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Autore: Nicola Rabbi

7. Consigli di lettura

Lanfranco Abele [et al.]
Laboratorio bosco. Riflessioni e attività per la progettazione e la realizzazione di percorsi didattici in educazione ambientale
Azzano San Paolo, Junior, 2002

Con interventi di Giovanna Alatri [et al.]
In giardino e nell’orto con Maria Montessori. La natura nell’educazione dell’infanzia
Roma, Fefè, 2010

Monika Bezdek, Petra Bezdek e Ursula Bezdek
Giochi e attività nel bosco e in città
Idee per divertirsi e imparare nella scuola dell’infanzia
Trento, Erickson, 2013

Monica Campana, Fiorella Zangari
Educazione ambientale e teoria dell’attaccamento.
Esperienze e modelli per la crescita affettiva nella scuola dell’infanzia
Trento, Erickson, 2012

Mirella D’Ascenzo
Quando l’outdoor education non si chiamava così.
In R. Farnè e F. Agostini (a cura di) Outdoor education. L’educazione si-cura all’aperto
Parma, Edizioni junior-Spaggiari, 2014

A cura di Roberto Farnè e Francesca Agostini
Outdoor Education. L’educazione si-cura all’aperto
Parma, Junior, 2014

Peter Gray
Lasciateli giocare
Torino, Einaudi, 2015

Richard Louv
L’ultimo bambino dei boschi
Milano, Rizzoli, 2006

Laura Malavasi
L’educazione naturale nei servizi e nelle scuole per l’infanzia
Parma, Junior, 2013

Nadia Nicoletti, Niccolò Barbiero
L’insalata era nell’orto. L’orto a scuola e nel tempo libero
Milano, Salani, 2009

M. Schenetti , I. Salvaterra, B. Rossini
La scuola nel bosco. Pedagogia, didattica e natura
Trento, Erickson

A cura di Gianfranco Zavalloni
Orti di pace. Il lavoro della terra come via educativa
Bologna, Emi, 2010
(a cura della biblioteca del Centro RiESco, Comune di Bologna Settore Istruzione)

 

6. Un “Atelier del corpo”

di Alessandro Mattioli, istruttore di nuoto e allenatore di Triathlon, formatore UISP, e Glauco Fantini, insegnante di Educazione Fisica, fondatore dell’associazione Anni Magici.

Il progetto “Atelier del corpo” nasce da una collaborazione tra UISP di Reggio Emilia, Anni Magici ASD e Istituzione Scuole Nidi d’Infanzia del Comune di Reggio Emilia per valorizzare il linguaggio motorio.
Nel percorso proposto, le esperienze e le scoperte che si realizzano in particolare nelle aree verdi attivano nei bambini la ricerca di strategie soggettive e di gruppo per affrontare sfide motorie, giochi di equilibrio e di orientamento nello spazio. Imitazione, improvvisazione, ripetizione e variazione sono elementi strutturanti le relazioni tra bambini e adulti e le esperienze agite, coerenti con l’idea di mente-corpo interconnessi, in cui aspetti cognitivi, emozionali ed emotivi sono integrati e non separabili.
L’idea è quella di proporre un’esperienza motoria diversa dalle classiche, privilegiando l’educazione all’aperto, perché il contatto con la natura costituisce un forte stimolo per corpo e sensi: sassi, alberi, cespugli, foglie, rami, corde… sono le attrezzature a disposizione dei bambini nei parchi delle varie scuole. Siamo convinti che muoversi all’aria aperta sia un valore di enorme importanza anche se ci rendiamo conto che molti genitori pensano che i bambini, quando escono, rischino di ammalarsi e di farsi male.
A tal proposito sono previsti alcuni incontri con i genitori, e durante il primo ribadiremo che le malattie da raffreddamento si diffondono soprattutto al chiuso e che il contatto quotidiano con la natura è fonte di esperienze motorie-sensoriali e stimolo della creatività.
Il movimento è senz’altro il linguaggio privilegiato, ma si colloca all’interno di un unico progetto educativo e pertanto aperto ad accogliere il bambino nella sua unicità e completezza, con la sua straordinaria capacità di reinventare qualsiasi linguaggio.

Gli intenti dell’Atelier
Gli intenti dell’Atelier sono:

  • continuare l’approfondimento, nel confronto con gli educatori sportivi, sul linguaggio del corpo e il movimento ampliare le prospettive intrecciando occasioni e contributi che emergono dagli approfondimenti in corso sui linguaggi: natura digitale, risonanze, grafica e narrazione
  • costruire momenti di scambio e dialogo con i genitori delle sezioni coinvolte sui temi del benessere, la cura e la cultura del corpo e del movimento
  • prevedere e progettare confronti tra gli educatori e gli insegnanti coinvolti per presentare e condividere caratteristiche e peculiarità del contesto sezione, dinamiche di relazione del gruppo, interessi e saperi dei bambini
  • pianificare incontri progettuali in cui prefigurare intrecci tra l’esperienza motoria e le ricerche che già sono in essere nelle sezioni
  • attivare uno sguardo attento che valorizzi e riconosca qualità e potenzialità dell’ambiente, per costruire contesti significativi e pertinenti in cui si realizzeranno gli incontri con i bambini.

Documentazione
Produrre una documentazione del percorso di “Atelier del corpo”, per dare visibilità e valorizzare la riflessione congiunta tra insegnanti ed educatori impegnati nell’esperienza con i bambini. Costruire materiali di studio e sintesi sui quali confrontarsi in itinere negli appuntamenti di formazione.Progetto nel progetto “Atelier del corpo” vuole intrecciarsi con il progetto generale di sezione per arricchirlo e ampliarlo aumentandone il valore. L’educazione motoria non vuole essere un’esperienza separata dalle altre, ma vuole essere integrata con le altre e arricchita dalle altre.

Coinvolgimento dei genitori
Ai genitori verrà presentato il progetto con le sue caratteristiche prima o durante l’esperienza, inoltre a fine progetto vi sarà un incontro dove genitori e bambini condivideranno un momento di gioco come festa-incontro finale.
Il coinvolgimento delle famiglie risulta molto importante in una tipologia di progetto come questo, la mancanza di cultura del movimento spesso porta a pensare che un progetto di educazione motoria sia una proposta pre-sportiva non capendo la differenza sostanziale.

5.Corpo, relazione, movimento… per i bambini

di Giacomo Busi, Roberto Parmeggiani, Rosanna De Sanctis

Il progetto “Corpo, relazione, movimento” realizzato grazie al contributo del Comune di Bologna Area Benessere di Comunità in collaborazione tra Associazione d’iDee e Associazione CDH di Bologna, è uno strumento sperimentale di educazione alla salute per i ragazzi delle scuole dell’obbligo che stiamo svolgendo da settembre in cinque scuole primarie e una scuola media di Bologna Quartiere Saragozza e coinvolge 150 bambini. Mai come oggi l’attività fisica, intesa soprattutto come “attività del camminare”, coinvolge aspetti fondamentali della nostra vita. Muoversi a piedi continua a interessare una molteplicità di aspetti culturali, di cui si sente sempre più il bisogno di riappropriarsi. Ma ci sono anche altri aspetti importanti. L’intenso benessere psicologico e fisico che si prova dopo una passeggiata non è l’unico effetto positivo del camminare: una vasta quantità di studi scientifici, come è noto, ha dimostrato che l’attività fisica svolta con regolarità induce anche numerosi benefici per la salute.
Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità:
• la sedentarietà è il quarto fattore di rischio di mortalità su scala mondiale
• patologie legate all’inattività sono le malattie cardiovascolari, il diabete e l’obesità
• l’obesità e il sovrappeso sono in aumento anche tra i bambini
• una modica attività fisica riduce del 50% i rischi di queste patologie, produce benessere fisico e mentale e determina un calo sostanziale del rischio di ipertensione, osteoporosi e delle conseguenze psicologiche della vita sedentaria quali lo stress, l’ansia, la depressione e il senso di solitudine
• camminare o andare in bicicletta per circa 30 minuti al giorno riduce del 50% i rischi di malattie cardiocircolatorie, sviluppo del diabete in età adulta, e obesità; e riduce inoltre del 30 % il rischio di sviluppare ipertensione.

Nella pubblicazione “Global recommendations on Physical activity for Health” (2010) l’OMS definisce i livelli di attività raccomandati. Secondo queste linee bambini e ragazzi di età compresa fra i 5 e i 17 anni dovrebbero compiere almeno 60 minuti di attività fisica al giorno e la maggior parte di essa dovrebbe essere aerobica. Nonostante queste evidenze manca ancora la consapevolezza dell’importanza del movimento fisico per la salute e l’automobile è quasi sempre utilizzata anche per compiere tragitti molto brevi, inferiori ai 3 km. Gran parte dei bambini e degli adolescenti di oggi spesso conducono una vita sedentaria tra la scuola e il computer.

Cammina, che ti passa
Esiste una relazione significativa, sostenuta da evidenze scientifiche, che collega il camminare e lo stato psico-corporeo dell’essere umano. Secondo i ricercatori, infatti, camminare in mezzo alla natura, magari in compagnia di altre persone, riduce lo stress percepito e aumenta il benessere mentale. Le passeggiate all’aperto, specie se fatte insieme ad altre persone, si sono dimostrate avere un grande impatto sul benessere di chi si trova in condizioni psico-corporee non soddisfacenti.
Una ricerca comparata dell’University of East Anglia (UEA), Regno Unito, pubblicato sul “British Journal of Sports Medicine” ha analizzato 42 studi, per un totale di 1.843 partecipanti in 14 diversi paesi: dai risultati emerge che le persone che fanno regolari camminate di gruppo riescono a mantenere bassa la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca, a controllare i livelli di colesterolo e ridurre la propria massa corporea, allontanando così il rischio di ictus. Quindi, camminare in gruppo aiuta a tenere lontane molte patologie e mantenere un buono stato di salute. Infatti, camminare in gruppo è uno dei metodi più facili e veloci di aumentare il proprio livello di salute: le persone che camminano in gruppi tendono anche ad avere un atteggiamento più positivo verso l’attività fisica e a sentirsi meno isolate. Anche con le persone che tendenzialmente rivelano un basso livello di energia e movimento, le camminate in gruppo possono rappresentare un forte catalizzatore e un agente che stimola emotivamente l’adozione di comportamenti sani. L’analisi dimostra che le persone che camminano regolarmente in gruppo hanno registrato cali statisticamente significativi della pressione media arteriosa, della frequenza cardiaca a riposo, dell’indice di massa corporea e del livello totale di colesterolo. Inoltre, camminare in gruppo migliora la capacità respiratoria, attraverso un aumento della potenza polmonare. Infine, questo miglioramento delle funzionalità fisiche generali si associa a un miglioramento dell’umore e a una diminuzione dei rischi di sviluppare umore depresso. Camminare in gruppo rappresenta quindi un’attività sicura e piacevole, che ha un grande potenziale benefico sia per la salute fisica che psicologica [Hanson, 2015].

Raccolta d’informazione e la progettazione di percorsi
Al centro del progetto troviamo l’informazione sull’importanza del movimento per la salute fisica e psichica dell’individuo e la riacquisizione graduale dell’abitudine a camminare soprattutto nei brevi spostamenti urbani, nel tempo libero e nel fine settimana.
Tra gli obiettivi:
• indagine su quanto tempo i bambini e ragazzi dedicano all’attività fisica
• apprendere che il movimento fisico produce effetti positivi sulla salute ed è un importante fattore di protezione dalle malattie
• apprendere una modalità corretta di camminare
• individuare brevi percorsi sicuri all’interno del territorio comunale
• il cammino come viaggio di conoscenza di se stessi.

Azioni e raccolta delle emozioni
• Incontri in aula scolastica e “in cammino” sul territorio
• somministrazione questionario iniziale
• lavoro in piccoli gruppi
• facili camminate nei parchi della città. In tali occasioni ci si concentrerà sulle sensazioni ed emozioni provate ascoltando il proprio corpo in movimento
• compilazione questionario pre e post camminata
• elaborazione dell’esperienza della camminata.

Camminare in tanti modi diversi
La riflessione sull’importanza del movimento, soprattutto quello quotidiano, legato al benessere ma anche al piacere dato dalla possibilità di godere dello spazio fisico in cui viviamo, ci ha spinto a riflettere anche sul tema dell’accessibilità e dei diversi modi di camminare.
L’apporto specifico dell’Associazione CDH, attraverso gli animatori con disabilità del Progetto Calamaio, ha riguardato proprio questo aspetto. Nell’incontro svolto a scuola i bambini e i ragazzi sono stati invitati a fare esperienza della diversità attraverso l’incontro diretto con persone con disabilità.
Una riflessione, quindi, partendo dall’esperienza, dalle sensazioni e dalle emozioni vissute in prima persona. Successivamente, attraverso giochi di ruolo e domande, abbiamo ampliato il ragionamento volto a produrre una maggiore consapevolezza di sé e dell’uso del corpo, di quello della persona con disabilità e del proprio. La conoscenza riduce le distanze e i pregiudizi, ci permette di parlare con libertà anche di ciò che spesso sentiamo come inappropriato e di scoprire punti di contatto tra noi e chi consideriamo diverso. Ecco allora che è possibile scoprire che Francesca gioca a tennis come Andrea oppure che Francesca preferisce andare al parco in compagnia come Elisa e Giulia oppure che a tutti piacciono i pic-nic. L’incontro al parco e la camminata sono stati poi l’occasione per avere un riscontro diretto su ciò di cui avevamo discusso in classe e per confrontarci con quegli aspetti concreti che possono rendere più difficile o, al contrario, facilitare l’accesso al parco.
Dopo brevi tratti di camminata i partecipanti hanno espresso le loro sensazioni rispetto a cosa percepivano dello spazio (suoni, odori, temperatura e tipo di terreno) e a come questo cambiava addentrandoci sempre più nel parco. Allo stesso modo anche l’animatore con disabilità presente esplicitava il suo sentire coinvolgendo i partecipanti mettendoli a confronto con le diverse risposte.
Uno spazio specifico è stato lasciato alla valutazione degli ostacoli e alle possibili soluzioni, più o meno creative. Tra tutte si è convenuto che, al di là della necessità di ridurre le barriere architettoniche, una delle strategie più efficaci per superare eventuali difficoltà e per godere appieno del piacere del camminare è la relazione. Fare insieme, condividere, sperimentare mettendo in comune le diverse abilità.

I promotori del progetto
Associazione d’iDee si occupa da più di 12 anni di sviluppare progetti che contri- buiscano a una società più solidale, capace di tutelare i diritti delle minoranze, anche attraverso la diffusione di iniziative culturali, formative, ricreative che contribuiscano a creare una diversa sensibilità collettiva. Il nostro intento è quel- lo di costruire interventi educativi che, valorizzando le differenze, agevolino le persone in situazione di disagio nel loro percorso di crescita personale, e sociale. L’Associazione Centro Documentazione Handicap, nata nel 1996, gestisce un centro di documentazione sui temi dell’handicap, del disagio sociale, del volontariato e del terzo settore e vuole essere un laboratorio culturale aperto sui temi dello svantaggio e della diversità. Si propone di favorire una cultura in cui le persone svantaggiate siano soggetti di diritto, protagoniste del cambiamento personale e sociale e di dare a ogni persona svantaggiata la possibilità di un’inclusione basata sulla valorizzazione delle sue risorse. Ciò che spesso sentiamo come inappropriato e di scoprire punti di contatto tra noi e chi consideriamo diverso. Ecco allora che è possibile scoprire che Francesca gioca a tennis come Andrea oppure che Francesca preferisce andare al parco in compagnia come Elisa e Giulia oppure che a tutti piacciono i picnic. L’incontro al parco e la camminata sono stati poi l’occasione per avere un riscontro diretto su ciò di cui avevamo discusso in classe e per confrontarci con quegli aspetti concreti che possono rendere più difficile o, al contrario, facilitare l’accesso al parco. Dopo brevi tratti di camminata i partecipanti hanno espresso le loro sensazioni rispetto a cosa percepivano dello spazio (suoni, odori, temperatura e tipo di terreno) e a come questo cambiava addentrandoci sempre più nel parco. Allo stesso modo anche l’animatore con disabilità presente esplicitava il suo sentire coinvolgendo i partecipanti mettendoli a confronto con le diverse risposte. Uno spazio specifico è stato lasciato alla valutazione degli ostacoli e alle possibili soluzioni, più o meno creative. Tra tutte si è convenuto che, al di là della necessità di ridurre le barriere architettoniche, una delle strategie più efficaci per superare eventuali difficoltà e per godere appieno del piacere del camminare è la relazione. Fare insieme, condividere, sperimentare mettendo in comune le diverse abilità.

