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Autore: Nicola Rabbi

11. Gog & Magog, libri e giochi per un’inclusione creativa

Strumenti, libri e giochi per un’educazione inclusiva e multisensoriale, materiali per lo sviluppo del linguaggio e le difficoltà di apprendimento, un servizio di consulenza pedagogica, laboratori di formazione aperti a tutti, consulenze bibliografiche. Questo è Gog & Magog negozio online attivo a Milano dal 1984 e conosciuto in tutto il territorio nazionale, che la cooperativa sociale bolognese Accaparlante ha preso in gestione da Marina e Nino Gullo.
Tradizionalmente Gog & Magog è nato rivolgendosi a terapisti, insegnanti, educatori, persone con disabilità e famiglie con l’obiettivo di proporre materiali per lo sviluppo del linguaggio e le difficoltà di apprendimento.
Con il passaggio di gestione alla cooperativa Accaparlante, la direzione di lavoro si è ampliata arricchendosi di strumenti e risorse
accessibili e inclusive per l’apprendimento e il gioco, anche in presenza di deficit sensoriali, cognitivi e motori, nell’età evolutiva e non solo.
L’interesse per i giochi inclusivi e i libri accessibili si riallaccia all’impegno che da decenni la cooperativa Accaparlante – in collaborazione stretta con l’Associazione Centro Documentazione Handicap – dedica alle tematiche connesse all’accessibilità e all’inclusione in tutti i contesti di vita, che ha portato alla realizzazione di attività come “Gioco Libera Tutti” sull’accessibilità al gioco e allo sport, “Cultura Libera Tutti” sull’accessibilità culturale, “Libriamoci”, spazio e progetti per i libri accessibili, “Ingresso Libero” sull’accessibilità ai luoghi attraverso interventi di mappatura del territorio realizzati insieme a persone con disabilità motorie, sensoriali e relazionali.
L’attività commerciale di Gog e Magog è, quindi, solo una parte di un progetto più complessivo sull’accessibilità e l’inclusività dei contesti di vita.
Per questo il gruppo di lavoro di Accaparlante, composto da pedagogisti ed educatori, affianca ai prodotti del negozio online ulteriori proposte quali laboratori formativi e di animazione – tra cui il Progetto Calamaio – consulenze educative e ricerche bibliografiche grazie al supporto della biblioteca del Centro Documentazione Handicap specializzata sui temi della disabilità e più in generale della diversità, i cui testi dal 2015 sono consultabili anche tramite OPAC.
Fra le novità messe in campo uno spazio, presso la sede del Centro Documentazione Handicap, dove conoscere e sperimentare giochi, strumenti, libri accessibili e inclusivi e il kit #MaiPiùSenza: una selezione di giochi che rispondono ai criteri di inclusività e accessibilità, di ottima qualità e provenienti da produttori attenti all’aspetto etico.

Per saperne di più:
www.gogemagog.it

10. Silenzio, si gioca!

di Martina Gerosa con Fabrizio Carucci, Chiara Foschi, Ilaria Galbusera e Onoria Neri

Preparando il piccolo contributo per questa monografia, ho recuperato alcune foto della mia infanzia in cui gioco. È veramente emozionante rivedere queste immagini e pensare a quanti e quali giochi abbiano intessuto la trama della mia vita, sia da bambina che da adulta!
Rispetto al gioco e alla disabilità, a ben rifletterci, personalmente non ho percepito limitazioni di qualche tipo, anzi. Proprio nel gioco, fin da piccola, mi sentivo felice e libera, in grado di esprimermi creativamente. Per esser certa della mia memoria, ho chiesto a mia madre come mi ricorda nei momenti ludici dell’infanzia e mi ha confermato che nel gioco non sono mai stata handicappata. Penso che in fondo i miei genitori per primi non mi abbiano mai vista come svantaggiata, ma semplicemente con un problema superabile grazie a strumenti e accorgimenti, e oltre a vedere il mio deficit hanno sempre saputo valorizzare le risorse che ho dimostrato di avere fin da piccola.
C’erano anche alcuni giochi che – tramutando quello che sarebbe stato un duro esercizio in divertente esperienza ludica – mi supportavano nel percorso di apprendimento del linguaggio, come i quartetti e le tombole, permettendomi di estendere il mio vocabolario, visto che per apprendere parole nuove per me l’unico modo era di visualizzarle in forma scritta, esattamente come nel percorso di apprendimento logopedico con i “cartoncini di Martimuma” (in appendice al libro di Paola Magi, Il pianista che ascolta con le dita, Archivio Dedalus Edizioni – AccaparlantEdizioni è il racconto de “I cartoncini di Martimuma”).
Non c’è stato gioco che non abbia sperimentato, anche inventando con poco e niente, specialmente nelle lunghe estati trascorse all’aria aperta sui monti.
Quante ore trascorse a giocare a palla contro il muro o con un semplice elastico… Per una bambina con disabilità uditiva come me, il gioco era davvero lo spazio migliore di espressione in cui cadevano barriere che potevano esserci all’asilo, come poi a scuola, dove dovevo stare costantemente in comunicazione con gli altri, insegnanti e compagni che fossero, principalmente attraverso il canale uditivo, in modo da eseguire i compiti che venivano assegnati quasi sempre a voce… Meno male che all’asilo potei trascorrere ore e ore a disegnare: il disegno è stato infatti il mio primo modo di comunicare.
È ciò che succede, a ben pensarci, anche ai bambini stranieri nelle classi multietniche di oggi: nel fare giocando, se sussistono difficoltà di comunicazione, attraverso i processi imitativi – cogliendo in particolare i movimenti e le immagini oltre le parole – ogni ostacolo viene meno.
Mi son imbattuta recentemente nel metodo TPR – Total Phisical Response, messo a punto negli anni ’70 da James Asher, professore emerito di Psicologia presso la San José State University, scoprendo che è stato applicato a Milano da Arcangela Mastromarco e altri che hanno riscontrato come i bambini stranieri appena giunti in Italia apprendano la lingua italiana attraverso un approccio multimodale legato non solo alle parole, ma al movimento fisico e agli oggetti, come alle loro immagini.
Credo che in presenza di disabilità uditiva sia la sinestesia, una delle principali caratteristiche di quasi ogni gioco, a rendere il gioco accessibile anche se eventuali parole presenti non arrivano integre alle orecchie. Nel caso dei giochi in scatola tipo i quiz l’essenziale per me era non limitarmi ad ascoltare chi declamava le domande, ma prendere in mano le carte con i quesiti e leggerli!
Ho provato a rivolgere la domanda su cosa ricordassero dei loro giochi ad amici che come me hanno vissuto fin da piccoli con una disabilità uditiva.
Chiara Foschi mi ha detto: “Io cantavo e ballavo e lo faccio ancora adesso! E giocavo a fare la maestra con le bambole!”. Le ho risposto: “Che meraviglia, tu sì che andavi oltre ogni barriera! Nel cantare e ballare io invece son sempre stata bloccata… ma chissà – mi domando infatti sempre quanto di noi dipenda dai nostri limiti e quanto invece dal nostro modo di essere, dal carattere – non è che io abbia semplicemente preso dal papà che nel ballo è sempre stato un po’ un orso? Invece per quanto riguarda il cantare… beh la mia voce l’ho sempre sentita così strana e diversa e quando ero piccola avevo come la sensazione che uscisse da me con fatica… figuriamoci allora se cantavo!”. Chiara mi ha risposto: “Sono stonatissima ma me ne frego! Ah ah ah! Oppure cantavo e canto in playback!”.
Fabrizio Carucci ha scritto: “Con me invece sono stati più severi. Non mi hanno mai fatto giocare con macchinine e costruzioni in genere (o forse molto raramente), prediligevano giochi da tavolo o comunque che giocassi con qualcuno. In ogni caso mi ricordo più la mia infanzia studiando che giocando. Ho ripreso a giocare solo da più grande.
Colpita da questa risposta di Fabrizio gli ho domandato: “Hai idea del perché non ti facessero giocare con le macchinine e le costruzioni? Io stessa con i Lego e i cubi oltre che con le bambole ho giocato molto… Il fatto che tu ricordi di aver passato nella tua infanzia più tempo sui libri e a tavolino con i giochi in scatola non è che sia da collegare alla pratica della logopedia che si doveva svolgere in quello stesso modo?”.
Mi ha risposto il caro amico: “Può darsi, mia mamma quando vuole raggiungere un obiettivo (anche adesso) fa terra bruciata di tutto il resto. Quindi immagino che lei avesse come obiettivo prioritario, almeno nei primi anni, quello di insegnarmi a parlare e impediva a me e a mia sorella di giocare o perlomeno ci limitava molto. Ovvio che quando andavo all’asilo o a casa di altri potevo tranquillamente giocare. Ma non ho nitidi ricordi di giochi e divertimento da piccolo. Il primo ricordo di gioco è di quando eravamo in campagna dove giocavamo a nascondino, moscacieca, casa sull’albero, ma ero già grandicello, dovevo avere 8-9 anni. E comunque non ho mai potuto giocare a macchinine e tanti altri giochi per bambini, solo giochi da tavolo. Il paradosso è che adesso a me piacciono molto le macchinine!”.
Ilaria Galbusera ha raccontato: “Anch’io come te non ho avuto grossi limiti e mi ritrovo nelle tue esperienze. Nei giochi di gruppo sono sempre stata una bambina molto competitiva, volevo primeggiare in tutto a dimostrazione che la sordità non è un limite e non ti ostacola nel fare qualcosa (ammetto che questo spirito di competizione e di mettermi in gioco non manca tutt’oggi).
Ricordo di lezioni di logopedia e di musicoterapia fatte tutte sotto forma di gioco, su per giù fino ai 7/8 anni, considerando che ero una bambina molto vivace. Quindi la matematica erano i pezzi dei Lego che si sommavano o si sottraevano ad altri, la grammatica era la competizione con mio fratello (a cui devo tanto se sono quella che sono ora) a chi imparava più parole, l’italiano erano le corse a chi arrivava primo fino a un tabellone, che aveva le taschine e ciascuna era nominata con una lettera dell’alfabeto, in cui bisognava inserire la giusta immagine corrispondente.
Crescendo i giochi non sono mai stati un problema, lo erano invece i cartoni animati che allora non avevano i sottotitoli. La voglia di giocare e di competere poi si è tramutata nello sport”.
I libri sono infine un mondo favoloso e insostituibile, in cui moltissimi di noi, bambine e bambini con disabilità uditiva, ci siamo rifugiati per ore e ore per apprendere in modo rilassante e divertente, mentre un’altra amica, Onoria Neri, che è ipovedente dalla nascita, ha raccontato di come lei le limitazioni le avesse proprio più sui libri, preferendo i definiti contorni delle immagini di Braccio di Ferro e della Pimpa a quelle più confuse di Topolino.

A casa di Lorella
Con mia sorella da piccole giocavamo insieme, nel corridoio di casa, a pallavolo.
Usavamo però una strategia che mi permettesse di giocare insieme a lei: usavo dei palloncini di plastica gonfiabili, così non ci facevamo male.
Sempre in casa io e lei ballavamo il Rock acrobatico e io facevo la parte dell’uomo. Solo che lei mi faceva fare le volanti. Una volta non mi ha presa in tempo e sono caduta tra i nostri due letti in camera mia, mi sono rotta un dito e ho tenuto un mese di gesso.
Lorella
Testimonianza raccolta durante un incontro sul tema del gioco nell’équipe del Progetto Calamaio

Al ritorno da scuola
Stefania: Io vorrei giocare con te! Ci stai?
Paola: Sì!
Stefania: Davvero? A cosa giochiamo?
Paola: Ho un’idea: giochiamo a Tegamini?
Stefania: Ok!
Paola: Ma come?
Stefania: Aspetta un attimo bisogna che ci organizziamo! Buona domanda, infatti bisogna che ci organizziamo! Non si può fare subito! Ora tocca a me, ci devo arrivare io da sola, se non ci arrivo io non ci arriva nessuno! Se vuoi giocare con me devi aspettare che mi organizzi, non posso farlo adesso.
Paola: Perché?
Stefania: È troppo difficile! Non me la sento di affrontarlo adesso come se niente fosse ho bisogno di tempo! Devi sapere che se faccio le cose in fretta rischio di fare le cose fatte male e questo non mi va!
So che tu mi vorresti aiutare! C’è una cosa che devo dirti e vorrei dirti a proposto di questo, a proposito del come aiutarmi! Lascia che ti spieghi, se non ti spiego come fai tu a capire bene di cosa ho bisogno! Tu devi ancora crescere almeno quanto me se non di più, a quanto ne so tu sei anche brava e intelligente ma sei ancora piccola, non sei una cima, non sei neanche un indovino, sai cos’è che manca a te rispetto a me? La mia esperienza diretta! Tu non sei in carrozza come me! Se c’é qualcosa che non capisci, che non ti è molto chiaro, se hai qualche dubbio, se non mi lasci parlare… Già sono lunga io da sola se no ho paura di perdermi e dopo come faccio se perdo il filo del discorso?!
Sorella: Tu non mi hai ancora detto che cosa ti serve per giocare con me!
Stefania: mi serve un tavolino!
Stefania
Testimonianza raccolta durante un incontro sul tema del gioco nell’équipe del Progetto Calamaio

9. Una piccola grande indipendenza

di Giuseppina Testi, Iader e Tatiana Vitali

Giuseppina, Iader e Tatiana. Una coppia di genitori e una figlia, ormai adulta, ci hanno raccontato l’importanza di rendere il gioco libero e il più possibile autonomo anche per i bambini che hanno una disabilità e di tutti gli aggiustamenti, tecnici e creativi a un tempo, che hanno reso possibile a Tatiana giocare come, e insieme a, gli altri bambini.
Si può ritrovare la loro esperienza in: Tatiana Vitali, Rita Mastellari, Francesco Ganzaroli, Giuseppina Testi, Iader Vitali,
Impossibili possibilità, Erickson, Trento, 2013.

Giuseppina
Sono la mamma di Tatiana e, in tutti questi anni, avendo avuto una figlia con tetraparesi spastica, ho cercato attraverso il gioco di darle tante possibilità. So che la prima cosa che fa un bambino quando nasce è conoscere l’ambiente, il mondo circostante, attraverso il corpo. Man mano che cresce e passano i mesi e gli anni il bambino amplia la sua conoscenza attraverso il gioco.
Ovviamente Tatiana non ha potuto fare questo perché la sua mobilità glielo impediva. Sapevo che attraverso il gioco le potevo dare l’occasione di fare delle esperienze, conoscere l’ambiente, toccare e sperimentarsi con tutto quello che c’era intorno a lei. Diversamente, un bambino con una difficoltà come la sua poteva essere molto limitato.
Ho cercato fin dall’inizio, da quando era molto piccola, di darle l’opportunità di toccare, di conoscere, le parlavo moltissimo e, attraverso alcuni semplici giochi, cercavo di farle fare esperienza. Sapevo che la conoscenza del gioco, il giocare, è molto importante per la crescita del bambino, per il suo sviluppo intellettivo, per il linguaggio, per la sua autostima. Poter giocare permette di staccarsi dalla madre, i primi giochi permettono il distacco fra la madre e il figlio. Ho cercato sempre, attraverso tanti giochi, di darle questa opportunità, di darle il piacere di giocare. Lo facevamo tutto il giorno, anche attraverso la fisioterapia (e lei ne faceva tanta) in modo che questo diventasse per lei parte di un conoscere il mondo. Attraverso le mie mani ovviamente, però così le davo l’opportunità di poter toccare, poter sperimentare, anche se forse in forma limitata, però sicuramente ho cercato tanto di farle conoscere tutti i giochi, di giocare con lei, di darle la soddisfazione di giocare. Poi ha cominciato a incontrarsi con le amichette e giocavano insieme. Tutto questo è stato possibile attraverso i giocattoli che compravamo: tutti i giocattoli che lei poteva toccare sono stati modificati da mio marito.

Tatiana
Sono un’educatrice animatrice del Progetto Calamaio della Cooperativa Accaparlante, penso che il gioco sia un’attività libera, ma per i bambini con la mia disabilità non è sempre facile giocare liberamente! Nel mio caso è stato possibile grazie a mio padre che ha inventato e creato degli ausili adatti alla mia disabilità che mi permettevano di giocare autonomamente.

