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Autore: Nicola Rabbi

4. Un Bar Senza Nome

di Valeria Alpi

È nato nel 2012 il Bar Senza Nome, un locale del centro storico di Bologna, gestito da persone sorde. Un luogo che nel tempo è diventato molto apprezzato dai cittadini, con anche tanti eventi organizzati e occasioni di incontro tra non udenti e udenti. Ne abbiamo parlato con Alfonso Marrazzo e Sara Longhi, i due gestori.
Alfonso e Sara si sono incontrati quasi per caso, tramite amici comuni legati al “Gruppo Camaleonte”, associazione che promuove l’attività di artisti sordi. Il loro sogno era quello di organizzare eventi teatrali. “Per anni abbiamo organizzato eventi culturali per non udenti, ma non è affatto facile – racconta Sara. Per mettere in piedi uno spettacolo teatrale c’è bisogno di molto spazio, e non tutti i posti sono adatti, per non parlare dell’affitto, una spesa non indifferente”. Come trovare quindi i fondi per realizzare i loro progetti? “L’idea iniziale era quella di aprire un negozio con i proventi del quale finanziare le attività culturali che intendevamo creare –spiega Alfonso. Poi abbiamo capito che aprendo il bar avremmo potuto fare entrambe le cose. Abbiamo pensato che questo fosse uno spazio per fare diverse attività, per cercare appunto un luogo che avesse l’obiettivo di integrare sordi e udenti.
Un’attività lavorativa, ma anche culturale, per fare in modo che mondi diversi, situazioni diverse si incontrassero, diversi punti di vista si confrontassero, e quindi gli udenti potessero conoscere il mondo dei sordi e viceversa insomma. L’intento, infatti, era quello di far interagire i sordi con gli udenti, di metterli in qualche modo allo stesso piano in un luogo in cui l’interazione è davvero possibile”.
Difficoltà incontrate? “Siamo nell’era di Internet – dice Alfonso – quindi molti dei problemi che avremmo incontrato qualche anno fa come, ad esempio, il rapporto coi fornitori, adesso non si presentano neanche. In realtà, molte cose sono venute praticamente da sole. Le uniche difficoltà che abbiamo incontrato sono a livello istituzionale. Specialmente all’inizio avevamo bisogno sia di contributi economici, sia di sug- gerimenti pratici e di gestione, che nessuno ci ha fornito. In Italia non esistono leggi speciali per chi, affetto da disabilità, vuole aprire una sua attività”. “Un’altra difficoltà – aggiunge Sara – era per esempio come chiamarci da un punto all’altro del bancone e ci siamo inventati di muovere il lampadario quando uno di noi è di spalle e possa così comprendere che lo stanno chiamando. Questo significa che si possono creare, inventare, delle forme di comunicazione diverse. È anche stimolante e divertente. Gli udenti hanno scoperto che ci si può sforzare di diventare ‘sordi’ e noi viceversa. All’inizio chiaramente avevamo molti dubbi su come fare, quando abbiamo aperto il bar, i primi due mesi, pensavamo che gli udenti non sarebbero entrati, che si sarebbero spaventati, che avrebbero pensato che noi non li avremmo capiti, che ci sarebbe stata una forma di vergogna a bloccare la comunicazione. E invece col passare del tempo molti si sono affezionati, si sono appassionati al mondo dei sordi, e quindi ora abbiamo azzerato ogni preoccupazione”.
E quando serve c’è anche l’interprete, per le questioni commerciali e aziendali del bar stesso, ma anche soprattutto per gli eventi che organizzano. Il Senza Nome, infatti, promuove e organizza diverse iniziative culturali, come mostre, concerti, dj-set, presentazioni di libri, proiezioni di film e documentari, corsi di yoga o shiatsu, in collaborazione con Nunzia Vannuccini dell’associazione culturale Farm, che ne cura la programmazione artistica. Farm è anche l’associazione che ha dato vita a un altro bar inclusivo a Bologna, L’Altro Spazio, dove tutto è accessibile ai vari tipi di disabilità, sia motoria che sensoriale, e dove ci lavorano persone con disabilità (www.laltrospazio.com).
Noi ci siamo stati al Bar Senza Nome e vi raccontiamo come è andata.

Un pomeriggio al Bar Senza Nome
“Come si dirà mojito in lingua dei segni?” ci siamo chieste io e una mia collega all’apertura del Bar Senza Nome. Incuriosite siamo andate a provare lo spazio, e la prima impressione è stata che è davvero uno spazio da vivere. Si entra e ci si sente come a casa propria. Si può scegliere la zona preferita, tra tavolini di diverse altezze, materiali e forme, tra divani, un cortiletto interno, una sala al primo piano. Noi avevamo il pc portatile, e si può usufruire del wi-fi gratuito e occupare lo spazio per il tempo che si vuole, al costo di un caffè.
Ma è l’atmosfera che colpisce. Il bar è frequentato sia da udenti che da non udenti, per cui le forme di comunicazione convivono a volte separatamente, a volte si mescolano, a volte si integrano. Suono e silenzio vanno avanti alternati. I clienti udenti conversano fra di loro come in un qualunque locale, i non udenti conversano con la lingua dei segni; non udenti e udenti conversano fra di loro sia parlando coi segni (per chi conosce la lingua) sia parlando a voce, sia leggendo le labbra. Anche per ordinare si può scegliere la forma di comunicazione preferita, o quella con cui ci si sente maggiormente ad agio. Appesi all’ingresso ci sono tanti bigliettini con tutti i cibi e le bevande che si possono ordinare. Basta scegliere il bigliettino corrispondente a ciò che si desidera e consegnarlo al bancone. Ma è molto più bello andare direttamente al bancone e ordinare, guardando la persona dritta in faccia in modo che possa leggere le labbra. Noi abbiamo avuto fortuna: accanto al nostro tavolo c’era un insegnante di lingua dei segni che teneva una lezione privata a uno studente. Entrambi udenti. Così ne abbiamo approfittato e ci siamo fatte insegnare come ordinare un cappuccino e un caffè d’orzo con i segni giusti, e già che eravamo sedute accanto abbiamo imparato anche tante altre parole ed espressioni. Anzi, ci siamo rese conto che la lingua dei segni è molto più complessa di quanto pensano comunemente gli udenti. Non basta avere a disposizione dei segni che sostituiscono le parole.
Concordare aggettivi e sostantivi, concordare i verbi e le sequenze temporali richiede delle gestualità molto complicate e non è sufficiente conoscere la gestualità delle singole parole.
Arrivate alla cassa, abbiamo ottenuto uno sconto sul prezzo perché avevamo ordinato in lingua dei segni. Poi mi sono accorta che al piano di sopra c’era una mostra. Ho chiesto se si poteva visitare, ma il gestore mi ha risposto che stavano tenendo un corso di shiatsu e non si poteva disturbare. Al che ho esclamato: “Ma allora finora abbiamo disturbato!”. E lui: “Perché?”. E io: “Perché stavamo parlando forte [cosa di cui lui non si poteva ovviamente accorgere]”. E lui: “Ma sta andando la musica in sottofondo? Perché se sta andando non avete disturbato, la musica copre le chiacchiere”. Abbiamo riso insieme di questo dialogo un po’ surreale, è stato bello potere comunicare in maniera così spontanea le proprie reciproche difficoltà a sentire, a non sentire. Non ci sono filtri al Bar Senza Nome, non è necessario essere politically correct e trattare la disabilità in maniera retorica o pietistica.
Ho chiesto come mai hanno deciso di chiamarlo “Senza Nome”: la risposta è stata che in questo modo non ci sono barriere quando si arriva davanti alla porta, il bar non è caratterizzato dall’esterno come un bar di persone sorde.
Purtroppo però le barriere ci sono, quelle architettoniche: all’entrata il gradino è alto quasi il doppio di un gradino normale, come in molti locali del centro storico. I gestori dicono che non hanno avuto i permessi per abbattere le barriere esterne per mancanza degli spazi giusti. Peccato perché è davvero un ambiente accessibile e accogliente sotto tutti gli altri punti di vista, ed è stato molto piacevole sperimentare anche la dimensione del silenzio.

Per saperne di più:
Bar Senza Nome
via Belvedere 11/B, Bologna
Facebook: Senza Nome

3. Un indice puntato verso l’inclusione

di Massimiliano Rubbi

Parafrasando Giulio Andreotti, “non basta (saper) fare un buon prodotto: bisogna avere anche qualcuno che te lo compri”. Per questo diventano cruciali le relazioni di affari, uno dei benefit più rilevanti promessi dai programmi di certificazione proposti negli USA dal “DSDP – Disability Supplier Diversity Program”. Il programma è gestito dall’USBLN – Business Leadership Network, una non-profit che affilia oltre 5.000 imprese negli USA con l’obiettivo di “influenzare l’inclusione della disabilità sui luoghi di lavoro, nella catena di distribuzione e nel mercato”, e si rivolge tanto alle “DOBEs – Disability-Owned Business Enterprises”, le aziende il cui possesso è almeno al 51% in mano a una o più persone con disabilità, quanto ad altre imprese in cerca di “diversificazione della catena di distribuzione”: mentre le prime sono oggetto del processo di certificazione, le seconde vengono messe in contatto con esse per stabilire appunto relazioni di affari proficue (oltre, come si dirà, a essere oggetto di un diverso ordine di “valutazione”). Alle DOBEs vengono inoltre forniti seminari di formazione e tutoraggio formale in aree come accesso ai capitali, redazione di business plan, strategie di sviluppo e gestione della catena di distribuzione – e, in aggiunta, la possibilità di partecipare alla conferenza annuale USBLN, la cui 20° edizione, nell’agosto 2017, ha visto la presenza di circa 1.200 persone, tra cui oltre 500 dirigenti di impresa e settore pubblico.
Le DOBEs certificate al momento sono un centinaio, presenti in quasi la metà degli Stati USA, tra grandi aree metropolitane e zone rurali. Contro una facile aspettativa, circa un quarto di esse hanno una dimensione di mercato internazionale, in alcuni casi con fatturati nell’ordine dei milioni di dollari. Come sottolinea Philip DeVliegher, che collabora con l’USBLN come fondatore della società di consulenza pDe- vl, “la maggior parte sono o di proprietari unici, o, se sono una società, la maggioranza è di una o due persone con disabilità, su magari 2 o 3 proprietari di imprese ancorché grandi – non certifichiamo aziende quotate in Borsa”. Quanto ai vantaggi offerti dalla certificazione, secondo DeVliegher non possono essere citati singoli casi di imprese di successo perché “ne abbiamo di innumerevoli. Immagino che dipenda da come si definisce il successo, ma penso che molti direbbero di essere di successo. Molte, se non tutte le multinazionali che acquistano da queste imprese richiedono che esse siano certificate DOBEs, entro robusti programmi di diversificazione dei fornitori che includono imprese a proprietà femminile, di minoranze, e altre classificazioni certificate per proprietari di impresa che sono considerati svantaggiati negli Stati Uniti”.
L’adozione di sistemi di acquisto diversificati e orientati a categorie svantaggiate è una scelta volontaria ma consolidata delle grandi imprese, che in questo appaiono avere una posizione molto più avanzata del public procurement. Su 50 Stati federali, Massachusetts e Pennsylvania appaiono infatti gli unici due ad aver adottato (e solo dal 2015) impegni verso le imprese di persone con disabilità, estendendo a questo ambito i loro programmi rivolti alla valorizzazione di “piccole imprese diverse” gestite da minoranze o persone svantaggiate (donne, veterani, persone LGBT). Nel riconoscimento delle imprese di persone con disabilità, identificate sulla base della certificazione DOBE, ai due Stati si stanno affiancando nell’estate 2017 lo Stato del New Jersey e la città di New York. Come racconta Elaine Kubik, responsabile dei rapporti con i media per USBLN: “sono stata di recente a un evento tenuto dal responsabile del controllo di gestione della città di New York; hanno già un programma, vogliono diversificare il denaro speso dalla città per assicurarsi che vada a minoranze e donne in affari, e questo recente evento era per includere imprese possedute da proprietari LGBTQ e con disabilità. Stiamo vedendo questa sorta di ‘effetto domino’ in altre città; penso che in generale le città vogliano avere opportunità per diverse minoranze a tutto campo, per cui quando iniziano con le donne in affari, allora c’è una pressione per dire ‘OK, ma allora che facciamo di queste altre minoranze?’, e si inizia a espanderle”. Questa espansione, apparentemente tutta concentrata nelle “tredici colonie” lungo la East Coast, porterebbe le DOBE ad “aggredire” budget di spesa complessivi nell’ordine delle centinaia di miliardi di dollari, senza però prevedere, almeno fino a oggi, quote a loro riservate entro la spesa pubblica diretta o indiretta (tramite obblighi di sub-approvvigionamento imposti ai fornitori).
In base alla “Section 503” della normativa USA sull’handicap, solo le imprese che hanno contratti con gli organismi federali sono tenute ad assumere direttamente quote di dipendenti con disabilità – un obbligo stabilito solo nel 2014 e meno stringente di quello in vigore in molti Stati europei. Sarebbe auspicabile perseguire l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità non tramite più assunzioni dirette, ma con obblighi più estesi e vincolanti di inserire DOBEs tra i propri fornitori?
La risposta di DeVliegher è negativa: “Penso che sarebbe un problema, non risolverebbe la questione. Sappiamo che le persone con disabilità hanno un tasso di disoccupazione molto più alto, per cui lo scopo di questa normativa era di includere più persone con disabilità nella prassi dell’assunzione. Assumere persone con disabilità e includerle nella propria catena di distribuzione sono due cose differenti, per cui non penso che questo sarebbe efficace”. DeVliegher segnala anche che l’USBLN non ha mai rilevato se le DOBEs certificate abbiano o meno una politica di assunzioni più orientata a includere persone con disabilità nella propria forza lavoro rispetto alle altre aziende, e sta iniziando ora a raccogliere dati su questo.

