immaginario, tra quello che è visibile e quello che invece non si vede ma che è altrettanto reale, almeno nella nostra mente.
“Le mie illustrazioni esprimono ciò che potrebbe essere”, dice. Un reale possibile, quindi, non fisicamente percepibile ma che influenza il nostro essere e le nostre scelte in modo talvolta vincolante. La creazione di eroi, dei, figure mitiche, religioni sono il desiderio di andare oltre, di spiegare o di trovare un senso a quella parte di esperienza umana ancora misteriosa, nel modo più ampio possibile e che conviva pacificamente con il razionale che crede vero solo ciò che vede.
Ecco allora che trovano senso i colori fosforescenti al fianco di creature mitologiche o fiabesche rappresentati come dipinti classici, grandi raffigurazioni quattrocentesche. I riferimenti alla pittura rinascimentale e fiamminga sono espliciti come la relazione con le teorie psicoanalitiche di Freud che si mischiano con riferimenti diretti alla cultura pop contemporanea.
Uno degli aspetti più interessanti delle opere di Burgert è il fatto che, a un primo e veloce sguardo, allo spettatore pare di riconoscere quelle scene. Ha la sensazione di avere tutto sotto controllo. Questo, probabilmente, è la risposta inconscia che abbiamo di fronte a qualcosa che armonizza uno stile del passato con una finzione tipica del contemporaneo; un’immagine realizzata secondo canoni estetici ormai interiorizzati insieme a una comunicazione mediatica. È in fondo una rappresentazione di ciò che ci succede quotidianamente, come se nella immensa quantità di stimoli che riceviamo ogni giorno e che ci restituiscono una confusione apparentemente ordinata, le immagini del pittore tedesco ci rassicurassero perché, pur nella loro ricchezza di particolari, non ci appaiono estranee pur essendolo.
È un grande racconto dell’umano, in cui vengono rappresentate le infinite sfaccettature dell’essere. Le opere di Burgert restituiscono alla nostra coscienza quello che il nostro inconscio vuole celare, svelano alla nostra mente quello che la nostra stessa mente tende a definire onirico. Se dovessi fare un parallelo letterario, penserei alla Divina Commedia di Dante, capace di raccontare la società civile e la struttura umana del suo tempo attraverso immagini allegoriche ma con un linguaggio che potremmo definire pop, contemporaneo e accessibile alla maggior parte della popolazione.
Come Dante, anche il pittore berlinese, interpreta un sentimento, il proprio personale punto di vista che grazie al mezzo artistico diventa universale. La presentazione di una visione molto personale, altrimenti falsa, che deve essere rappresentativa però della situazione del genere umano, un ponte, potremmo dire, tra l’individuale e l’universale.
“L’atto del dipingere è estremamente intimo. È come se presentassi la tua anima su un vassoio”. Ecco che l’intimità e l’onestà della proposta sono parti essenziali dell’opera del pittore berlinese che, non avendo paura di rendersi vulnerabile, riesce a rappresentare le fragilità umane: come in uno spettacolo teatrale ricco di colori e forme, tra fantasia e sogno ci conduce in un viaggio dentro e fuori, qui e oltre, tra certezze e desideri. C’è infine un altro paradosso interessante nei dipinti di Jonas Burgert e ha a che fare ancora con l’apparenza. Le pitture, infatti, a un primo sguardo appaiono molto decorate, ricche di orpelli, di abbellimenti. Questi elementi distraggono lo spettatore dal contenuto reale dell’opera e dalla tragedia spesso raccontata. Appare tutto piacevole anche quando, andando un po’ oltre, di piacevole c’è ben poco. Ma non è forse questo ciò che succede anche nella vita reale? Ci ritroviamo accerchiati da inutili decori che non fanno altro che intrattenerci, distraendoci dal contenuto, nascondendo le domande essenziali dell’esistere. Peccato o per fortuna, le questioni fondamentali rimangono e, quando abbassiamo le difese, riemergono, nel buio della notte, portate per mano dal dolore, nel mondo libero dei sogni o, chissà, di fronte a un dipinto.
La ricchezza artistica di Jonas Burgert, forte e coraggioso a tal punto da esporre le sue insicurezze per avviare un dialogo con lo spettatore, è nella sua capacità di interpretare l’odierno restituendoci un’immagine di noi attraverso la quale fare un passo di coscienza. L’arte è lì per essere consumata dalla società. E se ci provocherà un’indigestione avrà comunque svolto il suo compito.

Una questione di sguardi

di Stefano Toschi 

L’estate 2016 è stata particolarmente intensa per quanto riguarda le notizie che hanno visto protagonista la disabilitàyh  in molte delle sue forme. È stata, prima di tutto, l’estate delle Olimpiadi e, insieme, delle Paralimpiadi. Gli atleti paralimpici, in particolare gli italiani Alex Zanardi e Bebe Vio, sono stati modelli positivi per tutti, non solo per i diversamente abili. Partiti in sordina per la stampa e i telegiornali italiani, i giochi paralimpici si sono poi rivelati forieri di grandi soddisfazioni per tutti. Insomma, non è che parlare di disabilità modifichi la condizione di disagio di chi la vive, tuttavia, anche soltanto far conoscere ciò che di positivo si nasconde (a volte molto bene) dietro una carrozzina o un cromosoma in più, diminuisce quell’ignoranza generalizzata che è uno dei principali problemi con cui la persona con handicap si trova a fare i conti nella vita.
Sempre quest’estate, infatti, la cronaca ci ha regalato un caso emblematico della suddetta, disarmante ignoranza. “Per i miei figli non è un bello spettacolo vedere dalla mattina alla sera persone che soffrono su una carrozzina”. È il commento che un ospite del villaggio turistico Lido d’Abruzzo (Cico33, questo lo pseudonimo con cui firma la nota datata 1 giugno 2016) ha diffuso tramite la piattaforma web TripAdvisor, lamentandosi con i responsabili della struttura ricettiva rosetana di non averlo avvisato che, nello stesso periodo in cui sarebbe andato in vacanza con la sua famiglia, nel villaggio ci sarebbero stati anche numerosi giovani disabili. Si trattava degli ospiti giunti da tutta Italia al Rotary campus, una manifestazione in cui i club Rotary abruzzesi e molisani ospitano per una settimana di vacanza un folto gruppo di disabili con i rispettivi accompagnatori, facendosi carico di tutte le spese.
“Premetto, non per discriminare ci mancherebbe”, si legge ancora nel messaggio di Cico33, “sono persone cui purtroppo la vita ha riservato grandi sofferenze. Sarebbe bastato che la direzione mi avesse avvisato e avrei spostato la vacanza in altra data”. Al termine della nota la ciliegina finale. “Sto valutando”, si chiude il messaggio, “di intraprendere una via legale per eventuali risarcimenti”. Inevitabili le reazioni, giunte anche attraverso la stessa piattaforma web. La blogger Selvaggia Lucarelli lo ha apostrofato così dalle pagine digitali del suo sito: “Il gentile signore (anonimo, che eroe!), poverino, ha intenzione di denunciare la struttura perché c’erano troppi disabili. E poverini, i figli sono rimasti impressionati. Mica da un padre così, no, da due carrozzine”.
Nascondere ai propri figli la disabilità non può essere un messaggio positivo. Oggi, i genitori sono sempre più spesso portati a crescere i figli in un mondo tanto dorato quanto falso e superficiale: non si portano ai funerali per non traumatizzarli, non gli si mostrano certe immagini per non turbarli, non si iscrivono a quella scuola se in classe c’è un bambino disabile, gli si nasconde la vista della malattia, della vecchiaia, della povertà per non turbare la loro infanzia. Il problema è che, così facendo, si stanno crescendo adulti turbati.
La vita, inevitabilmente, non solo ci rende testimoni di queste cose, ma, purtroppo, più spesso di quanto si possa pensare, ci rende protagonisti di tali situazioni. Per questo motivo adolescenti, ragazzini, giovani adulti non sono in grado di affrontare la vita. Crescono i casi di suicidi, di disagi, di malattie nervose e psichiatriche, proprio perché la vita, a un certo punto, accade. Accade che la povertà, la malattia, la vecchiaia – che si sono sempre evitate – poi vengano a cercarti loro. Chi ha gli strumenti per tirare fuori tutta la propria forza d’animo e positività dagli eventi saprà sempre rialzarsi. Chi è cresciuto in una falsa idea di mondo non saprà affrontare la vita vera. Io metterei l’obbligo scolastico di passare alcune ore al mese con un anziano o un disabile: il volontariato, sia ben chiaro, sarebbe da parte dell’anziano o del disabile! Questo allenamento aiuterebbe i ragazzi a capire quali sono i veri valori che contano nella vita e, anche, perché no, ad apprezzare tutto ciò che possiedono, anche se non hanno il jeans firmato che desideravano tanto. Imparerebbero ad apprezzare di avere la salute, la vista, la giovinezza, tanti amici, una famiglia, delle possibilità economiche. Capirebbero che, anche in mancanza di alcune di queste cose, possono ugualmente cercare di rendere la loro vita un capolavoro.
Forse quei ragazzi disabili del villaggio turistico avrebbero potuto insegnare ai figli di Cico33 molto di più di quanto possa fare il padre. Sarebbe consolatorio pensare che Cico33 sia un caso isolato: purtroppo, invece, il suo post su TripAdvisor, in un solo giorno, ha ottenuto 1400 like, a dimostrazione che si tratta di sensazioni diffuse, in un mondo permeato di modelli estremamente negativi per i giovani, orientati esclusivamente al mito della ricchezza ottenuta senza sforzo, della perfezione fisica, della fama da 15 minuti (non importa in che modo la si raggiunge), del divertimento a tutti i costi, delle esperienze estreme, del lusso. Naturalmente il fenomeno è esteso a livello mondiale. Basti pensare che in Giappone uno squilibrato, uccidendo tantissime persone disabili, ha dichiarato che tutto è stato fatto per “liberare il mondo dai disabili”. Come si dice, uccide più la penna che la spada: il senso del post, ovvero “se non ci fossero stati i turisti disabili al Lido di Roseto, la famiglia avrebbe trascorso una magnifica vacanza”, può generare altrettanta violenza. L’unica risposta possibile a questa forma di ignoranza è costituita dall’azione, dai fatti.
Occorre dimostrare, non spiegare a parole, quanto di positivo può esserci in una persona con deficit. Diventa necessario alzare il livello, applicare l’empowerment, perché è solo a partire dalla consapevolezza della discriminazione e dell’oppressione causate dall’inadeguata organizzazione della società, che le persone con disabilità possono iniziare un percorso (individuale o sociale) di emancipazione. È necessario costruire una società che faccia capire come la diversità sia una ricchezza inestimabile della collettività. Occorre investire sulla cultura dell’inclusione, non solo su un welfare emergenziale e caritativo. Occorre che il welfare diventi generativo, che i soggetti disabili non siano concepiti solo come fruitori di un servizio, ma come portatori di benefici alla società.
Una mamma di una bambina con trisomia 21 – e una serie di patologie correlate – raccontava di come una conoscente avesse, a mo’ di battuta, sollevato la questione costi sociali della piccola: “Pensa, solo un anno e già le paghiamo la pensione!” – riferendosi a quella di invalidità.
Come spiegare a questa signora che la piccola, un giorno, le pagherà la pensione – le auguriamo che la sua non sia di invalidità? Come monetizziamo i sorrisi, gli abbracci, i progressi, le piccole conquiste che farà la bambina nella sua vita? Il bene che farà alle persone che la incontreranno? Come spieghiamo alla signora che anche la sua visita dall’oculista o dal cardiologo, le sue medicine per l’influenza, l’istruzione sua e dei suoi figli, tutto viene pagato anche dalla piccola invalida?
L’handicap in quanto svantaggio o sfortuna sta più nello sguardo di chi osserva da fuori che nel corpo del soggetto disabile: se quei clienti dell’hotel avessero visto Alex Zanardi o Bebe Vio chissà come avrebbero reagito? Magari avrebbero chiesto l’autografo o di fare un selfie con loro, perché “loro sono famosi”. Sarebbero stati onorati di essere capitati al ristorante con una celebrità, un campione paralimpico con la foto su tutti i giornali, perché questi sono i valori che permeano il modello educativo di Cico33.
La bella testimonianza di Bebe Vio conferma che l’handicap è tutto nel pregiudizio di chi non ha un deficit: anche lei, prima della meningite che l’ha colpita, ignorava totalmente il mondo della disabilità, pensava che fosse un mondo di disgraziati, poi, quando ci si è trovata dentro, ha cambiato completamente idea e addirittura adesso è felice della sua condizione. Naturalmente, non importa diventare campioni paralimpici per essere felici: anche nella disabilità occorre soltanto avere una vita serena e trovare soddisfazione nelle cose in cui la troverebbe chiunque, come una famiglia solida alle spalle, interessi, relazioni sociali, diverse abilità, conquiste e uno scopo da raggiungere davanti. Forse è un po’ questo il segreto della felicità, che vale per tutti, anche per quelli che guardano con tristezza i disabili: forse riflettono nei disabili la loro infelicità di fondo.