Iader
Sono il papà di Tatiana e, come ha appena spiegato mia moglie, posso dire che siamo sempre stati consapevoli del fatto che il gioco per i bambini è un’attività molto molto importante, che stimola anche le loro capacità intellettive e quindi ci è sempre interessato. Quando è nata Tatiana (siamo nei primi anni ’80) non c’erano giocattoli nati con l’idea di poter essere usati da bambini con difficoltà motorie. Mi rendevo conto che Tatiana faceva molta fatica a usare i giocattoli normalmente in commercio quindi ho cominciato a pensare come poterli modificare in maniera da renderle possibile la presa con una sola mano e darle la possibilità di poter giocare anche autonomamente, senza aver bisogno di dipendere dalla mamma, dal papà o dalle amichette. Così sono nate varie idee e ci siamo resi conto che Tatiana ha sviluppato anche la capacità di giocare da sola, non aveva bisogno di essere guidata ma inventava giochi, come vedevamo fare dalle sue amichette. Prima di questi piccoli interventi tecnici lei non riusciva a farlo! E così per parecchi anni questa mia voglia di modificare i giocattoli le ha consentito una piccola grande indipendenza.
Voglio presentarvi alcuni giocattoli che ho modificato o che ho costruito ex novo.
Intanto, un gioco di simulazione costruito con le mie mani: insieme a Tatiana e ai nostri amici abbiamo sempre fatto le vacanze in gommone, in giro per i mari della Croazia così ho pensato di ricostruire in piccolo il nostro contesto abitativo. Non era semplice costruire un gommone così l’ho sostituito con una zattera sulla quale ho collocato alcune piccole bambole che rappresentavano Tatiana sulla sua seggiolina e noi genitori.
Poi ho messo la tenda, alcuni piccoli giochi, l’armadio, e così lei ha potuto giocare simulando la nostra vita di campeggio nautico.
Cicciobello. A tutti i bambini piace giocare con le bambole ma per Tatiana era difficile tenerle strette così ho applicato sulla schiena del suo amato Cicciobello uno di quei classici fermalibri di metallo facendo in modo che il bambolotto restasse seduto. Poi, per permetterle di azionare il pulsante che lo faceva piangere e che lei non era in grado di spingere, gli ho applicato una leva sulla schiena.
Il gioco dei timbri. A Tatiana piacevano molto ma non riusciva ad afferrali per il tipo di impugnatura né a colorare le immagini stampate perché erano troppo piccoline e lei aveva dei movimenti piuttosto incontrollabili, data la sua spasticità. Così ho applicato sopra ai timbri dei prolungamenti di legno, delle specie di protesi, in maniera che lei potesse afferrarli, intingerli nell’inchiostro e stamparli sulla carta. Poi noi facevamo ingrandire questi fogli con le stampe, in modo che lei potesse colorare le immagini restando nei margini di queste figure molto più grandi di quelle degli stampini. Abbiamo riempito letteralmente la casa delle sue opere d’arte!
La dama. Avevamo una comunissima dama con pedine calamitate però Tatiana non riusciva ad afferrarle perché erano troppo piccole. Così sono riuscito a trovare un gioco simile ma con le pedine degli scacchi e le ho incollate sulle pedine della dama in maniera che lei riuscisse ad afferrarle con due dita, che ce la facesse in qualche modo a prendere queste microscopiche pedine. Questo gioco ci ha seguito durante tutte le vacanze, io e Tatiana abbiamo fatto tantissime partite e, debbo essere onesto, a un certo punto ho cominciato a schivare questi impegni di gioco perché fondamentalmente a me non piace perdere e con Tatiana invece mi succedeva spesso.

8. Il gioco è un diritto

di Ivan Nanni, Aziz Rouame, Brunella Stefanelli, Daniela Tanzini, Centro Ausili Tecnologici Bologna

Sono un bambino con difficoltà motorie e posso giocare… se tu usi la tua creatività per costruire ambienti e attività ludiche che favoriscono la mia partecipazione e il mio divertimento!
• Posso comandare uno spara-bolle o una macchinina telecomandata
• posso, con un solo movimento, controllare il comando principale di un gioco della play station (calciare la palla, spingere l’acceleratore della macchina o della moto, sparare, ecc.)
◦ posso giocare con i giochi del computer con ausili adatti a me che sostituiscano il mouse e la tastiera
◦ posso comandare un registratore per sentire musica e spegnerla quando voglio
◦ posso guidare una macchinina elettrica
◦ posso andare in bicicletta con un adeguato sistema di postura
◦ se mi lasci da solo con i miei compagni possiamo inventarci un gioco insieme
◦ se fissi un gioco in alto alla parete con un filo e lo porti davanti a me, io posso giocarci ed esplorarlo senza farlo cadere involontariamente, con i miei movimenti
◦ se metti del velcro sui giocattoli posso riuscire ad afferrarli meglio indossando guantini di cotone, stai attento anche a come vengono posizionati i giocattoli e se è necessario fissarli al mio tavolino
◦ i giocattoli si possono adattare perché io possa usarli meglio.

Il CAT (Centro Ausili Tecnologici) dell’Azienda USL di Bologna gestito in convenzione dall’équipe di Ausilioteca AIAS si occupa anche di accesso al gioco e offre agli operatori e alle famiglie un supporto metodologico e tecnico per facilitare l’accessibilità al gioco in tutte le sue accezioni. Qui è possibile trovare aiuto per individuare attività e favorire l’accessibilità per consentire a bambini, ragazzi e adulti di poter giocare e partecipare ad attività ludiche. L’idea che ci guida è l’attenzione al gioco come occasione per divertirsi, pur sapendo quanto apprendimento venga veicolato attraverso il giocare.
Le richieste più frequenti che il centro riceve riguardano dove reperire i giocattoli più adatti, come sceglierli, come modificarli, che attività proporre, come accedere ai videogiochi.
A volte vengono consigliati giocattoli già modificati, reperibili presso le ditte che distribuiscono ausili, altre volte giocattoli che reperiamo sul mercato che presentano già buone caratteristiche di accessibilità, altre volte le indicazioni riguardano il posizionamento e il fissaggio di giocattoli o singoli elementi del gioco.
Puzzle, colori con impugnature particolari, spara-bolle, piccoli aerografi, questi e tanti altri giocattoli possono essere utilizzati anche da chi ha la possibilità di controllare unicamente un distretto corporeo e di fare un unico gesto volontario.
Presso il Centro Ausili un’équipe multidisciplinare è a disposizione delle persone con disabilità, dei famigliari e degli operatori per individuare il gesto funzionale per poter giocare attivamente e con il minor sforzo individuando le attività ludiche, i giocattoli e, se necessario, tutti gli strumenti che occorrono per favorire la massima partecipazione e autonomia nel gioco.
Quando ricerchiamo giocattoli da modificare nella grande distribuzione, cerchiamo soprattutto quelli che consentano lo svolgimento di attività da condividere con i compagni e che consentano al bambino e al ragazzo con disabilità di avere un ruolo attivo.

Giocare al computer
I bambini con limitazioni motorie imparano, come tanti altri, a interagire con il computer semplicemente giocando: sono infatti sufficienti un programma causa-effetto adeguato e un singolo comando esterno, per creare un ambiente ludico in cui i piccoli, divertendosi, sperimentano nuovi stimoli e nuovi modi di giocare che differiscono dal gioco tradizionale in cui è prevista l’interazione con il giocattolo.
Crescendo spesso cresce anche l’interesse per i videogame ma aumenta la difficoltà nel reperire, attraverso i canali commerciali tradizionali, i videogiochi di loro gradimento e che garantiranno loro piena accessibilità.
Questa è una situazione molto frequente per tutti quei videogamers che presentano difficoltà motorie tali da richiedere l’uso di interfacce alternative per interagire con il pc, come quelle basate sui sensori esterni e sulla scansione manuale o automatica. In casi del genere, purtroppo, non ci sono al momento molti margini tecnici per adattare prodotti commerciali preconfezionati privi di un’interfaccia speciale che consenta a chi ha difficoltà alle mani di divertirsi.
La situazione è diversa se i videogiocatori presentano lievi limitazioni motorie agli arti superiori per cui l’uso della tastiera standard e/o del joystick è ancora possibile. In casi del genere la probabilità di reperire prodotti pienamente fruibili è molto più alta considerando che molti videogame commerciali sono stati progettati per essere proprio usufruiti dagli utilizzatori mediante i tasti direzionali. La stessa considerazione è possibile farla anche relativamente a quei videogame dove il dispositivo di input previsto è eventualmente il puntamento: anche in questo caso infatti è possibile rendere il prodotto pienamente fruibile attraverso le impostazioni di Accesso Facilitato (funzionalità prevista dal Sistema Operativo Windows) che consente di emulare il mouse mediante il tastierino numerico della tastiera standard.

Giocare con le console
Quando video-giochiamo impugnando il joypad e utilizzando gli stick analogici possiamo renderci conto di quanto siano poco accessibili. Rispetto al personal computer, una console è un sistema decisamente chiuso, pensato per essere utilizzato con strumenti poco accessibili come i joypad. Solo gli esperti informatici possono modificare software e hardware, e anche per loro non è facile.
Tutti i sistemi di adattamento del computer pensati per persone con disabilità non sono direttamente trasferibili alle console di gioco che hanno evidenti problemi di accessibilità, a causa del come vengono pensati e sviluppati i videogiochi. A ciò bisogna aggiungere il fatto che molti giochi sono pensati prevedendo l’utilizzo di più tasti e più movimenti contemporaneamente.
Parlando di console dobbiamo quindi ricordare che esistono sia una componente hardware che una software. La domanda ora è: in che ambito possiamo muoverci per migliorare l’accessibilità di questi due aspetti?
Dal punto di vista dell’hardware dobbiamo tenere in considerazione che un joypad per Playstation o per Xbox consta di uno o due mini-stick e di una decina e più di tasti funzione (più i tasti di controllo). Le modifiche che si possono effettuare sono relative ad adattamenti artigianali dei sensori esterni per emulare alcune funzionalità (es: http://punto-informatico.it/2471891/PI/News/fai-da-te-gamepad-totaledisabili.aspx). L’emulazione di tutte le funzionalità, sebbene possibile, richiede tutta una serie di accorgimenti che meritano di volta in volta un’azione personalizzata che deve comprendere sia le capacità motorie che quelle cognitive della persona.
Dal punto di vista del software, invece, l’unica strada percorribile sta nel cambiamento di pensiero da parte dei creatori del videogioco: bisogna lavorare per rendere alcune caratteristiche del gioco tali da permetterne l’utilizzo da parte di persone che hanno una capacità di esecuzione dei comandi diversamente veloce rispetto a una persona normodotata.
Come in tante altre situazioni, quindi, l’accessibilità va pensata ad anteriori e non a posteriori, pur tenendo conto che un grosso ruolo dovrebbe averlo (il condizionale è d’obbligo) la fase di progettazione del gioco.
Inoltre, con ciascuna persona con disabilità va costruito un percorso comune di adattamento del gioco, in cui il CAT può mettere in campo le proprie conoscenze tecniche nella ricerca e progettazione di eventuali adattamenti.

Centro ausili tecnologici – CAT
Il Centro Ausili Tecnologici dell’Azienda USL di Bologna si occupa della proposta di ausili a tecnologia avanzata per l’autonomia e la qualità della vita delle persone con disabilità.
Le principali aree di intervento del CAT sono la comunicazione, il gioco, l’uso del pc e di altre tecnologie per la produttività negli ambiti della vita familiare, dell’integrazione sociale, scolastica e lavorativa, il controllo ambientale.
Attraverso un’équipe multidisciplinare, il CAT svolge molteplici attività rivolte alle persone con disabilità, alle loro famiglie e agli operatori della riabilitazione, della scuola e del sociale; si relaziona con le aziende del mercato degli ausili e con le realtà della ricerca.
Il CAT effettua prestazioni di informazione, di valutazione e di supporto per l’individuazione e l’uso degli ausili tecnologici, anche in collaborazione con i centri di Corte Roncati. La valutazione finalizzata alla proposta di ausili elettronici e informatici viene effettuata all’interno di un progetto personalizzato, in collaborazione con i Servizi che hanno in carico il caso; le attività di supporto sono finalizzate all’inserimento dell’ausilio nella situazione di vita e comprendono: il prestito di ausili, l’addestramento all’uso, gli interventi educativi e le personalizzazioni tecniche. Gli operatori professionali possono rivolgersi al CAT per approfondimenti su aspetti tecnici, educativi e metodologici.
L’accesso al Centro è gratuito e su appuntamento.
Polo multifunzionale per le disabilità “Corte Roncati” Az. USL Bologna
via Sant’Isaia 90
40123 Bologna
tel. 0516597711
fax 0516597737
info@ausilioteca.org
www.ausilioteca.org

7. Click4all: la tastiera fatta con qualsiasi cosa

di Nicola Gencarelli, Fondazione ASPHI Onlus

La Fondazione ASPHI Onlus dal 1980 si occupa di tecnologie digitali e disabilità, con una particolare attenzione rispetto all’accessibilità informatica. Il nostro team di ricerca è impegnato nello studio degli accorgimenti, delle strategie e degli strumenti che possono rendere le tecnologie digitali accessibili alle persone con deficit motori, sensoriali, cognitivi. Una delle linee di ricerca riguarda l’accessibilità dei giochi digitali.
Gli oggetti che ci circondano non sono progettati pensando alle esigenze di tutti. Che abilità bisogna avere per afferrare uno spazzolino, girare la maniglia di una porta, sedersi su un’altalena? Computer, smartphone e tablet, telecomandi ed elettrodomestici non fanno eccezione: digitare su una tastiera, muovere un mouse o sfiorare uno schermo touch sono attività quotidiane che richiedono movimenti precisi, controllati. Aspetti determinanti come, ad esempio, le dimensioni di un pulsante, la forma e il materiale con cui è fabbricato, la forza necessaria a premerlo, dipendono da scelte industriali che non tengono conto delle differenti abilità e disabilità motorie, sensoriali e cognitive. Abilità e disabilità che, oltre a variare da persona a persona, possono evolvere nel tempo, cambiare in modo improvviso, temporaneo o permanente.
La standardizzazione di telecomandi, joystick, mouse e tastiere è strettamente legata quindi all’inaccessibilità dei giochi digitali e dell’intrattenimento multimediale.
Esistono diverse soluzioni per favorire l’accessibilità di giochi e applicazioni ludiche al computer, sui dispositivi mobili e sulle piattaforme dedicate ai videogiochi (Xbox, Wii, Playstation). In particolare, si può fare riferimento alla consulenza dei centri ausili italiani (www.centriausili.it) per sperimentare ausili informatici che consentono di controllare un gioco digitale, un’applicazione per tablet o un televisore con interfacce alternative a quelle tradizionali: diversi tipi di sensore (a pressione, a sfioramento, a tocco), controllo vocale, movimento del capo, movimento degli occhi…
Partendo dal lavoro svolto con bambini e giovani adulti disabili presso scuole e centri di riabilitazione, il team di ricerca di Fondazione ASPHI Onlus ha sviluppato Click4all, un kit educativo che consente di costruire interfacce su misura per controllare computer, tablet o smartphone. Si possono inventare tastiere, mouse e joystick fai-da-te creati con oggetti e materiali comuni tra i più disparati: strisce di tessuto da cucire su magliette, pupazzi, guanti e cuscini; pulsanti di plastica realizzabili con una stampante 3D; forme di pongo; oggetti metallici, stagnola, calamite, disegni fatti a matita, frutta e verdura, bicchieri d’acqua. Interfacce creative e adattabili che permettono alle persone con disabilità di interagire con gli strumenti digitali per comunicare e apprendere. Ma anche per giocare, suonare, guardare foto e tanto altro. Click4all è pensato per costruire attività inclusive di gioco, apprendimento e riabilitazione per bambini e ragazzi con disabilità complesse (disturbi pervasivi dello sviluppo, disabilità intellettiva grave, paralisi cerebrale infantile). Grazie al kit, gli insegnanti possono includere alunni disabili nelle attività educative e di apprendimento che prevedono l’uso del computer; i riabilitatori dell’età evolutiva possono costruire attività ed esercizi personalizzati e motivanti grazie alle potenzialità offerte dal multimediale.
Nell’ottobre del 2015, la sperimentazione dei prototipi di Click4all ha varcato i confini italiani: la ONG di cooperazione internazionale Armadilla, da anni impegnata in Siria, ha coinvolto il team di Click4all in un progetto di collaborazione con ZAM, Centro per la riabilitazione di bambini siriani con disabilità motorie e intellettive con sede a Damasco. Dopo un breve periodo di formazione, educatori, riabilitatori e genitori dei bambini disabili siriani hanno iniziato a utilizzare con entusiasmo alcuni kit Click4all, creando nuovi modi creativi e sostenibili per far interagire i loro bambini con gli strumenti digitali.