Valori di mercato
Per le aziende a proprietà diffusa, o comunque non possedute da persone con disabilità, che mette in contatto con le DOBEs, l’USBLN, insieme alla AAPD – American Association of People with Disabilities, ha creato dal 2012 un processo di certificazione relativo alla disability-friendliness. Il “DEI – Disability Equality Index” si presenta come “uno strumento di benchmarking nazionale, trasparente e annuale che offre alle imprese l’opportunità di ricevere un punteggio oggettivo, su una scala da 0 a 100, sulle proprie politiche e pratiche di inclusione della disabilità”. L’indice si compone di valutazioni su diverse aree, per la maggior parte legate alla cultura e alle politiche adottate dall’impresa al proprio interno, e si basa su un’autodichiarazione dell’impresa richiedente, soggetta poi a verifica; solo le aziende che ottengono un punteggio minimo di 80 vengono rese note, e promosse come “DEI Best Places to Work” (nel 2016 sono state 69, tra cui giganti come Walmart, Axa e UPS). La diffusione pubblica di un buon punteggio nel DEI è rivolta ai clienti, in una logica di responsabilità sociale di impresa, ma anche e ancor più agli investitori effettivi e potenziali, come spiega Kubik: “negli Stati Uniti, quando società o individui hanno intenzione di investire in un’impresa, spesso guardano al risultato finanziario, ma sempre più guardano all’ESG – Environmental, Social and Governance Rating, che ne attesta la sostenibilità ambientale, sociale e delle pratiche di governo. Ci sono diversi strumenti di rating in giro, ma stiamo vedendo che i nostri partner aziendali usano davvero il DEI per integrare il rating ESG, perché vedono che la valutazione arriva solo fino a un certo punto, e quando hai un alto indice di qualità sulla disabilità, questo mostra una cultura aziendale migliorata, il mantenimento e la soddisfazione dei dipendenti, il che gioca un altro ruolo chiave nella performance di lungo termine dell’azienda. Funziona sempre più nelle due direzioni: i partner aziendali che ottengono un punteggio alto continuano a raccontarlo agli investitori, e anche gli investitori cercano da soli di vedere se le aziende hanno questo punteggio addizionale”. Non si tratta quindi tanto di far leva sul senso etico del pubblico per vendere di più, quanto di accreditare la propria capacità di creare valore nel tempo.
I consigli che l’USBLN darebbe a una persona con disabilità che voglia mettersi in proprio si riassumono in una analisi completa e coerente del contesto di mercato in cui ci si vuole inserire, e nell’“assicurarsi che il proprio prodotto/servizio a valore aggiunto soddisfi un reale bisogno e possa competere con successo sul mercato”: gli stessi che si darebbero a qualunque imprenditore in fase di avvio, senza alcuna specificità legata alla situazione individuale di handicap. Le certificazioni DOBEs, del resto, attestano la proprietà dell’impresa, non la sua capacità di creare effettivamente valore. Questo ci porta a uno storico nodo di fondo delle politiche di “azione positiva”: perché rivolgersi in modo preferenziale a imprenditori con disabilità, quando essi devono essere in grado di competere con e come tutti gli altri? La spiegazione di DeVliegher fa riferimento a un aspetto storico, più che etico in senso assoluto, e distingue tra “essere” e “stare” sul mercato: “da un punto di vista degli affari, un punto di vista del prodotto o del servizio, sì, dovremmo trattare tutti allo stesso modo. Ma quando si tratta di gruppi di persone storicamente svantaggiati, dobbiamo seriamente riconoscere che coloro che sono stati esclusi dalle opportunità nel procurement nel passato hanno bisogno di essere inclusi. Noi guardiamo quegli svantaggi, e rendiamo chiaro che vogliamo includere coloro che hanno quegli svantaggi. Quindi, uno dei nostri scopi è assicurarci che tutti siano in grado di sedersi a tavola e fare affari; questo non vuol dire che essi si procurino affari ‘alla fine della fiera’”.
La filosofia dell’USBLN e gli strumenti usati per tradurla in azioni concrete non ci risultano avere un analogo nel resto del mondo. È forse anche per questo che l’associazione statunitense ha recentemente deciso di “diventare globale” creando un registro aperto alle imprese esterne agli USA, cui è possibile autoiscriversi online alle stesse condizioni previste per le DOBEs, e tramite cui si può entrare in contatto con lo stesso sistema di aziende partner come loro “venditori potenziali”. Il registro è per USBLN un “primo passo naturale” verso una strategia di crescita globale per le certificazioni e gli indicatori di cui abbiamo parlato, ed è per gli imprenditori con disabilità un’opportunità in più per la penetrazione nel mercato statunitense e internazionale, rispetto a cui le aziende italiane, per ragioni dimensionali e storiche, hanno sempre incontrato non poche difficoltà.

2. Fare impresa? Un’impresa…

di Michela Trigari, giornalista

La fatica di fare impresa. Per molti, ma non per tutti, o almeno non per chi lavora nel settore della mobilità accessibile. All Mobility è una cooperativa sociale di Reggio Emilia – con circa 400.000 euro di fatturato l’anno – nata nel 2004 in seguito al- la necessità constatata personalmente dai due fondatori, Maurizio Cassinadri e Gerardo Malangone (entrambi in carrozzina per via di un incidente), del bisogno di soluzioni per l’ auto, lo sport e il tempo libero delle persone con disabilità. Stanchi di lavorare alle dipendenze di due ortopedie, hanno deciso di mettersi in proprio per dare loro risposte più complete. All’inizio erano soltanto un centro Fiat Autonomy con simulatore di guida e pista di prova, poi si sono ingranditi ed è arrivata anche la commercializzazione di ausili e la partnership con il centro di riabilitazione “Cardinal Ferrari” di Fontanellato (Parma). Oltre ai due soci titolari, responsabili della consulenza, in All Mobility lavorano anche Marco Roncato (capo officina, anch’egli disabile) e altre quattro persone. Gianni Conte, invece, è un imprenditore marchigiano diventato paraplegico per via di una caduta dalla moto durante una gara di enduro. È l’ideatore di Triride, un propulsore elettrico per carrozzine made in Italy: una sorta di ruotino anteriore con il manubrio, facile da agganciare e sganciare, leggero, che garantisce un’autonomia di circa 50 chilometri su percorso pianeggiante. La sua è un’azienda giovane: nata nel 2013, ora ha partner-importatori in nove Paesi europei e a marzo Triride è stato selezionato come finalista del concorso per prodotti innovativi alla Fiera Naidex di Birmingham (nel Regno Unito). Poi c’è il designer torinese Danilo Ragona, che non cammina più a causa di un incidente, e la sua nuovissima Fixed, una carrozzina in vari colori e ruote intercambiabili per ogni terreno, realizzata sulla scia della precedente B-Free Multifunction dalla sua Able to Enjoy srl. Prima di loro c’è stata l’intuizione di Paolo Badano, imprenditore di Savona che da oltre vent’anni convive con la carrozzina per colpa della strada. Nel 2009 la sua attenzione viene rapita dal Segway, quel mezzo auto-bilanciante a due ruote con cui ci si sposta stando in piedi. Decide così di adattarlo al “popolo dei seduti” (come lui spesso definisce la disabilità motoria) e dopo due anni nasce Genny. Daniele Regolo, invece, un deficit uditivo grave, si occupa di tutt’altro: lui ha fondato Jobmetoo.com, un’agenzia per il lavoro online autorizzata dal Ministero del Welfare per la ricerca e la selezione di personale appartenente alle categorie protette, il cui team è composto da persone con e senza disabilità.
Queste sono tutte storie di successo. Ma la realtà è diversa o, perlomeno, multi- sfaccettata. Per quasi due anni, fino a dicembre 2016, ho curato la rubrica mensile “Che impresa” su Superabile Inail, il magazine per la disabilità dell’Istituto naziona- le per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. Il tema più ricorrente? La difficoltà di stare sul mercato soprattutto per le cooperative sociali di tipo B (quelle che si occupano di inserimento lavorativo delle persone svantaggiate, tra cui anche i disabili), molto poche al Sud. Spesso infatti sono emanazione di un’associazione, hanno necessità di partecipare ai bandi sostenuti dal Fondo sociale europeo, di adottare contratti part-time per contenere i costi, di diversificare l’offerta di prodotti o servizi per arginare la concorrenza e di instaurare convenzioni con gli enti locali – i “clienti” migliori – per riuscire a sopravvivere (quasi la metà delle entrate di queste cooperative provengono infatti dall’amministrazione pubblica). Secondo il rapporto 2016 “L’impatto sociale delle attività di inclusione lavorativa in Italia”, realizzato dall’Osservatorio sull’impresa sociale di Isnet, sono 44.545 le persone disabili (per invalidità fisica, psichica e sensoriale) occupate nelle cooperative sociali di tipo B – che contano quasi 6.400 realtà iscritte all’Albo del Ministero dello Sviluppo economico – per un valore netto di oltre 103 milioni 650mila euro e con un ritorno sociale di 1,89, il che significa che per ogni euro investito per l’inserimento lavorativo di un soggetto disabile sono stati ottenuti risultati pari a quasi il doppio. Servizi ambientali e manutenzione del verde, artigianato, lavorazione per conto terzi, agricoltura, pulizie, logistica, ristorazione, grafica, informatica, call center e turismo accessibile sono i settori che vanno per la maggiore. “Ma se l’impatto sociale sul territorio mo- stra un lavoro molto positivo da parte delle cooperative di tipo B e una buona reattività rispetto alla crisi economica, ciò non vuol dire che siano tutte altamente performanti – commenta Laura Bongiovanni, presidente di Isnet e responsabile dell’Osservatorio –. Stentano a decollare soprattutto le convenzioni ex art. 14 della legge 276/03 (che prevedono il conferimento di commesse di lavoro alle cooperative sociali da parte delle aziende come parziale assolvimento degli obblighi di assunzione di lavoratori disabili) e la gestione del welfare aziendale, diffusi solo al Nord e in basse percentuali. Per restare a galla, però, occorre intercettare le trasformazio- ni, cogliere le opportunità e saper raccontare, narrare o comunque comunicare la cooperazione”. Nell’orizzonte delle imprese sociali che si occupano di inserimento lavorativo delle persone disabili o svantaggiate, infine, “ci sono anche innovazione e start up”, aggiunge Laura Bongiovanni.
La strada dell’imprenditoria, anche individuale, diventa dunque una via alternativa da percorrere. Anche perché, in tempo di crisi e di scarsità di lavoro, se si ha “soltanto” una disabilità fisica a volte conviene giocare la carta della propria professionalità in modo autonomo. I casi citati all’inizio ne sono un esempio. La stessa legge n. 104/92 per l’integrazione sociale e i diritti delle persone disabili prevede che le Regioni possano disciplinare agevolazioni per sostenere l’autoimprenditorialità e l’autoimpiego dei singoli. Nulla vieta, poi, di richiedere incentivi tralasciando la propria disabilità e puntando magari sull’appartenenza ad altre categorie: giovani, donne e disoccupati sono le più gettonate. Non soltanto a livello locale, ma anche nazionale (Invitalia, l’Agenzia nazionale per l’attrazione di investimenti e lo sviluppo d’impresa di proprietà del Ministero dell’Economia, è l’organismo di riferimento). L’art. 8 del decreto legislativo n. 22/2015, emanato in attuazione del Jobs Act, inoltre, prevede l’erogazione anticipata e in un’unica soluzione della Naspi (la Nuova assicurazione sociale per l’impiego che ha sostituito l’indennità di disoccupazione) a titolo di incentivo per l’avvio di un’attività lavorativa autonoma o di impresa individuale o per la sottoscrizione di una quota di capitale sociale di una cooperativa nella quale il rapporto mutualistico abbia per oggetto la prestazione di lavoro da parte del socio.
Per finire, altre due buone notizie: il decreto sull’impresa sociale varato a fine giugno, in attuazione della riforma del Terzo settore, che prevede anche la parziale possibilità di distribuzione degli utili tra i soci e agevolazioni fiscali per gli investimenti di capitale, e il Fondo rotativo di garanzia e per il credito agevolato di 200 milioni di euro stanziato dal governo a sostegno di questo tipo di imprese, cooperative sociali comprese. L’obiettivo? Dare impulso e sostenibilità a nuovi e vecchi bisogni, anche a quelli delle persone disabili che lavorano al di fuori del collocamento mirato.