La contraddizione del particolare

A cura di Valeria Alpi

Allora, tesoro, ti è piaciuta la storia?
Non era male.
La stavo tenendo da parte, questa storia. Ho aspettato che fossi grande.
Vuol dire che sono grande?
Be’, a otto anni non si è proprio grandi grandi. Solo… più grandi di sei, ecco. Perché non ti è piaciuta?Non lo sopporto quando mi fai questa domanda. Ho detto che non era male.
D’accordo.
Mettiamola in maniera un po’ diversa. Che cosa non ti è piaciuto della storia?
Posso andare?
Un minuto solo. Prima rispondi alla domanda, per favore?
A Trevor questa storia non l’hai letta. Trevor è fuori a giocare a pallone.
Volevo leggerla soltanto a te. Cosa non ti è piaciuto?
E va bene. Perché il soldatino aveva una gamba sola?
Perché al giocattolaio era finito il piombo.
Mi sembra stupido. E lo stesso il soldatino che si innamora della ballerina perché pensa che abbia una gamba sola pure lei.
Ne vedeva una sola, l’altra era sollevata.
Ma come faceva a non saperlo? Non l’aveva mai vista una ballerina?
Magari no. O magari era il desiderio che fosse così. Se tu avessi una gamba sola, non vorresti conoscere altre persone come te?
Non ha senso. Che cosa?
Il soldatino cade dalla finestra, due ragazzacci lo mettono in una barchetta fatta con la carta di giornale e la barchetta viene trascinata via dal rigagnolo.
A me sembra che il senso ce l’abbia.
Poi però viene inghiottito da un pesce, il pesce viene comprato dalla cuoca della stessa famiglia di prima e quando lo apre ci trova dentro il soldatino.
Perché non ti è piaciuto questo?
Eh, forse perché è una stupidaggine? Parla del destino. Lo sai che significa “destino”?
Sì.
Era impossibile che il soldatino di stagno e la ballerina restassero lontani l’uno dall’altra. Questo è il destino.
Lo so che significa. È una stupidaggine lo stesso.
Forse potremmo pensare a un’altra parola…
Poi il bambino che butta il soldatino nella stufa. Senza motivo. Dopo che il soldatino è tornato, nella pancia del pesce. Il bambino lo butta tra le fiamme.
Un troll aveva lanciato un incantesimo su di lui.
I troll non esistono.
Giusto. Va bene, diciamo che non gli piaceva che il soldatino fosse particolare.
Tu dici sempre “particolare” quando qualcuno non è normale.
“Non è normale” non mi fa impazzire come espressione.
E ancora. Sai che cos’è veramente stupido? Che anche la ballerina voli dentro la stufa.
Possiamo parlare di quello che significa davvero “destino”?
La ballerina aveva tutte e due le gambe. La ballerina se ne stava tranquilla su una mensola. La ballerina non era “particolare”.
Ma amava qualcuno che lo era.
E che sarà mai, essere particolare? Da come parli sembra una specie di premio.
(Michael Cunningham, Un cigno selvatico, La nave di Teseo, Milano, 2016)

Finalmente è successo… Finalmente ne Il magico Alvermann, la rubrica che ha accompagnato la storia della rivista per oltre trent’anni, posso inserire il mio scrittore preferito. E non perché ho deciso di inserirlo ad ogni costo, ma semplicemente è successo. Quello che sta dietro alla logica dei magici Alvermann, infatti, è che si è lì tranquilli a leggere sul divano, o in treno, o su un autobus, o in un prato, un libro di qualunque natura e genere e… zac! All’improvviso arriva una folgorazione, all’improvviso si legge una frase o più frasi, o una poesia, e istantaneamente si pensa all’idea di disabilità e/o diversità.
Il brano proposto questa volta fa parte del nuovo libro di Michael Cunningham, Un cigno selvatico, dove lo scrittore Premio Pulitzer rielabora dieci favole della tradizione, aggiungendo toni dark, ma soprattutto adattando i protagonisti alle esperienze della contemporaneità. Trasformando così i personaggi di terre molto molto lontane – le figure mitiche della nostra infanzia che tanto ci hanno incantato – in protagonisti che rivelano molto del nostro presente.
In questa storia, in particolare, due giovani si conoscono a una festa universitaria, lei ha bevuto troppo e deve dimenticare un amore finito male e decide di passare una notte con lui che è molto bello e appare molto spavaldo. Segue una bellissima scena dove viene svelata la disabilità di lui, la sua protesi per una gamba monca, ma soprattutto segue la naturalezza di questa accettazione del momento imbarazzante da parte di entrambi. Subito la mente va a quel soldatino di stagno con una gamba sola che faceva parte delle nostre storie dell’infanzia. E infatti, a un certo punto della storia, quel soldatino viene proprio fuori, nella favola raccontata alla figlia Beth. Eh sì, perché i due, dopo il college, si sposano e hanno dei figli. “A volte – scrive Cunningham – il tessuto che ci separa si strappa quel tanto che basta a far passare la luce dell’amore. A volte lo strappo è sorprendentemente piccolo.
Lei sposa non solo un uomo, ma una contraddizione; si innamora dello iato tra il suo fisico e la sua sofferenza. Lui sposa la prima ragazza che non ha trattato la sua menomazione come se fosse un nonnulla; la prima che non ha bisogno di eludere il suo dolore e la sua rabbia o, peggio, cercare di lenirli con le parole”.
Come tutte le storie della contemporaneità, e non delle favole, i due vivono momenti felici e altri molto tristi, scoprono cose dell’uno e dell’altro fastidiose e insopportabili, si amano un po’ di meno per via di comunissimi particolari che appartengono a tutte le coppie e che non hanno nulla a che fare con la disabilità.
Hanno due figli, Trevor e Beth, che sentono le difficoltà dei genitori a continuare a stare insieme ma avvertono anche i momenti in cui i due protagonisti sanno ritrovarsi e ripartire come coppia, fino alla vecchiaia. Circondati da una domestica semplicità e da tanti piccoli lieto fine quotidiani. Ma è la figlia Beth che mi trasporta immediatamente dentro la cultura della disabilità, con quella sua frase quando la mamma le ha letto la favola del soldatino di stagno: “E che sarà mai, essere particolare?”.
Si pensa spesso che i bambini vedono la realtà a modo loro, ma tante volte vedono semplicemente la realtà, senza fronzoli, senza condizionamenti, senza gli orpelli di giudizi e pregiudizi. Vedono semplicemente che una cosa è: e non è strana, orribile, bizzarra, paurosa, difficile da accettare, ma è normale. Talmente normale che non è necessario porvi sempre l’accento sopra né lodarsi per avere fatto qualcosa di particolare, o potremmo dire speciale. Il padre non è particolare o speciale per via della sua gamba che non c’è, è un papà come tutti e un marito come tutti, con i pregi e difetti, con le cose che sa portare avanti bene e con quelle in cui fallisce. La gamba non lo rende così superiore o inferiore agli altri, ma neppure così diverso nella sua natura di uomo, padre, sposo. Né la madre è così superiore o inferiore alle altre donne per avere sposato un uomo danneggiato.
Attenzione, non si sta negando il limite, che nella disabilità c’è e di cui bisogna avere cura. Ma occorre anche vedere le persone con disabilità come tutti, senza quella caratteristica di specialità che le fa sempre essere un po’ distanti dagli altri. La distanza non aiuta.

Il verde per tutti (se non è al verde). Esperienze di aree naturali accessibili in Europa

di Massimiliano Rubbi 

L’iniziativa “EDEN European Destinations of Excellence”, che dal 2006 promuove modelli di sviluppo del turismo sostenibile nell’Unione Europea, ogni due anni raccoglie un tema individuato dalla Commissione Europea in base al quale ogni Paese partecipante seleziona, tra mete turistiche poco note ed emergenti, una propria “destinazione di eccellenza”. Nel 2013, il tema individuato è stato il “turismo accessibile”, in termini di assenza di barriere all’accesso ma anche di attività a cui tutti possano partecipare e di accessibilità delle informazioni e dei sistemi di prenotazione. Tra le 19 destinazioni premiate (elenco e breve descrizione disponibili in https://goo.gl/ EEznrl), non ci sono città o regioni urbanizzate, bensì parchi o riserve naturali, contesti nei quali più complessa appare la sfida dell’accessibilità fisica e ancor più dell’organizzazione di attività escursionistiche o sportive aperte a tutti. A distanza di qualche anno, può essere interessante approfondire in che modo, e con quali limiti, un’area naturale può emergere come “destinazione turistica di eccellenza per tutti” (e rimanerlo).