4. Educazione all’aperto, un’antica strategia estremamente attuale

di Andrea Ceciliani, Professore Associato presso il Dipartimento di Scienze per la Qualità della Vita, Università di Bologna
L’outdoor education (da ora OE) è una strategia educativa diffusa in tutto il mondo, basata sul concetto di esperienza vissuta fuori dalla porta, all’esterno, partendo dagli spazi quotidiani (i giardini scolastici) per spingersi negli ambienti semi-naturali (parchi pubblici o simili) o naturali (boschi, foreste, montagne, ecc.). Diversi studi hanno mostrato come l’OE sia una strategia educativa da affiancare all’insegnamento tradizionale in aula, palestra, sezione, perché l’ambiente esterno crea nuove opportunità, presenta sfide sia per gli educatori sia per gli allievi. La natura può divenire uno strumento per facilitare l’apprendimento e una fonte gratuita di materiali per l’apprendimento da utilizzare in diversi modi [Brodin & Lindstrand, 2006; White, 2006].
L’OE esprime un concetto di apprendimento focalizzato sul posto, sul luogo. Questa locazione può essere un ambiente naturale come una foresta o un altro setting rurale naturale, oppure può essere un parco pubblico (semi-naturale), il giardino scolastico o una area urbana. La scelta del posto è illimitata all’interno dell’insegnamento OE, l’importanza risiede nell’apprendere in un autentico ambiente che riflette o rinforza il contenuto o insegnamento [Dahlgren & Szczepanski, 1998 p. 19].
L’apprendimento outdoor è esperienziale perché consente di apprendere dalle situazioni concrete ed educa a riconoscere e risolvere problemi e sviluppa la competenza di pensiero critico [Gilbertson, 2006, p. 7].
Un altro significativo aspetto è l’approccio interdisciplinare dell’OE, in quanto l’ambiente esterno coinvolge, per forza di cose, tutte le aree della personalità del soggetto rispetto al classico apprendimento al chiuso, ad esempio: studiare matematica in un parco naturale non solo focalizza la materia in sé e per sé, ma sollecita anche apprendimenti sulla natura della foresta, sul clima, sul movimento corporeo, sulla relazione con l’ambiente e gli altri, ecc. Nelle esperienze all’aperto i membri del gruppo si sentono più connessi gli uni agli altri, sono maggiormente stimolati verso l’aiuto reciproco rispetto a quando essi apprendono all’interno [Passarelli et al, 2010, p. 121]
L’ OE non ha una definizione stabilita, distinti autori sottolineano differenti aspetti nelle loro definizioni che individuano diversi approcci. Gilbertson [2006] descrive una distinzione tra educazione all’avventura (Adventure Education) caratterizzata dalle sfide motorie che l’ambiente propone (arrampicare, superare ostacoli naturali, saltare fossi, ecc.), apprendimento all’aperto (Outdoor Learning) che pone il focus sull’ambiente come un magnifico laboratorio ed educazione ambientale (Environmental Education) basata sull’affiliazione alla natura, sul suo rispetto e sulla sua utilità. [Gilbertson, 2006 p.4]. Altri autori [Dahlgren et al, 1998; Hammerman et al, 2001; Passarelli et al, 2010] pongono questi tre approcci sotto un unico ombrello.
Da quanto appena espresso, l’OE appare fortemente connessa con i diffusi concetti di apprendimento agito (learning by doing) o avere le mani nelle attività (hands-on activities) o giocare l’apprendimento (play for learning), cioè essere veri protagonisti delle proprie esperienze di apprendimento e sviluppo [Higgins & Nicol, 2002; Brodin & Lindstrand, 2006]. “È condivisa l’idea educativa secondo la quale i bambini apprendono meglio attraverso il gioco libero […] tipico dei bambini per tanti motivi: è piacevole, auto-motivato, immaginativo, spontaneo” [Ceciliani, 2011, p. 415].
Già Dewey [1990] sottolineò l’importanza di un metodo in cui i bambini possano apprendere attraverso la libertà di pensiero, di giudizio, d’azione, in un connubio di situazioni pratico-teoriche, cioè esperienze dirette e concrete che insegnano a prendere iniziative e ad assumersi responsabilità [Gilbertson, 2006, p. 9]. Apprendere nella e dalla natura, apprendere attraverso l’agire diretto nelle situazioni vissute ha una tradizione più lunga della scuola teoretica centrata sull’insegnante. Nonostante ciò il concetto di OE non è ancora pienamente recepito dal sistema educativo. Mentre l’istruzione tradizionale, centrata su chi insegna o guida, stimola maggiormente l’udire e il vedere, l’apprendimento esperienziale outdoor stimola tutti i sensi. Il tatto in particolare (la manipolazione) crea il connubio mente-mano sull’apprendimento, crea la profonda connessione con l’obiettivo concreto rispetto al solo leggere o vedere. L’azione stessa, nelle situazioni all’aperto, implementa le abilità motorie, l’emozione di agire, la relazione diretta con i problemi che spesso, nelle situazioni al chiuso, vengono scarsamente sollecitate. Un tale contesto, tra le altre cose, rende l’esperienza più libera, interessante, divertente e sollecita un sentimento positivo verso l’apprendimento in generale.
Le attività di OE incrementano le opportunità di attività fisica che, nell’attuale società, assumono un aspetto importante rispetto alla sanità pubblica di giovani generazioni sempre più sedentarie, soggette a moderne disfunzioni legate all’ipocinesi: sovrappeso, obesità [Eisenmann 2006; Lopez et al., 2006], involuzione delle capacità motorie [Filippone et al, 2007], disfunzioni posturali [Trevelyan et al, 2006].
Per tali ragioni l’opportunità di giocare e apprendere nell’ambiente esterno è stata inclusa nel curricolo educativo scolastico in molti paesi [Björklid, 2005] e, nel prosieguo della crescita, pensata come strategia idonea allo sviluppo delle competenze di vita (life skills), dell’apprendimento nell’arco della vita (life long learning), perché basata sulla sfida di situazioni problema che impegnano la persona nella ricerca di risposte e soluzioni individuali e di gruppo. In sintesi le attività all’aria aperta e nella natura, costituiscono una cornice di apprendimento basata sull’esplorazione e il gioco libero come opportunità arricchite di sviluppo, maturazione e promozione della salute psico-fisica (senso-motoria, cognitiva, emotiva, affettiva, sociale) [Brodin, 2009, p. 99].

OE ed educazione alla sostenibilità ambientale
Il contatto diretto con la natura rischia di essere sminuito nell’odierna società, dove un maggiore ammontare di interazioni avviene attraverso la tecnologia digitale che, se non ben impiegata, può creare disconnessione con la realtà [Brodin, 2009, p. 22]. La tecnologia, viceversa, può integrarsi come supporto all’OE attraverso l’uso subordinato di cellulari o tablet che possono documentare le esperienze attraverso foto, filmati, coordinate GPS da richiamare e analizzare in momenti successivi.
Un tale approccio diviene rispettoso anche dell’educazione ambientale: non è più necessario strappare la foglia, o catturare l’insetto, per uno studio successivo, ma basta fotografarlo o filmarlo per fissarlo su una memoria digitale fruibile a lungo nel tempo. Un importante effetto dell’OE, allora, è l’incremento di un positivo sentimento verso la natura, una sorta di armonia e unità ritrovata che implementa il senso di libertà, di benessere, di rispetto, dell’ambiente che ci circonda [Gurholt, 2014, p.
241] e, nel contempo, incrementa consapevolmente la responsabilità ecologica e l’amore verso la natura: “Se la gente realmente ama e ha cura dell’ambiente naturale, sarà più incline ad agire per proteggerlo e conservarlo” [Hill, 2013, p. 23].
L’odierna urbanizzazione, l’estremo utilizzo della tecnologia, possono minare la naturale e umana relazione con la natura, sortendo effetti negativi sui comportamenti assunti verso l’ambiente visto unicamente come risorsa da sfruttare [Higgins,1996]. Investire più tempo nel contatto con l’ambiente naturale, cominciando nell’infanzia, per educare in e con la natura, può sollecitare comportamenti ecologicamente rispettosi anche nella vita quotidiana, come il risparmio dell’acqua o il riciclaggio dei materiali di scarto [Mannion et al., 2013, p. 794].

OE e il luogo, il posto, l’ambiente
Il luogo di apprendimento è un elemento chiave all’interno dell’OE. L’ambiente esterno offre innumerevoli cornici didattiche in cui può svilupparsi l’apprendimento ma, nonostante ciò, pochi insegnanti o educatori si allontanano dalla classe o dal locale chiuso, per aiutare i loro allievi ad apprendere [Brodin, 2009, p.20]. Questo può essere spiegato con la concezione riferita al grado di sicurezza e ai rischi potenziali [Mannion et al, 2013 p 798] che l’ambiente all’aperto presenta rispetto allo spazio chiuso, libero da fattori esterni come il tempo atmosferico o dalle distrazioni causate da situazioni impreviste e inattese.
La pedagogia del luogo descrive una cornice che è correlata all’ambiente, alla considerazione che esso può divenire un sito di apprendimento. Inoltre un posto diviene intriso di significati attraverso le interazioni che le persone hanno con esso [Hill, 2013, p. 25], ciò significa varietà interpretativa e relazionale che varia, da persona a persona, caratterizzando situazioni dinamiche e non statiche.
Ogni posto, poi, si apre a diverse possibilità educative, la pedagogia del luogo usa queste opportunità uniche in ordine all’insegnamento al e sul posto [Gilbertson, 2006 p. 13]: una lezione sulla flora può essere molto più stimolante e personalizzata in un parco pubblico o in un bosco, una lezione sugli animali acquatici può suscitare massimo interesse e comprensione se realizzata vicino a un fiume o laghetto, un apprendimento relativo alla geografia fisica dei luoghi è senz’altro più proficuo se realizzato con un trekking che li attraversi. Pertanto è importante scegliere il posto giusto per il giusto apprendimento o la giusta esperienza.
Non si può pensare al luogo dell’OE facendo solo riferimento al bosco o all’ambiente selvatico, ignorando i posti più vicini a noi. I luoghi fondamentali, per una educazione all’aperto, sono quelli quotidianamente fruibili, ivi comprese le aree abitative locali, in cui scoprire quanto l’ambiente aperto possa offrire [Hill, 2013, p. 26]. A livello scolastico, ad esempio, il luogo all’aperto fondamentale è il giardino della scuola o il quartiere di residenza, utilizzabile tutti i giorni, entrambi preparatori a eventuali uscite o escursioni didattiche in altri luoghi come parchi pubblici, fattorie, boschi o foreste. Il giardino scolastico non deve essere vissuto solo come luogo ricreativo [White, 2004], ma deve assumere la veste prioritaria di luogo educativo quotidiano.
L’OE, se acquisita come valida strategia educativa, non può essere relegata a uscite sporadiche o settimanali, ma deve accompagnare costantemente il cammino formativo dell’infanzia e adolescenza per divenire uno stile di vita nell’età adulta e anziana. Abituare i bambini ad avere confidenza con l’ambiente esterno relativo al proprio quartiere di residenza, con la propria scuola, i giardini, i parchi in esso presenti, significa indurre sicurezza nei luoghi di vita e facilitarne il loro utilizzo anche nel tempo libero.

OE: inclusione e socializzazione
L’OE è un processo in divenire dove il supporto reciproco e le innumerevoli opportunità di azione rendono le esperienze estremamente inclusive [Gair, 1997].
L’inclusione può essere definita in diversi modi: essere parte di un gruppo, avere accessibilità alle attività da svolgere, avere eguali opportunità di partecipazione.
D’altra parte, come sostengono Hopkins e Putnam [1993], tre sono i componenti importanti nell’OE:
1) se stessi: la partecipazione individuale nelle esperienze OE può sollecitare e incrementare la consapevolezza di sé e l’autostima;
2) gli altri: il gruppo richiede relazione, cooperazione e forgia le competenze sociali;
3) l’ambiente circostante: provvede una cornice ricca di stimoli in continuo cambiamento, che sollecita svariate attività, anche di sfida (soluzione di problemi). Quando poi l’ambiente esterno diviene l’arena delle proprie avventure, ad esempio nelle attività scout o nel trekking itinerante, la conoscenza e la consapevolezza della natura contribuisce allo sviluppo psico-fisico dei partecipanti grazie al tipo e varietà di esperienze, al lavoro di gruppo, alla relazione amicale con i partner, all’assunzione di leadership [Brodin, 2009, p. 100].
Proprio il lavoro di gruppo, sollecitato nelle situazioni OE, viene attivato dalla impossibilità, molto spesso, di poter raggiungere gli obiettivi da soli per cui si rende necessario lavorare insieme, aiutarsi reciprocamente, sostenersi emotivamente e, in ultima analisi, prendersi cura dell’altro. In una cornice di gruppo, come quella appena descritta, si aggiunge la necessità di prendere decisioni e confrontarsi con le conseguenze che da esse derivano, in altri termini si sottolinea la necessità di partecipare attivamente, consapevolmente e, anche attraverso l’esperienza educativa dell’errore, in modo competente [Massey & Rose, 1992].

OE e inclusione delle persone disabili
Diversi studi hanno mostrato che le attività outdoor promuovono l’inclusione delle persone disabili [Cuvo et al., 2001; Doctoroff, 2001; MacKay, 2002; Holman et al 2003; Spencer, 2003; Magnusson, 2006; Todd & Reid, 2006] purché si operi un adattamento dell’ambiente all’aperto e si curi sia la qualità delle situazioni educative sia la leadership [Brodin & Lindstrand, 2006].
Sul versante dell’inclusione le attività OE mostrano benefici effetti psico-fisici, riferiti al benessere individuale, sentirsi bene, e alla salute, stare bene [Brodin, 2007]. Tuttavia il valore dell’OE per le persone con disabilità, adulte o giovani che siano, è stato spesso sottostimato e trascurato, anche pensando all’apprendimento lungo l’arco della vita come sottolineato dalla Commissione Europea.
L’OE, viceversa, è molto naturale per i bambini piccoli, significa libertà, divertimento, piena possibilità di muoversi e agire con poche restrizioni: correre, saltare, arrampicare, esplorare la ricchezza della natura come una naturale sfida che coinvolge tutti. Nell’infanzia, l’educazione 0-6 anni è una cornice inclusiva di cui tutti i bambini (nella loro diversità anche estrema) ne sono parte. Come sottolinea Brodin [2009, p. 105] fino all’età di 4 anni i bambini si accettano per quello che sono e le loro differenze creano pochi problemi, il loro veloce e differenziato sviluppo rende comune il senso di diversità, dopo questo periodo il bambino inizia a divenire più sensibile alla varietà di differenze. Quando i bambini iniziano la scuola a 6 o 7 anni di età, le differenze tra loro appaiono più visibili, nel gioco libero diviene più evidente la difficoltà di alcuni bambini a prendervi parte, il disabile allora riconosce di avere limitazioni rispetto ai pari. Negli anni successivi l’orientamento verso la competizione e lo sport può determinare l’esclusione dei bambini meno abili o con problemi. L’OE può essere un’attività molto più inclusiva rispetto all’educazione tradizionale in forza di svariati motivi:
• stimola il desiderio di apprendere attraverso il divertimento e la semplificazione dei compiti richiesti propone il gioco libero come la più vitale e naturale modalità di apprendere, per tutti i bambini [Gray, 2015]
• presenta poche restrizioni rispetto al chiuso: spazi più ampi per muoversi, nessuna forzatura a dover stare fermi e seduti, possibilità di esplorare l’ambiente [Bjorklid, 2005; Dahlgren & Szczepanski, 2005]
• rende più semplice, alle persone con disabilità, l’essere rilassate e in agio. Le persone disabili hanno bisogno di un ambiente tangibile per facilitare la ricezione, l’elaborazione e l’immagazzinamento delle informazioni, hanno bisogno di tempi di apprendimento dilatati, sono facilitate da situazioni concrete che possono bilanciare i loro bassi livelli di astrazione, hanno bisogno di ricorrere al corpo-movimento per vivere e comprendere i concetti di spazio, tempo, qualità, quantità e causa-effetto
• facilita l’apprendere attraverso tutti i sensi (gusto, odorato, visione, tatto, udito) attraverso l’agire concreto sull’ambiente e le situazioni [Brodin, 2009]. Nell’educazione all’aperto può risultare più semplice facilitare la partecipazione strutturando i compiti e promuovendo routine, attraverso l’utilizzo o la predisposizione di: ambienti accessibili, materiali adatti e destrutturati (meno tecnici), azioni facilitate, soluzioni di problemi personalizzabili [Doctoroff, 2001; Brodin & Lindstrand, 2006]. Nel caso delle persone con disabilità può essere necessario instaurare delle routine come forma di supporto che possa facilitare il loro coinvolgimento e partecipazione.
Considerando le varie tipologie di disabilità ci sono differenze nell’evidenziare programmi di OE, ad esempio: l’accessibilità delle persone su sedie a ruote differisce da quella di persone con difficoltà di apprendimento, oppure il termine bambini con bisogni speciali descrive tutti i bambini che sono caratterizzati con un certo tipo di disabilità. L’educatore deve considerare i bisogni individuali e l’accessibilità dei bambini per poter applicare l’OE.
L’approccio integrale dell’OE può essere visto nel fatto che apprendere all’aperto sollecita i livelli fisici, emotivi, cognitivi, sociali e spirituali degli individui [Gilbertson, 2006, p. 5]. Ciò apre nuove possibilità di apprendimento rispetto alla educazione tradizionale che chiaramente pone la sua attenzione sul livello cognitivo. Per i bambini che hanno problemi di apprendimenti a livello cognitivo, l’OE propone nuovi modelli e livelli di apprendimento. Ogni persona può utilizzare lo stile individuale con cui apprende più efficacemente e utilizzare le varie forme di intelligenze indicate da Gardner [1987].
OE può dunque sostenere i bambini con bisogni speciali le cui attitudini verso l’apprendimento e la scuola sono spesso demotivate da esperienze di fallimento legate a una educazione selettiva basata sulla prestazione [Wilson, 1994, p. 159].
Molti bambini con disagi di vario tipo, che vivono insuccessi nella educazione tradizionale in classe, dimostrano successo nelle situazioni di apprendimento all’aperto [Price, 2015; Gilbertson, 2006, p. 54] incrementando l’autostima e la sicurezza di sé [Berger, 2008; Passarelli et al, 2010].
Il riuscire a fare…, il sentirsi capace di…, sappiamo molto bene, sono aspetti essenziali dell’apprendimento in ordine alla motivazione e al piacere di essere partecipi delle esperienze formative. L’OE con la sua ampia gamma di approcci e situazioni può incoraggiare l’attitudine di questi bambini e può convertire l’apprendimento in un eccitante e piacevole processo. Queste emozioni positive aprono la mente a un’ampia gamma di opzioni cognitive e comportamentali [Passarelli et al, 2010, p. 122] e inoltre incrementano la quantità e qualità degli apprendimenti stessi. L’inclusione richiede un elevato livello di collaborazione all’interno della classe, e quando i gruppi apprendono insieme all’aperto si osserva un incremento nel livello di interazione sociale e cooperazione tra pari [Berger, 2008 p. 323]. I bambini con bisogni speciali sono spesso iper-protetti dai genitori, istruttori o insegnanti, sebbene sia cruciale dare a questi bambini una possibilità di distinguere se stessi e avere opportunità di dimostrare le loro abilità e competenze. Un possibile approccio per raggiungere questo obiettivo è veicolato proprio dall’OE, dalle sfide che propone, dalle svariate esperienze che possono garantire a ciascuno di mostrare il proprio talento personale nell’apprendimento [Dahlgren et al., 1998, p. 17].