1. Introduzione

di Massimiliano Rubbi

I principali sindacati confederali italiani hanno tutti un ufficio dedicato a studiare ed elaborare politiche per l’handicap (cui spesso corrisponde un’articolazione in sportelli di contatto a livello locale); a quanto ci risulta, nessuna delle organizzazioni datoriali (Confindustria, ma anche CNA e Confapi) ha un ufficio analogo, oppure prevede servizi anche solo sperimentali dedicati a imprenditori con disabilità. Basterebbe questa constatazione a delineare la concezione dell’inserimento lavorativo delle persone con disabilità nel nostro Paese, tutta concentrata sul lavoro subordinato (soprattutto tramite le “quote” entro le imprese medio-grandi, che però sono minoranza nel nostro tessuto economico) o sulle cooperative sociali (anche qui in qualità di “quota” minima e minoritaria). L’idea che una persona con disabilità abbia l’intento di fondare un’impresa, anche individuale, e abbia bisogno di un aiuto in ragione delle proprie specificità, rimane fuori dall’orizzonte – forse anche perché la nozione di lavoratore “autonomo” appare in contraddizione con la limitazione delle “autonomie” che il deficit porta con sé.
Eppure, questa contraddizione non sta granché in piedi. I dati dell’European Community Household Panel, riferiti al periodo 1995-2001, mostrano che il tasso di occupazione autonoma sul totale degli occupati era spesso più alto per lavoratrici e lavoratori con disabilità di quanto non fosse per normodotate e normodotati, e ciò tanto nei Paesi in cui l’autoimpiego è più diffuso (Grecia, Italia, Portogallo) quanto in quelli in cui lo è meno (Germania, Francia, Austria). A conclusioni analoghe arrivano le analisi relative agli USA e al periodo fino al 2009. Certo, il tasso di occupazione complessivo rimane molto più basso per le persone con disabilità: si può concludere che per guadagnarsi da vivere queste ultime trovano nell’autoimprenditorialità una opzione più praticabile dell’impiego alle dipendenze. Se da un lato ciò può essere frutto di un respingimento subito da parte del mercato del lavoro (“non mi hanno voluto e ho preferito fare da solo/a”), dall’altro, per un numero di persone limitato ma non marginale, un’idea di impresa riesce semplicemente a diventare un’attività che “funziona”.
Nelle esperienze che abbiamo cercato di descrivere in questo numero, è significativamente assente ciò che una parola inglese brutale ma efficace definisce creeploitation: lo sfruttamento della condizione di disabilità per stimolare acquisti che altrimenti non avverrebbero. Dalle michette agli abiti, dalle birre ai curricula vitae, tutto si vende in ragione del rapporto qualità/prezzo e non di meccanismi pietistici. Al contempo, in diversi casi le risorse necessarie a far nascere o crescere un’azienda derivano da sistemi di crowdfunding, che rimandano a caratteristiche “speciali” della realtà che si va a sostenere, e non da un “tradizionale” e oneroso accesso al credito – un esempio ulteriore e significativo è quello dei biscotti Collettey’s (www.colletteys.com), prodotti da un’impresa fondata nel 2011 a Boston da Collette, una ragazza con sindrome di Down, che raccoglie stabilmente donazioni finalizzate a “creare posti di lavoro per persone con disabilità e far crescere l’azienda”.
Inoltre, non di rado il successo dell’impresa scatta nel momento in cui i media generalisti puntano i propri riflettori su un’esperienza il cui interesse risiede proprio nella disabilità delle persone coinvolte (nel caso di Collette, “la mia storia è stata raccolta dalla CBS locale di Boston, e trasmessa come storia ‘per stare bene’ durante le vacanze. Beh, è diventata più di questo! In 10 giorni, avevo oltre 9.500 visualizzazioni su Facebook e più di 50.000 biscotti ordinati”). Nell’intreccio tra ricerca del profitto e finalità solidale si mostra quindi una contraddizione in diverse imprese che per il resto, nel loro quotidiano, appaiono capaci di “stare sul mercato” e riescono a “battere la crisi” meglio di tante altre.
Dalle storie che abbiamo raccolto emergono due elementi che, nella citata assenza di supporti specifici alla creazione di impresa, possono risultare utili a una persona con disabilità che voglia mettersi in proprio. Innanzitutto, il motto “niente per noi senza di noi”, ideato in relazione alle istanze sociali, può applicarsi anche a quelle commerciali: una persona con disabilità in cerca di un prodotto o un servizio rivolto alle sue esigenze specifiche (un ausilio, una progettazione…) tenderà a fidarsi di più di chi glielo propone a partire da una medesima condizione vissuta personalmente – e questo apre di per sé possibili spazi di mercato preferenziali.
In secondo luogo, e in modo ancor più importante, è probabilmente tempo di superare una retorica del self-made-man che dagli anni ’80 in poi non ci ha mai lasciati, invitandoci a cercare il successo massimizzando le nostre capacità individuali (un successo così precluso in partenza a chi se le ritrova limitate da una condizione di deficit) e sulla base di relazioni improntate a una spietata competizione. Dalla rilettura delle vicende di molte delle aziende che abbiamo avuto l’opportunità di conoscere, emerge piuttosto la convinzione che “nessuno ce la fa da solo”: a porre le basi per il successo è la cooperazione con gli altri, che si tratti dei soci in affari con cui si rivela necessario fondare un’impresa, delle reti di fornitori e clienti stabilite nel corso della sua attività, degli altri soci-lavoratori sui quali si deve fare affidamento per il buon andamento di una cooperativa. È forse in questo snodo tra competizione e cooperazione nel mercato, di cui quello citato sopra come contraddittorio appare per alcuni versi un riflesso, che sta la lezione più importante da trarre dalle esperienze che ci sono state raccontate.

Quando le persone disabili fanno impresa

a cura di Valeria Alpi e Massimiliano Rubbi, giornalisti

Mio padre voleva chiamarmi libero perché voleva che io fossi libero. Non è che avesse delle idee politiche, lui di politica aveva solo l’idea di non fare la guerra perché aveva provato; per lui libero voleva dire di non lavorare sotto padrone. Magari dodici ore al giorno in un’officina tutta nera di caligine e col ghiaccio d’inverno come la sua, magari da emigrante o su e giù col carrettino come gli zingari, ma non sotto padrone, non nella fabbrica, non a fare tutta la vita gli stessi gesti attaccato al convogliatore fino a che uno non è più buono a fare altro e gli danno la liquidazione e la pensione e si siede sulle panchine.
(Primo Levi, La chiave a stella)

Vic Chesnutt, il cantautore vagabondo e stanziale

di Ghighi Di Paola

 Vic Chesnutt è stato un personaggio insolito.
La libera enciclopedia della rete lo descrive così: nato a Jacksonville il 12 novembre 1964 e morto ad Athens il 25 dicembre 2009, è stato un cantautore statunitense, tra i più significativi degli anni novanta. Era paraplegico.
Dunque dalle prime righe si evince che: era un musicista, è morto giovane, a 45 anni, il giorno di Natale, si muoveva sulla sedia a rotelle.
Più difficile scorgere la sua poetica, scura, ironica, a tratti surrealista.
Perché, a quanto si deduce dalla cronaca della sua vita, scritta da lui stesso in terza persona e pubblicata in rete sulle ormai dimenticate pagine di Myspace, la sua vera passione, oltre alla musica, era la poesia.
Un amore disperato e delicato che nei testi delle sue canzoni si trasformava in poesia feroce, concreta, un modo per raccontare la sua seconda vita, per scacciare i fantasmi di una realtà da condividere con farmaci e improbabili – oltre che costosissime – cure.
Una seconda vita che inizia nei primi anni Ottanta. Vic non ha ancora 20 anni, sembra sia ubriaco quando si mette alla guida e rimane coinvolto nell’incidente in cui perde l’uso delle gambe: questo momento cruciale della sua esistenza – rimane parzialmente paralizzato – sarà anche lo spartiacque definitivo per la sua visione musicale.
Un paio d’anni dopo, nel 1985, Vic si trasferisce ad Athens per studiare letteratura all’Università e nella cittadina della Georgia trova un ambiente artistico in grande fermento che coinvolge musicisti, poeti, pittori, sfaccendati e artisti in genere in un unico grande inquieto contesto culturale.
D’altronde nel 1976 è partita da qui l’avventura musicale dei B-52’s e nel 1980 nella stessa Università si sono formati i R.E.M.
Questo caos creativo ha in serbo per Vic un incontro determinante: Michael Stipe, il celebre cantante dei R.E.M., assiste a un suo piccolo set dal vivo e rimane totalmente affascinato da questo sgangherato cantastorie.
Nasce così il primo album di Vic Chesnutt, Little, pubblicato nel 1990 proprio grazie all’aiuto del suo celebre collega, che lo guida con discrezione.
Anima tormentata anche nella prima adolescenza, quella di Chesnutt è una poetica dolorosa, arrabbiata, un folk scuro, che in questo debutto non può non essere che dolente, introspettivo, un viaggio personale nel proprio passato, incastonato tra quello che poteva essere e lo sguardo rivolto verso quello che sarà.
Inaspettato e imprevisto l’incontro con Micheal Stipe cambia, e in qualche modo stravolge, completamente la vita di Vic. L’esordio musicale è stilisticamente grezzo ma si intravede già la nascita di un nuovo, pungente, cantautore americano.
La scena folk nordamericana si arricchisce così di una figura atipica di cantastorie, che si agita nel sottobosco del panorama della forma canzone, che senza stravolgimenti specifici contribuisce però in maniera importante a ridefinire i confini della tradizione americana.
Procede così questa storia bella e tragica fatta di musica e canzoni, di solitudine e grandi attestati di stima, con una produzione discografica notevole. Quindici album in quasi vent’anni di carriera, sino alle ultime, prestigiosissime collaborazioni con la Constellation, l’etichetta discografica indipendente canadese, vero e proprio punto di riferimento del nuovo rock alternativo.
I suoi testi sono spunti drammatici, disperati, profondamente autobiografici con una nostalgia di fondo sempre presente.
Il suo modo di cantare invece è trascinato, sembra procedere a fatica.
Piano piano si delinea una figura di esistenzialista triste, mai rinunciatario però, dotato di grandissima dignità e, qualche volta, di ironia sottile, amara, di certo non banale.
Vic Chesnutt fa una fatica tremenda a confrontarsi con l’alcolismo e il suo stare in sedia a rotelle, il suo essere paraplegico incontra droghe e medicine.
È fragile, incostante e incline alla depressione e fa riferimento sempre più spesso al suicidio.
Per il suo terzo album decide di fare tutto da solo e in pochi giorni registra un sacco di brani in uno stato di costante ubriachezza.
Il risultato è decisamente nervoso, elettrico, la tensione rock schizza alle stelle. E poi c’è una parentesi curiosa nella sua produzione discografica indipendente: la Capitol, una major, lo mette sotto contratto e pubblica il suo quinto lavoro, About to Coke, è il 1996 e la copertina lo ritrae sfuocato, magrissimo, allungato sulla carrozzina e avvolto in una luce spettrale.
Vic però è in una fase di grande vivacità creativa, esce dall’anonimato e – nonostante i dirigenti della Capitol, non capacitandosi di aver dato spazio a un personaggio brutto, introverso, difficile e in sedia a rotelle, se ne sbarazzino alla prima occasione – si circonda di amici veri, che lo stimano, lo aiutano a sfornare dischi, canzoni e concerti, e ad affrontare le tantissime spese mediche.
Fondamentale l’album dove grandissime star, da Madonna a Kristin Hersh, dai R.E.M. agli Smashing Pumpkins, registrano cover delle sue canzoni, con i ricavi delle vendite che arrivano interamente al cantautore attraverso Swet Relief, organizzazione fondata per dare sostegno ai musicisti non coperti da assicurazione sanitaria.
E la sua carriera procede per anni, tra alti e bassi, tra metafore e sincerità, con le sue canzoni che a volte sono piene di grazia a volte crudeli e irrequiete.
Il 2009 arriva troppo presto, Vic Chesnutt si agita in più direzioni. È protagonista di Empires Of Tin, straordinario documentario concerto di Jem Cohen, poi esce anche un altro bellissimo disco realizzato con i musicisti canadesi che ruotano intorno alla Constellation: At The Cut, lavoro scarno, silenzioso, dal canto traballante, una colonna sonora disadorna ma folgorante.
A posteriori si potrebbe intravedere l’intento tragico, si riaffacciano i demoni della sua esistenza, il profilo del suicidio, l’evocazione della morte come compagna di una vita, il brano Flirted With You All My Life è di una schiettezza crudele e intensa.
Il 25 dicembre 2009, all’età di 45 anni, Chesnutt muore per un’overdose di medicine, pare fossero rilassanti muscolari…
Vic Chesnutt con la sua umanità ha cantato se stesso, le canzoni erano la sua vita e viceversa, una simbiosi assoluta tra il racconto e il narratore, tra l’artista e la persona.
Un’ultima annotazione, prima di lasciarvi andare a cercare e ad ascoltare la sua musica: nelle sue incertezze c’è stata una costante assoluta, le confezioni dei suoi cd, tutti venduti in versione cartonata, niente plastica. Una sua fissazione, odiava la plastica e non la voleva usare perché si rompe troppo facilmente e… “io ne so qualcosa di cosa significhi essere rotti’.