Accessibilità in movimento
Le destinazioni naturali premiate da EDEN nel 2013 sono alquanto variegate, sia per il tipo di contesto, dai ghiacciai alpini di Kaunertal in Austria alla foresta sotto il livello del mare di Horsterwold e Hulkestein nei Paesi Bassi, sia per la storia del loro impegno a favore dell’accessibilità: se a Kaunertal una strada consente di arrivare a 2.750 metri di altezza a chi è in carrozzina sin dalla fine degli anni ’70, il Parco Naturale della Sierra e dei Canyon di Guara, nella regione spagnola dell’Aragona, ha avviato l’adattamento dei propri miradores nel 2008.
Gli esempi citati dagli operatori delle destinazioni turistiche sono in larga parte centrati sull’accessibilità a chi ha disabilità motorie.
Hans Breeveld, referente per Horsterwold dell’ufficio statale che gestisce le riserve naturali olandesi, sottolinea che “è uno dei compiti del servizio forestale statale rendere le aree il più accessibili possibile per il pubblico”, e questo si traduce in concreto nell’“assicurarsi che i sentieri siano abbastanza solidi e ampi per le carrozzine”. Negli spazi più ampi di Guara, alle auto delle persone con disabilità motorie viene invece garantito l’accesso alle strade e piste interne vietate al pubblico (salvo che ai titolari di proprietà o aziende nelle rispettive zone protette): come riferisce Fernando J. Risueño Neila, ingegnere presso il Governo di Aragona, “gli accessi a veicoli di persone con disabilità sono controllati mediante i contrassegni identificativi (come con i parcheggi riservati nelle città), e i permessi per piste ad accesso ristretto sono stati necessari solo in un caso (la pista della Confederazione Idrografica dell’Ebro per l’accesso all’osservatorio ornitologico di Nueno e per il punto panoramico del Salto di Roldán), e sono stati ottenuti mediante un’autorizzazione della Confederazione al Parco Naturale”.
Il parco di Guara ha attuato importanti interventi per l’accessibilità anche a turisti ciechi o ipovedenti: pannelli in Braille sono presenti sia nei Centri visite di Bierge e di Argüis (in cui le sale audiovisivi dispongono anche di un impianto di amplificazione a induzione per chi ha protesi uditive), che all’attacco dei sentieri che conducono a diverse terrazze panoramiche del parco, sentieri a loro volta adattati a chi ha deficit visivi tramite cordoli rialzati.
Una visione ancor più ampia rispetto alla semplice percorribilità su ruote caratterizza anche il Parco Naturale Regionale di Morvan, nel Massiccio Centrale in Borgogna (Francia): sulla “Roccia del Cane”, due vie di arrampicata sono equipaggiate con un sistema innovativo denominato “No Eyes Climbing”, che indica i punti per una presa di mano o piede con un segnale sonoro emesso dai braccialetti portati a polsi e caviglie dallo scalatore.
In generale, Morvan spicca per la disponibilità di attività en plein air adattate a tutti: come spiega Marielle Bonnet, responsabile di turismo e sviluppo per il parco, “la maggior parte sono attività che esistevano già, e che hanno messo in atto una prestazione adattata a questa clientela”.
Tra esse, di particolare rilievo il “DREAM – Défi Raid Ensemble l’Aventure en Morvan”, promosso dall’omonima associazione, che dal 2002 organizza a inizio autunno una giornata intera di attività “avventurose” nel parco, come rafting, paintball o arrampicata sugli alberi, in una forma che consenta la partecipazione a tutti e in squadre che vedono fianco a fianco persone disabili e normodotate.
L’idea è “che persone senza e con disabilità, qualunque sia il loro handicap, possano vivere insieme un’avventura. Se il raid comporta una serie di attività sportive, si distingue dalle prove sportive di questo tipo per i suoi valori: la solidarietà, la conoscenza e l’incontro dell’altro, l’autonomia della squadra basata sul coinvolgimento di ogni persona”. Il successo dell’iniziativa ha portato negli anni a un numero crescente di prove, e a una edizione aggiuntiva del raid riservata a bambini e ragazzi, che si svolge in giugno.
Per parchi la cui vocazione è il turismo residenziale, è naturalmente necessario che l’impegno per l’accessibilità sia condiviso anche dalle strutture ricettive.
Per questo Morvan, all’interno delle azioni di comunicazione, ha svolto campagne di “sensibilizzazione di albergatori e ristoratori per l’accoglienza dei pubblici in situazione di handicap” e si propone il miglioramento dell’offerta di sistemazioni e servizi. Nell’esperienza di più lunga durata di Kaunertal, questa sensibilità sembra essersi sviluppata in maniera più spontanea, come spiega Karl Hafele, storico gestore dell’Hotel Weisseespitze e riconosciuto come uno degli operatori più importanti per lo sviluppo dell’area: grazie al fatto che la strada arriva fino al cuore dell’area sciistica, “non c’era bisogno di un cambiamento ulteriore per rendere la natura più accessibile, ciò era già dato. Il turismo a Kaunertal ha costruito il suo indotto su questo.
L’Hotel Weisseespitze è stato un pioniere, con le sue camere accessibili; più tardi anche negozi, ristoranti e caffè si sono uniti alla causa, perché hanno visto che è qualcosa di buono che può anche essere modificato facilmente.
Così Kaunertal ha assunto questa visione dei nuovi progetti sin dall’inizio”.
Una progettualità costante rimane decisiva in tutte queste aree naturali per migliorare l’offerta di infrastrutture e attività accessibili ed estenderla a nuove opportunità turistiche.
Se ad esempio a Kaunertal la recentissima ristrutturazione della piscina/sauna Quellalpin l’ha resa più accessibile, e l’attenzione si sposta ora su parchi gioco per bambini e percorsi escursionistici tematici, a Guara c’è un impegno più ampio (seppure, come vedremo, non incondizionato) a che “tutte le nuove infrastrutture di uso pubblico che si realizzano nel Parco Naturale tengano in conto i criteri di accessibilità”.

Costi e benefici
Sarebbe legittimo attendersi che, rispetto a quanto avviene in contesti urbani o urbanizzati, la sfida dell’accessibilità sia più complessa nelle aree deputate alla conservazione della natura, dove ogni intervento va valutato con attenzione per il suo impatto visivo e ambientale; ebbene, nessuno degli interlocutori ritiene significativo il problema in rapporto alla propria esperienza. L’impatto viene comunque valutato e, come spiega Risueño Neila, a Guara “gli interventi si sono sempre realizzati su infrastrutture già esistenti o in zone nelle quali il terreno medesimo aveva vocazione di belvedere naturale”. A volte bastano accorgimenti semplici per un inserimento equilibrato nel contesto naturale, come indica Hafele a proposito del paesaggio alpino: “il centro è stato anche prendere risorse naturali per la costruzione, quindi usare pietra o terra per i percorsi, così che sia facile e naturale. Un grande esempio è la piattaforma panoramica di nuova costruzione Adlerblick. Non è stato un grande cambiamento per la natura costruirla più accessibile, ma lo è stato per anziani, disabili e famiglie”.
Il problema sollevato dalle realtà interpellate, come ugualmente prevedibile, sono i soldi. A Horsterwold, secondo Hans Breeveld, la costruzione di sentieri accessibili alle carrozzine “dipende dalla disponibilità di denaro”, e “quando nuove strutture verranno costruite ci sarà attenzione per le persone con disabilità. Quando i finanziamenti saranno presenti potremo fare di più”. Risueño Neila è ancor più esplicito parlando delle prospettive sui progetti per l’accessibilità del parco di Guara: “evidentemente occorre tenere in conto che quando si è iniziato questo cammino il bilancio assegnato a questo spazio naturale era praticamente il doppio di quello attuale. La crisi economica ci obbliga a suddividere il bilancio in modo equo per tutti quelli coinvolti nel territorio, ferma restando la salvaguardia dell’ambiente naturale”. In via più indiretta, la carenza di risorse induce anche a concentrare gli sforzi sul modello del turista con disabilità autonomo, più che su forme di visita guidata/assistita, rispetto a cui pure molti parchi dichiarano in linea di principio il proprio impegno. Bonnet, a proposito di Morvan (che mette a disposizione dei visitatori un variegato catalogo di ausili per muoversi su ruote, e anche un Oxoon, una piccola barca elettrica guidabile con una sola mano), esplicita invece che “le azioni condotte dal Parco tendono a rendere il visitatore autonomo. Non abbiamo le risorse umane per assicurare un accompagnamento più specifico”.
C’è un collegamento forse non ovvio tra la carenza di fondi e il fatto che i parchi non siano, per ora, in grado di documentare gli effetti indotti nelle persone con disabilità dalla visita ai loro territori e dalla partecipazione alle loro attività.
Questi effetti sono certo attestati informalmente come positivi (secondo Hafele, “certamente c’è stato un forte effetto positivo per le persone con disabilità, perché per un lungo periodo di tempo non è stato loro possibile visitare l’area intorno alle Alpi così facilmente, il che era davvero un peccato”) o almeno non negativi (“i commenti che riceviamo sono in generale positivi, certo non è possibile accontentare tutti” rileva Breeveld). Come ammette Risueño Neila, però, al di là dei molti segni di gradimento ricevuti dal personale sul campo o nei centri di Guara, “non si dispone di dati sulle persone con disabilità che accedono alle infrastrutture del Parco, per cui non si è potuto fare nessuno studio dell’accoglienza delle stesse”. Del resto, al di là di studi limitati sugli effetti della outdoor education su bambini e ragazzi con disabilità e di raccolte di storie personali (come la pubblicazione A sense of freedom curata nel 2007 dall’organizzazione governativa “Natural England”, con le esperienze di frequentazione di ambienti naturali di 14 persone con diverse disabilità), il campo di studio sui benefici che vengono alle persone con disabilità dallo svolgimento di attività turistico-ricreative all’aria aperta risulta ancora in larga parte da esplorare.
Il rischio, come avviene in molti altri ambiti, è che i costi (integrali o aggiuntivi) degli adattamenti necessari per una fruizione degli spazi naturali aperta a tutti siano quantificabili assai più facilmente dei vantaggi che derivano dall’aprirsi di questa fruizione, tanto alla persona con disabilità quanto al contesto che la accoglie. Anche a voler prescindere da una valutazione dell’accesso come diritto della persona, l’analisi costibenefici in base a cui si sceglie di tracciare un sentiero percorribile con carrozzine, o di creare un nuovo appuntamento sportivo accessibile anche a chi ha deficit sensoriali, dovrebbe essere condotta in base a elementi completi.

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente

Un intellettuale del nostro tempo, forse l’ultimo intellettuale del nostro tempo. È così che descriverei il professore Alain Goussot, di origine belga, docente di Pedagogia Speciale all’Università di Bologna, scomparso lo scorso marzo.
Un caro amico, oltre che un collega, che vale la pena ricordare con le debite parole e senza reticenze. Perché Alain, nel suo campo, quello dell’Educazione e della Pedagogia ma anche della Psicologia e dell’Antropologia ha lasciato il segno. Il segno del sapere, gettando importanti basi per nuove ricerche e il segno della persona, attenta, anzi di più, curiosa, anche su quello che non condivideva del tutto. Ateo convinto, Alain non ha infatti mai smesso di interessarsi alla religione, o meglio, alle religioni, e le ha messe in pratica tutte, capace di mettersi in gioco nel profondo e ponendosi sempre dalla parte dei più deboli.
La diversità, a partire da ciò che anche per lui si palesava come alieno e distante, è sempre stata una sfida, l’occasione per andare oltre e destrutturare i meccanismi incorporati nella società e nelle nostre percezioni umane fino a ribaltarle in una nuova dimensione etico-politica.
Attivo tra i ricercatori dei cosiddetti Disabilty Studies Alain si è dunque occupato da vicino della disabilità, concentrando la sua riflessione in particolare sugli aspetti legati all’adultità, al rapporto tra la disabilità e le altre discipline in un’ottica transculturale fino a sottolineare, negli ultimi anni, come il passaggio tra i termini integrazione e inclusione nella Scuola si è negativamente autoridotto nelle stigmatizzazioni dei BES (Bisogni Educativi Speciali). “Sulla questione dell’inclusione – scrive Alain su un articolo uscito su La letteratura e noi – occorre confrontarsi e chiarire meglio di cosa stiamo parlando. Per anni si è parlato di integrazione, in particolare in riferimento all’integrazione scolastica e sociale degli alunni con disabilità.
Si diceva che fosse importante creare delle opportunità e delle situazioni educative e formative in grado di rimuovere barriere e ostacoli. Poi da alcuni anni si è cominciato a parlare d’inclusione, precisando che si voleva sottolineare che il cambiamento non poteva essere a senso unico ma reciproco (soggetto e ambiente). Ma sorge un dubbio: se il concetto d’inclusione è strettamente connesso agli indirizzi proposti sui cosiddetti BES, e si muove nella direzione del differenzialismo, allora cosa vuol dire includere?”.
Difficile, se non impossibile, non aprire un dibattito dopo una domanda di Alain o leggendo le sue numerose pubblicazioni.
Tra queste ce n’è una che mi è particolarmente cara, Il disabile adulto [Maggioli editore, 2009], in cui Alain sottolinea come l’entrata nella società della persona con disabilità dopo l’uscita dal contesto scolastico porti con sé una rivoluzione sociale intrinseca che chiama in causa l’altro ma anche una responsabilità del singolo perché “vivere è l’adattamento passivo di chi rinuncia a esistere, mentre esistere implica la scelta e va nel senso di una integrazione attiva nella realtà”.
È accaduto lo stesso con altri temi, che sempre hanno preso voce a partire da un vero e proprio chiodo fisso del Professore: l’ideologia della diversità.
L’idea cioè che si debba sempre “cercare la diversità dell’altro anche in termini positivi”. Tornare all’uguaglianza, questo chiedeva Alain, vedere l’altro come altro io ma diverso da me. Partendo dalle similitudini accettare le differenze.
Perché le differenze stanno insieme, e insieme, in quanto tali, non creano più né separazione né scissione.
In questa rubrica ho il piacere di condividere con voi alcuni stralci di una corrispondenza avuta con suo figlio Enrico.