Click4all Educational Kit è composto da:
1. Un’unità centrale in grado di connettersi
a qualsiasi tablet, smartphone e pc. Il design dell’unità centrale è compatibile con il materiale venduto da Lego e quindi modificabile con l’aggiunta di mattoncini da costruzione.
2. Pulsanti touch componibili con diverse forme e materiali per costruire interfacce interattive su misura rispetto alle diverse esigenze e disabilità. Pulsanti in plastica con meccanismo a pressione e pulsanti in plastica conduttiva con attivazione a sfioramento.
3. Pulsanti wear in tessuto morbido conduttivo da cucire su pupazzi, guanti, cuscini, magliette per creare sistemi interattivi indossabili.
4. Pulsanti fai-da-te: accessori per creare pulsanti plasmabili con il pongo e altri materiali creativi (strisce metalliche adesive, liquidi, magneti, disegni a matita) che normalmente vengono già utilizzati a scuola.
5. Un software di configurazione che permette due modalità d’interazione: “Gioca” e “Naviga”. In particolare, la modalità “Gioca” consente di accedere a un set di giochi riabilitativi/educativi causa-effetto sviluppati in collaborazione con terapisti dell’età evolutiva. Per permettere di far evolvere la complessità degli esercizi e la loro presa sui reali interessi del bambino disabile, tutti i giochi sono facilmente personalizzabili e adattabili nei contenuti multimediali (si possono cambiare suoni, immagini, animazioni).

Per maggiori informazioni:
http://click4all.com/it

Fondazione ASPHI Onlus
Fondazione ASPHI Onlus è una organizzazione non profit che da oltre trent’anni si occupa di informatica e disabilità, con l’obiettivo di promuovere la partecipazione delle persone con disabilità in tutti i contesti di vita, attraverso l’uso della tecnologia ICT (Information and Communication Technology). Partendo dalle difficoltà visive, ASPHI ha via via esteso il campo di azione a quelle uditive e motorie, mentali e cognitive, ai disturbi specifici dell’apprendimento e all’autismo. Da qualche tempo viene posta attenzione anche alle esigenze degli studenti migranti che hanno difficoltà con la lingua italiana e a quelle delle persone anziane non autosufficienti.
Al contempo si sono estese le tecnologie impiegate e il campo di applicazione che, pur privilegiando i due contesti speciali di vita costituiti dalla scuola e dal lavoro, oggi non può ignorare la sempre maggiore richiesta di partecipazione sociale (cultura, intrattenimento, viaggi, tempo libero).
Le attività di ASPHI sono rivolte alle persone con disabilità e alle loro famiglie, ma anche a chi con loro opera, insegnanti, educatori, operatori socio-sanitari, caregiver, ma anche alle aziende dove le persone lavorano, ai manager, ai colleghi. Alle aziende che producono prodotti che dovrebbero essere accessibili per tutti.
Alle strutture di residenza per anziani o a quelle di cura dove persone che hanno subito un trauma possono trovare, oltre a una riabilitazione fisica, nuove competenze e possibilità di reinserimento sociale o lavorativo.

Sede legale:
via Zamboni 8
40126 Bologna
tel. 051277811
fax 051224116
info@asphi.it

6. La tecnologia come supporto della relazione: il progetto RODDI

Intervista a Paolo Meucci, ricercatore, Istituto Nazionale Neurologico “Carlo Besta”, Milano

Chi siete e qual è il vostro ambito lavorativo?
Siamo tre ricercatori, Paolo, Ambra e Milda, che all’epoca della progettazione di RODDI, lavoravano per la stessa unità di ricerca, la SOSD Neurologia, Salute Pubblica e Disabilità, coordinata da Matilde Leonardi che fa parte della Fondazione IRCCS Istituto Neurologico “Carlo Besta” di Milano. Il nostro approccio di ricerca e di intervento/trattamento si basa sul modello biopsicosociale che pone attenzione all’interazione tra l’individuo e l’ambiente. La nostra formazione è di base pedagogica e psicologica ma per scrivere questo progetto abbiamo lavorato con diverse figure professionali di altre realtà. Infatti, criterio fondamentale per la buona riuscita del progetto è stata la sinergia tra diverse competenze professionali (medici, psicologi, pedagogisti, ingegneri e designer). Questo ha permesso di integrare la prospettiva strettamente medico-riabilitativa con quella pedagogica.
Oggi le nostre strade si sono professionalmente divise anche se porteremo sempre con noi questa esperienza e questo modo di lavorare in équipe. Io mi occupo a tempo pieno di autismo, sia in ambito di ricerca che di intervento. Ambra lavora come psicologa presso il Centro sclerosi multipla dell’Istituto, dove si occupa di ideazione, sviluppo, sperimentazione e valutazione di modelli di intervento e presa in carico del paziente affetto da patologia cronica neurologica. Milda si occupa di ricerca e supporto psicologico dei pazienti adulti con tumori cerebrali e dei loro famigliari, da quest’anno sta facendo la Scuola di specializzazione in Psicoterapia della Gestalt.

Da quando avete cominciato a interessarvi a giochi e/o giocattoli accessibili e cosa vi ha spinto in questa direzione?
Tutto è nato nel 2012 quando ci siamo trovati a predisporre un progetto per il Bando del Ministero della Salute rivolto ai giovani ricercatori. In quel periodo collaboravamo molto con l’Associazione l’Abilità Onlus di Milano che fa del gioco una delle attività principali dei propri interventi rivolti a bambini con disabilità e alle loro famiglie. Tramite le interazioni che avvengono durante il gioco, i bambini si divertono e hanno l’opportunità di sperimentarsi, di utilizzare funzioni di base (attenzione, memoria, imitazione, discriminazione, relazione tra gli oggetti e problem solving) e capacità più complesse, arricchendosi e riflettendo sulle proprie idee, i propri pensieri e sentimenti. Inoltre, imparano a entrare empaticamente in contatto con gli altri.
Abbiamo deciso di mettere questo approccio al centro di un progetto di studio per bambini con autismo. Questi bambini sono solitamente inseriti in protocolli riabilitativi intensivi, il gioco può invece rappresentare un momento di relax e di stacco che, se pensato e gestito adeguatamente, ha il potenziale di aiutarli a crescere, inserendosi in una quotidianità meno sanitaria e più spontanea, gravando meno sulla loro qualità di vita, restituendo loro il diritto all’infanzia. Tornando alla scrittura del progetto per il Bando, dovevamo organizzare un protocollo di ricerca a partire da questo aspetto.

Tornando ai giochi, quali sono i criteri per capire se un gioco è più o meno accessibile?
In generale non è possibile rispondere in modo univoco a questa domanda, ogni bambino, con la propria condizione di salute e il proprio funzionamento, potrebbe richiedere di apportare adattamenti specifici sul giocattolo o sull’attività di gioco.
Nello specifico caso del nostro progetto, considerando l’importanza del gioco e il fatto che i bambini con autismo hanno alcune caratteristiche che possono limitare la loro possibilità di imparare tramite il gioco e di divertirsi durante tale attività, è importante modificare o creare dei giochi che possano facilitare l’attività ludica di questi bambini, ma che cerchino anche di raggiungere l’obiettivo di coinvolgerli in interazioni sintoniche con l’ambiente così da aiutarli a sviluppare e migliorare le loro capacità comunicative e di interazione.

Perché nel vostro lavoro avete introdotto le tecnologie?
Finora la letteratura scientifica ha dimostrato l’utilità delle tecnologie al fine di creare stimoli stabili e ripetitivi in grado di attirare l’attenzione dei bambini con autismo. Inoltre, ci permette di pensare a un gioco che possa stimolare il bambino attraverso diverse modalità sensoriali, modulate in base alle reazioni che possiamo cogliere nel bambino. In più volevamo anche valutare se l’utilizzo della tecnologia potesse svolgere un ruolo di facilitatore nelle interazioni tra il bambino e il suo ambiente.

Parliamo allora del progetto RODDI.
Il progetto RODDI si è focalizzato sullo sviluppo di una piattaforma gioco che possa essere utilizzata nella prospettiva di studiare in maniera multidisciplinare il problema della relazionalità dei bambini affetti da autismo con deficit cognitivi di livello moderato o grave.
Nel corso della prima fase di progetto è stata sviluppata la piattaforma robotica RODDI. La seconda fase ha previsto il test e l’uso della piattaforma precedentemente ideata all’interno di uno studio case serie longitudinale. Hanno terminato lo studio 9 bambini (8 maschi) dei 19 inizialmente selezionati, di età compresa fra 6 e 10 anni, con diagnosi di autismo e disabilità intellettiva moderata o grave. Per ciascun bambino sono state realizzate due sessioni di gioco in interazione con un’educatrice. Nella prima sessione alla diade bambino-educatrice era richiesto di interagire utilizzando dei giochi tradizionali, mentre nella seconda sessione era richiesto l’utilizzo di RODDI.
La piattaforma robotica realizzata grazie al progetto RODDI ha permesso di raggiungere, con bambini con autismo e ritardo cognitivo moderato/grave, i seguenti obiettivi, utili per la gestione e la continuità di un programma abilitativo/riabilitativo: aggancio del bambino e motivazione al gioco proposto; miglioramento delle performances come l’attenzione sostenuta sul compito; incremento del livello di interazione tra il bambino e la piattaforma che ha facilitato, durante la sessione di gioco, la diminuzione di comportamenti stereotipati.
Il raggiungimento di questi tre obiettivi, attraverso l’utilizzo di un solo prodotto, ha risposto a quanto la letteratura scientifica mette in evidenza rispetto agli scopi primari dell’uso delle nuove tecnologie nel campo dell’autismo.
La piattaforma, in quanto facilmente riproducibile, può essere proposta e utilizzata nelle diverse realtà che lavorano con bambini con autismo e facilita la strutturazione e la definizione del setting utile allo sviluppo delle abilità del bambino. Il vincolo della piattaforma è che può essere inserita all’interno di contesti strutturati con finalità abilitative o riabilitative e serve una formazione adeguata per il suo utilizzo. Con RODDI però siamo voluti andare oltre. Ci siamo confrontati con una domanda di ricerca ancora sostanzialmente aperta: la capacità di interagire con le persone, da parte del bambino con autismo, migliora? Diversi autori mostrano nei loro studi, attraverso la raccolta di dati qualitativi, che i bambini hanno mostrato interesse verso i robot. La letteratura scientifica in materia sprona però anche verso la raccolta di dati che rispondano a un’altra domanda: è possibile che la tecnologia funga da mediatore nella relazione tra il bambino con autismo e altri soggetti? Vengono ipotizzati futuri esperimenti che potrebbero adottare una procedura di analisi in grado di misurare la direzione dello sguardo e le parole o gli enunciati che il bambino con autismo rivolge ai compagni di giochi. Dalle analisi dei dati del progetto RODDI, per rispondere a questa domanda, è emerso che nella condizione di gioco con la piattaforma robotica, i bambini producono un numero significativamente minore di enunciati e di sguardi rivolti all’educatrice. Inoltre, in questa condizione, anche le educatrici parlano di meno ai bambini, hanno una ridotta varietà lessicale e tendono a usare più richiami di attenzione per stimolare l’interazione. I risultati dello studio fanno sorgere qualche dubbio sull’effettivo vantaggio dell’uso della tecnologia per stimolare un aspetto fondamentale nella riabilitazione del bambino con autismo: la relazione.
RODDI apre a un uso della tecnologia che supporti ma non sostituisca mai la relazione. Giocando si apprende a socializzare e comunicare in maniera efficace e adeguata sia con i coetanei, sia con gli adulti. Il progetto RODDI ha introdotto elementi utili per mediare al meglio questo apprendimento, tra i bambini con lo spettro autistico e coloro che vogliono crescere e giocare con loro, e questo progetto si pone quindi come un primo passo nella definizione di uno strumento utile per studiare il gioco e l’interazione sociale nei bambini con autismo e moderata o grave disabilità intellettiva.

5. Giochi Accessibili: divertimento e interazione per tutti

Intervista a Nazzareno Giannelli e Marco Lombardi, designer

Chi siete e da dove è partito il vostro progetto?
Giochi Accessibili è una di quelle idee nate dall’incontro fra persone diverse. Partito in ambito universitario, precisamente all’interno delle aule dell’ISIA di Faenza (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche) verso la metà del 2012, il progetto ha avvicinato due studenti che fino ad allora si erano solo incrociati nei corridoi della Facoltà e li ha portati a viaggiare e addentrarsi in un mondo che mai si sarebbero immaginati di esplorare. I due, all’epoca in pieno periodo pre-laurea magistrale, siamo noi: Marco Lombardi e Nazzareno Giannelli. In cerca di spunti stimolanti per la stesura della tesi, grazie alle infinite risorse del nostro professore, Mauro Mami, avemmo la possibilità di incontrare Marco Fossati, istruttore di orientamento, mobilità e autonomia personale dell’Istituto dei Ciechi Francesco Cavazza di Bologna. La sua grande vivacità e professionalità furono da subito particolarmente contagiose. Iniziammo così il nostro viaggio di sensibilizzazione e di conoscenza del deficit visivo e delle migliaia di ipovedenti e di non vedenti che popolano le nostre città. Studiammo la cosa, cercammo di fare un quadro della situazione attuale e, in accordo con Fossati, individuammo un possibile campo d’azione all’interno del quale poter applicare le nostre competenze progettuali e creative per migliorare uno o più aspetti della vita di coloro che sono affetti da minorazione visiva. Il design, dopo tutto, è questo: è studio, è osservazione, è intuizione, è carpire i bisogni delle persone e rispondervi con soluzioni intelligenti e migliorare la quotidianità per migliorare la vita.

Come avete cominciato a interessarvi a giochi e/o giocattoli accessibili e cosa vi ha spinto in questa direzione?
L’offerta di ausili che possono aiutare la persona non vedente nella sua quotidianità è abbastanza ampia, quello che riscontrammo, invece, era la totale assenza di attività socializzanti che permettessero di relazionarsi con le altre persone attraverso il gioco. L’attività ludica è qualcosa di molto importante. Fondamentale nei primi anni di vita per esperire il mondo che ci circonda, diventa poi sempre di più un mezzo di comunicazione, di socializzazione e di aiuto prezioso per la costituzione dei nostri tratti caratteriali. È quindi un’attività che non può mancare nel vissuto di ogni persona. Ad oggi, a farla da padrone in ambito di giochi da tavolo per persone con deficit visivi, sono i cosiddetti giochi classici quali dama, scacchi, domino e tris, giochi che pur mantenendo intatto nel tempo il loro fascino, risultano avere poco appeal per un’utenza giovane. Essendo progettati esclusivamente per persone con disabilità visiva risultano inoltre privi di qualsiasi componente estetica e per questo hanno un aspetto poco gradevole e poco confortevole. Tale aspetto, in apparenza superfluo, in realtà ha delle ripercussioni soprattutto sulla socialità di bambini e adolescenti ciechi e ipovedenti che si ritrovano a poter utilizzare solo giochi che risultano brutti e noiosi per i coetanei. Si può dedurre facilmente come una situazione del genere possa solo contribuire ad aumentare le barriere tra gli individui, con inevitabili ricadute negative. Attraverso lo studio e l’approfondimento di ciò che permette alle persone con deficit visivo di percepire gli oggetti, come il tatto e l’udito, si è arrivati a sviluppare giochi da tavolo strutturati su più livelli percettivi, in modo tale da renderli aperti e accessibili a più forme di comprensione e di fruizione. A questo aspetto si è aggiunta, parallelamente, la necessità di curare in ogni minimo dettaglio la componente estetica del prodotto, per renderlo fruibile a 360° senza nessuna barriera discriminante. Il caso ha voluto che Marco Fossati incontrasse due appassionati di giochi da tavolo come noi. Da qui l’idea di progettare delle attività ludiche che fossero sin da subito pensate per includere gli ipovedenti e i non vedenti senza però ghettizzarli. Il principio numero uno del progetto Giochi Accessibili infatti è proporre giochi multisensoriali, socializzanti, divertenti e accattivanti anche sotto l’aspetto grafico e rappresentativo tanto quanto i prodotti già attualmente sul mercato.