Una noia (non) mortale

di Stefano Toschi

Recentemente è comparsa sul sito “Superabile” la notizia di una ragazza canadese, diciassettenne, che, essendo stata per sei mesi costretta a letto dopo il trapianto di un rene, si è inventata una “valigetta anti-noia”, che ha poi messo in produzione e venduto. Questa notizia mi ha incuriosito e mi ha fatto riflettere.
La noia – o meglio, la paura di annoiarsi – è, a mio avviso, una delle più gravi malattie del nostro tempo, almeno nel mondo occidentale. La noia – o la paura di essa – porta soprattutto i ragazzi, ma non solo, a commettere gesti assurdi, che comportano il rischio di morire, come è capitato a un ragazzino che, per un gioco stupido, per cui voleva fare un selfie con un treno in corsa, è finito per esserne travolto e ucciso. Oppure quelli che, “per noia”, rapinano o massacrano persone deboli.
La paura di annoiarsi può spingere persino al suicidio. Quando ho letto la notizia della valigetta, erano passati pochi giorni dal suicidio di dj Fabo e mi è venuto spontaneo collegare i due fatti.
A mio parere dj Fabo ha deciso di togliersi la vita non tanto per il dolore fisico, quanto perché, dopo due anni e mezzo di immobilità e cecità, non poteva più sopportare una vita così vuota: come cantava Franco Califano, per lui “tutto il resto è noia, no non ho detto gioia, ma noia, noia, noia”. Per lui il cambiamento era stato radicale e non è stato aiutato ad accettarlo e ad accettarsi per come era diventato. Nella sua intervista al programma televisivo “Le Iene”, dj Fabo sosteneva che per lui il dolore causato dalle contrazioni era insopportabile, tanto da spingerlo a desiderare la morte: io capisco che, per una persona non abituata al dolore, il dolore stesso può risultare insopportabile. Per me, che è da una vita che convivo con le contrazioni, esse fanno parte del mio vissuto. Quando ho le contrazioni chiedo al mio operatore di cambiarmi la posizione, non di togliermi la vita.
Ma la cosa che mi ha colpito di più, quando ho visto l’intervista, è stata la camera di dj Fabo tappezzata di foto della sua vita prima dell’incidente – e la sua compagna che spiegava che per lui la vita si è fermata in quel momento, come se in quasi tre anni non avesse più avuto nessun altro interesse vitale che potesse riportarlo ad aver voglia di vivere. Sembra quasi che non sia stato aiutato a cercare nuovi interessi che potessero sostituire quelli che non poteva più avere.
Questa mia impressione è stata rafforzata dalla lettura di un altro articolo apparso online su “Il Foglio” del primo marzo, in cui si dice che dj Fabo, dopo l’incidente, nonostante fosse stimolato a uscire di casa e a intraprendere nuove attività compatibili con la sua situazione, si era sempre rifiutato.
Io sono stato educato ad avere molti interessi, sia a livello intellettuale, sia a livello di socializzazione e posso garantire che la vita di una persona disabile non è affatto noiosa, anzi: proprio i problemi inevitabilmente connessi alle varie forme di disabilità, le sfide, le gioie e le soddisfazioni che ogni giorno incontro non mi permettono di annoiarmi. Mia madre diceva con ironia: “in questa casa non ci si annoia mai”. Come aveva ragione!
Il punto è che un po’ di noia può anche fare bene, perché è proprio nei momenti di vuoto che possiamo trovare l’ispirazione per risolvere i nostri problemi. In una vita troppo piena, con scadenze serrate e non prorogabili, non c’è il tempo per fermarsi a riflettere, per fare il punto della situazione e capire dove si vuole andare. La noia serve a liberare la mente, stimolando attenzione e creatività. I momenti di noia ci spingono a prendere in considerazione tutto ciò che abbiamo a portata di mano, per poi scegliere a cosa dedicarci. Nei periodi in cui crediamo di essere annoiati, il nostro cervello rielabora i pensieri inconsci per poi portarli all’attenzione della coscienza.
Sono diversi i pedagogisti che rivendicano per i bambini il “diritto alla noia”: in questi momenti, il bambino può essere se stesso e libero di sperimentare nuovi percorsi. Già per gli antichi, l’otium produceva l’arte e la letteratura ed era un momento essenziale di creatività nella vita delle persone di cultura. Il problema della “noia imposta” da circostanze esterne, dunque, non dovrebbe essere percepito – o fatto percepire – come un limite, ma come un’opportunità. Riempire vuoti a tutti i costi produce, spesso, un effetto contrario, un senso di solitudine e di abbandono.
La Noia di Moravia, così come La Nausea di Sartre, due capisaldi dell’esistenzialismo, ci spiegano l’inadeguatezza dei protagonisti di fronte ai cambiamenti della società, che fa perdere loro il rapporto con la propria identità. Come diceva una professoressa di Filosofia del liceo, la noia è sempre “colpa nostra”: il filosofo non può annoiarsi, perché basta a se stesso.
Certo, non è possibile che ognuno raggiunga un grado così alto di autoconsapevolezza. Tuttavia, siamo di fronte a un esercizio che tutti dovremmo praticare. Non a caso, i due romanzi citati sono figli di quell’esistenzialismo frutto di una perdita di fiducia in tutti i valori e che tenta, senza riuscirvi, di andare oltre il disperato nichilismo che ne deriva.
Ai giorni nostri, le cose non sono molto differenti. I giovani hanno tutto, eppure non hanno niente. Non sono in grado di superare quella noia tipica di chi non ha o non ha mai avuto ambizioni, aspirazioni, sogni, motivi per cui lottare. Per questo motivo, sperimentano spesso sostanze psicotrope, per evadere da una realtà cui non riescono ad appassionarsi. Genitori lasciati a se stessi nel loro difficile compito educativo, privi di reti familiari e sociali, pensano di compensare la noia dei figli riempiendoli di attività o, dove le finanze lo permettono, di regali, per sopperire a ben altre carenze affettive e relazionali. Quando tutto è lecito, consentito, ottenibile, tutto è noioso, facile, inutile. La sfida dell’esistenza non dovrebbe permettere la noia, soprattutto oggi, che le occasioni non mancano di certo.
Uno dei grandi “peccati capitali” del nostro tempo, che è l’accidia, deriva proprio dalla noia. Restiamo immobili di fronte al male, anche quando non lo compiamo direttamente, perché svuotati nell’incapacità di agire. Per questo, ognuno di noi dovrebbe sentirsi responsabile di quanto di male e di terribile accade oggi nel mondo: non per esserne artefice diretto, ma perché, nel nostro piccolo, non facciamo nulla per cambiare le cose. Basterebbe cominciare dalla nostra famiglia, dagli amici, dal vicinato: è più semplice, invece, nascondere la testa sotto la sabbia.
Questa è una conseguenza diretta della noia esistenziale che ci troviamo a combattere ogni giorno, che ci fa perdere di vista valori fondamentali della nostra humanitas, ci causa indifferenza verso i valori e verso la vita stessa, tanto da provare la “noia di vivere”, così tante volte analizzata dai filosofi. Come diceva Bergson, la noia è una forma di misura del tempo. Nella nostra cultura, sempre più legata al “qui ed ora” al “cogliere l’attimo”, il rigetto della noia è sempre più legato a una dimensione limitata e modesta di esistenze mediocri, bruciate prima possibile, senza prospettive. Per questo, vorrei essere d’esempio a tanti giovani annoiati dalla vita, a tanti disabili stanchi della propria condizione: la noia è una condizione che dipende solo da noi.
Non lasciamo sole queste persone annoiate della vita: diamo loro un motivo per sentirsi parte di un disegno più grande di loro, regaliamo loro la consapevolezza che ciascuno è importante.

Sul grande schermo: Il body building che rafforza lo spirito

di Mario Fulgaro e Giulia Maccaferri

“La libertà, se l’ha dimenticato,
è il diritto dell’anima di respirare, e se
essa non può farlo le leggi sono cinte
troppo strette.
Senza libertà l’uomo è una sincope”. (Will)

Boston, un gruppo di ragazzi scapestrati, tante birre e la matematica. È questa la ricetta di Will Hunting Genio ribelle, film uscito nel 1997 diretto dallo statunitense Gus Van Sant. 126 minuti di navigazione nell’universo di Will, il protagonista un po’ sbandato che finisce spesso nei guai con la legge. Solito film sul disagio giovanile? No. E qui entra in gioco il MIT, l’Università americana più prestigiosa nel campo delle scienze, dove Will lavora come tuttofare e dove ogni tanto si diverte a risolvere problemi matematici complicatissimi. In una di queste occasioni la sua genialità viene notata dal professore di matematica dell’Università, che – seppure incredulo – è deciso a non farsi scappare un simile talento. Ma dopo una nottata di eccessi (birre e alcool a gogò), Will viene arrestato e assegnato ai servizi sociali: per riscattare la pena deve seguire una terapia con uno psicologo che, su pressione del professor Lambeau, cercherà di aiutarlo a cambiare totalmente la sua vita. Tra alti e bassi, Will sembra non avere la tenacia e la determinazione di credere nel suo potenziale: ciò che lo aspetta nel futuro lo spaventa e si ostina a rifiutare l’aiuto di chi gli sta accanto. Nel corso del film, tuttavia, lo psicologo (interpretato da uno spettacolare Robin Williams) riesce a fargli cambiare idea, apre una breccia nella sua corazza e ne conquista la fiducia. Questa occasione, e la scelta di coglierla, porterà una svolta nella sua vita, facendogli capire che chiunque, a prescindere dal passato, merita una seconda opportunità.
Proprio il rapporto tra Will e lo psicologo è al centro di questa riflessione. In che modo ognuno dei protagonisti si è aperto all’altro? Lo psicologo, per primo, ha parlato di sé, del suo passato, del proprio vissuto, per scoprire legami in comune su cui imbastire un dialogo con Will. Uno degli aspetti salienti della vicenda è, infatti, il sapersi mettere a nudo di fronte agli altri.
“Io andavo spesso dallo psicologo e, nei vari incontri, ho provato a mettermi a nudo, ma non è stato facile perché aprirsi con persone sconosciute su problemi personali non è scontato”, racconta una nostra collega dopo la visione del film. “Anche io sono andato dalla psicologa ma non siamo mai riusciti ad avere fiducia l’uno nell’altra; eravamo molto distanti tra noi e non ci prendevamo bene”, un altro commento di chi ha osservato il film.
Una voce in controtendenza, invece, dichiarava che “nel film piace vedere come entrambi abbiano raggiunto il proprio obiettivo; nello psicologo c’è stata prima un’analisi introspettiva, in relazione allo studente, per poi cercare di instaurare un dialogo con quest’ultimo. Nello studente, invece, il processo è stato inverso; Will è stato prima protagonista di un inatteso incontro con lo psicologo, per poi cercare di metabolizzare tutto ciò che stava per lui emergendo involontariamente”.
I due diversi approcci possono essere presenti anche in un singolo soggetto che, a seconda delle circostanze, può vivere la propria condizione in modo introverso o estroverso, da osservatore passivo o incuriosito o, più ancora, critico e analitico. La cosa più importante non è stabilire previamente un iter cronologico di strategie da poter utilizzare per affrontare il mondo, perché tutto emerge in modo spontaneo e naturale. È sbagliato recriminare sulle scelte passate in base al proprio vissuto presente, poiché le scelte compiute hanno trovato la loro esatta collocazione in quel dato momento storico della propria esperienza di vita. Infatti, tutto ciò che sperimenta Will rispecchia, in modo diverso ma sostanzialmente uguale, le vicende di chiunque. La chiave di successo sta nel riuscire a mettersi in gioco e ad aprirsi quanto più possibile a 360 gradi, per abbracciare la vita in ogni suo minimo aspetto. Solo così si riesce a sentirsi parte integrante di un tutto “insieme” che ci circonda. Il mondo, la vita non devono apparire co- me altro da sé, motivo per sentirsi anche vittime sacrificali, ma parte integrante del proprio sentire e vivere. Sappiamo tutti che non è assolutamente facile raggiungere l’obiettivo di stare in pace con se stessi, e di conseguenza con gli altri, ma ci si può impegnare giorno dopo giorno per il conseguimento di questo obiettivo. È anche una questione di esercizio o di allenamento; il body building che rafforza lo spirito è attivo ogni giorno, in ogni istante.
Infine, per chi ama la musica ma anche per tutti gli altri, vi consigliamo di ascoltare un’artista che ha fatto di questa filosofia il leitmotiv di tutta la propria esistenza, Eddie Vedder, leader storico della band statunitense Pearl Jam. Buon ascolto!

 Sul piano dei diritti. Progetti e azioni dell’Intergruppo Disabilità al Parlamento Europeo

di Massimiliano Rubbi

Nel gennaio scorso, l’European Disability Forum ha avviato i festeggiamenti per il suo ventesimo anniversario, che ricorre nel 2017, con un incontro con l’Intergruppo Disabilità al Parlamento Europeo per discutere le priorità di azione per il futuro. I “20 anni di lotta per diritti umani, inclusione e partecipazione” delle persone con disabilità che l’EDF celebra saranno portati alla pubblica attenzione da una campagna il cui motto è “Niente su di noi, senza di noi. Visibilità dei diritti per la disabilità ovunque”.
L’incontro di gennaio è stato l’occasione per condividere e discutere i temi al centro del programma di lavoro che l’Intergruppo Disabilità si è dato per il periodo 2017-2019 (ovvero fino alla fine della legislatura europea), tra cui l’impatto della crisi economica sulle persone con disabilità e il dialogo tra il movimento legato alla disabilità e i membri del Parlamento Europeo. L’agevolazione di questo dialogo è funzione cruciale dell’Intergruppo Disabilità, svolta in cooperazione particolarmente stretta con l’EDF, che cura anche la segreteria dell’Intergruppo. La forma del raggruppamento trasversale alle nazionalità e alle famiglie politiche, di cui l’Intergruppo Disabilità si presenta come uno degli esempi più longevi e numerosi (è nato nel 1980 e riunisce 109 europarlamentari sui 751 totali), ha consentito negli anni di portare nella legislazione europea elementi di miglioramento delle condizioni di vita delle persone con disabilità che probabilmente sarebbero stati raggiunti con maggiori difficoltà e ritardi senza la sua azione. Come rileva Brando Benifei, tra i parlamentari europei più giovani (31 anni) e vicepresidente dell’Intergruppo sin dall’inizio della legislatura, “da una parte, l’appartenenza a una ‘comunità’ permette di lavorare nella propria Commissione parlamentare in sinergia coi Deputati membri dell’Intergruppo appartenenti ad altre Commissioni parlamentari, coordinando l’impegno speso e rafforzando l’incisività del messaggio che vogliamo portare avanti. Dall’altra parte, proprio in virtù delle differenti affiliazioni politiche che abbiamo, l’Intergruppo più efficacemente riesce a sensibilizzare altri Deputati e a ottenerne il sostegno, allargando la condivisione dei nostri valori”.