Carissimo Claudio,
mi chiamo Enrico e sono il figlio di Alain. Volevo ringraziarti per le parole che hai usato per omaggiare mio padre, il tuo amico e compagno di tante battaglie. Sto rimanendo colpito da tutti i messaggi che ancora oggi, a distanza di quasi sei mesi, sto ricevendo dai suoi studenti e dai suoi colleghi. Sono stato malissimo a seguito della sua morte, un evento dirompente, improvviso e traumatico che ha squarciato la nostra vita familiare.
Non riesco ancora a realizzare che lui se ne sia andato, tante e troppe cose sono rimaste in sospeso da quella notte tanto oscura quando lo abbiamo trovato per terra senza vita. Spesso me lo vedo sbucare dal suo studio di casa ma poi mi accorgo che la sua scrivania oramai è vuota perché lui se n’è andato davvero.
È stato un papà straordinario, mi ricordo che da ateo ci accompagnava al catechismo. Ci ha lasciati liberi di intraprendere ciascuno la propria strada. Ricordo bene il giorno in cui mio fratello gemello gli ha detto di voler entrare in seminario e lui con gioia gli ha semplicemente risposto di essere contento.
Ultimamente forse si stava ponendo tante domande sul senso della vita, l’ultima cosa che ha fatto prima di morire è stata guardare la via crucis di Papa Francesco. Con questo ha salutato il mondo.
Sono certo che nel tragitto dalla sua camera alla cucina, dove è morto, ha fatto un incontro speciale, ha visto Dio.
Come professore non era un accademico ordinario, aveva qualcosa che lo rendeva unico e speciale. Non ho mai incontrato nella mia vita una persona con la sete di cultura che aveva il Babbo.
Cercherò di portare in ogni dove il suo pensiero e spero che anche a livello accademico non venga dimenticato, perché lo merita.
Io farò di tutto perché ciò non avvenga. Ti abbraccio forte e ti ringrazio di cuore.
Fraternamente
Enrico

Caro Enrico,
innanzitutto grazie a te per aver trovato le parole per scrivermi, sono sincero: non credo che noi due ci siamo mai incontrati e la perdita del tuo papà ritenevo che fosse prima di tutto un evento da vivere tra voi familiari e poi mi dicevo “forse un giorno avremo modi di vederci”… invece mi hai scritto tu per primo. Grazie!
In questi giorni ripensavo a trovare le parole per scriverti, a un segno con il quale vorrei assicurarti che non potrò dimenticare mai una persona come Alain, così come vorrei anch’io che a livello accademico rimanesse sempre traccia di tutto quel gran lavoro che è stato fatto da tuo padre… Invece vorrei raccontarti alcuni piccoli particolari che mi tornano in mente quando penso ad Alain come uomo, oltre che come professore, ai pranzi consumati insieme in un bar davanti alla Facoltà di Cesena mentre si discuteva e lui aveva sempre un mare di idee, mi chiedevo spesso chi era intorno a lui come facesse a seguirlo in tutto, o come non ricordare il suo accento, era inconfondibile al telefono come in una sala conferenze!
Sono rimasto molto colpito dalla lettera che hai scritto in occasione di una giornata alla Facoltà di Scienze della Formazione, l’8 aprile a cui non hai potuto partecipare, in cui ti rivolgevi a tutti gli studenti che avrebbero dovuto sostenere l’esame di Alain.
Ti ringrazio ancora e ti auguro Buona Vita, a presto.
Claudio

Carissimo Claudio,
il Babbo ha sempre parlato molto di te, io ti conosco grazie ai suoi racconti. Gli si illuminavano sempre gli occhi!
Vorrei poterlo avere ancora qui, è andato via troppo presto, io ho ancora bisogno di lui!
Ma nella fede cerco di vivere questa attesa di rivederlo, consapevole di non poter cogliere ora il mistero della morte.
Ti abbraccio tanto fraternamente e spero che un giorno ci possiamo incontrare dal vivo perché vorrei abbracciarti.
A presto
Enrico

Scorrendo ancora una volta le riflessioni di Enrico penso a come la radice della parola cultura sia tutt’uno con quella del verbo latino còlere, “coltivare”. Alain è stato un grande coltivatore, di intelligenze ma soprattutto di punti di vista. Lui, che il Cristianesimo l’ha messo in pratica pur conservando la sua laicità, ha lasciato che l’espressione dei suoi figli potesse dirsi libera. Un esempio di inclusione agita e non solo teorizzata, preziosa e indimenticabile per tutti noi.
Beh, che dire Enrico, spero veramente di conoscerti personalmente il prima possibile.

 

15. Il libro delle passeggiate: l’esperienza di un Centro Diurno

di Paola Panaro, educatrice

L’idea de Il Libro delle Passeggiate nasce dal desiderio di mettere al servizio degli altri il frutto delle esperienze che in tre anni hanno avuto come protagonisti un gruppo di utenti e operatori del Centro Diurno “Graziella Fava” gestito dalla cooperativa sociale CADIAI, che si è cimentato, con sudore e fatica, lungo i sentieri e lungo i diversi percorsi che intendono rappresentare il senso e il valore di una lunga esperienza di gruppo. Nell’ambito delle attività programmate con i ragazzi del Centro Fava, da sempre le uscite rappresentano le occasioni più gradite, perché variano sensibilmente le loro esperienze di vita. In particolare, includere passeggiate ed escursioni nella programmazione settimanale deriva dalla volontà di coniugare varie esigenze, per esempio quella dei famigliari, che da sempre desiderano che il centro diurno offra uno stimolo motorio ai loro figli, ma anche quella degli utenti stessi che, in quanto persone adulte, sentono l’esigenza di vivere esperienze che difficilmente soddisferebbero nell’ambito familiare.

Camminare insieme e stare bene
Come operatrice di questo Servizio ho ritenuto che una possibile risposta a tali richieste potesse tradursi concretamente attraverso un’attività incentrata sull’esperienza di camminare in gruppo. Infatti, grazie al mio percorso nello scoutismo, ho appreso che il vivere in prima persona sensazioni difficilmente ritrovabili in altri contesti, quali la fatica e la soddisfazione di raggiungere una meta lontana, rappresenti per chiunque una preziosa opportunità. Questo deriva sostanzialmente dal misurarsi con le proprie potenzialità, come la forza fisica e quella interiore, come quando si devono superare alcune paure rispetto alla consapevolezza dei propri limiti. Ma è altresì arricchente il confrontarsi sia con i compagni che con gli operatori, in un contesto in cui necessariamente le condizioni dell’escursione creano gruppo, quel gruppo che facilita la relazione con gli altri, un’attenzione particolare agli altri, la sensibilità verso i bisogni degli altri e, al contempo, il bisogno di affidarsi agli altri.
L’attività ha previsto sempre la partecipazione di due operatori che, nella scelta d’itinerari isolati, talvolta impervi, hanno garantito che le passeggiate si svolgessero nel rispetto di ogni misura di sicurezza. Particolare attenzione è stata dedicata alla scelta delle attrezzature adeguate per affrontare le escursioni, per scongiurare ogni rischio e pericolo (scarpe adatte al trekking, cartine con il percorso segnalato, pronto soccorso…). Le passeggiate, talvolta particolarmente lunghe, per sentieri non sempre facili, sicuramente in ambienti paesaggistici piacevoli e inusuali, ma spesso con un suolo accidentato che rendeva precario il passo e imponeva a tutti i presenti di concentrare la massima attenzione nel cammino, hanno permesso agli operatori di osservare realmente come, nelle difficoltà, i ragazzi hanno saputo tirar fuori le proprie risorse e la propria capacità di adattamento alle novità.

La realizzazione di una guida per tutti
Il trovarsi assieme e fare qualcosa d’importante porta alla luce ciò che veramente è la persona, ciò che sa fare, ciò che le piace, le sue potenzialità, pur nel rispetto dell’esistenza di un limite, che ciascuno ovviamente ha. Il valore aggiunto di quest’attività è stato quello di aver permesso di conoscere percorsi possibili, accessibili a tutto il gruppo dei ragazzi, compresi coloro le cui abilità motorie sono maggiormente compromesse. Grazie a ciò, sono state realizzate in seguito gite allargate all’intero gruppo dei ragazzi, che hanno così beneficiato dell’importante lavoro di raccolta d’itinerari possibili a tutti. Questo quaderno dunque si propone di fungere da guida turistica con itinerari che spaziano da Bologna città ai nostri più lontani Appennini; i percorsi individuati sono di diverse difficoltà, ma comunque proponibili a tutti, bambini compresi. L’attività di passeggiate è stata condotta, a partire dal 2003, a cadenza settimanale e ha visto il gruppo impegnato in escursioni lungo sentieri CAI, percorsi vita, piste ciclabili, parchi, percorsi cittadini… ovvero tutti quei contesti che favoriscono l’attività motoria.
L’obiettivo finale era quello di dare visibilità all’attività di passeggiate dei nostri ragazzi, mettendo a disposizione delle persone, normalmente non coinvolte nelle attività e nella vita del Centro, le conoscenze alle quali eravamo pervenuti, attraverso la creazione di una guida turistica. Convinti dell’utilità di questa guida anche a famiglie con bambini o a persone con difficoltà più o meno temporanee, volevamo che alcune, delle tante attività svolte presso il nostro Centro, avessero un riscontro esterno e che altri potessero, come noi avevamo fatto, cimentarsi in percorsi con differenti gradi di difficoltà, immersi nella natura.

14. Benvenuti alla fine del mondo

di Valeria Alpi, giornalista e viaggiatrice con disabilità

“Luogo d’eccezione che attira ogni anno un gran numero di visitatori, la Pointe du Raz è la punta più occidentale di Francia, tra ripide scogliere e mare di smeraldo. […] Bella e selvaggia, classificata come Grand site national di Francia, la Pointe du Raz s’innalza a circa 70 metri di altezza. Scolpita dal mare, battuta dai venti, per la sua magnificenza la Pointe vale da sola una visita alla regione. Di fronte ad essa si staglia il faro quadrato dell’Île de la Vieille. Acceso nel 1887, il faro fu automatizzato nel 1995; fino ad allora, intrepidi guardiani si succedevano in condizioni climatiche spesso difficili.