Parlateci di Giochi Accessibili, quali sono gli obiettivi? Perché avete scelto di creare giochi analogici e non digitali?
Il primo obiettivo di Giochi Accessibili è quello di eliminare le barriere discriminanti tra normodotati e disabili visivi, producendo giochi multisensoriali e interattivi, fruibili anche da persone non vedenti e ipovedenti, che sappiano mettere allo stesso tavolo amici e parenti, disabili e non. Questo è un punto fondamentale della nostra idea da marcare con decisione: Giochi Accessibili non progetta giochi per ciechi, Giochi Accessibili crea attività ludiche fruibili anche da persone con minorazione visiva, perfettamente godibili anche da normodotati di diverse età. Ci teniamo in maniera anche un pizzico ossessiva a sottolineare questa cosa, perché nei tanti mesi di sviluppo post tesi, quando le basi dell’idea si erano solidificate e iniziavano ad arrivare i primi riconoscimenti a livello regionale e ci presentavamo a tutte le maggiori fiere riguardanti il gioco e il gioco da tavolo in Italia e in Germania, questo è stato l’aspetto più complesso da trasmettere ai vari publisher di fama mondiale. Un altro aspetto per noi molto importante è stata la scelta presa sin da subito di creare giochi analogici, non digitali. Nonostante si stiano iniziando a vedere i primi esperimenti interessanti di giochi ibridi con una componente digitale che va a interagire con un’altra parte analogica dello stesso gioco, noi abbiamo preferito puntare tutto sull’offline, almeno per ora. E la motivazione è molto semplice: i nostri prodotti devono essere mezzi di interazione e di socializzazione, devono favorire il contatto e l’incontro. Questo poteva essere ottenuto senza artifici radunando le persone per una sana giocata da tavolo. Con questo non vogliamo denigrare il digitale, ignorarlo o fingere che non possa essere una strada futura per il progetto, ma crediamo fermamente che oggi, in questo 2016 sempre più iperconnesso, ci sia bisogno di un po’ di tempo ben speso offline con le persone a noi care. Il terzo punto nodale riguarda la multisensorialità e i diversi livelli d’interazione e utilizzo che questa può innescare. Dovendo progettare anche per disabili visivi, la scelta dei materiali e la forma di ogni singolo componente sono fondamentali. Amanti del legno, della carta e del cartoncino, classici materiali dei giochi da tavolo, attraverso il taglio laser siamo riusciti facilmente a ottenere i nostri primi prototipi. Per completare la componentistica ci siamo anche avvalsi della stampa 3D per la realizzazione di alcune pedine di gioco. Grazie a queste tecniche di lavorazione low cost abbiamo potuto realizzare i prototipi dei nostri primi due giochi: Codis e Trick or Treat.

Di cosa si tratta?
Codis è un gioco di strategia e abilità che prevede una lotta serrata tra codificatori. Ogni giocatore è il possessore di un codice che deve custodire e proteggere dagli avversari, cercando allo stesso tempo di riprodurlo sulla plancia di gioco prima degli altri giocatori. Unicità di Codis sono le tessere di gioco stampate con una particolare tecnica a rilievo. In questo modo l’input tattile aiuta i giocatori non vedenti a riconoscere le forme e a posizionarle correttamente in gioco e allo stesso tempo stimola su un livello non unicamente visivo chi ci vede. Cosa particolarmente interessante è che durante le fasi di testing con giocatori non vedenti, questo gioco si è rivelato anche un interessante strumento di esercitazione per bambini dai 5 ai 9 anni, che aiuta ad affinare il riconoscimento di forme tattili prima ancora di passare eventualmente all’apprendimento della scrittura Braille. Trick or Treat è invece un gioco che trae ispirazione dall’analisi dell’isolato urbano, elemento fondamentale nell’orientamento del non vedente all’interno del tessuto cittadino, e ripropone in chiave ludica lo spostarsi per le strade di un quartiere. Ricercando un valido contesto che potesse stimolare i giocatori a esplorare l’area di gioco, abbiamo deciso di ambientare il tutto durante la notte di Halloween, mettendo i giocatori nei panni di alcuni piccoli monelli in costume intenti a bussare alle porte del vicinato in cerca di dolcetti. L’ambientazione in questo caso ci ha aiutati a implementare non solo il concetto di isolato, ma ci ha anche permesso di giocare liberamente con i colori e con le forme. Ogni pedina è riconoscibile grazie alle distintive forme della testa, mentre un grande aiuto a tutti i giocatori ipovedenti è dato dal contrasto cromatico fra le varie parti componenti del gioco. Abbinando riconoscibilità tattile e colori sgargianti ancora una volta siamo riusciti a confezionare un prodotto accessibile. Ma non solo in fase di gioco bisogna aiutare i nostri giocatori non vedenti. Anche le fasi di preparazione della partita e di apprendimento delle regole devono essere accessibili. Questo è stato reso possibile grazie alla progettazione di regolamenti sia in nero che in Braille, corredati da un CD audio contenente la spiegazione passo passo della componentistica di gioco e del regolamento. Gli aspetti che confluiscono nella progettazione di attività ludiche articolate sono molti. Le possibilità da esplorare per quanto riguarda la multisensorialità e un nuovo modo di intendere i giochi da tavolo sono infinite. Non avremmo mai creduto di avere la possibilità di laurearci sviluppando un progetto così particolare e ai limiti del design di prodotto. La nostra fortuna è stata quella di aver sempre avuto un forte sostegno dai professori dell’ISIA, dagli istruttori e studenti dell’Istituto Cavazza, da diversi veterani del gioco da tavolo e da tutte le persone alle quali abbiamo avuto la fortuna di esporre le nostre idee. La strada è ancora lunga e le difficoltà sono molte, soprattutto nel momento in cui si vogliono produrre e distribuire i prodotti ideati, ma noi non ci perdiamo d’animo e continuiamo a giocare la nostra partita. Le nostre mosse per questo turno sono concluse. Ora tocca a voi.

4. Scoprire il piacere di saper fare cose belle

Intervista ad Alessandra Falconi, Centro Zaffiria

“Tanto meglio sarà l’adulto, quanto meglio avrà giocato da bambino”.Lo sosteneva Platone e noi ne siamo convinti. Giocare è fondamentale alla vita dichiunque; per il bambino è uno spazio e un tempo indispensabile.Alberto Manzi lo scriveva così: “il gioco è mezzo di scoperta, medium culturale”.

Raccontaci chi sei e qual è il tuo ambito lavorativo.
Mi chiamo Alessandra Falconi, lavoro al Centro Zaffiria che ho fondato quasi vent’anni fa, grazie al quale lavoro al Centro Alberto Manzi e mi occupo del progetto Italiantoy. Lavoro con i bambini dai 3 ai 18 anni, e mi considero una donna fortunata perché vivo in mezzo alle loro domande di senso. Autentiche.

Da quando hai cominciato a interessarti a giochi e/o giocattoli accessibili/inclusivi?
Il tema degli strumenti educativi mi interessa da sempre. Recentemente ho scritto un post sulle forme del sapere perché penso che gli strumenti per giocare siano strumenti fondamentali per scoprire il mondo. (Per chi fosse interessato: www.disegnangolo.it/disegnangolo/le-forme-del-sapere)L’esperienza laboratoriale come atelierista mi ha posto tante domande: quali strumenti usare perché i bambini possano scoprire le cose da soli? Come far venire loro il desiderio di fare e disfare? La doppia esperienza di curatrice del Centro Alberto Manzi e la formazione al Metodo Bruno Munari sono state il binario che mi ha portato a Italiantoy. Volevo che la bellezza del mondo potesse stare nelle mani di un bambino. Di tutti i bambini. Mi rendo conto che può suonare presuntuoso ma penso che occorra un sogno grande per potersi mettere in cammino verso la meta (soprattutto per non arrendersi nei tanti momenti di difficoltà). Per me il gioco deve nascere inclusivo perché deve permettere un’esperienza vera al bambino: non deve giocare da solo, né fare da spettatore. Penso che gli oggetti giocattoli debbano proporre al bambino un’attività, debbano essere strumenti nelle sue mani: così è possibile indagarne l’uso, imparare dagli errori, scoprire delle varianti, arrivare a fare dei propri progetti.

Qual è stato il motivo che ti ha spinto in questa direzione?
Gli oggetti ci presentano una questione che ancora la scuola non ha risolto: come trasformo dei concetti teorici in esperienze che il bambino può padroneggiare? Cerco tra il materiale didattico disponibile nei cataloghi scolastici: ogni insegnante si rende conto di quanto spesso il livello sia basso. L’estetica dell’oggetto sembra essere un problema superfluo, un lusso per scuole che possono permetterselo. La comunicazione visiva, tattile e sensoriale di qualità viene spesso sacrificata per inseguire un prezzo basso. Poco importa se poi quel materiale verrà usato poco perché poco stimolante. Il consumismo educativo chiede che si rispettino le sue esigenze di bilancio. Proviamo allora a riaprire quegli armadi scolastici che i bidelli hanno chiuso da tempo: kit colorati per studiare la geometria, carte da abbinare per ricomporre le forme, forme di legno che profumano di scuola. La ricerca sui materiali didattici a un certo punto si è fermata. O, forse, si è solo nascosta. Nelle cattedre di quelle maestre e quei maestri che riadattano oggetti per stimolare i loro bambini, per aprire domande sul mondo e sull’esperienza quotidiana.

Parlaci dei giochi che producete: come nascono, come li utilizzate, che riscontri avete avuto.
I giochi che ora abbiamo a catalogo sono quasi una ventina e cercano di colmare le lacune che ho provato a spiegare nelle risposte precedenti. Sono strumenti con cui provare a fare da sé, da padroneggiare grazie al giocare, scoprendo che l’errore, ad esempio, può dare informazioni utili sull’uso dello strumento e su cosa ci si può fare. Sono giochi che vorrebbero far nascere una curiosità: ad esempio, Flora Zu può essere usato da un bambino per disegnare prati ma sul sito si può scaricare gratuitamente il libro fotografico con i fiori e gli insetti nella natura. C’è quindi un livello di approfondimento che porta il bambino a cominciare da una tavoletta in rilievo per poi chiedersi: che fiore sarà? Che insetto è? Dal nome scientifico alla foto. Lo stesso disegno riprende le reali linee dell’insetto, non c’è un segno edulcorato. L’informazione visiva di quanti tipi di fiori e insetti possiamo trovare è fondamentale: permette al bambino di uscire dallo stereotipo del fiore disegnato allo stesso modo, gli permette di lavorare sulle variabili dei fiori di campo, sui tanti modi di essere di un fiore.
Non si porta il bambino a fare il lavoretto, per tutti uguale, tranne per chi incolla male…,ma si chiede al bambino di giocare con uno strumento per arrivare poi a esprimere il proprio prato: ne avremo tanti diversi a seconda di quanti sono i bambini in classe. Alberto Manzi, l’indimenticabile maestro della trasmissione “Non è mai troppo tardi” degli anni Sessanta, scriveva: “Quel che ci interessa rilevare è che con il gioco il bambino sviluppa: creatività, invenzione e ricerca, fattori che sono di primaria importanza per poter affrontare nel futuro ogni imprevisto e saper esaminare un qualsiasi problema e tentare di risolverlo”. (Agende di Casa Serena, anni Ottanta)I nostri giochi si pongono l’obiettivo di avere, in filigrana, questa carta d’identità:
1) sviluppare l’intelligenza;
2) sviluppare i processi di astrazione;
3) creare delle situazioni immaginarie per imparare a trasformare la realtà;
4) ampliare i propri limiti, per acquistare un po’ più ampia consapevolezza di sestessi, delle proprie capacità, del proprio essere tra le cose e le persone;
5) manipolare, associare, combinare in modo nuovo cose vecchie, per creare relazioniinsolite e favorire lo sviluppo del linguaggio e del pensiero.

Qual è l’approccio ai vostri giochi da parte dei bambini? E degli adulti?
I bambini li capiscono immediatamente, basta partire con un’azione gioco, come proponeva Munari. Gli adulti si dividono in due categorie nette: abbiamo per fortuna gli innamorati dei nostri giochi che sentono e capiscono quanto proviamo a sostenere la creatività e l’autenticità dell’espressività dei bambini, il loro diritto a giocare bene, con materiali belli, con i loro tempi. L’altra categoria è di chi invece non li capisce, chi li reputa troppo intellettuali, non alla portata di tutti i bambini. Lavorando nelle scuole posso invece dire che i bambini si sanno approcciare bene al materiale, con curiosità e voglia di fare. Capiscono che sono loro al centro dell’esperienza, con la loro immaginazione, la voglia di giocare a fare così e anche così, di fermarsi perché forse invece si potrebbe anche fare così. Sono bambini attenti, che si concentrano nel lavoro che stanno facendo.

Facci qualche esempio, raccontaci qualche episodio significativo.
Posso raccontarvi l’ultimo episodio in ordine cronologico: ho fatto un atelier sulle Città invisibili con il gioco Zoe Ci e i bambini avevano 4 anni. Non avevano mai lavorato con la tecnica del frottage (quella, per intenderci, del ricalco delle foglie) ed erano un gruppo di 15 bambini (a casa invece il genitore ha uno, forse due o tre bambini, la situazione è molto più semplice). Per aiutarli ho usato lo scotch di carta per fermare le tavolette e i fogli da frottare, ho mostrato però loro che strumento era nascosto sotto la carta (hanno tenuto in mano le 12 tavolette con 12 texture diverse e le abbiamo analizzate insieme) e ho poi usato uno strumento musicale per guidare il ritmo della loro mano mentre frottavano. Abbiamo fatto un girotondo del frottage e in questo modo tutti i bambini sono riusciti a fare un’esperienza positiva. Dopo aver mostrato loro la magia di come, premendo col colore apparissero dei segni, ecco che i bambini avevano la curiosità di scoprire quanti segni erano nascosti sotto i fogli. E il gioco delle monocromie permetteva l’evidenza di questi segni. Questo per farvi un esempio d’uso, uno dei tanti. Per giocare dando spazio anche al piacere dell’adulto che con i nostri giochi scopre di saper fare cose belle (e non se lo immaginava).

Centro Zaffiria
Educazione, gioco, cittadinanza digitale, creatività e partecipazione esplorate con i media. Progetti, laboratori, formazione, passeggiate nel web tra vecchi e nuovi media per educare, partecipare, creare, pensare, giocare.
Di tutto questo si occupa il Centro Zaffiria di Bellaria Igea Marina (RN) che è impegnato nell’offerta e nello sviluppo di educazione ai mass media nella scuola e nell’extra-scuola con l’obiettivo di promuovere i diritti dei bambini e la loro partecipazione sociale attraverso l’uso creativo dei media e dell’educazione artistica.
Il centro Zaffiria promuove il convegno nazionale Medi@tando, cura il Centro Alberto Manzi e il progetto di giochi educativi Italiantoy (www.italiantoy.net).
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3. LUDI: un network per promuovere il gioco nel bambino con disabilità

di Francesca Caprino, INDIRE – Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa

Presente in tutte le epoche storiche e a tutte le latitudini geografiche, seppure con alcune differenze di natura culturale, il gioco si caratterizza come motore dello sviluppo infantile nelle sue componenti cognitive, socio-relazionali, linguistiche, motorie ed emotive. La valenza evolutiva del gioco è attestata anche dalla sua inconfondibile presenza in tutti i mammiferi oltre che in altri animali come gli uccelli. Questi cuccioli, come i cuccioli dell’uomo, guidati da un istinto sicuro, trascorrono gran parte delle ore di veglia in attività ludiche e così facendo imparano e si preparano alla vita adulta. Attraverso le forme più semplici di gioco senso-motorio (toccare, battere, lanciare), proprie dei primi stadi dello sviluppo, e passando per tipologie più sofisticate come quelle del gioco simbolico e di finzione, i bambini esplorano l’ambiente fisico in cui vivono, apprendendone gradualmente le caratteristiche. Parallelamente, le attività di gioco, dapprima solitarie, si aprono progressivamente all’interazione con l’altro, consentendo al bambino di arricchire enormemente le sue abilità sociali, linguistiche ed emotive. Il gioco infantile è un’attività spontanea, liberamente scelta e svincolata da obiettivi estrinseci. Si gioca perché se ne ha voglia e perché giocando ci si sente più felici. La dimensione ludica permea tutte le attività del bambino: giocare è la sua principale occupazione. A riconfermare l’unanime consenso sull’importanza del gioco è arrivata, nel 1989, la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza che nell’articolo 31 proclama: “Gli Stati Parti riconoscono al fanciullo il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età e a partecipare liberamente alla vita culturale e artistica”.
Vi sono casi, tuttavia, dove la ricchezza dell’esperienza ludica e le opportunità di apprendimento ad essa connesse possono essere fortemente ostacolate se non quasi del tutto precluse. Limitazioni di natura sensoriale, motoria o intellettiva così come fattori di natura ambientale (ad esempio la mancanza di spazi e di materiali di gioco accessibili, l’indisponibilità di partner di gioco o di specifiche tecnologie assistive, la mancanza n. 6 ottobre 2016 HP-Accaparlante 16 di tempo) sono fattori che possono rendere difficile giocare, portando il bambino a una deprivazione che può aggravarne ulteriormente le condizioni globali di salute. Troppo spesso, inoltre, le proposte di gioco indirizzate a bambini con disabilità sono strettamente funzionali al raggiungimento di obiettivi di natura didattica o riabilitativa e poco spazio è dato ad attività spontanee dove il bambino non debba esercitarsi in vista di un qualche traguardo (camminare, leggere, scrivere, ecc.) ma semplicemente divertirsi. Se non sempre è possibile intervenire sulle caratteristiche funzionali del bambino, l’ambiente, nelle sue dimensioni fisiche e sociali, presenta sempre ampi margini di modificabilità, anche grazie all’apporto che ci viene dato dalle più recenti tecnologie. Le barriere possono dunque diventare opportunità. Un bambino, per una limitazione grave della vista, può non essere in grado di giocare a palla con i compagni. Ma se alla palla standard si sostituisce una palla che emette dei suoni, l’ostacolo è aggirato e il bambino può giocare. Un altro bambino che usa per spostarsi una carrozzina potrebbe non essere in grado di usare le giostre, gli scivoli e le altalene del parco del quartiere o della scuola. Se in quel parco vi fossero delle attrezzature accessibili, progettate secondo i principi del design universale, quello stesso bambino parteciperebbe senza difficoltà agli stessi giochi dei suoi coetanei. È questa la prospettiva bio-psico-sociale offerta dall’ICF, Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, ai professionisti e non professionisti che approcciano il tema della disabilità, una prospettiva che non vede la disabilità come una caratteristica interna alla persona ma come la combinazione di più fattori, individuali e ambientali. Questa stessa filosofia fa da cornice al progetto LUDI.