Considerazioni conclusive
L’OE rappresenta una strategia educativa che completa e approfondisce l’educazione tradizionale, soprattutto dal punto di vista qualitativo. L’esperienza concreta, emotiva, conoscitiva con l’ambiente esterno, si realizza attraverso la relazione diretta con gli eventi e le situazioni là ove queste si manifestano, di prima mano, in pieno coinvolgimento di tutta la persona.
L’educazione all’aperto sostiene il naturale bisogno umano di contatto con la natura e il piacere di agire in essa e con essa, anche in relazione a una maggiore consapevolezza che l’ambiente naturale è la nostra casa e richiede amore, ancor prima che rispetto.
Nella moderna società, industrializzata, tecnologica, digitale, l’OE ripropone la centralità del corpo e del movimento, l’uso della sensorialità, la sollecitazione del benessere psico-fisico e il piacere di essere protagonisti del proprio agire, del proprio decidere, apprendere ed evolvere. Tutta la strategia è orientata a rivestire di umanità lo sviluppo e la crescita di ciascun individuo, ricollocandolo nella culla delle sue radici, quella terra, quell’ambiente che, ormai abituati a padroneggiarlo in tutti i sensi, anche negativi, non consideriamo più come nostra casa e ricchezza immensa per la nostra vita.

3. la grande esperienza delle scuole libertarie

Nel numero estivo 2016 della “Rivista Anarchica” è apparso uno speciale sulle esperienze delle scuole libertarie in Italia; riportiamo uno stralcio del servizio curato da Francesco Codello, selezionando quelle esperienze che più hanno puntato sull’educazione all’aria aperta; gli interventi sono stati scritti dagli operatori e dai genitori delle scuole stesse.

I bambini di Fucina Buenaventura saltano, si arrampicano, corrono…
C’è un luogo nella campagna, a Piumazzo, a metà strada tra Modena e Bologna che si nasconde tra vigne e alberi di pere, tanti alberi di pere. È una villa settecentesca dimenticata lì all’ombra delle prime colline, troppo piccola e troppo grande. In fondo al giardino c’è la casa del custode, un angolino che sembra stare in disparte. Il giardino e la villa sono popolati di paesani di Piumazzo, di woofer [lavoratori agricoli stagionali volontari n.d.r.] che si fermano nella bella stagione parlando mille lingue, di persone di ogni età che praticano scultura e altre attività con varie associazioni. La casa del custode è popolata dai bambini di Fucina!
I bambini di Fucina saltano, si arrampicano, corrono con grossi stivali di gomma colorati che poi si tolgono per scaldare i piedi davanti alla stufa mentre si immergono in libri piccoli come loro. I bambini spuntano dalla serra che hanno costruito una martellata alla volta, raccolgono erbe selvatiche, e quelle che non mangiano le catalogano con pazienza da amanuensi.
Gli adulti accompagnatori si vedono poco, ma hanno molti occhi pronti a cogliere ogni dettaglio, e ognuno di quei dettagli diventa argomento di discussione, di confronto, forse lo spunto che fa fiorire ipotesi per una ricerca, o forse una situazione nuova da condividere e affrontare.
Altri adulti, i genitori, si vedono ancora meno eppure sono presenti, silenti, un po’ stanchi ma con le maniche sempre rimboccate, e fanno in modo che tutto questo succeda.
Fucina Buenaventura è una comunità auto-educante e autogestita che ora coinvolge un gruppo di bambini tra i 4 e i 9 anni, i loro genitori, gli accompagnatori, diversi insegnanti volontari di materia, qualche saggio e molti amici.
Spesso qualcuno si affaccia a Fucina desideroso di partecipare: l’avvicinamento è cauto, un passo alla volta, e la relazione preziosa, da coltivare; ci sono incontri, laboratori, tempi larghi per conoscersi e piacersi oppure allontanarsi.
Fucina ha una sua stagionalità: a primavera, come gemme, si incontrano le famiglie, che fioriscono verso l’estate dopo che le radici hanno avuto modo di farsi forti, quando si decide di essere insieme parte di questo percorso e gli accompagnatori studiano sul nuovo gruppo, i genitori modificano lo spazio – materiale quanto interiore – per accogliere ognuno, i bambini si conoscono; a settembre spuntano le prime fronde che vanno a farsi sempre più vigorose ed elastiche ogni anno che passa.
A Fucina Buenaventura l’assemblea, basata sul consenso, è luogo gestionale ma anche di confronto, in cui ci si interroga e ci si accoglie, in cui genitori, accompagnatori e insegnanti volontari, con pari dignità, elaborano le decisioni.
Il dialogo è assiduo, nella condivisione dei valori e dei metodi come nell’organizzarsi: questo porta una forte coesione e un grande accrescimento – di gruppo, ma anche personale – attraverso la disponibilità a mettersi sempre in discussione e incoraggiando l’ascolto delle ragioni dell’altro, in una pratica continua di cura e riassestamento.
Il quotidiano, invece, è autogestito e organizzato dai bambini e dagli accompagnatori attraverso le proposte che arrivano da ognuno: non c’è valutazione ma continuo confronto, non ci sono gerarchie tra persone e nemmeno tra i saperi.
fucinabuenaventura@gmail.com
http://www.fucinabuenaventura.wordpress.com

I Prataioli: un borghetto, una casa senza recinzioni, aperta al mondo
È difficile parlare dei Prataioli, se non partendo dallo spazio in cui viviamo ogni giorno.
La casa che tra bambini e adulti stiamo autogestendo si trova al Piccolo, un borghetto circondato da prati e boschi a Pavullo nel Frignano (Modena).
Per scelta non ci sono recinzioni che ci separano da essi, ognuno e ognuna si sposta liberamente all’interno e all’esterno, e i confini che delimitano il nostro movimento individuale sono stabiliti in base a limiti naturali – le strade sterrate che ci circondano – o ad accordi collettivi. Lo spazio interno è costituito da 4 stanze, disposte su due livelli: una stanza atelier; una “stanza morbida” con cuscini e materassi e zona lettura; la “stanza della concentrazione”, dedicata a chi sta intraprendendo il percorso della scuola primaria e a coloro che desiderano stare in un luogo silenzioso in cui possano concentrarsi, un’aula autogestita da bimbi e bimbe, con piccolo teatrino.

È nella dimensione collettiva che vengono prese le decisioni: nell’assemblea fra bambini/e e accompagnatori/trici si affrontano i problemi che giorno per giorno emergono, si cercano soluzioni e se necessario si creano nuove regole, si propone e si sceglie cosa fare, ci si confronta; ma non meno importante è l’assemblea degli adulti che, gestendo concretamente il progetto e riflettendo costantemente sul suo senso, fa sì che i percorsi emersi nella comunità dei bambini e dalla loro assemblea, si possano realizzare.
Ciò che quotidianamente impariamo nasce dalla possibilità di vivere e fare esperienza diretta di ciò che ci sta attorno e che ci interessa: ricerchiamo assieme ciò da cui siamo attratti, seguendolo passo per passo, secondo i tempi che ogni percorso richiede. Per farlo inventiamo materie (come “Esplorazioni”, un’originale variante della geografia nata dalla nostra passione per le mappe); approfondiamo il nostro legame col territorio trasformando i nostri martedì in giornate itineranti, alla scoperta del mondo oltre il Piccolo, e tessendo relazioni con chi lo vive (sono molto più buone le uova quando le si va a chiedere alla vicina!); viviamo avventure rocambolesche armati tanto di spade di cartone quanto di lenti d’ingrandimento per indagare il microcosmo che sfuggirebbe al nostro sguardo; impariamo a leggere in cima agli alberi e a far di conto in bottega con la lista della spesa in mano… Perché questo è il sapere: una relazione col mondo e non il mero ottenimento di informazioni su di esso.
iprataioli@gmail.com

Lilliput e Serendipità: un asilo e una scuola nel parco
A Osimo in provincia di Ancona nel 2009 nasce Lilliput, nel 2013 nasce Serendipità, entrambe le esperienze sono guidate da una ricerca pedagogica appassionata che fa dello sviluppo libero e olistico del bambino il suo aspetto fondante. L’osservazione attenta dello sviluppo di ciascun bambino e la preparazione di un ambiente adeguato fornisce al bambino il nutrimento necessario a soddisfare le sue esigenze di crescita. Crediamo che lo sviluppo di ciascun bambino avvenga in modo olistico e che ogni sua parte (cognitiva, fisica, emotiva, psicologica) meriti attenzione senza distinzioni di livello o gerarchia. Crediamo che il bambino vada supportato nel suo sviluppo emotivo e nella conoscenza di sé, del proprio mondo interiore, delle proprie emozioni attraverso la cura del dialogo e dell’alfabetizzazione emotiva. Crediamo che i bambini abbiano il diritto di imparare a scegliere, attraverso la conoscenza di sé e la pratica della vita collettiva conviviale. Crediamo che il bambino possa diventare capace di responsabilità verso il proprio percorso di sviluppo solo se lasciato libero di scegliere, di sbagliare, di capire, di ricominciare.
Serendipità [se-ren-di-pi-tà] n.f. invar.: lo scoprire qualcosa di inatteso e importante che non ha nulla a che vedere con quanto ci si proponeva o si pensava di trovare | attitudine a fare scoperte fortunate e impreviste; capacità di cogliere e interpretare correttamente un fatto rilevante che si presenti in modo inatteso e casuale.
Il nostro nome: una dichiarazione di intenti, la sintesi di un approccio educativo, la base e la sostanza del nostro progetto, un augurio. Serendipità è l’esito naturale di un progetto nato nel 2009 nel cuore di un parco pubblico di Osimo, in una piccola casa dall’aspetto onirico. Un asilo sperimentale, Lilliput, è nato per “serendipità” e fondato sulla ricerca pedagogica, sull’osservazione, sulla cittadinanza attiva, sul buonsenso, sulla speranza. Una sperimentazione che ha coinvolto anche le famiglie, andando a sostenere e tutelare quella fascia della maternità e dell’infanzia che aveva pochi spiragli di ascolto e riconoscimento nella nostra zona. L’apertura di una realtà in continuità rivolta alla fascia dell’infanzia e della primaria è stato un dovere e un diritto.
Se Lilliput è inserito all’interno di un parco, per Serendipità è stato scelto l’ambiente rurale, una casa in mezzo alle campagne marchigiane, un grande giardino, un ettaro di terra incolta per l’esplorazione autentica della varietà e complessità biologica e campi a perdita d’occhio, perfetti per esplorazioni e avventure. La terra è la nostra classe, le passeggiate senza meta le nostre discipline, i portoni a cui bussare i nostri compiti, i dialoghi con gli anziani i nostri programmi, la memoria il contenuto dei nostri quaderni. Una delle impronte più determinanti del nostro approccio educativo con i bambini è quella Montessoriana, di cui prendiamo i principi, i concetti, la filosofia e lo sguardo delicato e scientifico sullo sviluppo del bambino.
Lo spazio interno della scuola è un ambiente preparato, ogni materiale e area sono studiati per rispondere ai bisogni psico-fisici dei bambini rispettando le differenti fasi evolutive, costantemente osservate e corrisposte attraverso l’ambiente. La nostra idea di libertà e autonomia dei bambini è strettamente collegata all’organizzazione e studio dello spazio. L’indipendenza di pensiero passa anche attraverso l’indipendenza d’azione e apprendimento. Il paradigma è completamente ribaltato, rifuggiamo la centralità dell’insegnamento a favore della sovranità dell’apprendimento, i bambini imparano da sé, conquistando il loro sapere attraverso l’interazione con l’ambiente circostante, fatto di relazioni e sperimentazioni. I bambini apprendono dalla vita, da ciò che accade, dalle passioni che li muovono, dalle domande che incontrano nelle piccole cose quotidiane, incidentalmente, o come ci piace dire, per serendipità, cioè scoperte inattese, capitate mentre si cercava altro, che diventano centrali nella nostra ricerca.
Una delle caratteristiche della nostra realtà è quella del sostegno e dialogo con le famiglie. Prima di poter iscrivere i propri figli, le famiglie devono seguire un percorso insieme di 6 mesi, con lo scopo di costruire una cornice di senso e valori all’interno della quale inserire poi le pratiche. Un percorso di decostruzione, e di comprensione delle proprie scelte. Lo scopo non è dare risposte né affermazioni ai genitori, ma aiutarli e aiutarci a porci le domande giuste, rispolverando i bambini educati che siamo stati e gli adulti educanti che siamo diventati, un percorso di ricerca personale di liberazione dalle catene delle aspettative, paure, ansie, speranze, desideri, che sono il principio per un’autentica educazione libertaria e liberatoria. Gli adulti, sia genitori sia accompagnatori, lavorano insieme per rendere possibile tutto questo per gettare le basi di quella che amiamo definire “una comunità educante”, non punto di partenza ma meta del nostro progredire come genitori e accompagnatori, come esseri umani che continuamente mettono in discussione le pratiche implicite, date per scontate, per scegliere, finalmente. Serendipità per noi non è un servizio di cui usufruire ma un progetto a cui partecipare in corresponsabilità. È scegliere di scegliere.
lilliput2009@hotmail.it

I Saltafossi: per un’educazione non autoritaria
Ci siamo incontrate a Bologna una decina di anni fa intorno ad un’utopia e un sogno: dare vita a un progetto educativo basato sulle pratiche dell’educazione non autoritaria, libertaria e democratica e volto alla sensibilizzazione delle persone grandi e piccole alla relazione, all’arte, all’ecologia, un progetto dove le scelte filosofiche, economiche e operative andassero nella direzione di uno stile di vita equo e solidale, sobrio e felice.
Il gruppo di accompagnatori è un collettivo che cresce insieme e si confronta continuamente.

Tutti i Saltafossi grandi e piccoli si confrontano per capire se per quella persona è possibile intraprendere un così complesso percorso di convivenza e rispetto reciproco dove è necessario smontare le proprie idee pregiudiziali sull’educazione e mettersi in gioco in una relazione non adulto-centrica e autentica. Il ruolo dell’adulto come accompagnatore ma anche come testimone, coordinatore e ricercatore.
Siamo ospiti di due grandi case attigue dove vivono e convivono con la scuola due famiglie che hanno partecipato alla fondazione del progetto. Le case si trovano nelle campagna di Cadriano alle porte di Bologna.
In questi spazi abbiamo organizzato seguendo le richieste dei bambini una grande e fornitissima biblioteca, un luogo per la danza e le attività teatrali, musicali e psicofisiche, un luogo dove è possibile accedere ai materiali per atelier artistici o di assemblaggio, una fornita cassetta degli attrezzi, macchine da scrivere, computer, macchina da cucire, lavagne, mappe geografiche, giochi da tavolo, giochi vari. Tutto quello che ci serve… che ogni giorno un gruppo di bambini riordina per lasciare la casa alla vita dei suoi abitanti.

assmerzbau@gmail.com

http://www.associazionemerzbau.wordpress.com

2. La natura ad un passo da casa

Il Parco Villa Ghigi è un grande laboratorio naturale, che cresce dentro la città e per la città: un luogo speciale di sperimentazione, in cui osservare, fare, apprendere, mettersi in gioco, collaborare, condividere esperienze.
Un’area verde di circa 30 ettari di proprietà comunale a breve distanza dal centro storico di Bologna e già immersa in un contesto collinare, con belle vedute sulla città e sulle più antiche emergenze architettoniche sorte in collina. Lungo i sentieri si incontrano lembi di bosco, ampi prati, siepi e arbusteti e bei filari di peri, meli, susini, azzeruoli e fichi appartenenti a cultivar tipiche del bolognese.
Si tratta di un mosaico di ambienti che disegnano un paesaggio vario e suggestivo, dove si rinvengono numerose specie animali tipiche dell’ambiente collinare, un luogo particolarmente vocato all’educazione ambientale e un prezioso serbatoio di biodiversità.
Qui di seguito riportiamo due progetti che declinano in modo diverso l’interazione con la natura, nell’idea che noi tutti abbiamo bisogno di piante, animali e di elementi naturali e questa fondamentale esigenza deriva da un lontano passato, quando l’uomo viveva a stretto contatto con la natura.
Questo legame sembra essere innato, qualcosa di profondo con una base genetica, legata all’evoluzione della specie.
Nel progetto “La scuola nel bosco” il contatto è istintivo, non mediato, emozionale e la selvatichezza del contesto gioca un ruolo importante.
In “Natura come cura”, invece, gli elementi naturali diventano un mezzo per perseguire specifici obiettivi (in orti, giardini, aree verdi belle e curate) in un certo senso si può dire che qui la natura è governata anche se in realtà continua a sorprenderci con la sua imprevedibilità.