Diritti non scontati
Secondo Michela Giuffrida, europarlamentare recentemente nominata vice-presidente dell’Intergruppo, obiettivo del programma di lavoro 2017-2019 dell’Intergruppo Disabilità è “prima di tutto favorire la partecipazione alla vita politica delle persone con disabilità; tutti devono essere in grado di poter fare una scelta consapevole alle prossime elezioni europee del 2019. In troppi Paesi, purtroppo, la disabilità coincide con una riduzione del diritto di voto”. Per quanto ciò possa sembrare incredibile, infatti, il pieno godimento dei diritti politici da parte delle persone con disabilità riguarda solo una minoranza degli Stati UE: 15 Stati membri privano automaticamente del diritto di voto le persone con disabilità sotto tutela, e per altri 6 Paesi una valutazione medica può condurre alla stessa esclusione dal voto. A questa barriera legale si aggiungono le barriere fisiche ai seggi e la frequente inaccessibilità di programmi elettorali e dibattiti politici. Dal momento che non esiste un diritto di voto per il Parlamento Europeo fondato su principi comuni, e le modalità di voto sono affidate per una parte significativa a scelte nazionali, si può concordare con Giuffrida sul fatto che l’Intergruppo abbia “un programma di lavoro molto ambizioso”.
L’Intergruppo inserisce tra le proprie priorità lo svolgimento del 4° Parlamento Europeo delle persone con disabilità, conferenza tra delegati delle organizzazioni di rappresentanza e autorità europee previsto per novembre/dicembre 2017, e la considerazione dei diritti delle donne con disabilità nelle politiche comunitarie per l’uguaglianza di genere.
Un obiettivo particolarmente delicato riguarda rifugiati e migranti con disabilità, delle cui precarie condizioni nei mesi di apertura della rotta balcanica si è già scritto in queste pagine: spicca l’intento per cui “ogni finanziamento UE ai suoi Stati membri e ai Paesi vicini, inclusa la Turchia, dovrebbe prioritariamente fornire sostegno ai minori e alle persone con disabilità, e alle loro famiglie in movimento, in particolare donne e bambini con disabilità”. Un altro riferimento importante è quello ai 17 “Obiettivi di Sviluppo Sostenibile”, adottati nel settembre 2015 da tutti i Paesi membri ONU, e a cui le politiche UE dovrebbero conformarsi per “raggiungere l’obiettivo di non lasciare nessuno indietro”.
Un approccio basato sui diritti umani, definito nel contesto delle Nazioni Unite, è ugualmente alla base della Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità, la cui attuazione figura come primo punto e perno generale del programma di lavoro dell’Intergruppo (“cuore di ogni nostra attività e iniziativa”, sintetizza Giuffrida). La UE è stata il primo organismo sovranazionale ad aver ratificato la Convenzione nel 2010, e per prima è stata esaminata dal comitato delle Nazioni Unite che sorveglia sulla sua attuazione; le preoccupazioni e raccomandazioni all’Unione Europea contenute nelle “osservazioni conclusive” adottate dal comitato nel settembre 2015 delineano di per se stesse una traccia di lavoro fino alla prossima revisione nel 2021. La possibile idea che norme così generali abbiano limitato impatto concreto nella vita delle persone con disabilità è respinta da Benifei: “le ricadute pratiche sono infinite. Perché la Convenzione è un Trattato di Diritti Umani, e i diritti sono qualcosa di estremamente concreto. Parliamo di inclusione attiva, educazione inclusiva, accesso al mercato del lavoro, accessibilità dei trasporti e promozione della mobilità, deistituzionalizzazione, salvaguardia dei diritti politici, diritto all’autodeterminazione e accesso alla giustizia, portabilità intraeuropea dei diritti, accesso al diritto alla salute, solo per citare alcuni temi”. Di importanza almeno pari è però il carattere complessivo della protezione istituita: “la Convenzione è un trattato a tutto tondo, e copre ogni aspetto della vita di un individuo.
Tesse una ‘trama’ fitta, impenetrabile: non si può tutelare un diritto a scapito di un altro. Per questo, come Deputati, non solo ne chiediamo piena attuazione, ma la prendiamo a riferimento anche come metodo, o approccio”.
L’Intergruppo lascia tuttavia intuire nel suo stesso programma che la Convenzione si è rivelata in questi anni il “vaso di coccio” rispetto ad altre linee guida delle politiche europee: “la crisi economica, e le conseguenti continuate misure di austerità, hanno avuto un impatto negativo sulle condizioni di vita delle persone con disabilità e sul loro godimento dei diritti umani in molti Stati membri UE”. Di qui la necessità di integrare la Convenzione nel nuovo “Pilastro europeo dei diritti sociali” annunciato per la prima volta dal Presidente Juncker nel settembre 2015, e su cui l’Europarlamento ha votato una risoluzione il 19 gennaio 2017.
Giuffrida, citando la risoluzione, indica che nel pilastro sociale “devono essere inclusi almeno il diritto a un lavoro dignitoso e privo di barriere architettoniche in ambienti e mercati del lavoro pienamente inclusivi, aperti e accessibili, servizi e la sicurezza di un reddito di base adeguati alle specifiche esigenze individuali, in modo da consentire un livello di vita dignitoso e l’inclusione sociale, la garanzia della libera circolazione e della trasferibilità delle prestazioni tra Stati membri dell’UE, istruzione e formazione inclusive, comprese le disposizioni per un’adeguata alfabetizzazione digitale, e disposizioni specifiche sulla protezione dallo sfruttamento e dal lavoro forzato delle persone con disabilità, in particolare le persone con disabilità intellettive o psicosociali o le persone prive di capacità giuridica”. Come spiega Benifei, “l’obiettivo dichiarato del pilastro sociale è quello di rafforzare la dimensione sociale dell’Unione economica e monetaria europea attraverso il coordinamento delle politiche sociali e occupazionali dei paesi membri. Si tratta di un’iniziativa importante, perché dopo anni di politiche di austerità ripropone per la prima volta come necessità improrogabile maggiori tutele per la riduzione delle disuguaglianze, e ridà centralità al lavoro come strumento di emancipazione economica, sociale, politica”. Occorrerà tuttavia valutare quanto risulteranno vincolanti per gli Stati e per la UE stessa le disposizioni del pilastro, quando esso sarà effettivamente operativo, e anche quale peso rispettivo avranno i due aggettivi di una delle tre categorie nello schema preliminare su cui nel 2016 è stata svolta una consultazione pubblica, quella che propone una protezione sociale “adeguata e sostenibile”.

La battaglia dell’accessibilità
Giuffrida non nasconde che l’Intergruppo esercita un “potere di ‘lobby’, inteso come capacità di fare pressione e portare avanti degli interessi collettivi”, ciò che presuppone l’esistenza di altri interessi collettivi contrapposti a quelli delle persone con disabilità nella definizione delle politiche europee. Questa contrapposizione emerge con inusuale chiarezza a proposito dell’“Accessibility Act”, la direttiva sull’accessibilità di una vasta gamma di prodotti e servizi in discussione a inizio 2017. Ricordando le energie profuse per anni dall’Intergruppo per arrivare a un provvedimento su questo tema e di questa portata, Benifei fa presente che “attualmente non vi è alcuna specifica normativa UE in materia di accessibilità per le persone con disabilità. Tale legislazione è tuttavia necessaria, perché troppi prodotti e servizi in Europa sono ancora inaccessibili: pensiamo in particolare a smartphone, tablet e computer, biglietterie automatiche, sportelli bancomat, applicazioni mobili e siti web per lo shopping online, libri elettronici”.
La proposta di direttiva della Commissione Europea è stata presentata, dopo lunga attesa, nel dicembre 2015; i parlamentari dell’Intergruppo, secondo Benifei, l’hanno “salutata con entusiasmo”, e anche EDF, pur criticandone alcuni aspetti, ha valutato in modo positivo il testo di una normativa sull’accessibilità la cui necessità aveva sostenuto da anni. Ben diverso è il giudizio sulla bozza di relazione che la Commissione parlamentare per il mercato interno e la protezione dei consumatori ha proposto nei primi giorni del 2017 per la discussione al Parlamento Europeo: secondo EDF la relazione, attraverso i suoi 163 emendamenti, “sta annacquando la proposta di legge a tal punto che parti di fondamentale importanza della legge potrebbero essere perdute”. Tra i punti contestati, l’eliminazione del requisito di accessibilità dell’ambiente costruttivo (con possibili effetti paradossali, come sportelli bancomat accessibili in posizioni non accessibili), l’esenzione totale per le microimprese, l’assunto che gli attuali requisiti di accessibilità nel campo dei trasporti siano sufficienti (punti citati anche da Giuffrida, secondo cui “la relazione del Parlamento è piuttosto debole rispetto anche alla proposta della Commissione”). Contro questa diluizione dei vincoli, che va nella direzione opposta a un “Atto Europeo sull’Accessibilità forte e ambizioso”, il 6 marzo l’EDF, in un’azione senza precedenti, ha portato la sua protesta di fronte al Parlamento Europeo, con la manifestazione “Accessibility? Act!” (“Accessibilità? Agisci!”) in Place du Luxembourg a Bruxelles.
Secondo Benifei, a fronte di “un testo di base già di buon livello” della Commissione Europea, su cui si stava lavorando per ulteriori miglioramenti, “alcuni altri colleghi all’Europarlamento si sono mostrati molto sensibili – troppo – alle richieste dei grossi gruppi industriali, insofferenti alle proposte di regolamentazione che vivono come un ostacolo allo sviluppo”. Anche limitandosi a valutazioni economiche, tuttavia, “nel contesto della rivoluzione digitale in atto, sarebbe davvero una posizione antistorica quella di non indirizzare le nuove tecnologie e le innovazioni verso un mercato inclusivo e alla portata di tutti”, tagliando così fuori la capacità di spesa di 80 milioni di europei con disabilità. Benifei è comunque ottimista sull’esito del negoziato parlamentare, così come Giuffrida: “il procedimento è nella sua fase iniziale, ci sono dei margini di miglioramento molto ampi”. EDF ha lanciato la sua campagna sulla libertà di movimento, di cui l’Accessibility Act era uno dei due principali esiti attesi, nell’ormai lontano 2011; c’è da augurarsi che il negoziato, oltre che proficuo, si riveli tempestivo.

 Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente claudio@accaparlante.it

Ciao Claudio,
sono una mamma e moglie felice. Quando aspettavo il mio primogenito, Lorenzo, affetto da gravissima malformazione, e ho deciso con mio marito di portare avanti la gravidanza, ho incontrato tante resistenze, soprattutto da chi mi diceva: condanni un figlio all’infelicità. Lorenzo è morto subito dopo la nascita, ma mi ha insegnato a vivere, ad accettare i figli come dono e non come diritto acquisito, mi ha insegnato la bellezza della vita malgrado la sofferenza. Ma ora sono sconvolta. Sono rimasta veramente turbata dalla scelta di dj Fabo di porre fine a una vita che riteneva non degna di essere vissuta. Tu cosa ne pensi? Dall’alto della mia salute e della bellezza dei figli che mi sono arrivati dopo Lorenzo, è fin troppo facile dire che la vita è meravigliosa e comunque degna di essere vissuta, ma ora mi viene il dubbio: Lorenzo sarebbe stato felice di essere vivo? Gli sarebbe bastato il nostro amore per vivere felice?
Con tanto amore da chi ti potrebbe essere madre.
Isabella

Cara Isabella,
grazie innanzitutto per la tua bella lettera, profonda e intensa. Immagino che per te non sia stato facile scrivere queste parole così come per me non è stato immediato leggerle e provare a risponderti.
Per cominciare mi sento di dire con grande umiltà che non ho ricette a riguardo e, quando mi trovo di fronte a questi casi, mi chiedo sempre: chi sono io per giudicare? Prima azione da compiere, quindi, sospendere ogni giudizio. Potrà sembrare un modo per ovviare al problema ma non lo è, è il contrario. La società contemporanea, la società del televoto, del dentro e fuori, dei reality e della comunicazione ci porta sempre di più a commentare gli accadimenti più che a dare spazio ai fatti e al racconto in quanto tali, a esprimere cioè la nostra opinione a prescindere anche quando o non siamo realmente preparati sull’argomento o si tratta, come nel caso di dj Fabo, di tematiche fortemente personali, delicate e complesse. Seconda azione: accettarsi confusi. Credo che ogni educatore e ogni genitore debba concedersi lo spazio e il tempo per sentirsi e dichiararsi confuso e spiazzato di fronte a una questione molto più grande di lui. Accettare questo, lo sappiamo, è faticoso e difficile, una figura educativa infatti di solito si sente chiamata in causa per risolvere i problemi, pensa di dover avere sempre tutto sotto controllo ma non è così, bisogna accettarlo ed essere confusi è un passaggio necessario. Terza azione: imparare a convivere con la sensazione di non avere risposte. Non tutto è immediatamente comprensibile al primo sguardo, ci vuole tempo, conoscenza e a volte anche questo si rivela un in più. È una cosa su cui ho riflettuto spesso e mi sono detto che, forse, è proprio il fatto di non avere risposte che mi ha permesso di resistere e di farlo con entusiasmo ed energia, forse, mi sono anche detto, se avessi avuto la presunzione di averle avrei agito diversamente. Una bella sfida vinta a mio parere, ma per chi si occupa di educazione venire a patti con questi aspetti significa venire a patti prima con se stessi che con gli altri, si pensa spesso infatti che se non hai una risposta pronta per ogni occasione tu non possa definirti davvero un bravo educatore. Niente di più sbagliato. Accettare i propri limiti è il primo passo per aprirsi a quelli degli altri. Detto ciò, cara Isabella, spero proprio di “non aver risposto” alle tue domande, tenendo presente che ogni scelta va rispettata così come il tuo grande coraggio. Un abbraccio.