La rete LUDI
LUDI – Play for children with disabilities – è un progetto-azione che ha portato alla costituzione di una rete europea dedicata al tema del gioco per i bambini con disabilità e finanziata dal Programma Europeo COST, un’iniziativa intergovernativa di cooperazione europea nella ricerca scientifica e tecnologica. La rete LUDI è coordinata da Serenella Besio dell’Università della Valle D’Aosta e ha collegato circa 80 ricercatori e professionisti del settore provenienti da 30 paesi europei ed extraeuropei. La riflessione dei ricercatori del network LUDI ha preso le mosse dalla considerazione di come il tema del gioco nei bambini con disabilità negli ultimi anni sia stato oggetto di studi scientifici multidisciplinari e di progetti di nicchia, anche molto innovativi (ad esempio sono stati studiati e sperimentati robot sociali con bambini con autismo, giochi adattati con bambini con disabilità motorie e/o intellettive, sono stati realizzati dei parchi-gioco accessibili) che tuttavia non hanno portato al riconoscimento di un’area di ricerca omogenea a causa della grande eterogeneità delle condizioni riferite alla disabilità e al fatto che il gioco non è ancora considerato un elemento centrale né nella scuola né nei contesti riabilitativi. La rete scientifica LUDI, grazie all’apporto proveniente da campi diversi (psicologia, diritto, pedagogia, discipline medico-riabilitative, design, tecnologie assistive) intende sviluppare la consapevolezza di quanto sia importante garantire a tutti i bambini il pieno diritto al gioco e di come occorra mettere il gioco al centro della ricerca e degli interventi indirizzati a bambini con disabilità. LUDI si propone di mettere a punto metodologie e strumenti di intervento utilizzabili dai professionisti e dai famigliari di bambini con disabilità e di indirizzare le pratiche delle aziende che operano nel settore del gioco (produttori di giocattoli, di videogiochi, di attrezzature per parchi). L’Azione LUDI, mediante la creazione di una rete tra Università, Istituti di ricerca, ricercatori e imprese, è finalizzata a:
• mettere il gioco al centro della ricerca e degli interventi clinici e educativi rivolti a bambini con disabilità;
• aumentare la consapevolezza sull’importanza del gioco per i bambini con disabilità e migliorarne la qualità della vita e la loro inclusione sociale;
• assicurare l’effettivo esercizio del diritto al gioco di tutti; • raccogliere e sistematizzare tutte le competenze e le conoscenze esistenti in questo campo (studi e ricerche, modelli di intervento, risorse e conoscenze provenienti dai centri specializzati e dalle associazioni);
• diffondere le buone prassi provenienti dagli sforzi congiunti dei ricercatori, dei professionisti (psicologi, educatori, terapisti occupazionali), degli utenti e dei loro famigliari;
• creare nuove conoscenze sugli spazi, gli strumenti e le metodologie per favorire il gioco nel bambino con disabilità.
Per raggiungere questi obiettivi sono stati costituiti quattro diversi gruppi di lavoro (Working Groups). Il primo gruppo (WG1) è dedicato all’analisi delle caratteristiche del gioco infantile nelle diverse tipologie di disabilità e provvede a fornire una cornice teorica sulle definizioni di disabilità e sulle tipologie di gioco. Il secondo gruppo (WG2) studia le tecnologie a supporto del gioco del bambino con disabilità, prendendo in esame ciò che è già stato realizzato (ad esempio tecnologie assistive, adattamenti di giocattoli, tecnologie robotiche) mentre il terzo gruppo (WG3) si occupa di esaminare i diversi contesti in cui il bambino gioca (casa, scuola), evidenziando le eventuali barriere che ostacolano le attività ludiche. Al quarto gruppo (WG4), infine, è affidato il compito di proporre, sulla base del lavoro degli altri tre gruppi, nuovi modelli, nuove tecnologie e nuovi metodi per favorire efficacemente il gioco nei bambini con disabilità.

Risultati del primo biennio di attività e prospettive future
La rete LUDI è da poco entrata nel suo terzo anno di attività. In prima battuta, le attività sono state finalizzate a costruire la rete come una comunità di apprendimento, superando le tante differenze nei metodi, nei linguaggi e nelle impostazioni epistemologiche attribuibili alla diversa provenienza geografica e professionale dei componenti. I membri della rete hanno avuto l’opportunità di incontrarsi e di confrontarsi in incontri in plenaria a cui hanno partecipato anche esperti, esterni al progetto, che hanno ampliato la riflessione sul tema del gioco nei casi di disabilità. n. 6 ottobre 2016 HP-Accaparlante 18 Ciascun gruppo ha presentato un documento pubblico in cui sono riportati i risultati di due anni di lavoro collaborativo. Coerentemente con il modello partecipativo scelto dalla rete, tutte le attività progettuali hanno visto l’attivo coinvolgimento di persone con disabilità e di loro famigliari, tutti soggetti che sono stati chiamati a intervenire negli incontri, a revisionare i documenti dei gruppi di lavoro e a farsi promotori del progetto nei contesti di appartenenza. Il lavoro congiunto dei membri della rete LUDI ha portato a formulare due dichiarazioni:
1) il gioco, come diritto, deve essere garantito a tutti i bambini, compresi quelli con disabilità. Come corollario tutte le attività di gioco e i materiali ad esse connessi devono essere resi accessibili;
2) il gioco vero e proprio, inteso come attività finalizzata a se stessa, deve essere distinto dalle attività ludiche (il pedagogista Visalberghi le ha definite attività “ludiformi”) che, nella scuola o nei contesti clinici, vengono utilizzate per il raggiungimento di obiettivi di natura didattica o riabilitativa. Ciò che occorre promuovere, nei bambini con disabilità, è il gusto del gioco fine a se stesso.
La rete LUDI ha inoltre realizzato un database pubblico contenente un articolato repertorio di strumenti e tecnologie per il gioco. Nei prossimi due anni la rete sarà chiamata a realizzare ulteriori attività di ricerca e azione; saranno scritte delle linee guida per la valutazione dell’accessibilità e dell’usabilità dei giocattoli e delle tecnologie per il gioco e per la progettazione di strumenti, tecnologie e ambienti di gioco inclusivi, sarà sviluppata una proposta di intervento per utilizzare in modo efficace le nuove tecnologie e gli ausili a supporto del gioco nei bambini con disabilità e si provvederà a mettere a punto un modello per informare e formare gli operatori e i famigliari dei bambini con disabilità sui temi inerenti il gioco e l’inclusione. L’obiettivo, molto ambizioso, è incidere sulle decisioni politiche, sulle pratiche cliniche ed educative, sui processi produttivi, restituendo a tutti i bambini il diritto al gioco.

Bibliografia
S. Besio, M. Carnesecchi, P. Encarnação, Introducing LUDI: a research network on play for children with disabilities. Studies in health technology and informatics, Università di Aosta, 2015,pp. 689-95.
Besio, M. Carnesecchi, Quale sfida per una rete di ricerca sul tema del gioco per il bambino con disabilità?, X Congresso della Società Italiana di Ergonomia, Torino, 2013

2. Giocar non è una medicina…

di Carlo Riva, direttore, L’abilità Associazione Onlus, Milano

“Giocar non è una medicina
Ma ancor di più… è una magia!
Una magia dal gran potere
Di far del tempo un tempo insieme”.
(Amorgioco)

Fu Riccardo, fratello di un bambino con tetraparesi spastica che, come sempre fanno i bambini nella loro scoperta del senso dell’esistere che li accomuna ai filosofi, mi illuminò sull’importanza del gioco nella vita di un bambino con disabilità.
Mi guardò mentre parlavo con la mamma sulla necessità di un aiuto educativo domiciliare e disse di punto in bianco: “Io ho capito cosa non va in mio fratello. Mio fratello non ha fantasia”.
Cominciò da quella frase, da quello spirito così profondo quanto vero, la mia riflessione su gioco e disabilità. Nacquero domande, si svilupparono pensieri.
Può il limite della patologia addirittura trattenere il mondo intimo e fantastico del bambino?
Come stare in una comunicazione di vera vita con un bambino con disabilità? La paralisi del corpo è paralisi dell’intenzione?
E, quindi, come un bambino supera la paralisi e contiene il limite nella fantasia e nel piacere?
Solo giocando.

Il mondo del bambino con disabilità
Se il gioco è un diritto ed è necessario per la crescita quanto il cibo quotidiano, un tetto sotto cui abitare, l’affetto di una famiglia, l’istruzione e la prevenzione dalle malattie, va garantito al bambino con disabilità, perché siamo innanzitutto in presenza di un bambino.
La qualità della vita non è direttamente proporzionale all’entità del danno fisiologico o psicologico o della disabilità presentata; intervengono infatti una serie di fattori socio culturali e di opportunità che determinano il grado di benessere soggettivo a parità di patologia o disabilità.
Occorre allora un progetto di vita che si fondi non tanto a partire dalla patogenesi quanto dalla “salutogenesi” del bambino con disabilità e riconosca le necessità sottostanti al suo crescere: la serenità, l’autostima, l’amicizia con i pari, la possibilità di esistere e scegliere nella vita quotidiana, l’educazione appropriata, il gioco… insomma le pari opportunità. L’inclusione e la partecipazione sociale di un bambino con disabilità passano anche dal riconoscimento del diritto al gioco e al tempo libero.

Il mondo del gioco
Il valore del gioco è riconosciuto da tempo, ma il suo significato, per l’educazione e l’igiene mentale del bambino, è stato messo in evidenza dalle scoperte più recenti.
Il gioco è scoperta ed esplorazione: il bambino giocando impara, si esprime, si relaziona, esterna emozioni, esprime desideri, parla di sé e del mondo e diventa indipendente. Quindi il gioco è tutto ciò che può stimolare l’uso del corpo, dei sensi, lo sviluppo dell’anima e della mente.
Giocare è un diritto di tutti i bambini ma diventa un problema quando la difficoltà a muoversi o l’incapacità di vedere oppure ancora la scarsa capacità d’attenzione e concentrazione su di un compito compromettono le sue capacità di gioco. Se per tutti i bambini esiste un diritto al gioco, la disabilità rischia di negarlo a questi bambini, perché il gioco difficilmente compare spontaneamente, perché talvolta non sono capaci di imitare, perché i giochi tradizionali non sono pensati per chi ha difficoltà nel fare anche le cose più semplici, perché questi bambini sono lasciati fuori dai circuiti ricreativi del territorio, perché gli adulti non si stanno impegnando a sufficienza per credere nel potenziale del gioco e quindi intraprendere cambiamenti efficaci per renderlo accessibile. È infatti solo la motivazione a politiche di welfare dedicate e la mediazione creativa dell’adulto che, con tecniche appropriate di modificazione dei materiali di gioco e di strutturazione dell’attività ludica, può far sì che il bambino possa giocare: l’utilizzo di ausili tecnologici per bambini con tetraparesi spastica, l’uso di immagini facilitate nelle dimensioni e nel colore per raccontare una favola a un ragazzo ipovedente, la semplificazione visiva della sequenza di un gioco per un bambino con autismo, sono alcuni esempi per dimostrare la fruibilità di un’esperienza ludica. D’altra parte, se non c’è gioco non c’è vita e allora l’immagine di un gioco assente, povero, stereotipato va a confondersi con quella del bambino con disabilità: emarginato, isolato, lontano. Qui si rimarca non tanto l’impossibilità di fare qualcosa quanto addirittura la negazione della possibilità di essere.
La realtà di un bambino con deficit è spesso una storia fatta da tanti limiti: non sente, non parla, non sta in piedi, non regge la testa, non capisce, non prende la palla, non sa giocare… dimenticando che al di là di queste funzioni c’è un pensiero, un vissuto, un’anima che chiedono incessantemente di essere riconosciuti, indipendentemente dal fare.
L’attività di gioco è un’attività di vita di cui nessun bambino può fare a meno, qualunque sia la sua condizione di disabilità, proprio perché il gioco è il contesto in cui può esprimersi, in modo libero e da protagonista delle proprie conquiste.
Giuliana Boccardi lo aveva ben sottolineato nelle sue riflessioni quando cercava di capire perché giocare con un bambino con disabilità: “L’errore più clamoroso della riabilitazione del bambino disabile è stato ignorare ciò che forse più caratterizza il bambino come connotazione specifica e peculiare, cioè il gioco, non tanto perché si è del tutto tralasciata la dimensione del gioco quanto il dimenticare i mondi senza fine che sono dentro il bambino: le fantasie, i desideri, gli spazi, la libertà”.
Questo mondo interno del bambino è salvaguardato dalle dinamiche del gioco perché qui il bambino non si misura tanto con le proprie incapacità quanto nella libertà della propria espressività che vive nel fine unico e ultimo del gioco cioè il piacere. Non gioca per imparare a parlare, per riuscire a correre, per migliorare la coordinazione oculo-manuale, ma gioca per divertirsi, per godere della vita, per puro piacere.
Il gioco è possibile solo se sono salvaguardate le sue tre caratteristiche più importanti: la libertà, la creatività e soprattutto il piacere, il senso di benessere, il divertimento.
È nel gioco che può superare l’autoemarginazione cui spesso va incontro. La libertà di potersi esprimere nel gioco, indipendentemente da una richiesta dell’adulto, come avviene nel setting terapeutico o nell’aula scolastica, permette al bambino con disabilità di usare il proprio corpo e la propria mente senza incorrere nella valutazione e nel giudizio sulla propria corporeità.
E il gioco è anche il luogo preposto allo sviluppo della propria abilità di autoregolazione, rispetto ad altri contesti in cui è maggiore il controllo esercitato dagli adulti. Riconoscendo l’importanza dell’intervento riabilitativo precoce, necessario per lo sviluppo delle autonomie di base, per l’abilitazione motoria e psichica al contesto ambientale in cui vive, quello che è importante sottolineare è ancora una volta il diritto al gioco scevro da obiettivi prettamente terapeutici. Mi piace pensare a un bambino con disabilità che gioca perché salvaguardato in questo suo diritto e bisogno psicologico: perché c’è un desiderio e una soddisfazione, perché può incontrare un gruppo di pari e condividere una realtà comune a tutti, perché si separa momentaneamente dalla realtà oggettiva della patologia, perché c’è l’attesa piuttosto che l’esercizio, l’ascolto più che lo stimolo, l’imprevisto facilmente gestibile piuttosto che l’ansia della prestazione; e infine c’è storia.