L’esperienza al Parco Villa Ghigi
La Fondazione Villa Ghigi ha la propria sede all’interno del parco Villa Ghigi, opera nel campo della tutela e valorizzazione della natura e dell’ambiente mediante azioni tese a promuovere la conservazione dell’ambiente, la diffusione delle conoscenze sugli aspetti naturali e storico-paesaggistici del territorio e una fruizione consapevole e matura degli stessi.
All’attività di educazione ambientale, che ne ha fatto uno dei centri più noti e attivi in campo regionale e nazionale, affianca un notevole impegno nella divulgazione e nell’analisi, pianificazione e progettazione ambientale, con particolare riguardo per la valorizzazione degli aspetti naturali, paesaggistici e storici del territorio bolognese ed emiliano. In accordo con il Comune di Bologna, dal 2004 la Fondazione gestisce il Parco Villa Ghigi sulla base di un programma ricco e articolato che punta a custodire e accrescere il suo patrimonio vegetale, attraverso interventi di ripristino e arricchimento, adeguandosi di anno in anno alle esigenze e suggestioni dei progetti che animano questa area verde pubblica. Sempre dal 2004 la manutenzione del Parco è affidata alla Cooperativa sociale Agriverde.

1. Tutti fuori!

Quando la redazione di “HP-Accaparlante” ha proposto una monografia su “Natura ed educazione”, non ho esitato un momento e ho accettato con entusiasmo. Credo fortemente che ci sia un connubio molto forte tra educazione e natura, un’intima simbiosi dove entrambi traggono vantaggio. Le mie esperienze personali e i contatti con esperti hanno rafforzato questa idea. Sono pienamente convinto che lo spazio educativo venga influenzato dallo spazio fisico e per questo le lezioni di qualsiasi disciplina dovrebbero prevedere un momento in classe e un momento sperimentale all’esterno. Ciò serve per assimilare meglio le nozioni studiate sui libri e per creare una motivazione più concreta tramite l’esperienza e il contatto diretto con la natura. Arianna Bussolati al convegno di Negrar organizzato dalla Rete di Cooperazione Educativa fa una proposta interessante e incalza il pubblico con queste parole: “Perché non usare i sassi per calcolare, dopo aver permesso la manipolazione… O per fare insiemi e categorie… Ma anche soppesarli, lanciarli, valutare l’impatto che hanno in acqua o sulla terra, creare muri, dighe, stradine, opere artistiche… Le impronte nella sabbia o nella terra o i segni su un albero aprono tutto un mondo di letture possibili, comunque propedeutiche al leggere”. Dopotutto anche Andrea Ceciliani dice che “L’azione stessa, nelle situazioni all’aperto, implementa le abilità motorie, l’emozione di agire, la relazione diretta con i problemi che spesso, nelle situazioni al chiuso, vengono scarsamente sollecitate. Un tale contesto, tra le altre cose, rende l’esperienza più libera, interessante, divertente e sollecita un sentimento positivo verso l’apprendimento in generale”. Tutto questo avviene solo se, come dice sempre la Bussolati “A patto di lasciare gradualmente che esplorino, tocchino, osservino, inventino, creino, curino, sbaglino, correggano, conoscano i propri limiti e le proprie abilità, imparino”.
Voglio chiudere questa riflessione con le parole che spesso ripeteva la mia maestra delle elementari e che ancora oggi echeggiano nei miei pensieri di un adulto più consapevole: “Bimbi! Tutti fuori!”.
Quando la redazione di “HP-Accaparlante” ha proposto una monografia sulla natura ero vicino a Tristano e, ascoltando la sue proposte, mi sono posto alcune domande: perché ogni sabato parto e vado in collina o in montagna a fare lunghe passeggiate, spesso con amici, sia che ci sia bello o brutto tempo? Perché si sta così bene semplicemente camminando in un bosco? E le persone con disabilità possono avere anche loro questa opportunità? Cosa offre il territorio in cui vivo?
Questa monografia infatti consta di due parti, una dedicata all’outdoors education e l’altra che tratta la natura che include, che permette cioè a persone con difficoltà diverse di viverla bene. Ora, io non sono poi tanto sicuro che la natura abbia questo desiderio di inclusione, ma so che passeggiare in compagnia all’aperto apre anche i cuori e avvicina le persone.
Ho delimitato il campo di indagine al territorio che circonda Bologna, con qualche incursione in altre località emiliane, per poter meglio approfondire il discorso.
Ero partito con l’idea dell’importanza dell’offerta di strutture che permettano alle persone con disabilità di vivere la natura, e questo per svantaggi di vario tipo; ad esempio la costruzione di stradine piane per chi va in carrozzina, l’allestimento di cartelli di spiegazione in Braille e/o in un linguaggio facile da leggere, ma poi, ascoltando varie voci, mi sono reso conto che l’elemento centrale era un altro: la relazione, il fatto che ci fosse un gruppo di persone che accettasse al suo interno la diversità, per fare un’esperienza comune all’aria aperta. La natura infatti offre, a differenza delle nostre città, una molteplicità di percorsi alternativi e, allora, ecco che in gruppo si può scegliere quello che più adatto.
Attenzione però, queste considerazioni non devono legittimare la noncuranza, la non presa in carico del problema di costruire delle facilitazioni minime da parte di chi ne ha la competenza.
Ad esempio i percorsi attrezzati hanno un loro valore, una loro utilità, ma non sono la risposta definitiva.
Infine, anch’io concludo con un’esortazione: dopo aver camminato a lungo tra le nostre parole, tutti fuori, nei boschi…

Il tennis in carrozzina, per scoprire nuovi movimenti (e momenti) di sé

di Francesca Aggio, animatrice Progetto Calamaio

L’anno scorso mi sono recata insieme alla mia famiglia in vacanza alle isole Mauritius e quando i miei genitori giocavano a tennis io li osservavo. Sul campo, a fianco mamma e papà, c’era un uomo che sembrava una statua di bronzo, appena lo vidi rimasi senza fiato e credetti che madre natura avesse donato tutta la perfezione del mondo e dell’universo a lui. Si presentò come Ivan, era un ex campione di tennis russo che aveva deciso di trasferirsi a vivere in quell’isola.
Ivan si occupava anche di insegnare il tennis in carrozzina a chiunque volesse, e da subito mi convinse a provare. Grande gioia e stupore, mi piacque immediatamente.
Appena tonata in Italia, tormentai i miei perché volevo assolutamente continuare e qui la fortuna ci assistette, perché proprio nella mia città insegnava Alberto Setti, istruttore e responsabile nazionale del tennis in carrozzina. Dovevo però
scegliere se continuare il teatro che credevo fosse per me molto importante o iniziare a diventare una sportiva. Volevo mettermi in gioco, provare qualcosa di diverso e dove solo io fossi protagonista. Col tempo capii sempre di più che mi ero innamorata di questo sport, il tennis mi ha dato la sensazione di libertà, mi ha permesso di avere una valvola di sfogo, mentre imparo a colpire una pallina non mi sento sotto esame.
Sono tranquilla, se sbaglio ripeto l’esercizio e mi entusiasmo alla fine di ogni lezione, perché capisco che il mio corpo ha utilizzato parti che fino a quel momento non solo pensavo di non essere in grado di usare, ma nemmeno di avere. Un esempio potrebbe essere la posizione del mio polso destro che è sempre uguale, perché credevo di saperlo usare solo in quel modo, ma quando tengo la racchetta e devo piegare o meno il polso per impugnarla diversamente a seconda se il risultato è un dritto o un rovescio, mi accorgo che posso spostarlo come devo. Alberto è sicuramente una persona con grandissima capacità professionale, e con tanta pazienza e fiducia. Lui stesso mi dice che ogni venerdì, con me come con tutti gli altri suoi allievi, è un mettersi in gioco insieme, lui insegna, ma nello stesso tempo lui impara. Non mi pone e non si pone limiti, insieme scopriamo. Le sensazioni sono tante e tutte piacevoli, sia fisiche che psicologiche.
Con il tennis sto scoprendo che non si deve mai rinunciare alle cose, ho fatto tanti progressi, ma non solo dal punto di vista sportivo ma soprattutto di crescita personale, perché ero una persona che davanti alla prima difficoltà rinunciava, invece ora sto imparando che devo credere un po’ di più in quello che faccio.
Non devo pensare in modo negativo, ma tutto deve essere uno sprono per crescere personalmente senza temere il giudizio altrui. Le prime volte se c’era solo la mamma a vedermi, non era un problema, ma se veniva anche papà, diventavo più ansiosa, temevo un suo giudizio. Era un comportamento molto infantile, e ora questo sport mi sta aiutando ad avere un mio autocontrollo, mi devo assumere la responsabilità di fare bene o sbagliare, senza mettermi troppo in crisi, ma accettare che non tutto riesco a fare.
Consiglio ultimo: provate il tennis, il divertimento è assicurato!
Per rendere più comprensibile quello che ho voluto condividere con voi, ho preparato delle domande che ho posto ad Alberto, il mio istruttore.

Secondo te a che età si dovrebbe cominciare a giocare a tennis?
Diciamo che un’età giusta non esiste, per darti comunque qualche riferimento i bambini mediamente possono iniziare tra i 4 e i 5 anni. Con gli strumenti attualmente utilizzati, racchette corte e leggerissime campi e reti di dimensioni ridotte oltre a palle lente e leggere, alcuni bimbi iniziano addirittura ad apprendere i primi rudimenti attorno ai 2-3 anni. La cosa importante da sapere è che proprio l’uso di questi strumenti rende la prima fase di apprendimento molto semplice e poco traumatica per il corpo ancora esile di un bimbo di quell’età.
Concludo anche affermando che, chi inizia più tardi, trova comunque terreno fertile per iniziare uno sport che, aldilà del lato agonistico, permette di essere praticato per tutta la vita con grande soddisfazione.

Nella tua carriera da giocatore quali sono stati i risultati che hai ottenuto?
Purtroppo non eccelsi. Sono stato classificato in 3° categoria nella prima metà degli anni ’80. Ho iniziato proprio nel 1986 invece a intraprendere il percorso dell’insegnamento che, ad oggi, posso affermare mi ha dato molte più soddisfazioni.

Perché hai deciso di intraprendere questa avventura con le persone in carrozzina?
È stata inizialmente una casualità. Nei primi anni di insegnamento avevo avuto un ragazzino di nome Fabian Mazzei. Fabian da grande appassionato di sport non si limitava al tennis ma giocava a calcio e sciava. Proprio durante una gara amatoriale di sci ha subito un incidente che gli ha cambiato la vita. La mancanza delle reti di protezione laterali al percorso ha fatto sì che la sua caduta si sia trasformata in incidente gravissimo, la sua corsa dopo la caduta si è purtroppo fermata contro un albero che gli ha spezzato la schiena. A 19 anni, dopo un lungo percorso riabilitativo, Fabian deve accettare l’idea di vivere la sua vita su due ruote invece che su due piedi. Ma lo sport rimane una fiamma viva dentro di lui e inizia, sempre nel nostro centro sportivo, a giocare in carrozzina. In pochi anni diventa il più forte giocatore d’Italia e la sua carriera di giocatore lo porta ad avere esigenze che la dirigenza di allora non poteva soddisfare, cosa che inevitabilmente ci allontana. Durante un Campionato Italiano giocato a Bologna riprendiamo i contatti e dopo qualche anno di tentennamento nel 2007 mi chiede di diventare il suo Coach. La sfida mi sembrava interessante, dovevo dimostrare a me stesso di essere in grado di ampliare e trasformare le mie conoscenze da insegnante di tennis. La mia curiosità è stata inevitabilmente stuzzicata e abbiamo iniziato il nostro percorso che, nel giro di un anno, ha portato Fabian a raggiungere il suo best ranking: n. 18 del mondo. Nei due anni successivi i suoi continui miglioramenti hanno dato grande visibilità al mio lavoro e mi hanno permesso di entrare a far parte del board tecnico della Nazionale di tennis in carrozzina di cui oggi sono Responsabile Tecnico Nazionale.

Avevi avuto già modo di interagire con persone disabili?
Sì, ma di altro tipo. Avevo avuto, nei primi anni di insegnamento, una ragazzina con sindrome di Down, inserita in un gruppo di bimbi. Una bellissima e impegnativissima esperienza che è però terminata dopo un anno.

Con che tipo di disabilità lavori?
Solo con quella di tipo fisico. Non ho competenze sulle altre tipologie di disabilità nonostante l’esperienza fatta nei miei primi anni di insegnamento come già riferito.

Quando hai iniziato a insegnare alle persone con disabilità quali sono state le difficoltà che hai incontrato?
Io personalmente nessuna. Le difficoltà sono soprattutto legate alle barriere architettoniche e al reperimento degli strumenti necessari, le carrozzine sportive. In Italia siamo ancora indietro nello sviluppo dell’accessibilità sia per motivi strutturali, città vecchie e quindi difficilmente modificabili con i giusti criteri di accessibilità, che per motivi culturali, ad esempio la gestione della disabilità con parametri molto diversi da quelli esclusivamente assistenzialisti. Ma il problema non è solo di chi non vive a stretto contatto con la disabilità e pensa che le persone disabili debbano vivere in un mondo a parte anziché essere parte del mondo. Ti posso dire che difficoltà molto grandi sono invece legate alla mentalità delle persone che gravitano attorno alla persona disabile, te ne indico una su tutte: la scarsa volontà di creare indipendenza, autonomia. Il tennis è uno sport individuale e responsabilizza molto chi lo pratica, si vince e si perde per proprio merito o demerito, e porta a una grande comprensione di noi stessi. Questa cosa ha un valore enorme per una persona disabile che ha bisogno di appropriarsi o di riappropriarsi della propria autonomia. Purtroppo questo valore estremamente positivo a molti fa paura.

Hai dovuto modificare qualcosa nel tuo metodo di insegnamento?
Non molto in realtà, è chiaro che alcuni aspetti fondamentali sono assolutamente diversi e quindi sono dovuto partire proprio da questi, ma il metodo di insegnamento che utilizzo per i normodotati si adatta perfettamente. Provo a chiarire il concetto: è evidente che chi gioca muovendosi su due ruote deve risolvere un problema fondamentale che chi si muove su due piedi non deve affrontare, l’uso degli arti superiori per chi gioca in carrozzina ha come obiettivo sia la mobilità sul campo da tennis che la gestione della racchetta per colpire la palla. Serve quindi creare una perfetta sinergia tra i due movimenti in modo che entrambi sviluppino energia e precisione. Bisogna poi considerare che la disabilità fisica è estremamente articolata: pensa alla differenza che può esserci tra chi ha subito l’amputazione di un piede e un tetraplegico o una persona affetta da spina bifida. Quindi, se già ogni individuo ha caratteristiche proprie che lo rendono differente da tutti gli altri, queste differenze vengono amplificate dalle variabili relative alla disabilità che lo contraddistingue. Il residuo funzionale, quindi la catena muscolare di cui può disporre, oltre ai fattori nervosi che regolano la motricità sono tutti aspetti da considerare, ma diventa tutto molto semplice se si conoscono i principi basilari che permettono al giocatore di svolgere il compito che è chiamato a svolgere sul campo: cioè colpire la palla per mandarla dalla parte opposta del campo. È chiaro che se prendiamo i grandi campioni come esempio di questo compito può sembrare (anzi lo è) tutto molto complicato, visto che la loro capacità di generare energia con grandissima precisione è incredibile; bisogna però considerare che ogni gesto tecnico ha una base di partenza che può essere considerata molto semplice per la stragrande maggioranza delle persone, basta quindi focalizzarsi su questi aspetti tecnici per creare le condizioni che possono portare quindi a ottenere il risultato richiesto. Proprio questa cosa mi ha permesso di utilizzare buona parte della mia struttura metodologica trasferendola e plasmandola sulle necessità delle persone disabili.

Hai seguito delle lezioni o hai semplicemente provato sperimentando un nuovo metodo?
Certamente mi sono dovuto documentare, soprattutto sulla parte medica, ma la sperimentazione ha avuto ed ha, ancora tutt’oggi, un ruolo fondamentale. Ogni mio allievo è stato vittima di sperimentazione da parte mia. Detto così però non sembra molto bello per cui provo a chiarire cosa intendo: ogni miglioramento che riesco a produrre in un giocatore comporta una variazione nel suo schema tecnico-tattico che, inevitabilmente, mette in evidenza anche aspetti negativi. È chiaro che se il lavoro viene svolto correttamente questi aspetti negativi incidono in percentuale minore sulla qualità del gioco, ma sono presenti e vanno osservati perché ci danno spunto sul percorso da intraprendere da quel momento in avanti. Per quel che riguarda il mio rapporto con la disabilità poi è stato fondamentale ascoltare e osservare le reazioni che Fabian per primo e tutti gli altri poi hanno durante le lezioni. Ritengo comunque che la cosa più importante sia avere sensibilità sul movimento in generale, cioè percepire ed elaborare i movimenti delle persone che hai di fronte tentando di ricreare su se stessi quelle condizioni che, nel bene e nel male, condizionano il risultato finale per poter evolvere o modificare i riferimenti utilizzati fino a quel momento. Mi sono quindi messo sulla carrozzina sportiva per capire come reagisce ai diversi stimoli il corpo di chi la utilizza, analizzando su me stesso ogni colpo del tennis e ogni spostamento necessario a coprire il campo. Da questa base e analizzando diversi video di match tra i migliori giocatori del mondo ho potuto creare le basi per il mio lavoro su Fabian che è stata quindi la mia prima cavia.