Caro Claudio,
ho dedicato la vita all’educazione dei giovani e quando Franca Falcucci ha operato la “rivoluzione del 1977”, ero vicino a Lei perché operavamo nella stessa associazione cattolica. Poi, qualche anno dopo, sono diventato ispettore tecnico del MIUR e ho lavorato con Lei per lungo tempo. Ora, forse non lo sapevi, è già stata chiamata alla casa del Padre. Con Franca cominciammo (il plurale non è maiestatico ma secondo verità) un percorso di apertura e cambiamento verso un’autentica integrazione. Dopo i provvedimenti del 1977 (L.517 e L.348) maturò quel tentativo di accogliere sempre di più e sempre meglio oltre ai disabili anche gli svantaggiati, gli sfortunati, i soli (perché è solo un bambino che vede la madre uscire alle 7 e rientrare alle 20). Fu definito il tempo prolungato poi quello “pieno” per non lasciare per strada proprio i più deboli. Mancò però un’autentica penetrazione nella mentalità soprattutto dei dirigenti scolastici, legati ancora a orari di comodo. Oggi le cose sono cambiate, provo grande tristezza perché molti insegnanti hanno perso l’anima, scambiata in nome delle nuove aride tecnologie, che qualcuno ritiene sostitutive dei veri legali con i genitori, i fratelli, i nonni.
Sinceri auguri e cari saluti. Franco Martignon

Caro Franco,
ti ringrazio molto per la tua lettera e le tue osservazioni.
Mi ha fatto piacere ricevere le tue riflessioni, che condivido pienamente. Con il gruppo di lavoro del Centro Documentazione Handicap lavoriamo quotidianamente per una cultura dell’inclusione di tutte le persone svantaggiate all’interno della scuola e della collettività, consapevoli che quel percorso avviato dal basso a cui tu fai riferimento, richiede ancora il contributo e la presa in carico di tutti. Sono trascorsi ormai 40 anni dall’approvazione della L.570, e torneremo sicuramente ad affrontare il tema pubblicamente. Come scrivi, dai tempi di Franca è cambiato molto, sono migliorate le tecnologie e le classi si sono fatte sempre più inclusive ma ciò non ha escluso la nascita di altre problematiche come l’eccessiva classificazione, dai BES a chi più ne ha più ne metta, oppure le difficoltà negli insegnanti, soprattutto quelli di sostegno, a trovare uno spazio e un ruolo all’interno degli Istituti. Se negli anni ’70 fu fondamentale apportare delle modifiche oggi lo è tornare allo spirito rivoluzionario di allora, rivoluzionario perché capace di portare cambiamenti. Un caro saluto e buona vita,
Claudio Imprudente

1. Il necessario e il necessario

Il diritto di leggere: biblioteche come avamposto d’inclusione
a cura di Annalisa Brunelli, pedagogista e Roberto Parmeggiani, educatore e scrittore

“Ciò che la donna che lavora vuole è il diritto di vivere, non semplicemente di esistere – il diritto alla vita così come ce l’ha la donna ricca, al sole e alla musica e all’arte. Voi non avete niente che anche l’operaia più umile non abbia il diritto di avere. L’operaia deve avere il pane, ma deve avere anche le rose”.
Il titolo della monografia che vi apprestate a leggere prende spunto proprio da questa frase pronunciata dall’attivista Rose Schneiderman durante un discorso nel quale rivendicava il diritto di voto femminile di fronte a una platea di suffragette benestanti negli Stati Uniti.
Un diritto che, come dice lei, non è solo quello di esistere ma anche quello di vivere. Di poter godere, cioè, sia di ciò che consideriamo necessario e sia di ciò che, secondo una visione classista, consideriamo superfluo e quindi meno importante.
Anche i libri, e le altre forme della cultura in generale, sono da molti considerati superflui, un orpello, una bella esperienza ma non di certo fondamentali per la vita delle persone.
Ecco, l’idea che sta alla base della riflessione che vi proponiamo è quella di tentare di superare questa contrapposizione. Non più una visione, quindi, che separa il necessario dal superfluo, ma la possibilità di considerare tutto necessario, ogni esperienza secondo il proprio valore.
Attraverso la presentazione di esperienze, luoghi, idee, progetti abbiamo cercato di delineare una mappa immaginaria che ci indichi un orizzonte possibile verso cui muoverci per raggiungere insieme un luogo in cui la relazione con l’alterità sia la norma; che ci aiuti a riscoprire che alimentare con la bellezza e la conoscenza il nostro spirito non è meno utile di alimentare con il cibo il nostro corpo; che ci permetta di ritrovare una visione profetica quando dimentichiamo (più o meno deliberatamente) che, come diceva Marguerite Yourcenar “fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro l’inverno dello spiri- to che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”.
Noi che con e per i libri lavoriamo è per il pane che lottiamo, ma anche per le rose!

4. Un movimento senza confini

4.1. Ippopomati sulla luna
di Roberto Parmeggiani

La sensazione che si prova assomiglia a quella che deve aver vissuto Alice quando è entrata nel paese delle meraviglie. Un misto di stupore e curiosità. Una specie di smarrimento insieme alla sensazione di trovarsi in un luogo familiare.
Per arrivarci bisogna salire una scala di pietra dietro la Biblioteca Municipale di Sintra. Si raggiunge così un grande giardino su cui si affaccia una veranda con alcuni tavoli e tanti cuscini colorati. L’erba del giardino è sufficientemente morbida per potersi sdraiare o rotolare, ci sono alcune sculture con cui i visitatori possono interagire e una vista da togliere il fiato sulle colline e la città medioevale.
Ecco, in questo contesto potete trovare un luogo speciale: un misto tra una Casa della lettura e una Casa del tè.
Quando ho visitato Hipopomatos na Lua per la presentazione di un libro era fine marzo. Appena ho messo piede in quello spazio, ho immediatamente pensato che descrivesse perfettamente il senso della monografia che state leggendo.
È una libreria ma non solo.
È una sala di lettura ma non solo.
È una sala da tè con ottimi dolci ma non solo.
È un rifugio, una casa, una culla, una nave, una foresta. Chiacchiere, discussioni, sorprese, dolcezze, scoperte, avventure.
*Nazaré de Sousa, responsabile del progetto, racconta di aver dato vita a questo spazio per poter avere un luogo dove entrare e trovare qualcosa di bello e di buono, cose semplici e importanti allo stesso tempo.
“Crediamo che una parte di noi sia fatta di lettere che si uniscono una all’altra e in tutta la loro estensione ci conferiscono l’individualità che siamo. Ci costruiamo a partire dai libri che leggiamo e ci sono parti di noi che sono la somma di ciò che abbiamo ricevuto da loro. Leggere è formare l’identità e questo facciamo da quando siamo arrivati qui”.
Il pubblico che varca la soglia di Hipopomatos na Lua è il più vario, tutti interessati però a un incontro diretto con il libro. Agli adulti che riprendono i bambini invitandoli a non toccare o a fare piano, Nazaré e le sue colleghe dicono che, al contrario, quello è un luogo dove i bambini (ma anche gli adulti in verità) devono toccare e fare come se fossero a casa loro.
A differenza di altri spazi dedicati al libro, in questa strana casa della lettura al centro di tutto c’è proprio la relazione con il libro: come oggetto, come esperienza, come viaggio immaginario. Una relazione libera da stereotipi o buone maniere che, un po’ alla volta, modifica concretamente l’idea che si ha della lettura.
Non più un dovere o una scocciatura ma nemmeno un’esperienza quasi sacra e reverenziale. L’incontro con il libro, personale e unico, avviene attraverso tutti i sensi anche per il fatto di poter bere un buon tè alle tre mente e assaggiare una fetta (e che fetta!) di torta al cioccolato o al mascarpone e frutti di bosco.
Il necessario e il necessario, direi.
Perché, almeno lì, non si deve scegliere tra una cosa o l’altra ma è possibile scoprire come il pane e le rose possono trovare posto sulla stessa tavola.
Quando ho visitato la libreria, mentre parlavo con Nazaré, vedevo i bambini muoversi liberamente nella grande stanza, avvicinarsi agli scaffali e prendere liberamente i libri. Ognuno portava quello scelto o al tavolo tondo oppure sui grandi cuscini o anche in veranda, sull’amaca. Bambini diversi ed eccitati o calmi e pazienti che leggevano il libro intero oppure irrequieti cambiando più spesso testo. Ecco questa libertà, ancora una volta, mi è sembrata la metafora più adatta per descrivere un percorso di educazione alla lettura che possa funzionare: una relazione libera con il libro, scelto dal bambino per un qualsiasi motivo o per nessun motivo particolare, libero di immergersi nel testo o nelle immagini, da solo, sdraiato, seduto, appoggiato oppure in gruppo con qualcuno che legge e qualcuno che ascolta.
Libero il libro, liberi i lettori e libera la relazione.
I libri, lo sappiamo, nascono due volte: quando l’autore li scrive e quando il lettore li legge. A noi adulti il compito di creare spazi in cui questa seconda nascita possa av- venire nel modo più naturale possibile.

Hipopomatos na Lua è la prima libreria specializzata in letteratura per ragazzi e si trova nella città di Sintra (Portogallo). È aperta a tutte le famiglie per ritrovarsi attorno ai libri e alle storie. Per fare merenda si possono trovare tè, caffè, torte e biscotti.
Per saperne di più: http://hipopomatosnalua.blogspot.it

4.2.Biblioteche in movimento
di Massimiliano Rubbi, giornalista e lettore

“Se il lettore non va al libro, il libro va al lettore”. Come promuovere la lettura, specie tra bambini e ragazzi, dove l’acquisto dei libri è un lusso insostenibile per molti e le distanze rendono impossibile frequentare una classica biblioteca? Mettendo i libri in una “biblioteca in movimento” che raggiunga periodicamente le comunità e le scuole, per consegnare quelli che al primo impatto possono apparire oggetti astrusi e poi tornare a riprenderli; e il veicolo è lo stesso usato abitualmente per spostarsi dalla popolazione.
Non poche, e spesso curiose, sono le esperienze di questo tipo. Nel 1995 Obadiah Moyo, fondatore del Programma di Sviluppo per le Biblioteche e le Risorse Rurali (RLRDP), ha guidato la prima biblioteca mobile con un carretto trainato da un asino in giro per lo Zimbabwe: oggi questi “biblio-asini” sono 15, e ognuno dei carretti da loro trainati può contenere fino a 1.200 libri. Come spiega Moyo, “gli asini sono donati dai membri della comunità, e gli abitanti del villaggio in realtà fanno a gara per assicurarsi che siano usati i loro asini, perché sanno che stanno facendo progredire l’educazione entro le proprie comunità locali, e questo porta prestigio”. I libri, forniti dall’associazione Book Aid International, vanno da quelli sonori pensati per chi impara a leggere a quelli educativi e di narrativa, e “quando il carretto si avvicina a una scuola, è meraviglioso vedere l’eccitazione dei bambini quando corrono fuori a salutarlo. Ma non è semplicemente che il carretto venga scaricato e prosegua. Il carretto rimane per tutto il giorno; i bambini esplorano i libri, condividendo quel che hanno letto, e cantastorie locali della comunità arrivano per dare vita alle storie. È davvero un giorno per diffondere il concetto della lettura e per sviluppare la cultura della lettura per la quale stiamo tutti lavorando”. La nuova abitudine alla lettura ha portato in pochi anni a incrementi significativi nei tassi di successo degli esami di inglese nelle scuole secondarie dello Stato africano (in un caso, a decuplicare le promozioni in 6 anni!).
L’asino smentisce fieramente lo stereotipo che lo vede associato all’ignoranza, trasportando in giro libri e conoscenza, anche in Colombia. Il “biblioburro” ideato a fine anni ’90 dal giovane insegnante Luis Soriano, con due asini (“Alfa” e “Beto”!) e 70 libri portati in giro sui loro dorsi, continua a svolgere tuttora la sua funzione ogni sabato, tra i villaggi più isolati dei dipartimenti di Cesar e Magdalena, e con forze moltiplicate: 8 asini e 4.800 libri, in buona parte frutto di donazioni pervenute dopo che una trasmissione radiofonica si era occupata della storia. Il progetto del “biblio- burro”, oggetto anche di un documentario nel 2007, non si è fermato neppure quando el profesor Soriano, nel 2012, ha subito l’amputazione di una gamba dopo un incidente con un suo asino, e oggi, dopo essere valso al suo ideatore il premio di “Colombiano Ejemplar” nel 2014, si accinge a festeggiare il 20° compleanno. La Colombia vanta diversi esempi di biblioteca mobile: il bibliotecario Oswaldo Gutiérrez nel 2002 ha inventato la “bibliocarreta”, una carretta che la domenica porta i libri nei parchi e tra le case della città di Sabaneta, mentre la biblioteca della cittadina montana di Guatapé è già passata da un esperimento di “bibliocarreta” alla bicicletta attrezzata “PedaLeo” (“PedaLeggo”), che con il suo campanello avvisa del suo arrivo tra i negozi, prima per conoscere i gusti di lettura dei commercianti, troppo impegnati dal loro lavoro per passare in biblioteca, e poi per portare loro i libri (e riprenderli). Come sottolinea in un articolo la rete bibliotecaria di Medellin, “l’obiettivo di ‘Al son del PedaLeo’ è portare a termine una delle missioni più importanti che hanno le biblioteche di oggi: essere inclusivi. E non solo con chi ha difficoltà fisiche o psicologiche per leggere o avvicinarsi alla conoscenza, ma anche con chi per qualunque motivo non ha la possibilità di visitare la biblioteca”.
Tornando alla trazione animale (e all’Africa), risale addirittura al 1985 l’uso dei cammelli per il trasporto di libri nelle regioni aride e isolate del Kenya nord-orientale. Come riferisce il servizio bibliotecario nazionale keniota, “i cammelli trasportano i libri in scatole specificamente create per il progetto e li portano ai bambini nelle scuole isolate. Inclusi nelle scatole ci sono anche tende e tappetini perché i bambini li usino sul campo”. La biblioteca mobile su cammelli, riporta la BBC, risulta anche l’unico modo per raggiungere le popolazioni nomadi della zona nel luogo in cui si trovano e potrebbero non trovarsi più il giorno dopo, popolazioni molto povere in cui “quando un genitore ha un po’ di denaro, preferisce comprare cibo, e quando vede un libro non gli dà valore”.
Cambia la zona del mondo, cambia il mezzo di trasporto, ma non cambia il sistema: il progetto “Books-by-Elephant” si serve di 20 elefanti per trasportare libri ai bambini in 37 villaggi montuosi della Thailandia settentrionale, insieme a lavagne di metallo appositamente disegnate per non rompersi durante il trasporto sul dorso dell’elefante, un’esperienza esportata anche nelle province di Xaignabouli e Oudomxay nel Laos settentrionale: e quando arrivano gli elefanti, riferisce l’Elephant Conservation Center che si occupa del servizio in Laos insieme alla ONG Community Learning International, “molti dei bambini leggono attentamente ogni pagina nel punto in cui sono, mentre altri stringono semplicemente il libro al petto come un bene prezioso, e nella maggior parte dei casi è così, essendo il libro il primo oggetto che il bambino abbia mai posseduto”.
Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che le “biblioteche mobili”, con il loro effetto spesso pittoresco, siano da associare esclusivamente alle zone più isolate e depresse di Paesi economicamente arretrati, e siano destinate perciò a scomparire, con lo sviluppo socio-economico, a favore di strutture bibliotecarie “tra quattro mura”. Il 12 aprile scorso è stata festeggiata negli Stati Uniti la settima Giornata Nazionale delle Biblioteche Mobili (National Bookmobile Day), per celebrare “una parte integrale e vitale del servizio bibliotecario negli Stati Uniti da oltre 100 anni”, che “ha consegnato informazioni, tecnologia e risorse per l’apprendimento permanente ad americani di tutti i ceti sociali”. Il primo servizio di questo tipo fu istituito nel 1905 dalla bibliotecaria Mary Lemist Titcomb nel Maryland, dapprima appoggiandosi a negozi e uffici postali, poi con un carro a cavalli capace di battere le fattorie della zona con un guidatore e un bibliotecario, e infine dal 1912 con un servizio motorizzato. Anche se il loro numero è in calo negli ultimi anni, i servizi di biblioteca mobile negli USA rimangono oggi 660, concentrati in Stati tra Sud e Midwest come Kentucky e Ohio ma anche in California; alla resistenza delle biblioteche su ruote contribuisce in modo determinante il fatto che esse “possono essere spesso un mezzo efficiente di fornire servizi bibliotecari a grandi aree geografiche”, grazie a un costo di 200.000$ che è di 8 volte inferiore a quello di costruzione di una nuova biblioteca stabile. Oltre ai libri, le biblioteche mobili portano nelle comunità rurali giornali, periodici e DVD, offrono servizi di consulenza, corsi e attività, e spesso forniscono tecnologie adattive per persone con disabilità, accesso a Internet, a volte videogiochi, sempre più spesso con veicoli specializzati per obiettivi identificati da nomi come “Techno-mobile”, “JobLink”, “Kidmobile” o “ABC Express”, e con tecnologie green che riducono l’impatto ambientale dei loro lunghi viaggi. Per questo, non senza un po’ di retorica, le biblioteche mobili possono essere definite nei materiali promozionali del National Bookmobile Day “parte del Sogno Americano – luoghi di opportunità, educazione, auto-aiuto e apprendimento permanente”.
Biblioteche mobili sono presenti anche in Giappone, un Paese ad alta tecnologia e fortemente antropizzato ma che le statistiche collocano tra quelli con le minori medie di lettura al mondo, così come in Norvegia, dove sin dal 1963 la nave Epos passa l’inverno a portare libri a 150 villaggi della costa sud-occidentale, compiendo due giri di 45 giorni ognuno (occhio a non mancare il giorno in cui restituire i prestiti!), per poi essere convertita a servizio dei turisti in estate.
La biblioteca mobile più curiosa e significativa del mondo è però con ogni probabilità quella realizzata alcuni anni fa dall’assai eccentrico artista argentino Raul Lemesoff a Buenos Aires: una Ford Falcon del 1979 usata al tempo dalla giunta militare, trasformata in “carro armato” e riempita di 900 libri per diventare, secondo il nome che l’autore le ha dato, una “arma di istruzione di massa”. Lemesoff gira tuttora per le città e le campagne dell’Argentina, regalando un libro in cambio della sola promessa di leggerlo e ricostituendo periodicamente la biblioteca attraverso donazioni private, con l’obiettivo di “combattere l’ignoranza” e portare “un contributo alla pace attraverso la letteratura”. Ed è forse questa idea di “mettere dei fogli nei cannoni” che in fondo anima tutti i bibliotecari che ogni giorno, in tutto il mondo, percorrono decine di chilometri, su veicoli quasi sempre scomodi, insieme all’intento di impedire che qualcuno rimanga separato, a causa della distanza, dal libro che cambierà la sua vita.