Il mondo degli adulti
Continua Giuliana Boccardi: “Il bambino disabile ha bisogno di un adulto che abbia questa particolare disposizione, cioè che ritrovi dentro di sé questi spazi senza fine, quelli del fantastico, dell’immaginario, del possibile e dell’impossibile, per saper poi come scovare, tirare fuori quelli del bambino”.
La funzione principale di chi segue il bambino con disabilità consiste nel capire i suoi interessi e le sue attività spontanee, allo scopo di procurare i materiali adattati, strutturare occasioni e stimoli necessari per condurlo a realizzare al massimo le sue potenzialità di gioco.
Un grande impegno riguarda soprattutto le famiglie, che si ritrovano con il proprio figlio per periodi molto lunghi di tempo libero che spesso generano stress emotivo e fisico per entrambi.
Occorre un intenso lavoro educativo che porti gli operatori sociosanitari e socioeducativi a promuovere nelle famiglie il concetto di gioco e tempo libero come parte integrante nel processo di crescita del bambino con disabilità. Infatti, oltre ad agire sull’ambiente di vita del bambino vanno sicuramente modificati i contesti socioculturali, perché la famiglia, la comunità, la società riconoscano l’importanza del gioco, a partire dai propri vissuti personali.
Come diceva G.B. Shaw: “Noi non smettiamo di giocare perché diventiamo vecchi; noi invecchiamo perché smettiamo di giocare”. La svalutazione del gioco passa infatti dalla scarsa considerazione che gli adulti hanno dell’attività ludica: è una perdita di tempo, occorre impegnarsi in attività più alte (come lo studio, il lavoro, la terapia), è un’attività superflua e infantile…
È necessario così ritrovare dentro di noi gli spazi senza fine del fantastico e dell’immaginario, propri della dimensione di gioco, riscoprire l’avventura incantata dei tempi infiniti dello svago, decondizionarci (dal ruolo e dallo status sociale raggiunto) per riscoprire e appassionarci al ricordo del nostro gioco. Perché prima di essere un’attività è un atteggiamento nei confronti di se stessi e della realtà che ci circonda. Tocca allora all’adulto vincere paure, dubbi, preoccupazioni e sfidare con il bambino con disabilità i limiti della patologia nel contesto magico e terreno, sano e onnipotente del gioco.

Un nuovo mondo
Riconoscere il gioco come necessità e opportunità del bambino con disabilità vuol dire riappropriarci della sua dimensione di persona, dei suoi diritti e quindi di un nuovo mondo da garantire per una vita vera: una rilettura della disabilità e delle sue componenti all’interno della società civile.
L’ambiente ha un ruolo importante quando si tratta di bambini con disabilità, che hanno bisogno di adattamenti materiali, cognitivi, ma anche psicologici, che diano loro la dignità di partecipare alla vita sociale e di crescere. Ciò significa che le persone che condividono l’ambiente dei bambini devono cooperare e complementarsi. La sfida riguarda il sistema globale individuo ambiente: operatori sociosanitari e architetti, insegnanti e genitori, illustratori e pedagogisti, enti locali e governativi. Un impegno totale per una politica che non deleghi il gioco alla buona volontà e all’attività del terzo settore e di qualche organizzazione no-profit, ma che invece lo garantisca, all’interno dei servizi territoriali istituiti, sia ai bambini con disabilità che alle loro famiglie.
Nella società moderna tre elementi devono essere presi in considerazione per creare una nuova filosofia del gioco per il bambino con disabilità:

• la comunità e il territorio. Il gioco è essenzialmente un’attività sociale e se si riducono per i bambini con disabilità le occasioni di attività ludico-ricreative inclusive con gli altri bambini si compromette la partecipazione sociale anche delle loro famiglie. Le politiche sociali non stanno investendo sulla necessità di creare spazi ludici fruibili e accessibili a tutti i bambini;

• il mercato globale. Il gioco dei bambini con disabilità non interessa alle aziende produttrici di giocattoli, non è competitivo con la potenza pubblicitaria degli ultimi modelli di giocattoli creati da brand televisivi o cinematografici;

• i professionisti. Spesso gli operatori sociosanitari e socioeducativi non promuovono le abilità di tempo libero, preferendo solo l’approccio specialistico settoriale.

Diversità e divertimento hanno la stessa radice etimologica e cioè divertere ossia cambiare strada, modificare la consuetudine, incrinare la routine.
Se è possibile per il bambino con disabilità godere di una vita piena è allora necessario cambiare rotta insieme a lui e spingerci liberi verso un campo di girasoli dove, toccando le foglie, annusando l’aria e leggendogli le rime di una filastrocca, è possibile vivere la creatività e il piacere di un gioco senza fine che può davvero includere il limite.

Bibliografia
AA. VV., Giocare a essere “handicappati”, “HP-Accaparlante”, n. 4 – 2004
AA. VV., Il contesto in riabilitazione: giochi, giocattoli e dintorni, Officine ortopediche Rizzoli, Bologna, 1999
F. Antonacci, Puer ludens, FrancoAngeli, Milano, 2012
A. Bondioli, Gioco e educazione, FrancoAngeli, Milano, 1996
J.J. Chade, A. Temperini, 110 giochi per ridurre l’handicap, Erickson, Trento, 2000
D. Fedeli, D. Tamburri, Mi insegni a giocare?, Vannini, Gussago (BS), 2005
C. Garvey, Il gioco, Armando, Roma, 2009
I. Riccardi Ripamonti, In gioco, Mursia, Milano, 1998
C. Riva, Amorgioco. Il bambino la disabilità il gioco, Fatatrac, Casalecchio di Reno (BO), 2005
D.W. Winnicott, Gioco e realtà, Armando, Roma, 2000World Health Organization, ICF, Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità, della Salute, Erickson, Trento, 2002

Associazione L’abilità
L’abilità, Strategie familiari nelle disabilità della prima infanzia, è un’associazione Onlus nata nell’ottobre del 1998 a Milano dall’iniziativa di un gruppo di genitori di bambini con disabilità e di operatori. Da allora lavora per costruire opportunità di benessere per il bambino con disabilità, offrire un sostegno competente ai suoi genitori e promuovere una cultura
più attenta ai diritti del bambino con disabilità. Il nome dell’associazione nasce da un gioco tra i due sostantivi: labilità e abilità.
Labilità come termine che riassume la condizione sia del bambino con disabilità sia della sua famiglia, una condizione di instabilità e un bisogno di punti di riferimento. Abilità come punto di arrivo di un percorso impegnativo, ma possibile: l’abilità del bambino e l’abilità del genitore di trovare insieme una strada alternativa alla normalità, che punti all’autonomia.
via Pastrengo 18 (angolo via Cola Montano)
20159 Milano
tel./fax 0266805457
info@labilita.org
www.labilita.org

1. Il gioco come esperienza vitale

di Giovanna Di Pasquale

Fra le attività praticate almeno qualche volta nel corso della vita, in qualsiasi parte del globo o in qualsiasi epoca storica ci si trovi, possiamo senz’altro mettere il gioco in cima all’elenco.
Ma il gioco, il giocare, i giocattoli sono davvero accessibili a tutti? Permettono una reale inclusione? Cosa intendiamo con questo termine? Sono molte le domande che ci possiamo fare per capire meglio il legame fra il gioco, come primaria attività umana, i giocattoli e la dimensione inclusiva attraverso la quale le persone, anche quelle con disabilità, vivono l’appartenenza a un contesto comune e integrato.
Con questa monografia vorremmo portare un contributo alla riflessione che parte proprio da queste domande.
Gioco e inclusione: se ci fermassimo al solo significato etimologico di queste parole potremmo rischiare di rimanere spaesati dall’apparente distanza che le caratterizza. Il termine inclusione rimanda all’azione di rinchiudere, chiudere dentro. Con il gioco, invece, ci spostiamo sul significato di scherzo, beffa, illusione. Qualcosa che diverge dalla realtà, la trasgredisce e quindi la reinterpreta. L’abbinamento di questi termini, gioco e inclusione, richiede allora una diversa e maggiormente contemporanea interpretazione.
Includere non può voler dire portare dentro uno spazio chiuso o determinato ma costruire legami che riconoscano la specificità e la differenza di identità. La politica inclusiva ci interroga sempre sui confini della nostra storia. “Inclusione – scrive il filosofo Jürgen Habermas – qui non significa accaparramento assimilatorio né chiusura contro il diverso. Inclusione dell’altro significa piuttosto che i confini della comunità sono aperti a tutti”.
Per trovare elementi di continuità con questa accezione del termine inclusione, tra le tante definizioni sul gioco riprendiamo due tra gli aggettivi utilizzati dal sociologo francese Roger Caillois che ci sembrano maggiormente coerenti: gioco come attività libera e gioco come attività improduttiva. Attività libera alla quale il giocatore non può essere costretto senza che il gioco perda il suo divertimento e la sua attrazione. Questo vuol dire che ognuno sta nel gioco in modo personale e non codificabile rigidamente. Attività improduttiva poiché, da un punto di vista economico, il bambino non gioca per portare un risultato ma arriva anche a dei risultati che sono nuove creazioni, atti di trasformazione di materiali e situazioni.
La dimensione libera e soggettiva del gioco non significa però che esso non abbia dei principi guida, dei fondamenti che ne ispirano lo sviluppo, ne determinano l’essenza e ne confermano l’importanza come esperienza primaria e vitale per ogni vita. Possiamo riassumere questi principi facendo ricorso ai quattro elementi naturali. Il primo si richiama al principio fisico della terra, ha come parola chiave “baricentro” e sottolinea la funzione che il gioco ha di permettere la consapevolezza di noi stessi, del nostro corpo, dei nostri limiti e delle nostre risorse. Il secondo ci riconduce al principio fisico del fuoco perché ha a che fare con l’“energia” necessaria a mobilitarsi per il gioco, energia che diventa slancio e rimanda al piacere che scaturisce dall’esperienza ludica. Il terzo principio è legato all’acqua e implica “complicità”, ha a che fare con la fiducia e l’affidamento dunque una condizione morbida, di adattamento reciproco. Il quarto e ultimo principio simboleggia l’aria e si collega all’improvvisazione perché il gioco è anche lasciarsi andare a quello che viene.
L’atto creativo nasce proprio quando non ci si affida solo a se stessi, territorio conosciuto, ma si incontra l’altro, sconosciuto. Questo incontro, che può anche essere spiazzante, obbliga continuamente ad andare fuori da noi stessi ma restando però sempre in noi stessi, rispondendo a un bisogno di relazione che è sempre alla base del gioco e del giocare.

La logica del design for all e i giochi inclusivi
Quando parliamo di giochi e giocattoli inclusivi intendiamo giochi la cui ideazione si rifà a un’ottica di progettazione e realizzazione vicina alla progettazione for all o Universal Design.
Questo concetto nasce storicamente da un’attenzione alle problematiche connesse con la disabilità: lo si può far risalire alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso quando in Europa, in Giappone e negli Stati Uniti rientrarono i veterani della Seconda Guerra Mondiale, in molti casi reduci con mutilazioni di vario genere.
Il termine Universal Design venne coniato nel 1985 dall’architetto Ronald Mace, colpito da poliomielite nel 1950, all’età di 9 anni. Egli definì l’Universal Design come “la progettazione di prodotti e ambienti utilizzabili da tutti, nella maggior estensione possibile, senza necessità di adattamenti o ausili speciali”.
I concetti di base a cui si fa riferimento partono quindi dalla consapevolezza che non esiste il cittadino standard che fruisce in un’unica modalità ma diversi modi e possibilità di usufruire degli ambienti e delle occasioni. Che è come dire che alla base delle comunità non c’è l’omogeneità ma l’eterogeneità. Oggi assistiamo in molti contesti alla realizzazione di pratiche volte a progettare in maniera inclusiva gli spazi e gli ambienti, di modo che siano fruibili da tutti, senza distinzione alcuna superando anche la specifica distinzione evidenziata dalla formula “anche per persone disabili”.
In sintesi le indicazioni che si ricavano dai principi ispiratori del design for all parlano di una progettazione e produzione che porti a un uso equo, utilizzabile da chiunque, flessibile, adatto a diverse abilità e semplice, facile da capire e intuitivo. Altri livelli evidenziati sono dati dalla percettibilità che trasmette le necessarie ed effettive informazioni all’utilizzatore, dalla tolleranza all’errore che minimizza i rischi e le conseguenze negative o accidentali e le azioni non volute, dal contenimento dello sforzo fisico per poter avere un utilizzo efficace con la minima fatica. Infine, un’attenzione mirata viene dedicata alle misure e agli spazi che devono essere sufficienti a rendere lo spazio idoneo per l’accesso e l’uso.

Gioco, giocattoli e disabilità
Questo approccio inclusivo deve marcare anche il rapporto tra gioco e disabilità. Il gioco non è un’attività riabilitativa o riabilitante, è uno spazio libero, di curiosità ed esplorazione di sé e degli altri, strumento essenziale per la crescita e la strutturazione dell’identità.
Già la Convenzione ONU dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza sanciva il diritto al gioco, diritto che la più recente Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità ribadisce enunciando, che “[…] gli Stati Parti prenderanno le appropriate decisioni per assicurare che i bambini con disabilità abbiano eguale accesso alla partecipazione ad attività ludiche, ricreative e di tempo libero, sportive, incluse tutte quelle attività che fanno parte del sistema scolastico” (articolo 30, comma d).
Giocare è un diritto riconosciuto ufficialmente a tutti i bambini, ma diventa un problema quando la difficoltà a muoversi o l’incapacità di vedere oppure ancora la scarsa capacità d’attenzione e concentrazione su di un compito lo compromettono. Come per altre situazioni connotate da povertà, privazione culturale, marginalità sociale, la presenza di una disabilità può diventare motivo di esclusione dal gioco. La difficoltà di accesso, l’iperprotezione della famiglia, la difficoltà a partecipare alle occasioni ricreative formali e informali nei territori, ecco alcuni dei molteplici fattori che ostacolano la traduzione concreta del diritto al gioco in una pratica quotidiana nella vita dei bambini con disabilità.

Indicatori di accessibilità
Molti dei principi che ispirano la progettazione per tutti rendono possibile realizzare giochi e giocattoli inclusivi, così come studi ed esperienze educative consolidate (tra le più note l’approccio montessoriano) hanno evidenziato caratteristiche che diventano dei veri e propri indicatori di accessibilità e inclusività.
Tra queste caratteristiche troviamo il coinvolgimento, in fase di progettazione, dei soggetti interessati e l’ascolto dei bisogni e dei desideri, dei limiti e delle risorse di cui tener conto.
Altro aspetto importante sta nel facilitare l’accesso al gioco per tutti e nel modo più autonomo possibile e insieme agli altri. Per tutti i bambini, e per certi aspetti in misura ancora maggiore per i bambini con disabilità, è necessario poter sperimentare in prima persona, senza l’aiuto diretto e la presenza permanente dell’adulto. Questa possibilità aiuta a sviluppare la capacità del corpo di avere la percezione di sé in relazione al mondo esterno.
Da questo punto di vista gioca una funzione analoga la polisensorialità verso cui i giochi inclusivi devono tendere: diversi canali sensoriali come strade diverse e complementari per poterli usare in modo personalizzato.
La modularità e la qualità nella scelta dei materiali rappresentano altri due aspetti essenziali per interpretare il gioco in modo creativo e libero perché possa diventare cibo per la crescita.
Infine ci preme sottolineare la ricerca della bellezza e dell’attrattività che questi giochi devono avere. I giochi inclusivi non sono solo giochi tecnicamente fruibili da tanti ma anche giochi desiderabili da tutti: non giochi per qualcuno ma giochi condivisi. Giochi che uniscono e che rendono tutti i bambini parte di una comunità.

Consigli di lettura
-C. Riva, Amorgioco. Il bambino la disabilità il gioco, Fatatrac, Casalecchio di Reno (BO), 2005
-N. Gencarelli, Ausili fai da te, Erickson, Trento, 2012

La relazione movimento-linguaggio nello sviluppo del bambino

di Arianna Casali, psicologa presso la cooperativa sociale “Progetto Crescere” di Reggio Emilia e Simona Tagliazucchi, responsabile area trattamento, abilitazione, rieducazione presso la stessa cooperativa.