C’era qualcosa che ti spaventava?
Sono sincero non mi sono mai posto questa domanda, non perché fossi certo dei miei mezzi ma perché nel lavoro di un tecnico sportivo il fallimento è sicuramente l’aspetto più frustrante e quindi anche quello a cui bisogna abituarsi. Ma come nella prestazione sportiva, anche in quella che offre un tecnico questo aspetto diventa un forte stimolo al lavoro e alla perseveranza, quindi ho solo dedicato le mie energie alla ricerca della soluzione dei problemi che, di volta in volta, dovevo affrontare. Altro motivo per cui non mi sono posto il problema è che non ho mai sofferto di quella che potrei chiamare la paura delle differenze. Io ho a che fare con delle persone, con dei giocatori di tennis e il fatto che si muovano su due ruote anziché su due piedi non cambia nulla.

Cosa ti permette di continuare questa esperienza?
Sicuramente il fatto che mi dà forti stimoli. Sono una persona molto curiosa e la mia curiosità viene fortemente stimolata dalla ricerca di soluzioni a problemi che ancora non ho dovuto affrontare.
Per fortuna questo aspetto è relativo a entrambi i miei campi d’azione, sia quello con le persone disabili che quello con le persone normodotate. Per sintetizzare: vedere che un mio allievo riesce fare oggi qualcosa in più di ieri e la sua soddisfazione sono per me fonte di energia incredibili.

Lo rifaresti?
Certamente!

Il tempo di AllegroModerato

a cura di Emanuela Marasca

Tic… tac… tic… tac… L’orologio
le ore, il tempo, il tempo che scorre… Notte, giorno, il tempo solare… Autunno, inverno, primavera, estate, il tempo delle stagioni…
Tic… tac… tic… tac… Il metronomo
L’orologio dei musicisti…
È lui che misura e scandisce il tempo in musica…
Adagio, andante, mosso, allegro, moderato…
“Tieni il tempo” mi ripeteva continuamente il mio professore di violino, quando eseguivo gli studi per violino di Curci, e le mie ore di studio passavano dall’adagio… all’andante… al mosso… all’allegro moderato.
Ma l’orologio? Lui continuava a scandire il suo ritmo… Tic… tac… tic… tac… Il mio gatto continuava a sonnecchiare sul mio letto… A volte mi chiedevo se le sue fusa andavano a ritmo dell’orologio o del metronomo. Il suo era un tempo lento… E il mio? Abbastanza variabile!
Spesso oggigiorno si sentono frasi come “Non ho tempo”, “Il tempo passa troppo in fretta”, “Ammazzare il tempo”, “Ognuno ha i suoi tempi”. Io mi soffermerei su quest’ultima frase “Ognuno ha i suoi tempi”, cosa vuol dire? Il rispetto del tempo, il tempo che ognuno di noi per caratteristiche fisiche, psichiche e in relazione al contesto di vita si dà.

“Allegromoderato” è il tempo che ha scelto di darsi un’orchestra di Milano davvero particolare, composta da una cinquantina di musicisti tra cui persone con deficit psichici, che abbiamo contattato e che il presidente Marco Sciammarella porta avanti con grande impegno e con svariate attività.
Ve la presentiamo…

Il tempo di AllegroModerato
AllegroModerato è una cooperativa nata nel 2011 dall’esperienza ventennale della scuola di musicoterapia Esagramma, è gestita da insegnanti con competenze specifiche e con una lunga esperienza nella pedagogia e nella didattica musicale speciale. Le famiglie sono parte integrante della cooperativa e partecipano attivamente alle iniziative.
AllegroModerato accoglie persone molto diverse, con storie, famiglie e patologie diverse: ad esempio sindrome autistica, sindromi genetiche (Down, Williams, X fragile…), ritardo cognitivo, disturbi del comportamento, disturbi generalizzati dello sviluppo, disabilità sensoriale.
Sono persone che spesso fanno fatica a indirizzare il pensiero, modulare le emozioni, differenziare le esperienze, elaborare la complessità dei rapporti. Questo può impedire l’immagine di un sé come adulto, la condivisione di eventi gratificanti e prestigiosi, la conquista di solide e personali passioni, l’assunzione di responsabilità, la condivisione di spazi e tempi che non siano solo funzionalmente riabilitativi ma relazionai, cooperativi e comunicativi.
Ogni soggetto umano, per quanto sia compromesso dalla malattia nella propria autonoma dotazione di risorse e competenze, ha diritto alla possibilità di maturare la propria immagine di sé e la propria capacità di fronteggiare la realtà in termini adeguati alle capacità di cui
dispone e che può anche conseguire mediante opportuni itinerari di formazione e sostegno.
AllegroModerato crede che anche nel quadro di uno stato pronunciato di deficit psichico e mentale, l’educazione estetica (quella musicale in modo speciale) presenta caratteristiche idonee all’introduzione di una dimensione qualitativa dell’esistenza e dell’integrazione personale.
La musica è un’esperienza immediata, accessibile, gratificante. La musica ha anche un range di complessità sintattica e combinatoria molto elevata. Questa ricchezza consente elaborazioni significative dell’esperienza personale: ascoltarsi e ascoltare. Coinvolge e rinforza l’aspetto partecipativo mentale ed emotivo e permette modulazioni e condivisioni del “pensare” e del “sentire”. Permette modulazioni ed espressioni di pensieri ed emozioni anche quando la parola, gesto, rappresentazione sono compromesse.
Proprio là dove la difficoltà della gestione del pensiero, nel modulare le emozioni, nel differenziare le esperienze, elaborare i rapporti è più compromessa, più elevata/ricca deve essere la risposta musicale, che allora appare come una protesi raffinata e complessa. La musica colta porta in sé una collaudata attitudine a nutrire il legame del sentire e del pensare. L’idea quindi è che ricchezza e complessità possano nutrire l’evoluzione di atteggiamenti mentali, emotivi, relazionali migliori. Non ci sono criteri di preclusione, per ognuno viene studiato un percorso che tiene conto delle caratteristiche ed esigenze particolari.

Le attività
I corsi attivi in AllegroModerato sono: Propedeutica Orchestrale, Corso Orchestrale di Strumento, Musica da Camera, Coro, InBand, MusiMatica e l’Orchestra Sinfonica.
Sono praticati tutti gli strumenti dell’orchestra, in modo particolare i legni (violini, viola, violoncelli, contrabbassi), le percussioni, marimba, pianoforte conduttore. Mentre per la InBand sono utilizzate tastiere, sax, batteria. Il Coro ha un repertorio vario: canti popolari e di autori contemporanei, musica antica, colonne sonore e melodie composte espressamente per il Coro.
L’Orchestra è il punto di arrivo dell’impegno degli allievi nei corsi individuali e di gruppo, e i risultati che consente di ottenere sono importanti. Suonando insieme, infatti, gli allievi con difficoltà possono realizzare la soddisfazione di mettere in pratica le conoscenze musicali acquisite nei corsi Orchestrali di Strumento e Musica da Camera, e partecipare al risultato condiviso, sperimentando forme di cooperazione, attenzione, reciprocità, in modo responsabile e apprezzato. Un successo, anche in termini di padronanza di sé e di risultati comunicativi, che spesso sorprende chi ascolta e che va al di là di ogni aspettativa.

Concerti
Per sostenere la cultura della solidarietà, L’Orchestra, il Coro, la InBand e la Musica da Camera si esibiscono anche al di fuori dei consueti spazi da concerto, con particolare attenzione al lavoro sul territorio.
I musicisti di AllegroModerato suonano in orchestra con musicisti professionisti o con altre orchestre e si esibiscono in tutta Italia e all’estero, partecipando a numerosi concerti ed eventi di grande prestigio. Citiamo alcune esperienze nazionali ed internazionali: a Gyor con i giovani dell’Orchestra Filarmonica di Gyor, a Mosca in occasione del Moscow International paramusical Festival, a Milano nel maggio 2025 con i musicisti inglesi della Charity Symphony Orchestra di Southampton, oppure con musicisti italiani come Stefano Bollani a Treviso, con Eugenio Finardi a Milano, con Mussida a Bolzano.

Progetti speciali
Il progetto “Tutta un’altra musica” consiste in un’attività di laboratori musicali/ orchestrali per i bambini degenti presso i reparti di pediatria dell’ospedale Niguarda Ca’ Granda e dell’ospedale San Carlo di Milano all’interno dei quali vengono realizzati. È caratterizzato dalla figura dei tutor, musicisti con disabilità fisiche o psichiche della Cooperativa AllegroModerato che intendono svolgere un’attività di volontariato mettendo a disposizione il proprio tempo e le proprie competenze musicali a favore dei bambini degenti. È caratterizzato anche dalla singolare situazione che vede stare insieme bambini normodotati e persone con disabilità che, accomunati dall’esperienza del limite, cercano di affrontarlo positivamente in un’esperienza di condivisione e di bellezza.
Va a configurarsi quindi come un ribaltamento dell’immaginario comune che identifica la persona con disabilità solo come oggetto di cure e non come portatore di abilità.
Ciò che motiva l’impegno delle persone disabili di AllegroModerato a dar vita al progetto “Tutta un’altra musica” e quindi di prendersi carico di persone deboli, o altrettanto deboli, è il profondo bisogno da parte loro di vivere l’esperienza della donazione di sé, del proprio tempo, delle proprie capacità in una dimensione di gratuità. Questa, da una parte, indica la maturazione di un vissuto umano educato e per questo in grado di incidere nel reale, e dall’altra comunica una dimensione della disabilità che non si esaurisce nel mero limite fisico o psichico, ma anzi, che trasforma proprio l’esperienza del limite in una ricchezza da donare.
C’è però un altro tipo di motivazione che sottende il progetto e riguarda i secondi beneficiari, ovvero i bambini degenti negli ospedali. Il ricovero di un bambino in ospedale rappresenta, per lui e per i suoi genitori, un momento estremamente delicato, spesso doloroso e difficile da affrontare. Inoltre la degenza, prolungandosi anche per mesi, rischia di diventare un tempo privo di stimoli per la mancanza di attività specifiche e adeguate a vivere quel tempo in una dimensione educativa e non di abbandono del piccolo a (ACP) e dalla Società Italiana di Scienze Infermieristiche Pediatriche (Sisip), solo un ospedale su tre offre ai bambini l’opportunità di partecipare ad attività ludico-creative (letture, laboratori e altro).
“Orchestra in spiaggia”: ogni anno AllegroModerato organizza nell’ultima settimana di giugno uno stage musicale al mare. Il lavoro è finalizzato all’approfondimento della musica d’insieme in un contesto di condivisione e convivialità. Un’occasione per trovare nuovi stimoli musicali e fare esperienze di autonomia e responsabilità. Il corso è dedicato ai musicisti che vogliono tuffarsi in un’esperienza di musica a tempo pieno e realizzare, alla fine del corso, un concerto sinfonico importante. “Un’Orchestra a scuola”: AllegroModerato realizza laboratori orchestrali rivolti agli studenti delle scuole di ogni ordine e grado. Il particolare approccio proposto consente a tutti, anche senza conoscenze musicali pregresse, di sperimentare il significato di fare parte di un’orchestra sinfonica. In più, suonare con i musicisti con disabilità esperti permette agli studenti di vivere un’esperienza particolarmente significativa ed emozionante. I laboratori di “Un’Orchestra a scuola” possono essere realizzati presso la sede di AllegroModerato o presso gli istituti scolastici.
“Orchestra in classe/scuola” è invece un approccio originale agli strumenti rivolto a studenti delle scuole primarie, secondarie e superiori, che eseguono rielaborazioni di pagine famose della letteratura sinfonica. Il metodo infatti, consente di esplorare gli strumenti musicali e la sintassi della musica colta senza le necessarie conoscenze tecniche e teoriche. Questa esperienza assume valore maggiore per le classi che accolgono bambini o ragazzi con difficoltà, perché occasione di reale integrazione e condivisione. “Seminari musicali residenziali”: per un fine settimana piccoli gruppi composti da allievi e insegnanti lavorano insieme in luoghi piacevoli al mare o in montagna. Un’occasione per fare esperienze musicali, di autonomia e responsabilità, in un contesto di condivisione e convivialità.
Infine “Musica Dentro”, concerti e laboratori nelle Carceri.

Le mie statue permettono di toccare cose che nessuno ha mai toccato

di Nicola Rabbi

“Non hanno voluto farmelo toccare, perché il direttore del museo Cappella Sansevero a Napoli diceva che potevo rovinarlo; ma stiamo parlando di marmo, il ‘Cristo velato’ è un unico pezzo di marmo”. Chi sta parlando è Felice Tagliaferri, è un artista, uno scultore e ha un’altra particolarità, è non vedente da quando all’età di 13 anni un’atrofia del nervo ottico lo ha colpito. Lo spiacevole episodio del museo però diventa per lui l’inizio di una sfida che lo porterà a realizzare una copia dell’opera.
“Quando un vedente guarda una porta, guarda l’insieme della porta, ma per un non vedente la cosa è diversa; lui per poterla percepire deve ricostruirla centimetro per centimetro, in questo modo io ho rifatto il Cristo. Un collaboratore del Museo Tattile Omero di Ancona mi ha descritto centimetro per centimetro come era fatta la statua e, mentre lui parlava, io me la figuravo e creavo un mo-
dello in creta. Siamo stati per tre giorni praticamente chiusi in una stanza, poi, una volta uscito, ho impiegato due anni a scolpirla”. L’ha intitolata il “Cristo rivelato”, nel senso che, rifacendolo, l’aveva velato per la seconda volta, ma anche l’aveva reso accessibile, svelato, ai non vedenti che avrebbero potuto toccarlo a loro piacimento.
Felice Tagliaferri abita a Tavernelle, poco fuori Bologna, è uno scultore attivo da una ventina di anni che dal 2006 ha un suo atelier ne “La chiesa dell’arte”, una piccola chiesa restaurata grazie a una fondazione bancaria locale, che raccoglie le sue opere. “Lo scultore fa ciò che vede, lo scultore cieco vede ciò che sente” afferma Felice e in effetti è proprio così, le sue statue non sono solo da vedere ma anche da toccare e con il tatto ti accorgi del significato. Felice mi prende le mani e le porta su una palla di marmo bianco con un buco in mezzo. Poi me la fa per- correre con i polpastrelli fuori e dentro e mi dice: “Vedi fuori come è liscia ma dentro nel buco, profondo e difficile da raggiungere, diventa ruvida e tormentata” ed è un modo per farmi capire che quella palla rotta è l’uomo che fuori dà una certa immagine, mentre al suo interno ne ha un’altra, ben diversa.

Hai mai toccato l’onda del mare?
“Le mie statue poi permettono di toccare cose che nessuno ha mai toccato” mi dice in modo enigmatico, poi mi fa tastare l’onda del mare, i capelli mossi dal vento, l’ombra dell’uomo e l’immagine nello specchio: in effetti tutte situazioni non afferrabili, se non grazie alle statue di Felice. Una grossa testa di Cristo bendato attira la mia attenzione: “Mi è venuto in un momento di ironia – spiega sorridendo – solo io cieco? No, anche lui”.
Questa testa sarà esposta prossimamente all’ingresso dei Musei Vaticani, cosa che farà del suo autore l’unico artista vivente presente nelle collezioni.
Inaspettatamente Felice dice di non sentire un rapporto stretto tra la sua arte e il suo essere non vedente, nel senso che si sente prima artista e la sua disabilità viene dopo. “L’arte si fa perché fa star bene, fai l’arte perché ti piace e questo ti basta. Se poi il tuo prodotto è anche gradevole e ha un riscontro commerciale allora meglio ancora, ma l’arte c’entra soprattutto con il benessere della persona”.

L’albero indiano che include
E allora dov’è il tocco dato dalla situazione di essere una persona con disabilità? Sicuramente nella prospettiva del lavoro di Felice, il suo impegno continuo di toccare gli altri attraverso la sua arte e sostenere chi ha incontrato le sue stesse
difficoltà. L’esempio più eclatante del suo impegno, ma è solo un esempio, è il suo coinvolgimento in un progetto della CBM (Christian Blind Mission), la più grande organizzazione non governativa che fa prevenzione e cura delle malattie degli occhi nei paesi poveri del sud del mondo.
“Mi hanno chiesto di andare in India, mi hanno chiesto di portare questa esperienza di vita a dei bambini che avevano bisogno di tutto. Un corso di formazione anche agli educatori che provenivano da varie parti del paese”. È andato in un remoto stato dell’India nord orientale ai confini con il Bangladesh e ha insegnato a dei bambini con vario tipo di difficoltà e a degli operatori come si fa a lavorare la creta. In 15 giorni di laboratorio alla Betany school di Shillong hanno a poco poco costruito un albero di creta fatto da mille mani diverse. Tutta questa esperienza è stata documentata grazie a un bel documentario girato da Silvio Soldini che è partito assieme a Felice che è anche voce narrante del film (www.youtube.com/watch?v=cpvM3fYhHwA).
Il suo ultimo progetto è invece dedicato alla Convenzione Onu sui Diritti delle persone con disabilità; lo ha concretizzato in un’opera dove una grossa risma di fogli di carta – la Convenzione appunto – è tenuta in posizione verticale da due mani: “Nello spazio bianco voglio la firma scolpita delle persone che hanno delle grosse responsabilità civili; un modo per dire questa è la Convenzione, è una cosa pesante, come questa opera di marmo, vuoi impegnarti per farla rispettare?”. I primi che vuole incontrare saranno Sergio Mattarella, Riccardo Segni (rabbino capo della Comunità ebraica di Roma) e Papa Francesco e ci riuscirà di sicuro.