4.3. Una biblioteca per Korogocho
di Simona Venturoli, Project Manager Servizio Progetti Estero di AIFO

Può sembrare un azzardo la realizzazione di una biblioteca a Korogocho, una barac- copoli di Nairobi e Baba Dogo con più di 200 mila abitanti, eppure Mwangaza Community Library Project questa esperienza l’ha realizzata e la sta portando avanti.
Dal 2003 AIFO (Associazione Italiana Amici di Follereau) opera in questo difficile contesto attraverso il sostegno a KoskobarK (Korogocho Slum Community Based Rehabilitation – Kenya), un’organizzazione comunitaria di Korogocho, ufficialmente riconosciuta dal governo keniota.
La biblioteca offre numerosi servizi culturali alla comunità e nei suoi locali ha sede anche un centro di riabilitazione per persone svantaggiate che lavorano all’interno di laboratori di sartoria, fabbricazione di candele e tipografia. La biblioteca ha bisogno di fondi per acquistare e riparare libri, riviste e dvd, per aggiustare le finestre e sistemare la rete fognaria.
Mwangaza in lingua swahili significa luce e questo la dice lunga sul senso di questo progetto: vuol portare la luce alle persone che vivono a Korogocho, una luce che si manifesta però sotto la forma dell’educazione e dell’informazione. Anche lo slogan che accompagna questo progetto, “Nuru ya Korogocho” ovvero luce di Korogocho, ne sottolinea la funzione.
La biblioteca ha aperto i battenti nel marzo del 2012 ed è situata ai bordi dello slum di Nairobi, diventando così la meta anche di ragazzi e bambini che studiano nei quartieri vicini a Korogocho. La presenza di un libraio formato e di due assistenti volontari permette la sua apertura in tutti i giorni feriali dalle 8 alle 18 e il sabato dalle 9 alle 16. Mediamente si registra un accesso di 30 persone al giorno, con punte di 60 il sabato e nei periodi di sospensione scolastica. Nei primi 4 mesi del 2016 la biblioteca ha registrato un totale di 835 ingressi per persone sopra i 17 anni e di 312 ingressi per persone sotto i 17 anni.
Per accedervi basta pagare una piccola retta annuale, dalla quale però sono escluse le persone disabili che entrano gratuitamente.
La struttura non riceve finanziamenti pubblici e queste entrate assieme ad altre previste per il futuro (servizio di consulenza per l’uso del proprio telefono cellulare, attività di copisteria e stampa…) servono al mantenimento della struttura e per l’acquisto e la manutenzione dei libri e dei dvd.
Mwangaza Community Library è partita con il sostegno di AIFO e dell’iniziativa “Biblioteche solidali” del comune di Roma. Attualmente (fine 2016) la biblioteca dispone di circa 3.323 libri, 1.324 copie di 2 quotidiani nazionali locali, il “Daily Nation” e “The Standard”, e decine di video e materiali audio visionabili presso la sala comunitaria TV con DVD reader, dove vengono offerte anche attività di intrattenimento. Riceve e archivia anche la “Kenya Gazette” (Gazzetta ufficiale del governo). Inoltre ha attive tre postazioni per l’accesso a internet, offre un servizio di fotocopie a costo inferiore rispetto al mercato e ha una saletta dedicata ai bambini con arredi funzionali.
Mwangaza è quindi la risposta a una sfida, quella di ridurre la mancanza di spazi a Korogocho dove i bambini possono studiare e di offrire ai ragazzi una struttura ricreativa, di dare, in generale, alla popolazione dello slum un luogo dove potersi informare. A Korogocho, dove le famiglie sono composte da molti figli e le case si riducono spesso a un’unica stanza, la possibilità di aver un luogo tranquillo dove studiare è un’esigenza molto sentita. Spesso i bambini e i ragazzi non hanno la possibilità di studiare proprio per la mancanza di luoghi che nemmeno la scuola pubblica può offrire. “La biblioteca mi permette di fare i compiti – dice Achola Samuel Omondi, uno studente di 16 anni – a casa non riesco a fare bene il mio lavoro, c’è troppa confusione; qui posso trovare anche altri libri che io non possiedo”. Molti dei libri della biblioteca ri- guardano infatti le materie che gli studenti devono studiare per la scuola.
La biblioteca che apre alle 8 e chiude alle 18 ha in realtà orari elastici per venire incontro alle esigenze degli studenti e spesso i tre volontari che gestiscono il luogo la tengono aperta fino a tarda sera. È soprattutto durante le vacanze scolastiche che Mwangaza ha il suo picco di utenti; in quei giorni i posti a sedere non bastano più e i ragazzi si mettono sul pavimento per proseguire i loro studi.
Il luogo via via si è aperto anche alla popolazione residente che non studia ma ha altre esigenze. Mancano infatti nello slum i luoghi dove riunirsi e parlare, ecco allora che fuori dall’edificio è stata allestita una grande tenda chiusa collocata nel cortile interno (60 posti a sedere) dove i membri della comunità possono fare incontri, corsi di formazione, dibattiti e riunioni.
Spiega Richard Omwele, un residente: “Eravamo abituati a incontrarci nelle nostre case o semplicemente all’aperto. Adesso invece la biblioteca ci offre una tenda per le riunioni e anche le discussioni si fanno meglio. Ci sentiamo più liberi di parlare e abbiamo una certa privacy che prima all’aperto non avevamo”.
Mwangaza infine è anche un centro di riabilitazione per persone con disabilità che frequentano corsi di formazione per la fabbricazione di candele, di sartoria, di artigianato. Racconta Morris Obiero: “Sono venuto in biblioteca sperando di leggere il mio giornale preferito e invece ho seguito il corso di formazione su come fare le candele! Questo ha migliorato la mia situazione economica, ha rivoluzionato la mia vita”.

4.4. Un cambiamento possibile
di Roberto Parmeggiani

Il primo libro che Otávio de Souza Júnior César ha preso in mano è stato Don Gatón. Diversamente da molti bambini che conosco, lui non l’ha ricevuto in regalo e nemmeno ha potuto sceglierlo tra gli scaffali di una libreria o, almeno, di una biblioteca. Otávio aveva otto anni e trascorreva le sue giornate accanto al campo di calcio della favela dell’Alemão, una delle zone più violente di Rio de Janeiro. Cresceva, come molti dei bambini che lì vivevano, sognando di diventare un calciatore e poter fuggire da quella realtà troppo stretta per chi, come lui, aveva voglia di volare.
Un giorno, mentre come tanti altri giorni tutti uguali, stava rovistando tra la spazzatura, trovò una scatola con alcuni oggetti per bambini. La lotta con gli altri ragazzi fu dura, tutti volevano accaparrarsi il gioco migliore, anche se rotto o molto rovinato. La sua attenzione, però, venne attirata da un libro. Lo prese al volo (anche perché non interessava a nessun altro) e corse a casa.
Il libro in questione era proprio Don Gatón.
“Ho passato una delle notti più belle della mia vita in quel nuovo mondo che avevo appena scoperto” – racconta – “e il giorno dopo ho chiesto alla mia insegnante perché la biblioteca della scuola era stata chiusa. Lei l’aprì e da quel giorno fui l’unico che la frequentava per leggere”. Quando la biblioteca della scuola diventò piccola si spostò in una un po’ più grande anche se per raggiungerla, dalla sua favela, doveva camminare più di 40 minuti.
Quell’esperienza ha marcato profondamente la vita di Otávio.
L’incontro con i libri, con le storie, con quei personaggi gli ha permesso di immaginare un futuro diverso, di potersi pensare altro rispetto allo stereotipo del favelado senza un futuro diverso da quello di chi è venuto prima.
Oggi Otávio è uno scrittore, un narratore, è il fondatore e il coordinatore del progetto “Ler è 10 – Leggere nella favela”, che mira ad aprire biblioteche nel complesso dell’Alemão. La missione principale del programma è quella di mostrare ai bambini – circa l’80% dei partecipanti – e ai giovani, che i libri possono aprire porte e orizzonti che l’ingiustizia sociale e l’assenza dello Stato si impegnano a chiudere. Un nuovo orizzonte che valichi quello offerto dalla favela, un nuovo immaginario a cui riferirsi per pensarsi adulti.
“Ho vissuto per molti anni in una comunità violenta, dove la realtà quotidiana era molto dura, con scontri continui tra trafficanti di droga e la polizia. Una delle cose che mi rendeva più triste era il fatto che i narcos erano visti come eroi a Rio: compravano i vestiti migliori, le scarpe più belle, avevano le auto più costose”.
Per questo un giorno Otávio decise che avrebbe tentato di “invertire i valori” usando la letteratura che aveva tanto influito nella sua vita.
Cominciò a spostarsi nella comunità in cui viveva portando con sé una valigia piena di libri. Stendeva un tappeto colorato e invitava la gente ad avvicinarsi e a leggere.
Più di una volta è stato fermato dalla polizia a cui ha dovuto spiegare che in quella valigia non era contenuta droga o grandi quantità di banconote ma qualcosa di molto più importante.
Quell’esperienza di incontro e divulgazione è stato il primo nucleo di ciò che poi sarebbe diventata una vera e propria biblioteca nata anche grazie alla partecipazione di Otávio a un reality show per raccogliere fondi. Dopo aver camminato a piedi nudi sopra una corda riuscì a guadagnare 5000 dollari che poté reinvestire nel progetto. “All’inizio mi consideravano come una specie di Don Chisciotte, mi conoscevano come il pazzo dei libri”.
Oggi, grazie a tutto ciò, la comunità conta su una biblioteca stabile e altre itineranti che vanno incontro alle persone per avvicinarle alla lettura e promuovere un’educazione alla libertà di pensiero.
Oltre al servizio di prestito dei libri e alla possibilità di utilizzare spazi per studiare o anche, semplicemente, per fare comunità in un luogo tranquillo e protetto, il progetto prevede attività anche fuori dalla comunità quali la visita alla Biblioteca nazionale di Rio de Janeiro, alle librerie della città oppure gite culturali in generale. “Molti dei bambini che partecipano al progetto non avevano denaro per permettersi tali esperienze, così attraverso la letteratura abbiamo cercato anche di superare i limiti geografici”.
Quel primo libro, nelle mani di Otávio, si è trasformato in centinaia di libri che, uno dopo l’altro, hanno modificato radicalmente la realtà nella quale vivevano. Un esempio concreto dell’importanza di un luogo come la biblioteca: apparentemente innocuo ma vero promotore di un cambiamento possibile.