Quando si pensa alla mente, generalmente, ci si sofferma sulle percezioni e sulle idee, trascurando il movimento che tuttavia ha un ruolo centrale nei processi di rappresentazione mentale fin dalle prime fasi embrionali. I movimenti non sono un semplice atto meccanico, un mezzo per raggiungere qualcosa: le azioni motorie hanno una funzione importante per formazione della mente, condizionano l’apprendimento e sono alla base del linguaggio.
Se pensiamo allo sviluppo motorio del bambino, possiamo notare una correlazione tra motricità e linguaggio. La capacità di comprendere e di esprimere attraverso la parola viene acquisita in seguito ad altre funzioni, possiamo quindi descrivere vari precursori del linguaggio che riguardano il corpo. Il neonato all’inizio ha un ruolo prevalentemente passivo rispetto al suo ambiente circostante: nota una serie di movimenti e azioni dei genitori che, se benevoli, causano effetti positivi e benessere. Ben presto è però il neonato stesso che produce azioni che determinano modifiche nell’ambiente che lo circonda, e tale sviluppo della motricità è un processo graduale che avviene secondo tappe ben precise. Le azioni motorie del bambino diventano sempre più coordinate, selettive e sequenziali, divengono un susseguirsi di atti che il bambino utilizza per situazioni specifiche. In seguito queste sequenze si arricchiscono di sempre più complesse sequenze muscolari, finalizzate a imitare anche le espressioni facciali dell’adulto. Tali sequenze di atti (chiamate anche script) vengono memorizzate dal bambino e codificano sequenze di movimenti che vengono riproposti per rispondere a situazioni specifiche. Le memorie di atti motori vengono chiamate “procedurali” perché implicano una serie di procedure e non di significati, come avviene per le memorie “semantiche”, ed esse costituiscono il punto di partenza per il successivo apprendimento linguistico basato su sequenze motorie che non sono molto diverse da altri movimenti, come quello della mano, del braccio o della testa, ma che servono per produrre una serie coordinata di suoni significativi.
Non solo gli “script comunicativi” sono alla base del linguaggio, ma ci sono altri esempi di come lo sviluppo motorio si integri con il linguaggio e ne sia un suo precursore. Il bambino già dai primi mesi di vita ha la capacità di imitare con il volto le espressioni del viso di un adulto, così come possiede altri segni tipici di comunicazione non verbale. L’imitazione sembra essere uno dei precursori fondamentali per la comunicazione sociale e interpersonale. Fin dalla prima infanzia i bambini imitano i movimenti del corpo, le posture e le espressioni facciali di altre persone attraverso azioni sugli oggetti, imitano anche il comportamento vocale di chi li accudisce ed è proprio questo meccanismo che permette l’instaurarsi di una comunicazione sociale e di una sincronia sulle emozioni (Gopnik & Meltzoff, 1994). Più specificatamente, la cosiddetta “sincronia interattiva” dei neonati, basata soprattutto sul corpo, è uno dei primi segni di comunicazione. Se si osserva un neonato di qualche giorno di vita mentre gli si parla, si nota che il piccolo muove il corpo in risposta alle nostre parole. Il bambino compie una serie di micromovimenti in risposta al linguaggio umano, una specie di danza con il corpo che viene attivata dalla voce umana, dal ritmo della lingua (sincronia interattiva). Ciò ci fa capire come il linguaggio non sia solo un atto puramente mentale o astratto, ma coinvolga anche il corpo; tale affermazione si può notare anche successivamente negli adulti che accompagnano il proprio linguaggio con movimenti (gesti e mimica facciale) che lo rendono maggiormente significativo.
Un ulteriore aspetto da non tralasciare nella correlazione tra sviluppo motorio e linguaggio riguarda l’utilizzo dei gesti nei bambini piccoli. I primi gesti che compaiono tra i 9 e i 12 mesi vengono chiamati performativi o deittici: sono gesti utilizzati per mostrare, offrire, dare e per fare richieste ritualizzate (ad esempio estendere il braccio con la mano aperta e il palmo in su o in giù; aprire e chiudere il palmo della mano come un gesto di prensione a vuoto). Essi esprimono un’intenzione comunicativa e si riferiscono a un oggetto o evento esterno, che tuttavia si ricava esclusivamente osservando il contesto. A differenza delle azioni di tipo strumentale come l’afferrare, questi gesti sono inadeguati per raggiungere l’obiettivo in modo diretto, ma servono e sono adeguati per comunicare tale obiettivo a un’altra persona. I gesti deittici sono accompagnati dallo sguardo diretto al destinatario del gesto; in alcuni casi il bambino guarda alternativamente il destinatario e lìoggetto/referente del gesto. La natura di questi gesti è triadica (bambino-adulto-oggetto/evento): mentre il bambino compie il gesto non manca, infatti, il contatto visivo e l’alternanza dello sguardo fra bambino e interlocutore. I gesti deittici vengono utilizzati sia per chiedere l’intervento o l’aiuto dell’adulto (funzione di richiesta) sia per attirare l’attenzione e condividere con l’interlocutore l’interesse per un evento esterno (dichiarazione).
A partire dai 12 mesi circa, fanno la loro comparsa i gesti referenziali o rappresentativi, veri e propri precursori del linguaggio. Questi non soltanto esprimono un’intenzione comunicativa, ma rappresentano anche un referente specifico, il loro significato cioè non varia in conseguenza del variare del contesto (Caselli 1983; Acredolo e Goodwyn 1985). Si tratta di gesti usati in una molteplicità di situazioni per riferirsi a oggetti, eventi o azioni: ad esempio aprire e chiudere la mano per significare “ciao”. Questi gesti vengono appresi prevalentemente per imitazione e nascono per lo più all’interno di routine sociali o di giochi con l’adulto. In seguito essi si distaccano dai contesti originari per decontestualizzarsi sempre più, sono utilizzati sempre più per scopi comunicativi piuttosto che come schemi di azione o di gioco simbolico. I gesti referenziali hanno, appunto, un’origine sociale, ovvero non sono dati biologicamente, ma vengono appresi attraverso l’uso che gli altri ne fanno, hanno cioè un significato convenzionale e presentano una loro variabilità culturale. Da questo punto di vista essi rappresentano un ponte verso l’apprendimento del linguaggio, con cui condividono alcune proprietà (come la referenzialità), ma rispetto al quale sono carenti nella portata esplicativa delle interazioni comunicative, data la loro natura iconica e analogica. Nello stesso periodo, compaiono le prime parole, anch’esse molto legate al contesto e che solo man mano si decontestualizzano. Quando il linguaggio verbale comincia a consolidarsi e il vocabolario raggiunge le 50 parole, l’uso dei gesti referenziali diminuisce gradualmente fin quasi a scomparire. Questa diminuzione spontanea dei gesti con l’arrivo del linguaggio verbale sottolinea ulteriormente l’importanza dei gesti, quando i bambini sono piccoli, per esprimere le loro intenzioni comunicative.
Si può concludere sostenendo che la motricità occupa una posizione molto rilevante nella nostra mente e nelle strategie cognitive che utilizziamo. Da ciò che si è scritto precedentemente, si nota come nel movimento, non giochi un ruolo centrale solo il soggetto in modo autonomo, ma sia fondamentale anche l’ambiente e le persone che circondano il bambino nei primi periodi di vita. Questa affermazione viene confermata da studi neurofisiologici recenti, in cui si è scoperto che il nostro cervello reagisce in modo inconscio anche ai movimenti compiuti dagli altri: noi non ce ne rendiamo conto, ma la corteccia cerebrale “fotocopia” i movimenti che vediamo compiere dalle persone intorno a noi attraverso i  mirror neurons (neuroni specchio), localizzati, appunto, nella corteccia premotoria. Tali neuroni sono un tipo particolare di cellule caratterizzati dalla capacità di “rispecchiare” i movimenti altrui. L’area motoria del nostro cervello è quindi implicata (almeno come innesco) nella comprensione delle azioni e delle percezioni che accadono intorno a noi. I neuroni specchio stabiliscono una sorte di “ponte” tra osservatore e attore, sono quindi al centro di comportamenti imitativi, che diventano fondamentali  nella fase infantile per l’apprendimento di schemi motori; tali neuroni tuttavia hanno anche un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’intelligenza linguistica.
Per quanto riguarda l’apprendimento motorio possiamo pensare a quando per la prima volta un bambino vede un movimento nuovo eseguito da un altro bambino: nel suo cervello si attivano in modo automatico i mirror, che elaborano lo schema del movimento (cioè le sequenze muscolari per compiere quel movimento) che fino a quel momento il bambino-osservatore non ha mai compiuto. In questo modo il bambino, prima ancora di compiere concretamente il movimento, ha già interiorizzato le sequenze motorie necessarie per farlo grazie ai mirror.. Questa stessa dinamica accade anche quando un bambino piccolo impara a imitare i suoni degli adulti, cioè a compiere quei movimenti delle labbra e del volto che lo porteranno a imitare, anche se con qualche sforzo, i movimenti che ha visto mettere in atto dagli adulti per comunicare tramite il linguaggio le sue intenzioni: la motricità e i mirror neurons ne facilitano quindi alcuni aspetti.
È quindi attraverso l’osservazione e l’azione motoria che un bambino compie una serie di apprendimenti concreti, che man mano, si trasformeranno in concetti astratti.
Ciò significa che la base del nostro apprendimento è di natura motoria e che la comprensione non viene gestita solo su base simbolica, in un’area di elaborazione elevata che non comunica con l’area motoria, ma che “il cervello che agisce è anche e innanzitutto un cervello che comprende” (So quel che fai…Rizzolatti e Sinigaglia, 2006). La comprensione e l’apprendimento di nuovi concetti non sarebbero solo dipendenti dalle “mappe mentali” individuali, ma dipenderebbero soprattutto da eventi collegati tra loro in uno stato di “sintonizzazione” tra pattern interni ed esterni. Quando si pensa alla mente e all’apprendimento si privilegia spesso una concezione logico-astratta, a scapito dell’aspetto più concreto e motorio dell’apprendimento, pur sapendo che azioni e movimenti hanno un ruolo centrale nei processi di formazione e rappresentazione mentale. La concretezza è un aspetto importante sia per l’apprendimento del linguaggio che per l’apprendimento in generale: i bambini hanno bisogno di esempi concreti e palpabili, di manipolare la realtà e di fare giochi attivi e di movimento, perché si comprende meglio da ciò che si vede e si trae più soddisfazione da ciò che si è realizzato.

Per saperne di più:
www.progettocrescere.re.it

Quando il mondo si fa fantastico. “La Mongolfiera” di Ermanno Morico

A cura di Mario Fulgaro

Ogni individuo, che sia maggiorenne o minorenne o adolescente o anziano, può spaziare con la propria mente in ogni luogo e tempo, arricchendo ulteriormente la propria esperienza di vita di fantastica presenza nel mondo. In un contagioso dialogo di fantasie con Ermanno Morico, animatore con disabilità del Progetto Calamaio, è facile trovarsi fisicamente dinanzi a una scrivania a Bologna e al contempo spaziare con la mente in luoghi europei e mondiali, imbattendosi in personaggi del tutto originali e simpatici.
I personaggi che crea Ermanno sono sì fantasiosi, ma in sé presentano caratteristiche del tutto comuni, con le loro particolarità uniche ma, al contempo, universali. Lo spirito di osservazione della realtà circostante è il perno di ogni nuova storia da inventare e sviluppare. È bastata, infatti, la foto di una mongolfiera incorniciata e affissa alla parete del Centro Documentazione Handicap per stimolare il nostro scrittore, facendolo catapultare in luoghi desiderati e lontani. È il vento della propria fantasia a scuotere ogni pensiero, solleticando la più accesa creatività per la descrizione di un viaggio onirico e sempre sognato.
Le correnti ascensionali dei propri desideri permettono di avere una visuale dall’alto che comprenda tutto il proprio vissuto, arricchendolo di immaginaria volontà, sì da sfidare e superare ogni difficoltà. I punti di riferimento diventano l’avventura, la libertà, il ritorno, laddove la mente è già stata e vuole ritornare con forza. A trionfare sempre su tutto c’è sempre l’amicizia che rende persino la nostalgia e i ricordi sprono per nuove avventure ancora da realizzare.

“La mattina seguente erano freschi, riposati e pronti per ripartire, questa volta puntarono verso la Norvegia, esattamente Oslo.

Oslo è una cittadina dove c’è un clima molto freddo e infatti nel mare ci sono i ghiacci, la sfida di Gigio e Tommy era proprio di atterrare su una lastra di ghiaccio, ma non era facile e dovevano prepararsi bene per l’atterraggio. Era parecchio freddo!
Gigio e Tommy cercano di atterrare lentamente senza colpi bruschi altrimenti la lastra si sarebbe potuta rompere. Ce la fecero! e non appena toccato il ghiaccio i due fuoriuscirono dal cesto di paglia e gridarono per la contentezza.
Si prepararono indossando la muta stagna e le bombole e con un coraggioso tuffo si immersero in mezzo ai ghiacciai dentro al mare della Norvegia, in mezzo  ai fondali, con la maschera da sub si poteva vedere un bellissimo panorama marino e osservare le sette meraviglie del mare di Norvegia, meraviglie di pesci diversi: pesce palla, aragoste, salmoni, meduse ecc…
Era stata un’ardua impresa ma molto soddisfacente!
Approfittando delle correnti ascensionali del vento favorevole ripartirono con la bussola si diressero in un altro paese caldo per poi ritornare in Italia.
Per via del vento favorevole e parecchi giorni di viaggio… finalmente in Italia… direzione Bologna…
Abbiamo una collina fuori Bologna, nel punto indicato e con la leva abbiamo iniziato la discesa verso terra. Pian piano che la mongolfiera scendeva ci saliva un velo di tristezza per aver lasciato dietro tutti quei bei posti e i meravigliosi ricordi.
Gigio e Tommy erano molto contenti di aver avuto un’avventura e di aver girato il mondo in mongolfiera. Si resero conto che la loro amicizia poteva superare tutte le difficoltà e arrivare a traguardi irraggiungibili con poche spese”.
(Ermanno Morico)

Vi è piaciuta la fiaba di Ermanno? Io mi sono rilassato moltissimo a immaginarmi lassù… Per questo non ho resistito e ho chiesto al mio caro collega di concedermi un breve scambio di battute. È così che ho scoperto come nasce il racconto di un viaggio fantastico…

Salve Ermanno! Come stai?
Sto così… in carrozzina! Ahimè!

Ho letto delle sue storie e mi sono piaciute molto… Ma come mai ha deciso di scrivere delle fiabe?
Perché ho lo stampino di mio nonno paterno Eliseo Morico, che era un poeta.

Da quanto tempo le scrive?
Da circa quattordici anni…

 Da dove prendi spunto?
Quando vedo gli spunti che mi piacciono, magari al cinema, oppure quello che vedo in giro prima immagino un racconto con un filo logico dall’inizio alla fine, poi materializzo inventando dei personaggi, tipo Joe Black… Un personaggio che ho preso in prestito al cinema, da un film che ho visto vicino alla Salaborsa, la Biblioteca di Bologna, quel cinema piccolino che si trova in via Indipendenza sulla sinistra, ho visto il film di Joe Black, dove c’era quel bel ragazzone di Brad Pitt, biondo… E lì ho colto l’occasione per creare il mio personaggio. A volte mi ispiro anche ai vicini di casa, come la signora Giustina, di 102 anni, che è diventata la protagonista della mia storia “L’isola del tesoro”.

Sappiamo che “La Mongolfiera” è la tua fiaba preferita, perché?
“La Mongolfiera”… Perché si viaggia, come Colombo, ma per aria… E in giro per il mondo, per visitare tutte le città… E poi io sono un avventuriero… Ho provato anche l’emozione del volo, con l’imbragatura trainato da un motoscafo era come essere al sesto piano di casa mia! Ero in compagnia di un educatore argentino… Da lì ho visto il mare… E vedevo anche il vuoto… Un’emozione inebriante… Con l’imbragatura mi sentivo al sicuro e tanto sotto c’era il mare… Avevo le gambe a penzoloni, nel vuoto… La prima cosa che ho pensato quando sono salito su è stata “Ma chissà cosa c’è sotto!”. E poi ho visto il mare dall’alto… Vasto e immenso, non si vedeva la fine… Infinito

L’uomo che allevava i gatti

A cura di Nicola Rabbi

La diversità è spesso un elemento nella narrazione che serve a fare luce su determinate situazioni sociali; così la persona con disabilità serve allo scrittore per far scattare certe dinamiche che portano alla luce contraddizioni sociali o psicologiche. È quello che capita nella serie di racconti dello scrittore cinese contemporaneo Mo Yan, pubblicati nel libro L’uomo che allevava i gatti.
Mo Yan, famoso in Italia per il romanzo Sorgo rosso, scrive questi testi negli anni ’80, in piena epoca denghiana dove iniziano e s’intensificano le aperture verso un’economia non più pianificata ma di libero mercato, sempre però sotto il rigido controllo di partito.
In questi racconti, protagonisti sono quasi sempre delle persone deboli o con delle tare, a volte sono semplicemente dei bambini, creature comunque completamente indifese di fronte a una società, quella cinese, che tratta con durezza chi è debole o malato; è la tipica durezza del mondo contadino arcaico che ritroviamo in tante altre letterature, un mondo che, di fronte alle necessità della pura sopravvivenza, non si può permettere di mostrarsi benigno verso chi è debole. Ma la mancanza, la disabilità è anche occasione di meraviglia per questa società, perché è anche l’occasione per riaffacciarsi a un mondo magico, ancestrale, dove sogni, leggende, superstizioni si rifanno vive anche nella materialistica società comunista cinese che impone con fermezza la politica del figlio unico per famiglia. È
Il protagonista del racconto Il cane e l’altalena è un figlio di contadini che è riuscito però a diventare un intellettuale di città; in visita al suo remoto villaggio incontra Nuan, la bella ragazzina compagna d’infanzia che per colpa sua, giocando sull’altalena, aveva perso un occhio, condannandola così a una vita di emarginazione. Quando comunica alla sua famiglia l’intenzione di andare trovare Nuan così gli risponde lo zio:

“È evidente che studiare non è una cosa buona, non solo per i malanni che colpiscono quelli che studiano, ma anche perché li rende un po’ bislacchi. Che bisogno hai di andarla a trovare? Diventerai lo zimbello del villaggio! Una è cieca e l’altro è muto. Ognuno deve stare al proprio posto, i pesci con i pesci, i gamberi coni gamberi, non bisogna abbassarsi a frequentare certe persone”.