Il lavoro che debilita l’uomo

di Stefano Toschi

Ultimamente le notizie di maltrattamenti a persone disabili o anziane che avvengono nelle case di cura o centri diurni sono diventate quasi all’ordine del giorno. Il lavoro di cura, d’altra parte, non è e non è mai stato un lavoro come un altro. Lavorare con e per le persone fragili ha tante e tali implicazioni umane, relazionali, personali che non trova paragoni con nessun’altra professione. Non a caso, si colloca fra gli impieghi con il più alto rischio di burn out e di pressoché inevitabili ripercussioni sulla psiche e la sfera personale del lavoratore. Confrontandomi sull’argomento con alcuni amici che lavorano in strutture residenziali e analizzando i recenti fatti di cronaca, ho cercato una spiegazione al crescente fenomeno dei maltrattamenti, pur essendo difficile trovarne una univoca. Ritengo che parte della responsabilità possa essere attribuita alla crisi valoriale della nostra società, causa e contemporaneamente conseguenza della imponente crisi economica che stiamo attraversando. Laddove la logica produttivista ha avuto la meglio, il lavoro è stato mercificato ed è stato mercificato anche il lavoratore, nel suo tempo dedicato alla professione, ma anche nel suo tempo libero, il lavoro di cura è diventato sempre di più una non-scelta. Oggi, lavoratori domestici, badanti, colf, assistenti alla persona ci si improvvisa, magari avendo alle spalle qualche corso teorico pratico, finanche qualche titolo, ma certamente non una reale vocazione all’impegno sociale e per il prossimo. Tanti disoccupati senza alcun interesse o capacità relazionale adatta a questo tipo di lavoro si sono riciclati perché si tratta di un servizio in cui la richiesta resta sempre alta. Sicuramente, almeno in parte, questa situazione è da imputare alla crisi economica, che ha richiamato in questo ambito professionale l’interesse (di puro sostentamento materiale) di tante persone che non avrebbero mai pensato, altrimenti, di potersi e volersi mettere al servizio delle persone con deficit. In un circolo vizioso di insoddisfazione lavorativa, personale e socio-economica, la situazione va a discapito prima di tutto degli assistiti. Il lavoro di cura, inoltre, ha un impatto economico spesso insostenibile sulle famiglie. Una badante convivente costa circa 1200, 1300 euro al mese (più contributi) a una famiglia, cui si aggiungono il valore del vitto e dell’alloggio. Le rette delle case di cura e di riposo, per lo meno a Bologna, arrivano ai 3500, 4000 euro al mese. Per l’assunzione di una collaboratrice familiare, peraltro, non è prevista alcuna compartecipazione alla spesa da parte dei servizi di welfare pubblici o del Servizio Sanitario Nazionale: si possono detrarre solo i contributi Inps, pratica che mira a disincentivare il lavoro nero, ma non incide significativamente sull’esborso di cui l’assistito deve farsi carico. Questo fa sì che le famiglie tentino di trovare strade alternative, a discapito, fra le altre cose, della professionalità delle persone a cui ci si rivolge. I corsi da OSS costano molto, poiché sottostanno a rigidi regolamenti; Infermieristica è diventata una vera e propria laurea: la richiesta economica di questi professionisti, naturalmente, è aumentata proporzionalmente al riconoscimento sociale che ne è conseguito e all’aumentare delle spese che lo specializzando ha dovuto sostenere per conseguire il titolo. Sempre di più, dunque, le famiglie hanno cercato di applicare l’arte dell’arrangiarsi, cercando strade alternative e affidandosi (e affidando i propri cari) a dubbi personaggi senza titoli e requisiti idonei.
Come afferma nel suo articolo Roberto Bortone pubblicato su “Agora Vox” del 19 marzo 2016, i casi di maltrattamenti accadono in una casa di riposo, spesso di provincia, in cui gli anziani vengono maltrattati, picchiati, umiliati. Anziani fragili e malati che non hanno più gli strumenti per difendersi, per cui i figli si sentono sollevati dai doveri dell’accudimento, ritenendo di avere già fatto abbastanza per loro sistemandoli nella struttura e, magari, andando ogni tanto a trovarli. In genere si trovano sempre sul web video che testimoniano quanto accaduto, girati dalle telecamere nascoste della Polizia che indaga a seguito delle segnalazioni. A volte le immagini diffuse sul web si confondono nella nostra mente, perché i casi ormai sono tanti, troppi. Ma a rileggerli tutti assieme il quadro che se ne trae è fosco, terribile. E pone delle domande. Nelle cronache locali e nazionali gli esempi si sprecano. 2013 a Terni: anziani maltrattati, picchiati e torturati in casa di riposo. Poi Nepi, in provincia di Viterbo. Ci sono i casi di un anziano caduto dalle scale con la carrozzina e di una dentiera scambiata per mesi a Mantova. Nel 2014 in Molise sono stati arrestati un medico e alcuni infermieri per maltrattamenti.
Un altro caso eclatante a Prato, dove oltre alle violenze avvenivano furti ai danni degli anziani ricoverati.
Nel 2015 a Palermo sono state chiuse due case di riposo dove gli anziani venivano legati alle sedie e picchiati. È successo ancora a Nuoro, Genova, Anzio e poi a Salerno. Si scrive, ogni volta, un copione già visto, fatto di qualche perplessità dei parenti, una soffiata, una denuncia, lunghe indagini, telecamere nascoste a documentare le brutalità e poi gli arresti. Fino ad arrivare agli episodi eclatanti di questo inizio d’anno: a quello di Roma, dove è stata scoperta una casa di cura lager in cui gli anziani venivano regolarmente picchiati e costretti a prendere medicinali scaduti. Oppure alle immagini choc di Vercelli, che documentano le violenze su anziani e disabili terminate con 18 arresti e la chiusura della struttura. Da ultimo, i due episodi che hanno sconvolto la provincia di Parma: gli anziani venivano sedati e costretti a rimanere immobili a letto. In un’altra struttura, erano addirittura costretti a mangiare sul pavimento e insultati dagli infermieri. Solo negli ultimi due anni sono decine i casi scoperti. Per non parlare di un altro triste caso (tra i tanti) di cronaca che ha per protagonista, questa volta, un’infermiera operante in un ospedale pubblico, condannata per avere effettuato iniezioni di potassio come personale forma di eutanasia su alcuni anziani pazienti. Ormai la diffusione di una mentalità che monetizza qualsiasi cosa, anche il valore delle persone, induce a considerare anziani e disabili fardelli di cui sbarazzarsi il prima possibile, accompagnando, quando non facilitando, la loro dipartita.
In tutti i servizi giornalistici televisivi in cui si parla di casi di maltrattamenti viene usata la parola lager per indicare la struttura residenziale nella quale avvengono. Mi sono interrogato sul senso di questo paragone, al di là dello slogan giornalistico e, confrontandomi con alcuni amici, mi sono sentito rispondere che il termine mira a paragonare la condizione degli operatori a quella delle SS che lavoravano nei campi di concentramento e di sterminio, in quanto entrambi rappresentano l’ultimo anello della catena, gli esecutori di ordini che vengono dall’alto. A me questo paragone non convince, prima di tutto perché vige per ciascuno di noi il principio di autodeterminazione per cui la responsabilità delle proprie azioni deve essere considerata sempre personale. Non a caso, la difesa di Adolf Eichmann (uno dei principali responsabili operativi dello sterminio degli ebrei) al processo per genocidio e crimini contro l’umanità subito nel 1961 in Israele e reso noto ai più dal-
la filosofa Hannah Arendt, ovvero “eseguivo degli ordini”, è diventata tristemente nota come “l’incarnazione dell’assoluta banalità del male”. Anche se può essere vero che gli operatori sono soggetti a turni di lavoro molto duri e faticosi con una paga sicuramente inadeguata, e che sono abbandonati a se stessi, non avendo quasi nessun supporto psicologico, tuttavia essi non ricevono certamente l’ordine di torturare e di uccidere, ma di prendersi cura dei propri assistiti, non fosse altro perché sono proprio questi ultimi la fonte di guadagno della casa di cura in questione. Quindi secondo me il paragone tra le case di cura dove avvengono i maltrattamenti e i lager è più da ricercare nella spersonalizzazione degli ospiti che in un caso come nell’altro li riduce a puri e semplici numeri su cui si può infierire. Sicuramente è vero che il sistema di assistenza ai malati, agli anziani e ai disabili, così come è concepito dal nostro welfare, può dirsi esso stesso malato, ma ciò non toglie la responsabilità individuale del singolo operatore che, come qualsiasi altro lavoratore, è chiamato a svolgere al meglio i propri compiti. Pensando alla mia vita, posso dire che, da quando è morto mio padre, ho sempre avuto bisogno di qualche operatore, dapprima soltanto qualche ora, poi dalla morte di mia madre, per tutta la giornata e per la notte.
Devo affermare che non ho mai avuto problemi di maltrattamenti fisici o psicologici, anche perché, vivendo a casa mia, con mia sorella che abita al piano di sopra con la sua famiglia, con molti amici che mi vengono a trovare quotidianamente, non sono mai stato abbandonato a me stesso. Tuttavia, non è stato sempre facile gestire i rapporti professionali con queste persone, soprattutto perché essi erano inevitabilmente intersecati con un rapporto umano e personale che si sovrapponeva al rapporto di lavoro.
Quando, poi, si aggiunge la convivenza, che è difficile persino per gli amici o per le coppie, il rapporto professionale diviene talvolta quasi marginale in confronto all’aspetto relazionale. L’unico episodio davvero spiacevole si è verificato quando ho dovuto comunicare a un mio assistente che, per organizzarmi durante la malattia e il conseguente decesso di mia madre, avrei dovuto fare a meno del suo lavoro, perché mi offriva una disponibilità oraria limitata, mentre io, a quel punto, avevo bisogno di una presenza ben più costante. Lui si è sentito tradito ed è arrivato a insultarmi e a minacciare me e mia madre, sul letto di morte, gettandoci in uno stato di tale prostrazione psicologica da impormi di dirgli di non venire più da un giorno all’altro, rinunciando al preavviso di legge. Questo dopo anni di collaborazione e dopo avere condiviso con lui una parte per me assai significativa della mia esistenza, coltivando un rapporto di vera amicizia anche con le rispettive famiglie, arrivando a farmi capire come, invece, per lui io fossi stato solo lavoro e una fonte di sostentamento materiale.
A parte il mio caso, il problema dei maltrattamenti nelle strutture pubbliche è sempre più grave e diffuso sia in Italia, sia all’estero. Come arginare questa deriva? O, per lo meno, il fenomeno dei maltrattamenti? Non ho ricette miracolose. Penso che aumentare i controlli con le telecamere non sia una soluzione, per lo meno non sufficiente, anche se aiuta a scoprire i casi e a punire i colpevoli, perché è comunque una soluzione a valle che può combattere i sintomi ma non le cause del problema. La questione andrebbe affrontata a monte, quanto meno al momento della selezione del personale, valutandone la consapevolezza che non si tratta di svolgere un lavoro come gli altri, ma una attività di grande responsabilità, in cui c’è bisogno di qualcosa di più di due braccia e due gambe robuste. Si potrebbe parlare, piuttosto, di animo e coscienza robuste, ma sono parole fuori moda, che, tuttavia, almeno in questo lavoro dovrebbero avere ancora un senso, se comprese nel loro giusto significato.

Dietro ogni “scemo” c’è un villaggio

a cura di Giulia Galbiati, insegnante

“Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci ad esprimerlo con le parole, e la luce del giorno si divide la piazza tra un villaggio che ride e te, lo scemo, che passa,
e neppure la notte ti lascia da solo:
gli altri sognan se stessi e tu sogni di loro.
E sì, anche tu andresti a cercare
le parole sicure per farti ascoltare: per stupire mezz’ora basta un libro di storia,
io cercai di imparare la Treccani a memoria,
e dopo maiale, Majakowsky, malfatto, continuarono gli altri fino a leggermi matto.
E senza sapere a chi dovessi la vita in un manicomio io l’ho restituita: qui sulla collina dormo malvolentieri
eppure c’è luce ormai nei miei pensieri, qui nella penombra ora invento parole ma rimpiango una luce, la luce del sole.
Le mie ossa regalano ancora alla vita: le regalano ancora erba fiorita.
Ma la vita è rimasta nelle voci in sordina di chi ha perso lo scemo e lo piange in collina;
di chi ancora bisbiglia con la stessa ironia
Una morte pietosa lo strappò alla pazzia”.
(F. De André, Un matto (dietro ogni scemo c’è un villaggio), “Non al denaro non all’amore né al cielo”, 1971).

Questa canzone di Fabrizio De André, cantore delle ipocrisie ma in prima istanza dei diversi, degli emarginati e degli esclusi, ci mette di fronte a un racconto, ma allo stesso tempo a un invito: ci racconta la difficoltà di essere noi stessi in rapporto agli altri, il bisogno di essere comunque accettati dalla comunità (il “villaggio”) che ci esclude, e la reazione di questa alla diversità dei singoli; ma ci invita anche a una riflessione, che sta a noi che ascoltiamo accettare o ignorare. Il “tu” molto poco impersonale con il quale inizia la canzone ci coinvolge direttamente, invitandoci a vestire panni che (così almeno ci sembra) non sono nostri: la prospettiva è quella di chi è, o è considerato, diverso.
Il matto della canzone si differenzia dagli altri in quanto non “riesce ad esprimersi con le parole”: in una comunità che non conosce altri mezzi di espressione se non quello razionale – il linguaggio appunto – il matto viene emarginato, isolato (anche, ci immaginiamo, letteralmente) all’interno del suo stesso ambiente.
Il bisogno di appartenere a una comunità, o più semplicemente di un contatto umano, lo spinge allora a una fatica immane (“[…] per stupire mezz’ora basta un libro di storia, io cercai di imparare la Treccani a memoria […]”), fatta però di parole altrui.
Impermeabile al suo tentativo di comunicazione rimane comunque la comunità, incapace di ascoltare, o forse non disposta a farlo.
Il matto è costretto a rimanere all’ombra, nell’ombra; ma quella che rimpiange è “la luce del sole”, la possibilità di essere se stesso, alla luce del sole, magari proprio all’interno di quella stessa comunità che lo ha respinto.
La diversità è chiaramente in ognuno di noi, che accuratamente la nascondiamo. Quando però questa diversità è evidente, perché si manifesta in qualcuno, allora nella comunità (ma anche nella società in generale) si innesca il meccanismo della paura.
Paura che è prima di tutto quella di risultare noi stessi il diverso: una protezione individualistica.
Ci mettiamo in posizione di difesa e arroccamento all’interno di un mondo protetto perché omogeneo, in cui possiamo nasconderci, confonderci e conformarci per non risultare, appunto, diversi. Ed estraniamo il diverso.
Il capro espiatorio di una società è significativamente quello a cui tutti abbiamo paura di tendere, perché questa tendenza è in potenza dentro ognuno di noi.
Chi, e soprattutto perché, può ritenersi allora esente da questa riflessione, da questa prospettiva?
Il “matto” non è in fondo anche il disabile, l’omosessuale, la donna, anche solo semplicemente il timido?
Ascoltare, nei diversi modi che esistono per farlo, chi è diverso da noi è il primo passo per includere e integrare.
Mettiamo dunque in discussione noi stessi e ascoltiamo: dietro ogni “scemo” c’è un villaggio, che non vuole ascoltare.

Punti blu e buchi neri: la crisi dei rifugiati e le persone con disabilità lungo la rotta balcanica

di Massimiliano Rubbi

Il 12 e 13 marzo 2016 l’European Disability Forum ha incontrato Kirstin Lange dell’UNHCR, l’Agenzia ONU che si occupa della protezione dei rifugiati, per discutere della crisi dei migranti in corso da mesi in Europa. Il risorgere di frontiere con filo spinato e nazionalismi accentuati appare assai lontano dall’auspicio del Presidente EDF Yannis Vardakastanis, ad “affrontare la crisi dei migranti in base ai diritti umani, mettendo prima la vita delle persone”, e in particolare delle persone con disabilità, più vulnerabili tanto nei contesti di guerra da cui fuggono quanto in quelli in cui vengono accolti in Europa.
Nell’incontro, riferisce Lange, le questioni sollevate sono state “la mancanza di dati disponibili sulle persone con disabilità in arrivo in Europa, la limitata accessibilità fisica delle strutture di accoglienza, la necessità che le informazioni siano
in formati accessibili (incluso l’uso di interpreti di lingua dei segni), la necessità di formazione degli attori umanitari coinvolti nella risposta, per costruire la loro capacità di lavorare con persone con disabilità, e la richiesta di un più forte coordinamento tra l’UNHCR e le organizzazioni di persone con disabilità in Europa”: tutte carenze emerse nei momenti più caldi della crisi, quando nei mesi centrali del 2015 decine di migliaia di persone hanno percorso caoticamente la “rotta balcanica” verso l’Europa centrale, ma avvertite anche oggi che tale rotta è chiusa e, con l’accordo assai discusso siglato da Unione Europea e Turchia il 18 marzo 2016, è stata rinforzata la disciplina dei respingimenti per chi, arrivato in Grecia, non chiede o non ottiene il diritto di asilo.