Benvenuti alla fine del mondo
Questo sito, un tempo temuto dai marinai, richiama oggi escursionisti e surfisti, invitando sia all’attività sportiva che alla contemplazione. I primi apprezzeranno il sentiero segnato e messo in sicurezza che costeggia il bordo delle falesie. Per i secondi, appuntamento alla Baie des Trépassés (baia dei trapassati) per scivolare sulle onde. I curiosi e i temerari potranno spingersi fino al versante Nord all’Enfer de Plogoff (inferno di Plogoff), dove, secondo la leggenda, la principessa Dahut si sbarazzava dei suoi amanti. Uno stretto sperone di roccia che domina le onde. Attenzione alle emozioni forti!”.
Con queste parole mi accoglieva il sito Tourisme Bretagne, il sito ufficiale del turismo in Bretagna, una regione a Nord-Ovest della Francia, mentre programmavo il mio viaggio da sola in Normandia e Bretagna e cercavo informazioni sulla Pointe du Raz. V’invito a cercare su Google questo nome, per vedere quanto impervia può apparire la zona dalle immagini presenti sul web. Le parole di Tourisme Bretagne confermavano che non si trattava di una passeggiata molto accessibile … “ripide scogliere”… “intrepidi guardiani”… “fine del mondo”… “trapassati”… “inferno”…
Era il mio primo viaggio vero da sola; fino a quel momento ero andata da sola nelle mie amate Dolomiti, dove avevo affrontato sentieri facili che conoscevo da anni dopo esserci andata tante volte con mia madre; oppure ero stata in grandi città come Berlino e Parigi, e girare una città può avere per me gli stessi problemi o non problemi di quando mi muovo per lavoro o per piacere a Bologna, dove abito.
Per la prima volta, invece, avevo deciso di addentrarmi da sola in un viaggio nella natura, tra le scogliere di alabastro dei pittori impressionisti a Étretat, in Normandia, le spiagge dello sbarco, sempre in Normandia, il Mont Saint-Michel, la costa di granito della Bretagna, il Finistère…
La differenza con le Dolomiti era che in queste località francesi non ci ero mai stata, dunque non avevo assolutamente idea di quanto sarei riuscita effettivamente a vedere. A essere sincera pensavo poco o niente. Al limite pensavo: “Quella costa la vedrò da lontano”. Adoro fotografare la natura, ma ero quasi certa che non sarei riuscita a portarmi a casa le stesse inquadrature che vedevo da internet. Il problema è che affrontare la natura con una disabilità motoria, come nel mio caso, può volere dire rinunciare a tanti panorami.
E invece…
Le scogliere di Étretat, da un lato, sono anche accessibili con l’auto e non solo tramite scalinate di centinaia di gradini. Quando si arriva su c’è un bel parcheggio in uno spiazzo di prato, e poi c’è questo enorme prato che copre tutte le scogliere: a quel punto si è sopra, a oltre cento metri d’altezza, a strapiombo sul mare, in un comodo prato battuto (perché ormai le tante persone che ogni giorno ci vanno hanno scavato un sentiero), senza dislivelli perché le scogliere sono tutte alla stessa altezza e creano chilometri di percorso praticamente in piano. Ovvio, c’è una parte raggiungibile solo con la scalinata, ed è anche un’inquadratura di un quadro di Monet. Però tutte le altre, e dico tutte, inquadrature sono fruibili anche da chi ha problemi di mobilità. Certo forse in questo caso la natura ha aiutato. Ma negli altri siti naturalistici famosi del Nord della Francia è l’uomo che ha attivato delle soluzioni per rendere i percorsi accessibili a tutti. In particolare sono rimasta davvero colpita dalla Pointe du Raz, perché davvero era l’unico posto in cui avevo deciso di provare ad avvicinarmi senza nessuna sicurezza di successo. “Vado lì e se me la vedo male torno indietro”. Non avevo informazioni, a parte le righe del sito. Non c’erano sezioni dedicate ai disabili, come ad esempio per il Mont Saint-Michel dove avevo trovato già sul web, prima di partire, tutte le indicazioni utili, dal parcheggio alla navetta per disabili. Per la Pointe du Raz avevo letto solo che il sito naturalistico è protetto e vietato alle auto, quindi non avevo neppure idea di dove avrei potuto parcheggiare e quanta distanza ci sarebbe stata dall’auto alle scogliere.
Arrivata alla Pointe du Raz mi accorgo subito che il parcheggio è parecchio lontano persino dal punto informazioni da dove sarebbe partito il sentiero… Ma gli addetti al parcheggio, appena accortisi del contrassegno disabili sulla mia auto, mi spiegano che il mio posto è attaccato al punto informazioni. Agli addetti alle informazioni chiedo come è il sentiero, per capire se posso farlo. Mi spiegano che da lì parte un sentiero asfaltato ma molto in salita lungo più di 800 metri, che porta al punto in cui inizia davvero il sentiero roccioso. Mi dicono che chi ha problemi di mobilità può prendere una navetta elettrica completamente accessibile ed evitarsi intanto i primi 800 metri. Poi mi mostrano una mappa con due sentieri paralleli, e mi spiegano che una volta scesa dalla navetta, prendendo il sentiero a sinistra avrei trovato tutte rocce, mentre a destra un sentiero battuto che mi avrebbe portata fino all’estremo punto panoramico possibile – possibile nel senso naturalistico del termine. Oltre quel punto le rocce continuano per altri 20 o 30 metri, e chi vuole può inerpicarsi fino all’ultimo sasso a strapiombo sul mare, ma se anche ci si ferma prima, dove finisce il sentiero battuto, si gode dello stesso identico panorama di chi arriva fino in fondo. Si vedono lo stesso tutti i fari e tutti gli speroni, e si provano le stesse “emozioni forti” che indica il sito.
Ancora oggi, che sono passati quattro anni, riguardo le foto di quella giornata e mi sembra incredibile di essere arrivata fino lì. In una maniera accessibile, senza rovinare la natura, e senza rovinare l’aspetto così selvaggio. So bene che in molti posti non è possibile arrivare per chi ha problemi motori, e che non si possono trovare soluzioni a tutto. Le famose Due Torri della mia città rimarranno per sempre inaccessibili per me, e d’altronde non mi aspetto che in torri così antiche, strette e storte venga messo un ascensore! Né mi aspetto di trovare sentieri accessibili in Perù o in Tibet, o di vedere colate di cemento sui sentieri dolomitici. Però certe volte la natura permette degli aggiustamenti, e tra il rispetto dell’ambiente e l’immaginazione umana si possono raggiungere pezzi di mondo e pezzi di se stessi. E per la cronaca, quel giorno, complice il forte vento bretone, il sentiero a speroni di sinistra era davvero poco frequentato, mentre quello comodo di destra era affollato da tutti i tipi di diversità umana.

13. Ma i parchi dell’Emilia sono già accessibili naturalmente?

Intervista a Massimo Rossi direttore dell’Ente di gestione per i Parchi e la Biodiversità Emilia Orientale.

Come avete affrontato il tema dell’accessibilità dei parchi regionali della provincia di Bologna?
Ci siamo posti il problema dell’accessibilità dei parchi alle persone con disabilità alcuni anni fa, quando ancora non esisteva questo ente, ma questi parchi erano organizzati e governati ognuno da un proprio consorzio tra enti locali, e in funzione di una spinta che ci venne in particolare dalla ex provincia di Bologna furono fatti alcuni progetti dedicati alla fruizione di queste aree protette. A Monte Sole fu fatto un percorso per i non vedenti, al parco del Corno fu fatto un percorso per disabili motori presso uno dei nostri centri visita e così via.
Abbiamo un po’ lavorato sul territorio, cercando di renderlo fruibile a chi fa più fatica a viverlo, sentendo ovviamente prima le associazioni che raggruppano queste persone. In verità non abbiamo trovato fin dall’inizio grande interesse e questo ci ha un po’ stupito perché pensavamo che questo potesse essere un settore da colmare. In realtà questi percorsi non servono, e in primis non servono a coloro i quali sembravano essere più indirizzati. Questo non significa che nessuno di loro li utilizzi, accade, ma non di frequente. Chi è soggetto a una disabilità, e per fortuna non è lasciato solo nella nostra società, quando si avvicina ai parchi, li affronta per ciò che può e nel farlo si comporta come facciamo tutti noi. Le persone che hanno una disabilità fanno della loro disabilità una forza e un elemento per capire quali sono i propri limiti, si adeguano e trovano comunque soddisfazioni all’interno dei parchi paragonabili alle loro possibilità.

Ma devono esistere comunque dei requisiti minimi perché le persone svantaggiate possano vivere questi spazi…
Non penso servano requisiti minimi, al di là del parcheggio ovviamente. Non penso che servano, perché rappresenta aggiungere un limite a chi ha già un limite. Cioè è confermare e sottolineare un limite. Dopo di che c’è la possibilità di mettere a disposizione di queste persone una serie di strumenti basilari, elementari, attraverso i quali poter fruire minimamente di qualsiasi oggetto, dall’area protetta al portico del Pavaglione o di San Luca [zone turistiche di Bologna ndr.]. Quindi ci sono dei requisiti minimi, il problema è: definire qual è il limite del minimo. Perché il limite del minimo, per persone con disabilità diverse, è diverso. Quindi se il disabile non vedente comunque riesce a muoversi anche su terreni un minimo accidentati per raggiungere magari una bacheca in Braille, questo requisito minimo non è già più sufficiente per il disabile motorio. Il superamento del requisito minimo per tutti sta nel rapporto tra le persone, non sta nel pannello o nella rampa. Un disabile di qualsiasi tipo sia o anche un non disabile, come può essere un bambino di cinque anni che non sa leggere però sa camminare, se accompagnato da altri, quindi dotato di relazioni interpersonali, può fruire anche delle aree protette. Poi per tutti, me compreso, ci saranno comunque dei luoghi che non saranno mai accessibili.

E a proposito di rapporto con le persone, i vostri accompagnatori forniscono particolari servizi?
In passato noi accompagnavamo dei bambini non vedenti ad ascoltare il bramito dei cervi. È un suono gutturale molto profondo, con tonalità e frequenze molto basse, e se una persona li ascolta da vicino sente vibrare anche il terreno sotto i piedi. Per un bambino non vedente che però ascolta e sente, essere lì è un’esperienza unica. È stata un’esperienza che a me nel passato ha dato grande soddisfazione, poi si è persa nel tempo e non si è più fatta, evidentemente era più soddisfacente per noi che non per i genitori dei bambini, non tanto per i bambini stessi.
In altre occasioni ci è capitato di accompagnare qualcuno che ha una disabilità motoria e che per ragioni particolari debba recarsi in alcune zone dove l’accesso è vietato a tutti. Con un fuoristrada, in sporadici casi, accompagniamo persone con una disabilità motoria, questo è quello che riusciamo a fare nei confronti di un’utenza chiaramente diversa dalle altre.

Avete altri progetti per il futuro?
Non abbiamo progetti in futuro e non mi aspetto neanche che siano le associazioni a farsi avanti con delle proposte. Forse sbaglio, anche perché la disabilità – tua o degli altri, di chi ti è vicino – la conosci davvero solo se la vivi, però io sono più portato a riconoscere al disabile le stesse potenzialità che abbiamo tutti noi, nel momento ovviamente in cui c’è qualcuno che lo accompagna e gli dà una mano.
Non mi aspetto che siano enti o associazioni a immaginare nuovi percorsi, nuovi progetti di fruizione in un ambito che non è quello urbano, dove invece la persona disabile deve quotidianamente potersi muovere e sappiamo bene con quanta fatica.

Quindi la natura è accessibile fino ad un certo punto?
La naturalità è per tutti. Ma non tutta la naturalità: pensi ad esempio a una grotta. Noi siamo i gestori delle grotte più importanti della nostra regione, quelle del Parco dei Gessi bolognesi, le più conosciute sono la grotta della Spippola e la grotta del Farneto; ecco l’accesso a una di queste grotte è chiaramente impossibile per persone con disabilità motoria, non è nemmeno pensabile. Vi sono luoghi dove tanti normodotati non possono accedere, il limite sta nel luogo che si vuol raggiungere e nei propri limiti, ognuno ha i suoi, ed è bene che lo sappia e ne sia cosciente. Dopo di che ci sono le guide che ti accompagnano fino a un certo punto, oltre il quale nemmeno le guide ti accompagnano più, anche se sai fare i salti mortali. È questo quello che deve sapere chi vuole venire a visitare i parchi: i parchi sono molto vasti, ci sono tante opzioni di visita molto semplici e tranquille che con una persona che accompagna sono perfettamente fruibili per chi ha disabilità motorie, mentre i non vedenti possono andare dappertutto o quasi. Difficilmente un non vedente andrà sulla cima di Monte Sole perché ci sono dei gradini. Però può andare a Casaglia, al suo cimitero, alla sua chiesa. Ci sono insomma tante possibilità di fruizione delle aree protette, ognuna a misura di chi intende fruirla.

12. Una gita come le altre. L’esperienza di Trekking Italia di Bologna

di Jean Marie Bouroche e Piero Vetturini, Trekking Italia Sezione Emilia Romagna

Nello statuto di Trekking Italia è previsto lo sviluppo di attività con persone disabili di tutti i tipi, il nostro obiettivo è di fondere la disciplina fisica con gli aspetti culturali e sociali. Anche se lo statuto è comune, c’è una grande autonomia tra le varie sedi regionali. La sede di Bologna da alcuni anni sta portando avanti iniziative che coinvolgono le persone con disabilità; alcune non sono riuscite a proseguire, altre invece hanno trovato il modo per farlo.