Una famiglia, infatti, Nuan ha potuto farsela solo sposando una persona sorda, menomata come lei.

[…] fu un uomo agile e solido dalla barba color terra e dagli occhi marroni che uscì ad accogliermi Mi esaminò con aria ostile […] Sapevo da mio zio che il marito di Nuan era muto, ma il cuore mi si fece pesante nel vedere il suo aspetto da folle. Un’orba che sposa un muto: è come pretendere di tagliare le verdure in un recipiente concavo con un coltello storto! Nessuno ha motivo di prendersela con l’altro! Ma io non potevo provare che una pena profonda.

L’incontro tra i due uomini prima teso poi sfocia, attraverso la mediazione di Nuan, in un rapporto di grossolana amicizia. Ma dietro a questa situazione, dietro a tutta questa vicenda, c’è un piano, il piano di Nuan, che si rivela alla fine del racconto, quando, all’insaputa del marito rivede il protagonista in un campo di sorgo.

“Sono dieci anni che sei partito, pensavo che non ti avrei più rivisto. Non sei ancora sposato?No! […] Tu hai visto come è fatto mio marito, ama e odia al limite estremo […] Sospetta di qualsiasi uomo mi rivolga la parola. Mi legherebbe con una corda se potesse […] Sono rimasta incinta un anno dopo il matrimonio. Il mio ventre s’ingrossava come un pallone […] Ho messo al mondo tre figli, appena più grossi dei piccoli di una gatta. […] Sono stati due anni terribili, pensavo che non mi sarei mai più ripresa. Dal momento in cui vennero al mondo vissi nell’ansia. Signore, fa’ che parlino e non siano come il padre, mi auguravo. Quando ebbero circa otto mesi il cuore mi si gelò. Erano assenti, insensibili ai suoni e piangevano senza toni. Pregai il Cielo che me ne lasciasse almeno uno col quale parlare… ma non servì a niente, erano tutti e tre muti”.

Ecco allora che Nuan, distendendo un panno giallo nel campo, esclama:

“Allora… ora dovresti capire… Temendo di farti ribrezzo mi sono messa l’occhio di vetro. Sono in un periodo fecondo… voglio un figlio che parli!…”.

Nel racconto Musica polare, invece, l’emarginato ha un ruolo del tutto diverso.

“Solo quando arrivò lì davanti, scoprirono che quell’ombra era in effetti un uomo di corporatura gracile. Portava appese borse di tipi, forme e grandezze diverse, alcune lunghe e sottili, altre piatte […] Veniva spontaneo chiedersi cosa potessero contenere. Si appoggiava a un lungo bastone di bambù e portava sulla schiena un piccolo involto con il necessario per farsi un giaciglio.
San Xie accese un fiammifero e illuminò un viso pallido ed emaciato. E due enormi occhi spenti e senza luce”
.

Così entra in scena il cieco e si presenta a quattro commercianti agiati, tipica espressione della Cina che cambia dopo i rigori maoisti e che lascia spazio all’intraprendenza economica dei singoli. In questo remoto villaggio vive Hua Moli, una donna bella, alta, dal carattere duro che sa far affari; ha uno spirito indipendente che la porta perfino a divorziare da un alto funzionario di partito. Una donna ammirata e temuta in tutta la comunità locale. Hua ospita il cieco a casa sua perché ne prova pietà ma in breve ne rimane folgorata:
“Le fattezze non comuni del cieco colpirono Hua Moli nell’istante stesso in cui accese la luce. La fronte pallida e sporgente faceva risaltare la profondità e la serenità del suo sguardo senza vita. Le orecchie, straordinariamente grandi, erano animate da un’incredibile vitalità, sensibili e vigili, reagivano al minimo rumore”.
La comunità non riesce a capire le ragioni che possono legare una donna così forte a un reietto e spettegola, fa congetture, maligna, finché alla sera il mistero verrà in parte svelato:

“A un tratto dal cortile si levò un suono che la gente di Masang non sentiva da anni. Il giovane cieco stava suonando il flauto! Le prime note erano profonde e delicate come il sospiro di una fanciulla, poi si trasformarono in un pianto che scorreva dolce e tranquillo come l’acqua del fiume o le nuvole del cielo. Il suono si fece sempre più debole, come se annegasse in un mare infinito … poi all’improvviso la melodia riprese vigore, diventando sempre più forte e scatenandosi come onde agitate che trasportavano sulla loro cresta le emozioni della gente del villaggio sull’argine del fiume. Fang Liu, lo Zoppo, teneva gli occhi chiusi e il viso rivolto al cielo; Huang Yan respirava profondamente a testa bassa; Du Shuang si copriva il viso con le mani, e gli occhi di San Xie s’ingrandirono per la meraviglia. Gli accenti sempre più desolati sembravano trafiggere le nuvole e spezzare le rocce. La musica toccò le corde più sottili e morbide del cuore umano, avvolgendo i presenti in una sensazione estatica”.

Il giovane cieco comincia a suonare all’interno del ristorante di Hua Moli diventandone un’attrattiva e fonte di un enorme guadagno. I clienti mentre mangiano e ascoltano la musica delicata del cieco riescono a uscire dalla loro vita quotidiana:

“Le note scivolavano luminose ed evocatrici, come una dolce ebbrezza di primavera, che accarezza il viso allo sbocciar dei fiori. I giovani immaginarono le dolci profondità dell’amore, i vecchi ripensarono al passato che aveva la consistenza di un sogno, e una sensazione dolce avvolse i cuori degli astanti. Dimenticarono tutto: il cielo. La terra, le preoccupazioni e le angosce”.

Hua Moli però non è mossa dal successo economico ma dall’amore che prova per il cieco che però la rifiuta per poi ripartire:

“Vuoi dire che non sono degna di te? Ti ho forse fatto del male? Mio giovane cieco… tu non puoi vedermi, ma puoi toccarmi dalla testa ai piedi, non troverai la minima cicatrice o imperfezione…”.
“Sorella, lo so che sei molto bella, l’ho sentito dire dalla gente… ma io devo partire… devo assolutamente partire… e subito…”.

Lettere al direttore

Caro Claudio,
perdonami se ti dò del tu, ma leggendo i tuoi articoli, mi trovo sempre in perfetta sintonia con quello che scrivi e pensi. Siamo in una società, io credo, in cui non c’è, almeno nella realtà, un vero
rispetto per chi è diverso, che sia straniero, handicappato, omossessuale, o più semplicemente diversamente abile.
Nell’approccio quotidiano, in generale, ho l’impressione che ci sia quasi sempre un rapporto di compatimento, se non addirittura di diffidenza o paura nei confronti di queste persone.
Io penso, invece, che tutte le persone siano uniche e che ognuna sia portatrice di cose belle, ma anche di cose brutte o non necessariamente brutte ma meno belle, che sono le specchio del loro vissuto fino a quel momento.
L’inclusione o l’esclusione dipende unicamente da quello che pensiamo di queste persone, dal valore che noi diamo.
Per quanto mi riguarda tutte le persone hanno il sacrosanto diritto di vivere una vita dignitosa, dove nessuno si debba sentire diverso, ma facente parte a pieno titolo della società in cui vive.
Mi trovo molto d’accordo con te quando dici che l’inclusione la si vive nel quotidiano, nelle piccole cose di ogni giorno, nelle occasioni d’incontro, nei piccoli gesti quotidiani, un sorriso, una parola, un momento di condivisione.
Ho avuto diverse occasioni nella vita di relazionarmi con persone con difficoltà motorie molto gravi e ho sempre cercato di rapportarmi con loro in modo normale, non pensando di avere davanti una persona con handicap, ma esclusivamente una persona, con pregi ma anche difetti come tutti noi
abbiamo e che spesso non vogliamo riconoscere per orgoglio.
Sempre, nel relazionarmi con loro, penso di aver più ricevuto che dato.
Io lavoro in fabbrica e qui vengono assunti, per obbligo di legge, alcune persone con handicap, alle quali vengono affidate mansioni semplici, ripetitive e alla lunga alienanti.
Credo che questo non porti molto beneficio per loro, se non in minima parte.
Ognuno di noi ha il diritto di sentirsi utile e quindi valorizzato per ciò che fa o riesce a fare.
Vorrei che la nostra società facesse dell’inclusione una sua bandiera, molto più bella di quella della guerra, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, della competizione, del consumismo, del denaro e dell’arrivismo.
Cambierei, provocatoriamente, il primo articolo della nostra Costituzione, “una Repubblica fondata sull’inclusione”, ecco forse allora avremo una società più giusta, meno frenetica e più sicuramente a misura d’uomo.
Cordialmente,
Berto Graziano

Berto caro,
sei forse il marito della Berta che filava la lana, come cantava il nostro Rino Gaetano?
Sempre per restare in tema comincio con il risponderti che, a proposito della tua proposta di modificare il primo articolo della Costituzione in “l’Italia è una Repubblica fondata sull’inclusione”, sono assolutamente d’accordo con te.
Sappi però, caro Berto, che negli anni Settanta, anni d’oro per me e per Rino Gaetano, c’era già molto movimento intorno al concetto di inclusione.
Erano gli anni della Legge sull’Integrazione Scolastica, anni in cui i dibattiti su scuole speciali e insegnanti preparati al sostegno erano effervescenti.
Io ero un giovane, quasi ventenne, osservatore giudicante e giudicato da figure addette al mio contesto inclusivo. Educatori, famiglia, insegnanti, pedagogisti e via dicendo, professionisti che hanno scelto un lavoro a contatto con quella che è una delle mie molteplici realtà: la disabilità.
A costellare questo contesto però non c’erano solo loro. C’era spazio anche per altre figure, meno di spicco, che contribuivano a rendere la vita altrettanto felice e interessante.
Parlo degli “inconsapevoli promotori di inclusività”, di tutte quelle figure cioè che riempiono la quotidianità delle nostre vite, dal giornalaio, al barbiere al taxista, che possono fare la differenza e migliorarne la qualità.
Non necessariamente le persone con disabilità devono essere circondate da psicologi, pedagogisti, educatori o volontari, anzi, sono spesso le persone come tante che ci permettono di sviluppare i nostri gusti e le nostre potenzialità, che contribuiscono a costruire la nostra ordinaria identità.
E ciò accade anche sul lavoro, uno dei contesti più critici, per tutti.
Tu lo sai bene, come scrivi lavori in fabbrica, dove, ormai, non mancano più nemmeno lì progetti di inserimento lavorativo per persone con disabilità. Posto che sono in linea con te, che non sempre un lavoro meccanico e ripetitivo sia la soluzione (ma questo in generale) credo anche che il modo in cui i tuoi colleghi vengono coinvolti nella loro attività lavorativa possa essere un discrimine importante. È un passaggio, come dice un mio amico, il professore Andrea Canevaro, “dal sistema del sostegno al sistema dei sostegni, attraverso incontri di prossimità”, scoprendo che chi si incontra per caso, magari anche un collega con cui scambiare una chiacchiera da una postazione all’altra,  può diventare una risorsa.
Hai pensato, caro Berto, prima di mettere mano alla Costituzione, all’atteggiamento e ai ruoli che tu e i tuoi compagni interpretate verso i tuoi colleghi con disabilità?
Dalle tue bellissime parole sembra di sì, continua così e anche la Costituzione si farà inclusiva.
Grazie e buona vita!

Gentile Signor Claudio,
sono la sorella di P., ospite da molti anni di una comunità per disabili psichici.
L’ambiente della psichiatria è diventato parte di me, sposata con tre figli, ma anche con profondo amore fraterno verso la pecora nera di mio fratello.
Ognuno con la propria esperienza e specificità può recitare un ruolo attivo e può dare e ricevere qualcosa dagli altri per combattere la cultura dello scarto con la cultura dell’inclusione.
Ci credo talmente tanto che ho voluto includere il periodo precedente, scritto da lei, in ciò che io sto scrivendo a lei.
Ci vorrà del tempo affinché la cultura del farsi prossimo diventi fattiva, ma penso che l’educazione della persona parta proprio dalla famiglia e soprattutto,  me lo conceda, da noi donne.
Chi educa una donna educa una persona, una famiglia, un popolo, una nazione.
Con queste semplici considerazioni Le volevo augurare un sereno anno e farle sapere che io la pecora nera nel mio presepe l’ho messa: ho invitato P. a casa mia il giorno di Natale (prima di leggere il suo articolo!); non succedeva per causa di forza maggiore da anni! Noi parenti di pecore nere siamo felici!
Con tanto affetto,
Laura Pegoraro

“Ancora una notte gelida nella campagna vicino Betlemme, d’altra parte siamo quasi a ottocento metri di altitudine. Per riscaldarci l’una con l’altra siamo costrette a rimanere vicinissime”. Iniziavo così un mio articolo per “Il Messaggero di Sant’Antonio” dove, giocando un po’ con le metafore, sottolineavo il ruolo che le cosiddette pecore nere possono recitare nella società.
Un ruolo attivo, un ruolo importante. Vediamo perché.
Per noi pecore nere le regole sono chiare e soggette alle norme di purità stabilite dalla legge ebraica. Non possiamo rientrare all’ovile. Siamo costrette a seguire ovunque i nostri pastori. Non è così per le pecore di lana bianca. Il loro gregge è considerato purissimo e possono tornare dopo il tramonto a dormire nell’ovile. L’altro gruppo, formato da pecore con lana in parte bianca e in parte nera, è più fortunato del nostro. Anche loro possono rientrare nell’ovile, ma fuori dal centro abitato di Betlemme, visto che la loro lana non testimonia un’assoluta purezza.
Vero, noi pecore siamo in parte diverse. Il nostro manto è completamente nero, non candido come desiderano gli uomini. Eppure anche noi mangiamo tanta erba, abbiamo una lana calda e morbida e siamo in grado di produrre latte. Proprio come le pecore bianche.
Quella notte di dicembre sembrava diversa da tutte le altre. Il cielo era particolarmente stellato. Al nostro gregge si avvicinò un angelo. Noi pecore nere e i nostri pastori all’inizio ci spaventammo finché l’angelo del Signore ci rassicurò e ci annunciò la nascita del Salvatore e di un bellissimo cambiamento epocale, soprattutto per i più deboli come noi pecore nere. Insieme ai nostri pastori, siamo state le prime a vedere e a sentire la Buona Notizia, proprio perché eravamo le uniche a essere fuori. Questa è la testimonianza in prima persona, unica e originale, di una pecora nera, prima che l’evangelista Luca ci narrasse la Nascita del Signore.
Ma chi sono queste pecore nere? Sono quella parte della società composta da emarginati ed esclusi. Persone con disabilità, poveri, prostitute, una parte della collettività che esiste ma viene poco considerata e tutelata. Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’ afferma:“Se teniamo conto del fatto che anche l’essere umano è una creatura di questo mondo, che […] ha una speciale dignità, non possiamo tralasciare di considerare gli effetti […] dell’attuale modello di sviluppo e della cultura dello scarto sulla vita delle persone”.
Dalla nostra storia impariamo che anche le pecore nere hanno molto da raccontare. Ognuno con la propria esperienza e specificità può recitare un ruolo attivo e può dare e ricevere qualcosa dagli altri, per combattere la cultura dello scarto con la cultura dell’inclusione.
“Inclusione” non significa fare in modo che tutte le pecore siano bianche, ma riuscire a dare un ruolo a tutti i tipi di ovini, rispettando e valorizzando le diversità e le abilità.
Non a caso al Gesù uomo piacerà molto relazionarsi con le pecore nere e vivere le periferie, proprio Lui ci testimonia quanto gli emarginati abbiano molto da offrire ai nostri contesti.
Che dire? Se volete rendere la vostra Betlemme più accogliente, mettete tutti gli anni  una pecora nera nel presepe.