L’intollerabile e l’improvvisazione
Jodi Hilton, una fotoreporter indipendente, nel dicembre 2015 ha documentato per il sito IRIN, in un servizio dal titolo “Strada rocciosa: rifugiati disabili combattono attraverso i Balcani” (http://goo.gl/BQi6iN), le condizioni in cui un profugo di Homs privo di una gamba tentava di superare il confine tra Macedonia e Serbia nei pressi del centro accoglienza di Tabanovce, spinto e sollevato in una carriola su un terreno fangoso che rendeva impossibile usare la carrozzina. Hilton riferisce, anche rispetto alla sua esperienza in altri campi dei Balcani, che “c’è molta improvvisazione nell’aiuto a queste persone”, un aiuto a passare la frontiera illegale e quindi fornito solo da organizzazioni “di base” che agiscono in base al “dovere morale di non lasciare indietro qualcuno” – oppure da trafficanti di esseri umani, ma “per andare con i trafficanti devi camminare molto, ed è pericoloso, quindi non penso che molte persone disabili provino a farlo”.
La presenza di persone con disabilità anche gravi tra i migranti non è un fatto eccezionale. Boris Cheshirkov, portavoce dell’UNHCR sull’isola greca di Lesbo, ricorda che “lo scorso inverno, su ognuna delle barche che arrivavano c’erano dalle 50 alle 60 persone, e almeno una famiglia aveva un membro con una vulnerabilità significativa. Sulla spiaggia ho visto arrivare centinaia di barche, e sulla maggioranza di esse c’era qualcuno con una disabilità evidente”. La ragione principale per cui le persone con disabilità scappano da zone in guerra, affrontando un viaggio assai pericoloso anche per chi è nel pieno delle proprie capacità fisiche, è “il collasso dei servizi nei Paesi di origine, dove le persone a rischio elevato non possono più ottenere sostegno e assistenza dal governo o da altre agenzie. Molti, se non la maggior parte, fuggono all’improvviso, perché vivono con complicazioni in alcuni casi per anni, ma a un certo punto ciò diventa semplicemente intollerabile e non possono più rimanere. Perciò, in molti casi, coloro che sono giunti con una vulnerabilità, ad esempio in Grecia, considerano che la vulnerabilità sia un fattore che ha contribuito al loro movimento. Mi ricordo molto chiaramente di aver incontrato nel campo di Moria [a Lesbo] una famiglia allargata di 20 persone proveniente da Aleppo, con una nonna di circa 85 anni, i suoi figli e le loro famiglie, e uno dei suoi figli aveva una paralisi; i familiari erano commossi quando ne parlavano, e dicevano ‘lui è una delle ragioni principali per cui siamo partiti’”.
Barbara Colzi, responsabile della protezione UNHCR per la Macedonia e quindi anche per il centro di Vinojug-Gevgelija, al confine con la Grecia e di fronte a Idomeni, ricorda il caso di “un rifugiato siriano che era arrivato in sedia a rotelle con tutta la famiglia, e che ci raccontava le grossissime difficoltà per riuscire a salire sulla barca per la Grecia; il tragitto via mare è descritto come la parte più difficile, perché poi, una volta arrivati in Grecia, i profughi ricevevano un’assistenza e potevano continuare con mezzi come l’autobus” (prima della chiusura delle frontiere). Anche chi non è partito con la famiglia spesso si è aggregato lungo il viaggio a gruppi da cui ha trovato l’aiuto necessario a superare difficoltà personali anche gravi: “abbiamo visto persone che non avremmo mai detto potessero arrivare fino in Macedonia nelle loro condizioni”.
Non a tutti, però, è andata così bene. Nel settembre 2015, Jodi Hilton era in Serbia sul confine ungherese: “ho incontrato un uomo che stava spingendo un altro uomo in una carriola, lo stava spingendo sin da quando si erano incontrati in Turchia, e mi chiedeva se avevo una pompa, perché la ruota della carriola era sgonfia. Il giorno dopo ci sono stati scontri quando i rifugiati hanno cercato di assalire il confine ungherese, e quest’uomo, che era stato ferito ad Aleppo e aveva un’amputazione, si è disperso – hanno trovato solo la sua carriola”. A trovarlo è stata la polizia ungherese, come documentato dai media britannici nella primavera 2016: Ghazy Faisa Hamad, insieme a una donna con una cecità a un occhio e ad altri 9 siriani e iracheni, è comparso davanti a un tribunale di Szeged, accusato di aver partecipato attivamente alla rivolta. Secondo Hilton, “non so quanto violento possa essere stato lui, altre persone gettavano sassi e hanno tirato giù il primo steccato, e a quel punto molte famiglie con bambini e persone comuni si sono precipitate verso il confine per cercare di entrare, e per quanto ne posso capire lui è stato catturato dalla polizia perché non è potuto fuggire”. Sta di fatto che, secondo le leggi ungheresi inasprite proprio nei giorni caldi di settembre, Hamad, nel processo ancora in corso, rischia una condanna a 5 anni di carcere.

Difficili risposte per bisogni in movimento
Di fronte al flusso di persone nei mesi più intensi della crisi migratoria, ammette Kirstin Lange, “alcuni siti lungo la rotta sono stati migliori nell’assicurare un accesso egualitario (come Gevgelija, in Macedonia) mentre altri sono rimasti sotto lo standard. L’alta mobilità della popolazione all’inizio, e ora il contesto in drammatico cambiamento, hanno reso difficile per tutti gli attori rispondere in modo appropriato”. Secondo Barbara Colzi, facendo riferimento proprio a Gevgelija, “fino all’inizio di marzo, quando c’erano dalle 7.000 alle 11.000 persone
al giorno che transitavano, rimanevano solo poche ore, ma questo non vuol dire che non ci fosse una risposta per persone che avevano bisogni specifici – un’assistenza minima veniva fornita a tutte le persone con problemi medici o disabili, per esempio il trasporto dalla frontiera greca fino al centro di Gevgelija”.
Dai bisogni legati al momento più critico è nato il progetto dei “Blue Dots” (“Punti blu”), ovvero “centri di sostegno a bambini e famiglie” destinati a fornire un insieme di servizi minimi anche alle persone con disabilità. Come spiega Colzi, “abbiamo iniziato a implementare questo nuovo progetto a partire da dicembre 2015, e centrale era il fatto di utilizzare la stessa visibilità, la riconoscibilità con un punto blu, nei vari Paesi della rotta, dalla Grecia alla Macedonia e alla Serbia”. Anche se i servizi minimi descritti nel documento illustrativo del progetto sono centrati sulle esigenze generali di bambini e genitori (punto informazioni, ripristino di collegamenti tra famigliari dispersi, riunificazione familiare, spazi a misura di bambino e idonei all’allattamento), i “Punti blu” servono anche a identificare bisogni specifici e fornire assistenza di tipo medico, psicologico e fisico, oltre che, come riferisce Colzi, “servizi approvati per persone con disabilità, come bagni adattati per persone con mobilità ridotta”; secondo Kirstin Lange, l’inclusione delle persone con disabilità segue questo approccio, sicché sotto l’insegna dei “Punti blu” si potrebbe in futuro “garantire la disponibilità di interpreti di lingua dei segni e altri mezzi di comunicazione accessibili”. “Il problema” rileva purtroppo Colzi “è che nel momento in cui abbiamo iniziato a implementare questo progetto, tra gennaio e febbraio 2016, il movimento dei profughi tra i diversi centri si stava già riducendo a causa delle crescenti restrizioni alle frontiere”, fino a che la loro chiusura totale all’inizio di marzo ha costretto i profughi a fermarsi negli ultimi campi raggiunti, stanzializzandone la popolazione e vanificando la riconoscibilità dei “Punti blu”.
Il primo passo per rispondere ai bisogni dei profughi con disabilità rimane però identificarli, e anche qui i due centri macedoni di Tabanovce e Gevgelija sono un passo avanti: due report basati su dati raccolti a metà marzo e successivamente aggiornati, con la stessa metodologia, tracciano una profilazione delle due popolazioni, “intrapresa al fine di identificare individui e gruppi con bisogni specifici che possono non essersi fatti avanti da soli per rendere tali bisogni noti”. Le persone “vulnerabili” così censite sono quelle in gravi condizioni mediche, i minori non accompagnati o separati dalla famiglia o a rischio (in quanto con figli o in gravidanza), i nuclei monoparentali, le donne in allattamento o in gravidanza, le persone con disabilità e gli anziani con bisogni specifici ulteriori rispetto a quelli legati all’età. Colzi spiega che “i rapporti e la profilazione sono stati fatti dall’UNHCR con l’obiettivo di aiutare le organizzazioni partner, che non avevano la capacità di registrare tutta la popolazione e che già fornivano assistenza a persone disabili o donne incinte, senza però sapere quante fossero e poter quindi pianificare l’attività”. Alla precisione del censimento fa da contraltare la mutevolezza della popolazione, specialmente a Tabanovce: se nella prima rilevazione edita ad aprile gli ospiti del centro erano 1.024, in quella successiva, meno di due mesi dopo, erano scesi a 415. La maggior parte dei 600 mancanti si è affidata a trafficanti per cercare di entrare irregolarmente in Serbia, ma secondo Colzi chi aveva problemi di mobilità è in genere rimasto nel centro, perché per provare a proseguire “devi avere innanzitutto i soldi, ma se in più in famiglia hai una persona che non può camminare facilmente, attraversare la frontiera di notte con gruppi di altre persone non è possibile”.
Nelle strutture di accoglienza in Grecia non esistono censimenti così dettagliati, ma a Lesbo, secondo Cheshirkov, il governo greco ha promosso “azioni positive nell’identificazione delle persone a rischio elevato, come donne incinte o in allattamento, minori non accompagnati, persone con disabilità mentali o fisiche, anziani, sopravvissuti a stupri, tortura o traffico umano”. Questa identificazione è decisiva nell’isola dell’Egeo, dove oggi alcune migliaia di persone sono ospitate in due campi profughi, Moria e Kara Tepe: dal 28 marzo, entrato in vigore l’accordo UE-Turchia, il primo è diventato un “sito di detenzione” chiuso (in cui l’UNHCR ha sospeso le attività), mentre le persone vulnerabili sono state trasferite nel secondo, dove oggi “ci sono circa 900 persone, molte delle quali sono famiglie con un membro in situazione di vulnerabilità, inclusa la disabilità”. Se a Moria “il governo continua a condurre valutazioni di vulnerabilità” in un contesto in cui i nuovi arrivi sono comunque molto limitati, a Kara Tepe, riporta Cheshirkov, “stiamo conducendo focus groups con rifugiati e migranti e cerchiamo di identificare quali siano i principali problemi e sfide che percepiscono, ne stiamo prendendo nota, e ciò influisce sul modo in cui svolgiamo e introduciamo i nostri programmi”.
Sempre in Grecia, fino al 24 maggio 2016, c’era la situazione più problematica e famigerata: nel campo non ufficiale e temporaneo di Idomeni, migliaia di persone si ammassavano nel fango dal giorno della chiusura del vicino confine con la Macedonia. Proprio il giorno prima dello sgombero, la portavoce UNHCR Stella Nanou rilevava che per le persone con disabilità mancavano un monitoraggio specifico, un’assistenza mirata e anche molte attrezzature di base: “per esempio, carrozzine e stampelle dipendono in gran parte da donazioni, e c’è anche una risposta inadeguata per chi soffre di menomazioni alla vista o all’udito”. Quanto agli altri campi aperti dal governo greco nel Nord del Paese, Nanou affermava che “nessuno di loro consente di rispondere adeguatamente a queste sfide, ma questi campi formali offrono condizioni di vita migliorate a confronto di Idomeni”. Purtroppo, i campi a cui Nanou stava facendo riferimento erano quelli già attivi, e non i nuovi siti in cui le persone sarebbero state trasferite il giorno dopo. Nelle ore dello sgombero di Idomeni, una fonte di una ONG attiva in loco lamentava che di questi siti “non ne sappiamo nulla, non li abbiamo visitati, non possiamo dire altro che di avere visto le immagini di alcuni di questi campi nei social media, e sembrano altrettanto temporanei, con persone che vivono ancora in tende, una sistemazione inadatta ai bisogni di chi deve essere assistito”. A distanza di pochi giorni, mentre l’UNHCR dichiarava ufficialmente che “le condizioni di alcuni di questi siti in cui rifugiati e migranti vengono trasferiti cadono ben al di sotto di standard minimi”, il “Guardian” ha definito queste condizioni come “non adatte per gli animali”, descrivendo e fotografando magazzini con finestre distrutte in cui le tende sono piantate su pavimenti sporchi di cemento e in cui la disponibilità di acqua è come minimo intermittente, e ha segnalato che dalla popolazione di Idomeni mancherebbero all’appello 4.000 persone, ipotizzando che “stiano vivendo nelle strade di città greche come Salonicco, si nascondano nelle foreste vicino al confine macedone o siano stati portati da trafficanti a nord verso l’Europa”. Giorgos Kyritsis, portavoce del governo gre-
co, oltre a smentire questa fuga di massa ha invece sostenuto l’opportunità dello sgombero: “non diciamo che le condizioni siano perfette, vogliamo migliorarle, ma non c’è assolutamente paragone tra le nuove strutture e Idomeni. Almeno ora hanno un tetto sulla testa. Quando piove non si bagnano e non sono costretti a vivere nel fango”.

Al di là del mare
Se in Grecia sono presenti, nelle condizioni descritte, circa 50.000 profughi, la Turchia è il Paese che ne ospita di più al mondo con 3 milioni, di cui il 90% circa dalla Siria. L’accordo con la UE siglato a marzo è un’estensione dello “Strumento per la Turchia a favore dei rifugiati” creato già nel novembre 2015, e definisce il respingimento di potenziali rifugiati in Turchia, per poi prevederne la ricollocazione entro la UE ove la loro domanda di asilo fosse accolta; anche se “l’aiuto specializzato a persone con disabilità, la salute mentale e il sostegno psicosociale” figura tra i progetti umanitari immediati inclusi in una delle prime linee di finanziamento aperte in aprile, colpisce che lo “Strumento” non stabilisca standard minimi di assistenza nei campi turchi, cruciali per la stessa sopravvivenza di profughi in situazione di disabilità grave durante l’esame della domanda di asilo. E capire quale sia il livello dell’accoglienza in Turchia è molto difficile: Cheshirkov riferisce che “molti dei campi, se non la maggior parte, sono mantenuti e gestiti molto bene”, sicché “dobbiamo riconoscere lo sforzo che la Turchia ha messo in campo, inclusa l’assistenza nei campi anche alle persone con bisogni speciali”, ma al contempo ammette la diffusione di fenomeni come la prostituzione e il lavoro minorile legati alle necessità di sussistenza. Quanto all’assistenza specifica per le persone disabili, secondo Jodi Hilton, “in generale in Turchia non ci sono infrastrutture per le persone disabili, molti cittadini turchi che hanno una disabilità sono accuditi dalla loro famiglia in casa; sarei molto sorpresa se facessero qualcosa di speciale per le persone con disabilità nei campi turchi”.
La mancanza di dati impedisce di approfondire una impressione ancor più inquietante. Si stima che il 15% della popolazione mondiale abbia una disabilità; se tale condizione, come si è detto, non impedisce e anzi incentiva la fuga dalle zone di guerra, e però ostacola il passaggio illegale tra frontiere europee oggi cinte di filo spinato, ci si attenderebbe di ritrovare una percentuale analoga nei centri che ospitano i profughi. Stando agli ultimi monitoraggi citati e relativi alla Macedonia, però, a Gevgelija le persone con disabilità (incluse quelle anziane con bisogni specifici) sono 5 su 141, pari al 3,5%, a Tabanovce addirittura 8 su 415, meno del 2%. Dove è finito quel 10% abbondante che manca? Dando per buona la correttezza del censimento, e tenendo conto che pochissimi sono gli ospiti sopra i 60 anni (6 a Tabanovce, solo 2 a Gevgelija), il dubbio è che molte più persone con disabilità in fuga dalla Siria, ma anche dall’Iraq e dall’Afghanistan, siano rimaste nei Paesi di primo asilo, la Turchia ma anche il Libano e la Giordania, e si trovino in condizioni di cui non sappiamo nulla o quasi – oppure, peggio ancora, che per ogni persona con disabilità che è riuscita ad arrivare in Europa molte di più non siano riuscite a completare il viaggio.
Kirstin Lange ricorda che “l’UNHCR fa pressione sui governi perché rendano disponibili modi più sicuri e legali per i rifugiati per viaggiare verso l’Europa in base a programmi gestiti – per esempio programmi di ammissione umanitaria, patrocini privati, riunificazione familiare, borse di studio per studenti e schemi di mobilità lavorativa – così che i rifugiati non ricorrano ai trafficanti per trovare la sicurezza. Una disponibilità maggiore di tali opzioni ridurrebbe i rischi che le persone con disabilità stanno attualmente affrontando tanto nelle aree di conflitto quanto nei Paesi di primo asilo”. Né la UE né i suoi Stati membri hanno finora cercato seriamente di costruire questi “corridoi umanitari”, preferendo gestire il flusso di chi è costretto a partire in termini di mera emergenza, con i salvataggi in mare, o con una “prevenzione” tesa a mantenere i profughi, senza garanzie, fuori dai confini europei (due approcci peraltro poco coerenti tra loro, come reso evidente dalla vicenda Mare nostrum/Triton). Se la cronaca non riesce a definire l’esistenza e la collocazione di quel 10%, non è escluso che sia la storia a chiederne conto.