Non sempre è facile coinvolgere gruppi misti
Ci aveva contattati un liceo perché avevano una ragazza con disabilità motoria e ci avevano chiesto di fare un trekking considerando anche un percorso adatto per le carrozzine. Però la scuola ci ha messo molti paletti: partire e tornare in orario scolastico, andare con mezzi pubblici. Per cui li abbiamo portati in un’area naturale situata poco fuori Bologna. Si chiama area del torrente Dosolo, un triangolo fatto da due torrenti, che è stato rinaturalizzato con due zone umide e un macero. Non lo conosce nessuno, ma è interessante anche se molto piccolo. All’interno di questo spazio c’è un percorso che si può fare per osservare le zone umide, c’è un macero e ci sono delle chiuse che gestiscono questo equilibrio. C’è anche un museo tematico sulla bonifica dell’acqua organizzato molto bene. La ragazza in carrozzina si è divertita moltissimo, mentre tutti gli altri hanno detestato l’attività. Del resto per portare in giro ragazzi in carrozzina servono o strade asfaltate con poco traffico o strade bianche forestali non sconnesse, tenute bene. Da noi sono pochissimi gli itinerari, per cui questa cosa è finita subito. È successo cinque o sei anni fa e dopo quell’esperienza di carrozzine non ci siamo più occupati.
Abbiamo fatto delle uscite con ragazzi non udenti dell’Istituto Gualandi. L’iniziativa era stata chiesta da due operatrici che volevano fare delle attività con ragazzi adolescenti, sordi e non, mescolandoli, e avevano identificato il trekking come un’attività che favorisse questa integrazione. Abbiamo fatto due o tre uscite, poi siccome venivano solo ragazzi non udenti e non veniva nessun altro, anche questa esperienza è finita. È finita perché non sono riusciti a coinvolgere degli adolescenti udenti e a fare un gruppo misto.
Altre esperienze però sono riuscite bene. L’associazione “Volhand” di Crespellano ci ha chiesto di portare fuori delle persone con deficit intellettivi di varia entità. Programmavamo un giro non troppo lungo, 3 ore di cammino e con poco dislivello. Poi loro lanciavano l’iniziativa e i ragazzi si iscrivevano. A seconda del numero e del tipo di ragazzi che si iscrivevano, avevamo gli accompagnatori, a volte con rapporto 1 a 1, a volte meno se c’erano ragazzi più gestibili.
Quest’esperienza è durata più a lungo, più di un anno. Facevamo 1 giro ogni 2 o 3 mesi, abbiamo fatto 4-5 giri complessivamente. Andavamo a Monteveglio, in val Samoggia, Tolè, Vedegheto, in genere nelle zone collinari bolognesi.
La maggior parte dei ragazzi che venivano all’escursione erano molto ubbidienti, poi ce n’era qualcuno che non aveva tanto il senso dello spazio, cioè da soli andavano fuori sentiero e bisognava riacchiapparli, bisognava stare molto attenti.

Un omone grande e grosso e la sua mamma
L’esperienza che ci è parsa molto interessante è stata però un’altra. Ci ha contattato il servizio handicap adulto dell’ASL per coinvolgere nelle nostre attività persone che avevano ampie autonomie. Il principale problema di queste persone è il tempo libero: le vacanze, le ferie, per loro sono una cosa terribile. Le loro patologie peggiorano quando sono in ferie. L’urgenza era organizzare il tempo libero.
Abbiamo deciso di provare a inserire nel gruppo un paio di queste persone con il loro accompagnatore, e abbiamo fatto un’escursione insieme ai nostri soci. Non sapevamo come avrebbero reagito i nostri soci o se i nuovi inserimenti avrebbero creato problemi durante l’escursione. In quell’occasione è venuta solo una persona con sua madre: era un omone grande e grosso con la madre piccola piccola. Questa esperienza, seppure limitata, è andata molto bene, nessuno dei soci si è lamentato ed è stata un’escursione inserita nella normale programmazione. Nessuno degli altri miei colleghi accompagnatori di Trekking Italia se l’è sentita di ripeterla. A me piacerebbe far partire un gruppo di famiglie con persone con deficit intellettivi ma bisogna capire come organizzarsi. L’esperienza migliore è non fare gruppi separati, ma provare un inserimento.

11. Un’avventura solo per ipovedenti? Un viaggio a piedi da Bologna a Firenze

di Fabrizio Rigotto, Club Alpino Italiano Bologna Est

Dal 21 al 29 maggio un gruppo di persone ipovedenti, assieme agli accompagnatori di escursionismo del gruppo territoriale CAI Bologna Est della sez. CAI “Mario Fantin” di Bologna, hanno percorso a piedi i 120 km del cammino della Via degli Dei, calpestando così le strade e i sentieri che, svalicando l’Appennino, uniscono Bologna a Firenze.
Una sfida avente come armi solo un paio di scarponi ai piedi e uno zaino pesante sulle spalle, al fine di promuovere la mobilità degli ipovedenti, diffondendo la conoscenza e la comprensione dell’ipovisione e i problemi legati alle malattie degli occhi, con particolare attenzione all’accessibilità. L’idea s’inserisce all’interno della campagna #YellowTheWorld, ingiallire il mondo, attraverso la quale l’associazione NoisyVision si propone di sensibilizzare l’opinione pubblica colorando idealmente il mondo di giallo, poiché questo è il colore che persone con problemi di vista riescono a vedere meglio. I maestri compositori di quest’avventura sono due persone dal grande carisma, Dario Sorgato e Donato Di Pierro, entrambi ipovedenti, entrambi legati dalla stessa passione per l’escursionismo, entrambi capaci di muovere e incoraggiare gli animi delle persone che incontrano sul loro cammino.

Qui inizia l’avventura
L’organizzazione di Dario e Donato è partita molti mesi prima, poiché non è semplice costruire da zero un’iniziativa così complessa. E quasi casualmente, proprio nel momento di decidere le tappe del percorso, nasce anche la collaborazione con il gruppo territoriale CAI Bologna Est, collaborazione che sarà il preludio di un’amicizia tanto forte quanto inaspettata.
Il gruppo così composto decide di percorrere i 120 km del tracciato in nove giorni, durante i quali la parola d’ordine sarà camminare per quasi tutta la giornata. Il giorno prima di iniziare il cammino tutto il gruppo si riunisce a Bologna e si conosce per la prima volta, tra l’euforia della sfida e la tensione della partenza; per gli organizzatori tutto è pronto, hanno nella mente tutto il percorso, i punti di ristoro, le lunghezze e le altimetrie delle tappe, ma ancora non conoscono quali saranno le vere difficoltà da affrontare.
Si parte da Bologna il 21 maggio, con il sole caldo e alto nel cielo, con le note gioiose della Banda Rossini di Bologna e con la “gialla compagnia” che attraversa il centro del capoluogo emiliano donando alla città un nuovo colore, ovviamente giallo, e un’allegria coinvolgente. Anche perché il gruppo di camminatori è composto da persone provenienti da tutta Europa (Finlandia, Islanda, Irlanda, Germania, Olanda, Spagna e Italia) che fin dal primo giorno riescono a unire con incredibile naturalezza i diversi bagagli culturali che portano ognuno nel proprio zaino.
Passata Bologna si prosegue sulla sponda del fiume Reno; qui il percorso sembrava non presentare particolari problematiche, ma il fango ha reso il fondo estremamente scivoloso, e questo particolare tecnico cambia completamente la difficoltà di questo tratto e i tempi previsti di percorrenza. Siamo all’inizio dell’avventura e il pensiero che si possa trovare questo tipo di fondo anche nei giorni successivi fa apparentemente preoccupare il morale degli organizzatori. Già, apparentemente, perché i ragazzi della gialla compagnia sfoderano una straordinaria capacità di ribaltare le situazioni avverse, affrontando le difficoltà con grande determinazione e forza di volontà.
Questo è lo spirito che ha accompagnato il gruppo per tutto il cammino, uno spirito travolgente che non ha risparmiato nessuno tra i partecipanti. Chiunque si sia unito al cammino, o abbia semplicemente salutato il passaggio dalla propria porta di casa, è stato travolto da un’onda gialla di gioia e di voglia di non mollare mai!
Il percorso prosegue, giorno dopo giorno, inerpicandosi tra i sentieri appenninici, col bosco a fare da timido compagno di viaggio e con le ginestre gialle in fiore a colorare e salutare il passaggio della compagnia. Si passa per Monzuno, Madonna dei Fornelli, si calpesta il selciato dell’antica strada romana fino ad arrivare al Passo della Futa. Poi, svalicato il passo appenninico, giù in picchiata verso Sant’Agata e San Piero a Sieve, nel cuore del verde Mugello. In quest’ampio tratto ci sono state tappe più semplici e percorsi più tecnici, salite faticose e discese anche con forti pendenze. Ma ogni passo è stato percorso mettendo nelle gambe una forza prorompente, che se nei primi giorni era l’espressione del carattere di ogni persona, pian piano è diventata il carattere unico di un gruppo compatto e determinato, unito nella sfida e anche nella gioia. Dal Mugello il gruppo prosegue per il Santuario di Monte Senario, da dove s’intravede Firenze per la prima volta… Allora il cuore inizia a battere forte, la sfida assume il volto della vittoria, e l’emozione non lascia trattenere le prime lacrime. Domenica 29 maggio la gialla compagnia attraversa Firenze sotto la pioggia e conclude la propria avventura in Piazza della Signoria. Le gocce di pioggia si confondono con le lacrime di gioia. È stata un’avventura vera: vera nelle difficoltà, vera nei sentimenti, vera come la forza che ha unito ogni partecipante, vera e unica come la natura compagna di tutto il viaggio. E alla fine, oltre a tutto questo, rimane nel cuore, come un grande insegnamento lasciato in eredità, la capacità di trasformare la complessità della vita in occasioni da saper cogliere, unendo sempre coraggio e forza di volontà senza mollare mai!

Dalla fine al principio

di Donato Di Pierro, NoisyVision, Retina Italia Onlus

Ero in camera, a sistemare un po’ di documenti della camminata. Ho preso tutto il fascicolo dell’avventura, raccolto dentro una cartellina, ovviamente gialla. Patrocini, delibere comunali, tonnellate di e-mail per organizzare i pernottamenti e le varie tappe… Stavo riguardando quei fogli quando ecco che salta fuori all’improvviso lui: L’ATTESTATO.
Un foglio di cartoncino giallo e nero con il logo del CAI, di NoisyVision e di Retina Italia Onlus che certifica la partecipazione dei miei piedi alla traversata da Bologna a Firenze che ha, ancora una volta, cambiato la visione che avevo della mia patologia e del mondo dei Visually Impaired, ovvero noi ipovedenti e non vedenti. E in quell’istante è stato come rendersi conto di essere definitivamente tornati alla realtà. Nei giorni successivi all’avventura ho sempre avuto una parte di me come spiritualmente distaccata dal corpo. Avevo la testa e un pezzo di cuore sui sentieri che una volta furono percorsi dai Romani.
Più volte il profumo dolce delle ginestre odorose è stato rievocato dalla mia memoria, e puntualmente mi sono girato nella ricerca di quella cornice gialla fiorita che per tutto il viaggio ha circondato il gruppo di coraggiosi avventurieri che ho avuto al mio fianco.
Ripensando a quelle giornate sull’Appennino mi sono più volte chiesto se fosse stata tutta una bolla, quell’esperienza, o se la vera bolla in cui viviamo senza rendercene conto è in realtà il nostro quotidiano, cui siamo oramai troppo abituati. Tante, forse troppe emozioni ho collezionato, infilando un passo dietro l’altro mentre seguivo le impronte dei miei nuovi amici. Il ricordo che conserverò di quest’avventura è il senso di grande libertà e serenità che mi ha pervaso a ogni passo, in ogni minuto. Avevo intorno persone di nazionalità diverse, ma per tutto il tempo ho percepito la totale assenza di limiti spaziali. Tutti insieme uniti dalla stessa voglia di condivisione, alla scoperta delle nostre essenze. Mi sono sentito uguale a ognuno di loro, pervaso da un senso di umanità che, temo, nel nostro mondo si sta perdendo sempre di più…

10. Per un turismo accessibile nei parchi e nelle colline di Bologna

di Monica Palmieri, Settore Marketing Urbano e Turismo del Comune di Bologna

Ci occupiamo ogni anno dell’organizzazione del trekking urbano
(http://www.bolognawelcome.com/trekkingurbano) quindi, limitatamente a questo evento, organizziamo in collaborazione con delle associazioni locali e delle istituzioni, dei percorsi che vogliamo siano anche accessibili. Fino all’anno scorso avevamo, grazie alla collaborazione con l’Istituto dei ciechi Francesco Cavazza, delle iniziative accessibili per non vedenti e ipovedenti; da quest’anno abbiamo tentato di aprirci a un altro mondo, a un altro tipo di disabilità. Siccome per i turisti siamo abituati ad adottare soluzioni che quelli del settore chiamano tailor made, cioè quelle iniziative tagliate su misura a seconda dei propri interessi e delle proprie esigenze, a maggior ragione riteniamo che nel mondo della disabilità ci voglia quest’attenzione particolare. Questo è un esperimento perché noi non ci occupiamo di servizi sociali e di servizi per persone disabili nella vita di tutti i giorni, ma nel nostro piccolo questo potrebbe essere un punto di partenza anche per tante altre cose perché ci rendiamo conto che questa città ha molto da migliorare e da imparare.
Con il CAI di Bologna abbiamo cominciato dalle piste ciclo-pedonabili, poi chiaramente si tratterà anche di coinvolgere gli altri settori del Comune di Bologna. In questa prima iniziativa, che abbiamo chiamato “Paratrekking lungo il canale di Reno”, abbiamo percorso la ciclo-pedonale lungo il canale Reno, dallo stadio fino al parco Talon. Il percorso, lungo 4 km, prevede un tempo di percorrenza di tre ore ed è stato testato da un architetto specializzato dell’Associazione GArBo – Giovani Architetti Bologna insieme a una ragazza in sedia a rotelle per verificarne l’agibilità. Le persone con disabilità hanno potuto partecipare al trekking sia da sole, sia con un accompagnatore.
Cominciamo da qui, cioè un timido inizio, ma che sia un inizio davvero, in vista di futuri sviluppi. Poi chiaramente il CAI avrebbe in mente di rendere accessibili anche questi sentieri sulla prima collina che hanno aperto negli ultimi anni, sentieri di raccordo fra la città e la collina. D’altronde per raggiungere la collina a noi basta buttare l’occhio fuori della porta, è veramente vicina, ricca di emergenze architettoniche e naturalistiche. L’obiettivo sarebbe questo, però ovviamente dobbiamo pensare a un progetto che si sviluppi negli anni, non sono tempi brevi. Bisogna impegnarsi e prepararlo.
Penso si possa lavorare molto sul turismo accessibile, perché ritengo che ci siano ancora troppe poche offerte a fronte di una richiesta molto ampia. Questo può essere un inizio, poi si potrebbe pensare per esempio a percorsi multisensoriali. In “Paratrekking lungo il canale di Reno” ci siamo mossi nello spazio, però sarebbe interessante anche pensare a percorsi che non siano necessariamente aperti soltanto a persone con disabilità, ma che siano inclusivi, come nel caso dei percorsi accessibili per non vedenti: la loro ricchezza è proprio nel confronto continuo tra chi ha la fortuna di vederci e chi no.

9. L’esperienza del CAI: se la montagna diventa terapeutica

di Giuseppe Cavalchi, accompagnatore di Escursionismo CAI di Reggio Emilia e membro del Consiglio Direttivo del CAI Emilia-Romagna

Come è nata questa esperienza che ha visto alcuni soci del CAI di Reggio Emilia coinvolgere nelle loro escursioni delle persone con problemi di salute mentale?

All’inizio del 2014 abbiamo iniziato un rapporto di collaborazione con il Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche dell’ASL di Reggio Emilia, con frequenti contatti e incontri con gli operatori del servizio. Con loro abbiamo iniziato a costruire questo percorso; loro avevano già alle spalle una consolidata esperienza decennale in attività analoghe in cui però erano presenti solo educatori e utenti. Partendo quindi da questa loro esperienza abbiamo cominciato a pensare di organizzare escursioni in cui fossero presenti operatori, utenti e soci del CAI. Le prime escursioni insieme le abbiamo fatte nel settembre del 2014, poi grazie agli stretti rapporti con degli amici del CAI di Bologna abbiamo fatto diverse uscite nel territorio bolognese. La prima escursione si è svolta nel Parco di Monteveglio. La possiamo definire il vero battesimo di questa esperienza, abbiamo fatto inoltre un’escursione nel Parco del Contrafforte Pliocenico e anche nel Parco Storico di Monte Sole. Nel panorama italiano, sempre in ambito CAI, ci sono regioni come la Toscana, la Lombardia e il Trentino in cui questo tipo di attività è svolta ed esiste da più tempo.

Che percorsi avete fatto?

Noi con il termine “montagnaterapia” intendiamo un originale approccio metodologico a carattere terapeutico-riabilitativo e socio-educativo finalizzato alla prevenzione secondaria, alla cura e alla riabilitazione di individui portatori di differenti problematiche, patologie o disabilità; questo approccio è progettato per svolgersi, attraverso il lavoro sulle dinamiche di gruppo, nell’ambiente culturale, naturale e artificiale della montagna. Proprio per questo puntiamo molto all’inclusione sociale. Normalmente si tratta di escursioni di 4-5 ore di cammino, ma che occupano tutta la giornata, dalla mattina alla sera. Diverse escursioni le abbiamo fatte in territorio bolognese, abbiamo fatto il giro da Zappolino, su fino all’abbazia di Monteveglio, siamo saliti a Monte Adone partendo da Brento, abbiamo fatto un pezzo della via Cassia e anche un’escursione nel Parco Storico di Monte Sole; sono tutti posti per noi facilmente raggiungibili con l’autostrada, molto fruibili e che non presentano delle particolari difficoltà escursionistiche pur rimanendo itinerari molto interessanti dal punto di visto storico, paesaggistico e naturalistico. Nella scelta degli itinerari evitiamo escursioni con delle difficoltà tecniche, anche se nell’autunno 2015 siamo andati al Corno alle Scale e alcuni sono saliti in cima dai Balzi dell’Ora, un tratto di sentiero attrezzato che presenta già difficoltà maggiori.
La nostra esperienza, come CAI Reggio Emilia, è solamente con le persone con problemi di salute mentale, ci sono però tante iniziative realizzate da altre sezioni CAI che coprono tutte le disabilità, fisiche e psichiche. C’è un grosso livello di autonomia nelle varie sezioni CAI e ogni realtà porta avanti le attività che riesce a realizzare nel proprio territorio in base ai legami che si costituiscono con le altre realtà locali che operano nel settore. Facendo anche parte del Consiglio Direttivo del CAI Emilia Romagna ed essendo il referente in Consiglio della costituenda Commissione Medica, posso riassumere anche altre esperienze analoghe in regione: il CAI di Bologna organizza diverse “camminate della salute”, la sezione di Parma svolge anche lei da anni un’intensa attività di montagnaterapia, ci sono esperienze in Romagna di attività di speleologia, in grotta quindi, con persone con disabilità fisiche. Come CAI Emilia Romagna cercheremo di mettere il più possibile in contatto queste esperienze così che possano anche essere prese come esempio da altre sezioni in regione.

L’esperienza del CAI di Reggio Emilia si caratterizza rispetto alle altre sezioni?

L’esperienza di Reggio Emilia è un po’ particolare perché siamo riusciti a mescolare utenti, operatori e soci CAI; è proprio questo che ci distingue rispetto a tante altre realtà che normalmente realizzano iniziative specifiche riservate ai soli utenti. All’interno di tutte le nostre attività abbiamo programmato almeno un’escursione al mese alla quale possono partecipare tutti.
La fascia degli utenti va dai 35 ai 50 anni e finora non abbiamo mai avuto alcun inconveniente. Le difficoltà che incontrano gli utenti non sono soltanto di carattere fisico o tecnico, ma spesso sono difficoltà diverse: non tanto difficoltà durante il percorso, dove di solito i problemi sono legati alla stanchezza fisica, quanto, per esempio, lo stare fuori di casa così a lungo, dalla mattina alla sera, o durante gli eventuali spostamenti in pullman, lo stare chiusi per varie ore in uno spazio stretto.

Avete incontrato delle difficoltà, come era il clima nel gruppo?

Le prime volte noi accompagnatori ci siamo chiesti come comportarci, l’atteggiamento che abbiamo avuto è stato quello di osservare ciò che facevano gli operatori confidando sulla loro esperienza. E così abbiamo fatto le volte successive. Dopo ormai due anni oserei quasi dire che non abbiamo fatto nulla, la nostra presenza la definirei quasi una presenza-assenza, nel senso che ci siamo, siamo vigili sia per le eventuali difficoltà lungo il sentiero sia per cogliere i normali momenti di stanchezza o difficoltà, ma cerchiamo sempre di intervenire il meno possibile lasciando quindi una maggior libertà alle dinamiche di gruppo. L’atmosfera è quella di un gruppo di amici che va a camminare, si chiacchiera e si scherza in compagnia, non c’è mai stato bisogno di un intervento particolare. Ci si conforta durante la salita, ci si congratula quando si arriva in cima o si supera un pezzo di sentiero difficile, tutto quello che si fa andando in montagna, compreso condividere una fetta di salame o un pezzo di formaggio. Questa esperienza ha dato tanto anche a noi accompagnatori, nel confrontarci con una realtà diversa, nello scoprire che si possono fare cose molto belle con poco. Per noi è quasi più impegnativa l’organizzazione dell’escursione che non l’escursione vera e propria; questo perché la scelta dell’itinerario, dei tempi e delle pause è importante per la riuscita dell’escursione.

Perché si parla di montagnaterapia?

Il benessere che si prova andando in montagna è per tutti, utenti e non. Si tratta di socializzare, di stare all’aria aperta, di cercare di portare a casa sensazioni positive, di sentirsi soddisfatti per aver superato una difficoltà. Queste sensazioni positive che abbiamo andando in montagna ce le portiamo a casa e, per un po’ di tempo, le possiamo utilizzare nella vita di tutti i giorni. L’effetto benefico della montagna e delle escursioni in montagna riguarda proprio tutti.
Finora abbiamo parlato di salute mentale, ma lo stesso discorso si può fare per le disabilità fisiche. Ci sono numerosi esempi di persone che, ad esempio, arrampicano con alti gradi di difficoltà e che hanno anche grossi handicap fisici, magari perché hanno un arto solo o entrambi gli arti amputati. Noi, nella nostra attività di montagnaterapia, cerchiamo di beneficiare dell’ambiente della montagna e del contatto della natura, non cerchiamo l’estremizzazione del gesto atletico o l’agonismo. Ci interessa il beneficio che viene dal semplice camminare, dallo stare in mezzo alla natura, dall’entrare in un bosco, dallo stare all’aria aperta, dal godere di un bel panorama, ma soprattutto socializzare; a quest’ultimo aspetto ci teniamo particolarmente. Anche per questo le nostre escursioni non presentano particolari difficoltà: se si aumentano la difficoltà delle escursioni, automaticamente si riduce il numero di partecipanti, quindi il gruppo diventa piccolo.
L’importante è scegliere attività che siano accessibili. Una delle cose su quali noi stiamo attenti è riportare delle esperienze positive, quindi l’obiettivo, la cima, deve essere raggiungibile, la difficoltà superabile. L’esperienza positiva avuta in montagna la possiamo così riportare nel mondo reale quando si torna a casa. Tra i nostri futuri progetti c’è un’escursione che preveda di passare la notte in rifugio. Anche questa è un’altra difficoltà da superare: stare fuori di casa, dormire con degli altri, non avere bisogno della propria intimità.