Le evocazioni del corpo

A cura di Mario Fulgaro

Ogni individuo è creatore, attraverso il suo agire spontaneo e naturale, del microcosmo che più gli confà. Questo microcosmo finisce a sua volta con l’influenzare, in modo molto spesso inconsapevole, l’agire dei suoi attori principali.
Il motore che avvia questo interscambio tra res cogitans e res extensa, come direbbe Cartesio, sta nella consapevolezza della prima, che non si riconosce più come realtà a sé stante ma come monade aperta a trecentosessanta gradi verso il mondo che la circonda.
Chiamo in causa la Filosofia perché di fatto l’esperienza che gli animatori con disabilità del Progetto Calamaio hanno portato dopo il percorso di otto sedute di massaggi shiatsu, realizzato al Centro Documentazione Handicap di Bologna insieme a Francesca Paz e Antonio Basile, provenienti dall’Accademia Italiana Shiatsu-Do, non ci parla solo del corpo e delle sue sensazioni ma piuttosto del rapporto corpo-ambiente, del dialogo con il sé che ne deriva e delle immaginazioni che la mente riesce a dipingere a partire dalle più semplici vibrazioni derivate dallo sfioramento e dal contatto. Ideale conclusione del percorso laboratoriale sulla percezione corporea e il benessere a cura degli educatori Tristano Redeghieri e Luca Cenci, al centro della monografia di “Hp-Accaparlante” On the road.
Diario di un viaggio alla scoperta del corpo tra limiti, risorse e benessere, il percorso è stato accolto da tutti i partecipanti con entusiasmo.
Così dapprima con curiosità, poi con maggiore coscienza, attraversare le diverse tappe introspettive e corporee grazie alle tecniche manipolatorie dell’antica India, Giappone e Cina, si è dimostrato per i suoi partecipanti un volano per una conoscenza più approfondita di tutte le proprie potenzialità, ridisegnando in chiave positiva e, più precisamente, in termini di relax, pace e abbandono fiducioso, tutto ciò che in quel frangente li circondava e accoglieva in modo, all’apparenza, freddo e asettico.
Ed ecco che chi attraversava uno stato umorale buio e nero, tale da dover essere perforato per andare oltre, con lo shiatsu e le sue pratiche aveva modo di colorare il suo stato d’animo di sfumature più chiare e gioiose, quali il rosso o il giallo. Di contro balzo anche l’ambiente che ci ospitava assumeva i colori caldi della tranquillità. La rigidità mentale e del proprio corpo incontravano atmosfere interiori più pacate, in grado di trasferire ogni attenzione su altre questioni distensive e aperte alla conoscenza di sé, dei limiti.
Solo chi è in pace con se stesso è in pace con ciò che lo circonda, lo shiatsu è una palestra che aiuta a riversare le proprie attenzioni ed energie sul proprio corpo, nella sua totalità, per darne piacevolmente conto alla propria coscienza. La stanza che ci ha ospitato ha accolto sempre più, in un livello di scambio crescente i sogni, le aspirazioni e i dialoghi amichevoli tra tutti, tra gli operatori e i loro fruitori.
Lasciare andare le proprie ossessioni, mollare, dare riposo e così acquistare una nuova presenza.
“Il corpo e lo spirito: quei due sono inseparabili, non si lasciano mai – scrive lo psicologo francese Christophe André – Quando l’uno prova conforto lo prova anche l’altro, e lo stesso vale per le sensazioni negative. C’è chi allora avanza la teoria della leggenda del dualismo cartesiano, corpo e spirito come due entità separate, eppure Cartesio non affermò mai una cosa del genere. La dualità esprime soltanto una gerarchia, una convinzione sui rapporti di forza: chi dei due può far obbedire l’altro? In genere si pensa che lo spirito debba mostrarsi più forte del corpo. Invece è come in una coppia: dipende dai momenti, dalle situazioni,
che cambiano e si evolvono. E va benissimo così” (C. André, Dell’arte della meditazione, Milano, Corbaccio, 2012).

Lorella Picconi
“Da qualche tempo ho incominciato un bellissimo laboratorio shiatsu (tecniche di massaggio dalla testa ai piedi, io almeno lo chiamo così). Io sono seguita dalla terapista Francesca e contemporaneamente, insieme a me, una mia collega viene seguita dal terapista Antonio. I massaggi sono eseguiti nella stessa stanza e durano un’ora ciascuno.
Ecco il diario delle mie sedute:
Giorno uno
Per me è stata una bellissima esperienza ma, visto che era la prima volta, all’inizio ero un po’ titubante perché non sapevo come si sarebbero svolte le sedute, poi mi sono trovata benissimo. Francesca è molto brava con me, però delle volte fa delle manovre di massaggio in alcuni punti che mi fanno male.
Giorni due e tre
Queste sedute mi piacciono moltissimo e già dal terzo incontro non ho più avuto mal di pancia quando ho il ciclo. Persistono saltuariamente delle emicranie molto forti così come avevo prima.
Giorno quattro
Oggi mi sono sentita benissimo con il trattamento che mi ha fatto Francesca. Le ho parlato, spiegandole che, grazie a questi massaggi. Quando ho il ciclo, ho solo mal di testa mentre alla pancia non ho male, come invece mi capitava prima che iniziassi la mia avventura di shiatsu. Mi sono anche accorta che in seguito ai massaggi, tremo un po’ meno rispetto a prima, e di questo sono molto contenta”.

Tatiana Vitali
“L’incontro che ho preferito è stato fatto in una stanza più piccola e calda, si stava molto meglio, quando Antonio mi ha iniziato a massaggiare ho cominciato a pensare al mare perché è un posto in cui mi piace stare, e il massaggio mi ha portato proprio in questa dimensione. Era un mare molto calmo e ho sentito di nuotarci dentro, sono stata molto bene per via del massaggio che mi ha molto rilassata.
Quando Antonio mi ha girato mi ha massaggiato dalla parte sinistra, mi sono sentita bene e sicura, pur non essendo la mia parte preferita. Un punto particolare e strano dove mi ha massaggiato sono i piedi, li ho sentiti liberi e non più legati come solito, ho sentito il solletico e mi ha fatto ridere e piacere perché è una parte del mio corpo che solitamente non mi toccano. Un altro momento piacevole è stato quando Antonio mi ha massaggiato il collo, ho provato una sensazione di benessere e mi sono emozionata in modo positivo, e mi è stato utile per allontanare i pensieri negativi. Molto interessante è stato quando Antonio è passato alla pancia, perché è stato come essere su una barca in mezzo al mio elemento preferito, l’acqua, quest’ultima mi tranquillizza e mi dona serenità. Quando sono uscita dall’incontro shiatsu, come nell’incontro precedente, mi sentivo come se fossi in un altro mondo, mi sento così bene solo quando cavalco la mia bellissima cavalla Romina. Approfittando di questo momento tutto mio, ho chiesto ai colleghi due favori, il primo di lasciarmi i piedi liberi, perché è una sensazione che ho scoperto molto piacevole, e come secondo, di lasciarmi per un po’ in stanza centrale, insieme alle famose tisane e candele profumate, a godermi questa sensazione e per non distaccarmi da questo viaggio magico interiore”.

Stefania Baiesi
“La mia esperienza con lo shiatsu? È una scala di pensieri.
Primo incontro Ero tutta rigida. Secondo incontro
Mi sono sentita meglio ho provato una sensazione di calore sulle mani una sensazione piacevole di giovamento sulle spalle. Mi ero talmente rilassata che mi stavo addormentando.
Terzo incontro
All’inizio del massaggio avevo le braccia rigide, ma non l’ho detto perché ho voluto vedere se i miei arti superiori si sarebbero rilassati da soli. Questo non è successo e la prossima volta glielo dirò. Dopo aver riscaldato la stanza mi sono sentita meglio. A fine massaggio mi sono rilassata mentalmente e sono uscita spensierata.
Quarto incontro
Mi sono sentita bene, a differenza della volta prima. Mi sto affidando di più ad Antonio, infatti gli ho detto delle mie braccia stanche. Quando sono entrata ero preoccupata perché non avevo fatto la pipì. Alla fine del trattamento ero rilassata a manetta perché durante il trattamento questo pensiero era sparito. Anche le mie braccia erano più rilassate.
Quinto incontro
Mi sono sentita bene, molto meglio, rilassate anche le braccia, mi sono organizzata meglio, ho fatto pipì prima di andare a fare il massaggio e questo mi ha permesso di godermelo meglio.
Sesto e settimo incontro
Mi sono sentita bene anche se avevo i tempi stretti. Motivo per cui, alla fine, non ho fatto in tempo a far pipì e mi sentivo tutta sudata. Per questo non sono entrata tranquilla nella stanza dello shiatsu. In questo incontro mi sono messa a piangere. Mi ha aiutato a buttare fuori dei pensieri, non tutti, ma in parte sì e questo mi ha fatto stare meglio. Mi sto rendendo sempre più conto che ne avrei bisogno di più di questi momenti”.

Tiziana Ronchetti
“Dello shiatsu ricordo con piacere il dialogo con i conduttori. Durante il trattamento in un qualche modo Antonio, pur senza capire le motivazioni, aveva capito che ero un po’ molto tesa. Mentre mi svolgeva il massaggio piano piano con molta tranquillità e calma gli dicevo dove mi faceva male alla testa tanto che facevo fatica anche a respirare. Quando Antonio mi svolgeva il massaggio mi ha fatto fare un esercizio d’immaginazione. Nella prima fase dell’esercizio mi ha chiesto “Come ti senti?” Gli ho risposto subito, dicendo “Triste”. Alla mia risposta mi ha fatto scegliere un colore per la tristezza. Io ho scelto il colore nero. Dopo mi ha detto, “Bene ora prendi un foglio e mi colori tutto quel foglio di nero”. Con la mia immaginazione l’ho colorato tutto di nero. Verso la fine del disegno ho spinto talmente tanto con la punta del pennarello… Ho concentrato lì tutta la mia tensione tanto da creare due grossi buchi, lì nel foglio immaginario.
Dopo qualche minuto mi ha chiesto se avevo fatto l’esercizio. E io gli risposto di sì.
Dopo mi ha detto: “Bene ora prendi questo foglio e immagina di buttarlo via”. Allora con tutta la forza del pensiero l’ho buttato via.
Nella seconda fase dell’esercizio Antonio mi ha fatto scegliere un altro colore mio preferito, e io ho scelto il colore azzurro intenso. Allora dopo aver scelto il colore mi ha detto: “Bene ora prova a immagina-
re di cospargere l’azzurro. E io non ho immaginato di cospargere l’azzurro intenso. Ma ho cosparso anche altri colori. Il rosso e il giallo. L’esercizio dei colori durante il massaggio mi faceva rilassare, mi è piaciuto”.

Andrea Mezzetti
“Lo shiatsu? È una tecnica di massaggio che sperimentiamo in un laboratorio che facciamo il giovedì con la collaborazione di due operatori preparati. Il loro compito a mio parere viene svolto assolutamente in maniera corretta, eccezionale direi. Dove tutte le volte mi rilasso talmente tanto che mi ingubbio, mi addormento per dirlo in italiano, è troppo rilassante!
Forse dico questo perché a me è stata miracolosamente assegnata la ragazza.
In questi incontri ho sentito che i muscoli si rilassano. Il mio corpo si addormenta. In realtà non vorrei addormentarmi perché lo vedo come fallimento, ho paura di offendere i miei compagni e fuori da qui faccio fatica a chiedere aiuto. Però quando mi sveglio sto bene perché mi sento la testa libera”.

Lettere al direttore

Caro Claudio,
avrei alcune domande che la timidezza, durante il vostro bellissimo al nostro convegno, mi ha impedito di porvi. Una per Claudio e un’altra per Luca e Tristano!
Vorrei sapere se non ci sono momenti in cui pensi che la sfiga prevale sulla sfida e quindi non sia forte la tentazione di mollare tutto… E a chi dare la colpa di quella sfiga?
E poi mi chiedo… quale stato d’animo avete voi collaboratori dopo una giornata di lavoro con i disabili?
Grazie mille per questa serata piena di emozioni e di lezioni di vita!
Sarei grata di una vostra risposta! Martina

Ciao Martina…
Bella domanda! Hai perfettamente ragione, tante volte ho fatto fatica a reagire alla sfiga. Per usare un luogo comune anche io ti dico che tutte le esistenze non sono mai solo rose e fiori. Spesso ci si abbatte.
Ci sono delle tappe fondamentali però, che se riusciamo a portare a termine, possono aiutarci nel superare questi momenti. Acquisire consapevolezza nei propri mezzi. Costruirsi un’identità. Dopo anni ho capito che è inutile e dannoso cercare eventuali colpevoli per questa sfiga, perché non ce ne sono, ognuno è protagonista della sua esistenza. “Io sono il padrone del mio destino. Io sono il capitano della mia anima”, diceva Nelson Mandela, un leitmotiv che è sempre rimasto con me.
Questa convinzione è necessaria nella costruzione della propria identità, anche per liberarsi da inutili sensi di colpa.
Credo che ci sia una domanda fondamentale nel percorso di accettazione dei nostri limiti, della consapevolezza di noi stessi. Domanda che tutti si sono fatti, giovani e anziani, disabili e normodotati… “Perché proprio a me?”.
Mi è subito venuto in mente il passo del vangelo di Giovanni “Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare.” (cap. 9, ver. 2-4)
La mia prima considerazione è sulla domanda, dunque sulla causa, sugli eventuali colpevoli della cecità dell’uomo. A Gesù viene praticamente chiesto se il deficit derivi dalla colpa/peccato di qualcuno. La colpa non è di nessuno, risponde, spostando l’attenzione sul senso più che sulla causa. Questa è la parte che reputo più interessante.
Un gesto creativo ed educativo evidente che evita di dare responsabilità oggettive e si concentra sul contesto più che sulla persona. Questo passaggio è stato decisivo nella mia esperienza.
Il concetto è ampio e generale e va applicato non solo nell’esperienza delle persone con disabilità ma quando si ha consapevolezza dei propri limiti e delle proprie qualità.
Per quanto riguarda invece lo sforzo di una lunga giornata di lavoro… Direi che vale per tutti i lavori! Tristano e Luca hanno scelto questo mestiere, che a volte può comportare fatica, rabbia e frustrazione ma che se fatto con passione può riempirti di soddisfazioni e orgoglio. Anzi, come sottolinea spesso Luca al Centro Documentazione Handicap, la soddisfazione che porta un lavoro ben fatto può eliminare qualsiasi stress o fatica. Un abbraccio dai bolognesi.
Claudio, Luca e Tristano e buona vita!

Carissimo Claudio
sono la mamma di Matteo un ragazzo di 18 anni affetto da encefalopatia epilettica (sindrome di Lennox-Gastaut), il quale frequenta non senza poche difficoltà la seconda superiore di Agraria. L’inclusione per lui sembra un miraggio visto che ama abbracciare i compagni e questo è motivo
di disturbo a vista degli insegnanti. Viste le crisi epilettiche poi non può frequentare la palestra, la serra interna è altro motivo di divieto. Allora io mi chiedo: non può un disabile sognare e vivere libero da pregiudizi?
Cordiali saluti, Giancarla

Cara Giancarla,
grazie per avermi scritto e scusa se rispondo solo ora.
Mi confronto spesso con dei genitori come lei, ognuno con la propria esperienza, ognuno con la propria difficoltà…
Quello che accomuna tutte queste esperienze deve necessariamente essere la forza e la speranza come dici tu di costruire un mondo libero da pregiudizi. Di lavoro ce n’è tanto da fare…
Valorizzare le qualità di Matteo comporterà delle difficoltà, ma è la strada da intraprendere. Quegli stessi abbracci ai compagni che in quel contesto scolastico sono considerati un limite, in altri contesti, dai laboratori alle discipline sportive accessibili, possono diventare risorse.
Alcuni anni fa scrissi un articolo, la storia di un soldatino di plastica con un difetto di fabbrica, con una gamba fatta male. Un soldatino che non riusciva a fare quello che facevano gli altri…
Io da bambino, mentre giocavo, lo osservavo… In un attimo eravate disposti, in posizione… ma notavo qualcosa di diverso in te. Continuavo a metterti in piedi, in condizione di combattere. Ma tu continuavi a cadere. Solo allora ho capito.
Avevi un difetto di fabbrica e non potevi rimanere in piedi”.
Proprio come me.
La prima cosa che ho pensato, caro Jack, questo il nome del soldatino nella mia fervida fantasia da pre-adolescente, è stata che la tua disabilità portava la pace. Tu potevi essere tante cose, ma sicuramente non saresti mai stato un eroico condottiero.
Avevo due possibilità per te, potevo eliminarti, farti fare il ruolo del morto oppure creare, costruirti un contesto dove potevi valorizzare le tue qualità.
Non sto parlando solo di voi soldatini, sto parlando dell’intero mondo della disabilità. Possiamo considerarci morti, invisibili, vegetali. Oppure possiamo collaborare per creare una realtà, un contesto dove poter esaltare le potenzialità e metterle a disposizione nostra e degli altri.
Come potevo valorizzare le tue qualità da soldatino disabile?
Da bravo marine dovevi mettere le tue capacità a disposizione della tua squadra, così ti ho sdraiato con il tuo mitragliatore che puntava un po’ alla rinfusa.
Ma non era quello l’importante. Importava cosa vedevi dalla tua prospettiva, cosa potevi sentire.
Ti immaginavo così, vicino al suolo, ad ascoltare il rumore e gli odori dei nemici, i passi degli invasori avvicinarsi alla base… Dalla tua visuale potevi vedere gli spostamenti dei tuoi compagni, avere una visione ampia delle cose e avere la situazione sotto controllo.
Siamo alle solite. Guardare il mondo da un’altra prospettiva rimane la carta vincente per costruire una cultura di pace. Cultura di pace che in fondo non è altro che il rispetto e la valorizzazione delle diversità, dell’alterità, poiché la disabilità è disarmante.
Un abbraccio e buona vita
Claudio Imprudente