Che cos’è il Bi-decalogo del CAI e perché questa vocazione sociale della tua associazione?

Come disse Annibale Salsa, ex Presidente Generale del CAI, “il Bi-decalogo è un codice di auto-regolamentazione, un’obbligazione morale che i soci del CAI si impegnano a contrarre in rapporto al comportamento da tenere nei confronti dell’ambiente e dei territori montani”. Ad esempio, nel Bi-decalogo si parla di incentivare il più possibile l’uso dei mezzi pubblici o di mezzi di gruppo, il che vuol dire frequentare la montagna con pullman o ancor meglio con mezzi pubblici, l’esperienza del CAI di Bologna con l’iniziativa “Treno-Trekking” è la perfetta sintesi di questo concetto. Rispetto dell’ambiente e frequentazione della montagna, queste due cose devono viaggiare assieme.
Il CAI ha una vocazione sociale perché è nel sociale, ogni anno nuove persone si avvicinano alla montagna e si avvicinano in modo diverso perché la società cambia e non possiamo pensare che la società non influenzi il nostro andare in montagna. L’indimenticato Renato Casarotto, l’alpinista vicentino scomparso sul K2 nel 1986, disse “il mio zaino non è solo carico di materiali e di viveri: dentro ci sono la mia educazione, i miei affetti, i miei ricordi, il mio carattere, la mia solitudine. In montagna non porto il meglio di me stesso: porto me stesso, nel bene e nel male”. Nel portare noi stessi nella zaino, portiamo in montagna la società in cui viviamo, credo però che come CAI possiamo anche aiutare a rendere possibile il percorso inverso, portare nella società un po’ di montagna. Lungo i sentieri ci si saluta, un ciao e un sorriso non si negano a nessuno, in rifugio si condivide la tavola in cui si mangia e spesso la camerata in cui si dorme. In montagna ci si chiama per nome, non esistono più certe barriere che spesso, per convenzione, esistono nella vita di tutti i giorni. Credo che questo ruolo sociale il CAI lo debba avere sino in fondo cercando di far sì che il suo credo e la montagna possano influenzare la società e non solo viceversa. Per quanto riguarda la montagnaterapia, due anni fa c’è stato il convegno nazionale in Sardegna, c’erano circa 130 persone a camminare, con vari livelli di disabilità. Quest’anno il convegno nazionale è appena terminato e si è svolto a Pordenone. Sono numeri importanti, su cui dovremmo tutti noi riflettere. Di montagnaterapia ha parlato anche il Presidente Generale Vincenzo Torti al Congresso Nazionale degli Accompagnatori di Escursionismo che si è svolto a Siena i primi di novembre. L’attenzione del CAI a queste tematiche sta crescendo sempre di più, nonostante qualche difficoltà di carattere burocratico da gestire; proprio perché la società sta cambiando non ci possiamo dimenticare che purtroppo sono in aumento le persone che hanno difficoltà di vario tipo, a questo effetto sociale bisogna in qualche modo dare una risposta. Non è necessariamente qualcosa dovuto all’età media della popolazione che avanza, perché la popolazione è in media più sana rispetto al passato, però le persone in difficoltà sono in aumento esponenziale, sia se guardiamo le disabilità fisiche, dovute a incidenti stradali per esempio, sia le disabilità di carattere psichico, dovute all’aumentato consumo di psicofarmaci per esempio. Quindi il CAI non può non tener conto di questo. Poi è difficile riuscire a gestire questi progetti, ci vuole un gruppo di persone disponibili a portarlo avanti, perché le barriere ci sono. Credo però che il CAI, visti anche i riscontri positivi dell’attività di montagnaterapia, non possa rinunciare a svolgere anche un compito sociale, specialmente in quest’ambito.

8. Superare il concetto di accessibilità della natura. L’esperienza della Fondazione per lo sport Silvia Rinaldi

di Alberto Benchimol, progettista e fundraiser in ambito sociale
Mi avvicino all’handicap come maestro di sci negli anni ’80, in Italia non si faceva niente specialmente nello sci. Mi era capitato di andare negli Stati Uniti che erano anni luce avanti all’Italia e avevano tanti programmi per la disabilità. Nel 1984 sono diventato maestro di sci e ho iniziato a occuparmi di sci lavorando con gli Istituti Ortopedici Rizzoli. In Trentino feci un corso di specializzazione e oggi sono docente della provincia autonoma di Trento nella formazione dei maestri.
La mia fondazione si chiama “Fondazione per lo sport Silvia Rinaldi Onlus”. Silvia Rinaldi è la figlia di uno dei fondatori principali, Giuliano Rinaldi, che è deceduta in montagna. In onore della figlia il padre fondò uno sci club. Dopo le Olimpiadi di Torino ho visto che la disabilità e lo sci stavano prendendo una grande spinta e ho proposto al padre di creare una fondazione intitolata a Silvia, lui ha acconsentito insieme alla figlia Paola e alla mamma.
La Fondazione, essendo una Onlus, si occupa di sport per persone con disabilità. Ci occupiamo di progetti sportivi con persone disabili e, marginalmente, con ragazzi che hanno disagio sociale. Poi la mia idea è stata quella di fare attività integrate, non limitarci solo a gruppi di persone disabili, ma usare lo sport come strumento di integrazione. Le attività vengono svolte con tutti i livelli di abilità e anche con ragazzi e adulti non disabili.

In natura non esistono barriere architettoniche insuperabili
Ci troviamo con persone che hanno la disabilità certificata, ma quando ci mettiamo alla prova fisica, come sciare, possono passare tranquillamente avanti a persone non disabili. Per ogni disabilità esiste un livello di prestazione che noi andiamo a scovare, in modo che ogni persona possa stare con gli altri e fare le cose al suo livello. Ognuno ha il suo settore di disabilità, tu puoi essere disabile in montagna rispetto a Simone Moro che scala gli 8000 metri. Io stesso sono disabile a correre rispetto a chi fa i 9’90 sui 100 metri. Per non parlare di sportivi con disabilità come Alex Zanardi che dimostrano che con l’allenamento si può superare qualunque limite.
Noi lavoriamo nell’ambiente naturale, dove non ci sono barriere architettoniche, o meglio, ci sono, ma ci sono altre soluzioni. Uno scalino di 1 metro in montagna può essere di fianco a uno scalino di 20 cm. Si possono sempre trovare soluzioni in un ambiente aperto. Nella natura si può scegliere: se faccio trekking, posso scegliere fra vari percorsi, dal facile al più difficile. Al contrario se una città ha molte barriere architettoniche, rimane con molte barriere architettoniche e in un certo posto non ci arrivi.

Le attività della Fondazione

Seguiamo un progetto con l’ASL per i disabili adulti con i quali facciamo trekking nei parchi di Bologna: Villa Ghigi, Parco Talon, Parco dei Cedri, Parco dei Ciliegi, Villa Angeletti, Giardini Margherita.
Poi organizziamo anche mini trekking in luoghi dell’Appennino: Monte Sole, Corno alle Scale, Cimone, Lizzano. Andiamo anche al mare d’estate.
Cerchiamo percorsi ogni anno un po’ diversi per esplorare il territorio circostante. Non solo l’ambiente riduce le barriere architettoniche, ma l’ambiente ha un valore per se stesso. A parte l’aria più pulita, il contatto con la natura fa bene ai disabili e ai ragazzi. Lo diceva Konrad Lorenz: senza contatto precoce e continuativo con la natura, la persona non si sviluppa bene.
Noi siamo partiti storicamente con persone non vedenti e siamo partiti con l’attività sportiva dello sci con persone non vedenti. Poi ci siamo allargati a 360°, anche a seconda del tipo di richieste che ci arrivano da chi ci contatta, come le famiglie per esempio, che ci prospettano un problema e con cui cerchiamo una soluzione. Ad esempio con l’arrampicata per i non vedenti. Sono un gruppo di 3 ragazzi che hanno iniziato con i nostri corsi, e poi hanno proseguito verso l’agonismo; a quel punto noi non c’entriamo più perché non ci occupiamo di sport agonistico. Sono le Federazioni che se ne occupano con il Coni e le società sportive.
Pur venendo dallo sport paralimpico, non mi occupo di agonismo, perché poi ci vogliono allenatori.
Oltre alle persone non vedenti nel settore dell’arrampicata si è aperto il fronte dei bambini con autismo. A Bologna è stata aperta la palestra in via del Fonditore, “Urban Clymbing”; l’arrampicata è uno sport in ascesa, è anche diventata disciplina olimpica, ci sarà a Tokyo, non so se è già anche sport paralimpico. A Bologna mancava questa possibilità, una palestra di arrampicata. Opportunità anche per i ragazzi con disabilità. Essendo in ambiente chiuso non ha gli inconvenienti dello sci come la nebbia e il freddo.
Il trekking lo facciamo con adulti con disabilità psichica e relazionale, a questi si è aggiunto un gruppo di ragazzini con la sindrome di Down e da quest’anno un ragazzo sordo. I sordi hanno la sola esigenza di avere a fianco un interprete per il linguaggio dei segni, quindi con noi vengono anche i loro operatori e i loro educatori. Facciamo un progetto con il Comune di Bologna che si chiama “Parchi in movimento”, assieme alla UISP. Ogni volta bisogna vedere con che tipo di persone si ha a che fare, non c’è uno standard. Bisogno capire le esigenze essenziali, come se c’è bisogno di una carrozzina, o se un non vedente ha bisogno della guida.
Oltre lo sci facciamo ciclismo; i non vedenti e le persone in carrozzina vanno in tandem o con le handbike. Ci sono anche handbike elettriche e fuoristrada. In passato abbiamo fatto un progetto con l’ex Provincia a Monte Pizzo; la Provincia comprò 2 carrozzine elettriche che si guidano con un joystick con cui si potevano anche fare le salite, il noleggio di queste due carrozzine era gratuito, ma adesso il progetto è finito.

Non creiamo percorsi adattati

La natura offre più alternative ai disabili che non le nostre città. Noi non pensiamo a percorsi creati ad hoc, non andiamo a modificare l’ambiente, primo perché non abbiamo i soldi, secondo perché il disabile deve poter scegliere, non può essere relegato a un percorso che può fare solo lui.
Occorre superare l’idea di percorso adattato o open, si va a vedere di volta in volta, cercando di rimuovere gli ostacoli, ma soprattutto cercando di individuare le alternative che offre la natura. Vogliamo anche superare il concetto di accessibilità che è perdente, sia per i limiti che ha, sia perché si pone il problema della valutazione su ciò che può o non può fare la persona disabile. Ci sono trekking in montagna dove persone disabili vanno e persone non disabili non vanno. Ci sono persone con disabilità che vanno sull’Everest e sul K2. Come si fa a dire che un percorso è accessibile o meno? Non si tratta tanto di modificare l’ambiente, quindi, ma sono le persone che si organizzano, tenendo conto delle caratteristiche di chi è coinvolto.
L’arrampicata in questo senso è eccezionale. Ci sono percorsi con varie difficoltà, e la persona si allena per superare i propri limiti come fanno i normodotati. Non possiamo dire a priori cosa può fare e dove arriverà. Bisogna superare quest’idea dell’adattamento dell’ambiente e dei percorsi, oltretutto è complicato anche dal punto di vista della manutenzione e le attrezzature finiscono poi per cadere in disuso.
Fondazione per lo sport Silvia Rinaldi Onlus
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