Nel paese dei libri
Una manciata di libri per i più piccoli (ma anche per gli adulti che leggeranno con loro) per immergersi in un mare di suggestioni, bellissime illustrazioni e piccole storie per navigare tra fiumi e nuvole di parole, per trovare parole per dire la rabbia, la gioia, la tristezza, per sorridere e lasciarsi abbracciare. A questi suggerimenti aggiungiamo un ultimo libro che racconta la storia, vera, di Alja che è riuscita a salvare quasi tutti i libri della biblioteca di Bassora, in Iraq, prima che la guerra la distruggesse.

Oliver Jeffers, Sam Winston, La bambina dei libri, Lapis, 2016
Alessandro Sanna, Castelli di libri, Franco Cosimo Panini, 2014
Quint Buchholz, Nel paese dei libri, Beisler, 2014
Sergio Ruzzier, Stupido libro!, Topipittori, 2016
Lane Smith, È un libro, Rizzoli, 2010
Silvia Borando, Questo libro fa tutto, Minibombo, 2017
Jeanette Winter, Alja la bibliotecaria di Bassora, Mondadori, 2006

 

3. Il libro come motore delle relazioni

3.1. Azioni di Memoria
di Giovanna Di Pasquale, lettrice e pedagogista

Contro la rimozione sociale
“Non per ogni oggetto c’è un nome, o per ogni proprietà un aggettivo, o per ogni azione un verbo. Anzi, è vero il contrario: soltanto pochissimi oggetti, proprietà e azioni ricevono la nostra attenzione, e vengono battezzati con una parola. Gli altri dobbiamo farli rientrare in quelli, con un processo di approssimazione che spesso diventa una semplificazione della complessità della realtà”. 

I Centri di documentazione sono luoghi particolari nel panorama degli spazi culturali, “animali strani” che sfuggono alle classificazioni troppo rigide. Parenti stretti delle biblioteche, lavorano i materiali documentativi e informativi prendendo strade diverse: “diverso è il modo in cui nascono e crescono, diverso è il criterio di ordinamento, diverso è il modo in cui si fa ricerca”.
Proprio per questa eterogeneità che li caratterizza non possiamo parlarne in termini omogenei o tanto meno pensare che esista un modello unico e univoco di riferimento. Queste realtà, nate alla fine degli anni 60 lungo il territorio nazionale, hanno storie tutte declinate al singolare, difficilmente collocabili in categorie per la specificità dei temi che definiscono la loro presenza e orientano le loro azioni. Se ci facciamo aiutare, però, da qualcosa di simile a un processo di approssimazione si può evidenziare una forte vicinanza fra le motivazioni che hanno dato origine all’esperienza dei Centri di Documentazione che nascono e si impongono come catalizzatori di energie contro la rimozione sociale di temi percepiti come scomodi o residuali dal sentire comune. L’azione e l’impegno che caratterizzano queste realtà possono venire riletti soprattutto alla luce degli itinerari esistenziali delle persone. Queste relativamente nuove forme di archivi mettono, infatti, al centro della propria identità la soggettività della persona nella sua esperienza di singolo e nei legami con l’esperienza collettiva che le accomuna. Esiste e viene riconosciuto “un bisogno d’interesse e rispetto per le soggettività, che va molto oltre la dimensione propriamente storiografica o addirittura ne prescinde ponendosi sul piano esistenziale”.
La storia dei centri di documentazione, come storia dei luoghi di raccolta e rivisitazione delle forme del sapere, si incrocia molto strettamente con le vicende sociali e politiche del nostro tempo. Nascono in Europa intorno agli anni ’40 le prime raccolte di documenti personali e informali come i diari, le lettere, le fotografie che, con taglio sociologico, diventano strumenti di comprensione di fenomeni come l’emigrazione dei contadini dall’est europeo verso l’America o l’espansione urbana di grandi metropoli come Londra o Parigi.
In Italia dagli anni sessanta in avanti vengono fondati Centri ancora oggi attivi e propositivi; disegniamo una piccola mappa di questi luoghi segnalandone alcuni in una chiave di sintesi che non vuole e non può rendere con esaustività un panorama ben più ampio e composito.
A Milano nel 1966 viene fondato l’Istituto Ernesto De Martino “per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario”, a Pistoia nel 1968 nasce il Centro Documentazione, strumento di servizio nel campo dell’informazione e della controinformazione sui movimenti contemporanei. Nel 1975 a Torino è attivo il Centro Studi del Gruppo Abele sulle tematiche dell’emarginazione sociale. Due anni più tardi, nel 1977 a Palermo inizia l’esperienza del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato sulle mafie e i diritti umani. Agli inizi degli anni ’80 a Bologna prendono avvio le attività del Centro Documentazione Handicap (1982), del Centro di documentazione, ricerca e iniziativa delle donne di Bologna (1982) e del Centro Documentazione del Cassero, espressione del movimento LGBT italiano (1983). Sempre intorno a quegli anni nascono due iniziative collegate al campo della scrittura autobiografica e popolare: l’Archivio dei diari Pieve Santo Stefano, Arezzo nel 1984 e l’Archivio della scrittura popolare nel 1987 a Trento.
Come si può intuire anche solo da un breve elenco di nomi e date la storia dei centri e degli archivi è tutta dentro gli eventi storici e sociali degli ultimi cinquanta/sessanta anni della nostra storia: la Resistenza, i movimenti femministi, le testimonianze di reduci delle guerre, le forme delle culture popolari, di genere e molto altro ancora…

Preservare il passato, curare il futuro
La motivazione legata al contrasto della rimozione sociale come elemento fondante nell’esperienza dei Centri, può essere ancora maggiormente attualizzata e resa anche in termini più operativi, se la si collega ad alcune delle parole chiave a cui i centri di documentazione fanno profondamente riferimento: memoria, progetto, rete.
Il termine “documentazione” richiama esplicitamente il concetto di memoria. Le pratiche di documentazione, i servizi che utilizzano questa funzione sono pratiche e servizi di memoria. Di una memoria che ha lasciato traccia, è stata resa organizzata e comunicabile sotto forma di documenti sempre più presenti oggi anche in una forma multimediale.
Questa pluralità di forme ci aiuta a ricordare come il termine documentazione vada inteso in senso ampio come una unità informativa resa stabile da supporti che la veicolano e la rendono fruibile.
Ma che tipo di memoria è quella su cui lavora un Centro di documentazione? Una memoria che segue il passo dei cambiamenti sociali e, in alcuni casi, li precede come una sonda esplorativa tesa a raccogliere elementi per comprendere meglio ciò che appena si intravede. Come si legge nel Centro Studi Gruppo Abele, “nella prima metà degli anni ’70, la maggiore visibilità pubblica del Gruppo Abele rese necessaria l’acquisizione di una documentazione più ampia, accompagnata da tracce di letture per renderla accessibile all’esterno […] L’area della documentazione si è sviluppata sulla base di questa attenzione e si è modificata nel tempo per rispondere alle richieste provenienti sia dall’esterno che dall’interno del Gruppo Abele, rinunciando a documentare tematiche già approfondite da altri Centri di documentazione, ma lavorando su tematiche nuove, che di volta in volta emergevano sulla scena sociale e diventavano aree di intervento da parte del Gruppo Abele”.
È quindi una memoria utile perché utilizzabile, come si evince dall’Istituto Ernesto de Martino: “L’Istituto Ernesto de Martino non è stato e non è solo un archivio: è stato ed è soprattutto – in quanto punto di raccordo tra interessi storici, sociostorici, antropologici ed etnomusicologici – un laboratorio per l’analisi del comportamento sociale del mondo oppresso e antagonista (modi di produzione, forme sociali derivate e dinamiche che ne scaturiscono, processi di trasformazione e di ricomposizione della classe), per la valorizzazione della cultura orale (in particolare per la sua utilizzazione critica negli studi storico-antropologici) e del canto sociale vecchio e nuovo”.
Una memoria che non deve solo essere conservata per essere archiviata ma conservata per essere utilizzata. I centri svolgono una funzione di custodia della memoria realizzando laboratori di uso di tracce e documentazioni di esperienze proprio raccogliendo la sfida e l’impegno legato alla concezione di una memoria che è un modo per “aver riguardo del passato, ma anche un modo di preservare il futuro da pericolose semplificazioni e superficialità vivendo il presente con lo spessore della memoria e il desiderio del futuro”.
È una memoria del quotidiano quella che viene messa a fuoco e trattenuta: di ciò che è stato fatto, delle esperienze realizzate nel quotidiano, in ciò che si ripete tutti i giorni più che in ciò che si colloca nello straordinario. Memorie uniche perché legate ai percorsi biografici e a situazioni determinate, memorie multiple in grado di raccontare un periodo, un evento storico, un dramma sociale quando vengono accostate le une alle altre e rese maggiormente leggibili in una cornice più ampia.
Dall’Archivio delle scritture popolari di Trento: “L’Archivio conserva la memoria culturale scritta di uomini e donne appartenenti a ceti sociali medio bassi. Un vasto universo di scritture, di generi narrativi e documentari: sono diari, memorie autobiografiche, libri di famiglia, libri dei conti, canzonieri (di caserma, di guerra, devozionali), raccolte di poesie e di preghiere, ricettari di cucina che, tutti insieme, mettono in scena una sorta di Novecento autobiografico […] Altre scritture, come i libri di famiglia e i libri dei conti, sono legate alla casa e registrano l’andamento della vita quotidiana e lo sviluppo della famiglia”.
Emerge una memoria dei collegamenti che dalla rilettura di questa quotidianità si possono e si devono fare. Le esperienze raccolte, riorganizzate, rilette sono in grado di evidenziare delle buone prassi che per la loro natura sono legate al contesto di attuazione e probabilmente trasferibili solo a condizione di adeguarle e di riattualizzarle. “Una buona prassi è qualcosa che altri hanno fatto e che – nel loro contesto – ha funzionato, probabilmente perché aveva delle buone caratteristiche. Ed è su queste caratteristiche che il lettore è chiamato a curiosare, indagare e criticare, mettendole in relazione alla propria situazione e al proprio contesto”.
Per delineare ipotesi plausibili sul nuovo, su un futuro decisamente difficile da prefigurare, occorre usare una capacità di riflessione creativa che poggi su quanto si può apprendere dalle esperienze fatte da noi e da altri. Possiamo parlare, in questo senso, di una memoria che sostiene i progetti.
Evidenziare le possibili buone prassi presenti nelle esperienze, recuperarle e metterle in circolo: questo è uno dei mandati di un Centro di documentazione. Non solo quindi raccogliere per non disperdere le tracce significative delle esperienze quotidiane ma utilizzarle come strumento per nuove e fondate progettualità.
Progettualità che cercano di sfuggire alla posizione di autosufficienza facendo muovere i Centri di documentazione verso una logica di rete non fittizia che si traduce in uno sforzo a collaborare, cooperare con altri e rimandare ad altri che in luoghi e contesti diversi si muovono con gli stessi intenti. Scrive il Centro di Documentazione di Pistoia: “Il Centro è sempre stato luogo di collegamento fra realtà sociali, politiche e culturali e punto importante per quanti vogliono fare ricerche sui problemi e i temi a noi contemporanei e collegare gli studiosi, centri, biblioteche, archivi e varie realtà culturali di movimento degli anni Sessanta Settanta e Ottanta attraverso le loro produzioni ‘grigie’, i loro volantini, i loro opuscoli”.
La rete dunque come azione reticolare per generare nuove configurazioni, condividere esperienze e scambiare professionalità, una strada da percorrere con convinzione per rafforzare l’identità dei Centri di documentazione come spazi di conoscenza e pensiero, due tratti oggi decisamente carenti nel panorama contemporaneo.

Centro Documentazione Handicap Bologna www.accaparlante.it

Istituto Ernesto De Martino per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario www.iedm.it

Centro Documentazione Pistoia www.centrodocpistoia.it

Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato” Onlus www.centroimpastato.com

Centro Documentazione Cassero Flavia Madaschi www.cassero.it

Archivio dei diari Pieve Santo Stefano Arezzo www.archiviodiari.org

Archivio della scrittura popolare www.fondazione.museostorico.it

3.2. Fare umanità prendendo se ne cura
di Elvira Zaccagnino, editore

Quando cominci a raccontare la storia del lavoro che fai, finisci inevitabilmente per raccontare anche quello che sei, che pensi, che provi a immaginare facendo quello che fai.
Sono circa ventisette anni che faccio l’editore perché la meridiana è una casa editrice che sta fisicamente in una città del Sud, della Puglia. Una città che alla fine degli anni Ottanta è stata attraversata, ma preferisco dire abitata, dall’esperienza di un vescovo che non lasciava indifferenti ma faceva la differenza.
Quando nella tua storia incontri persone come lui, puoi cogliere sfumature di senso su parole come impegno, responsabilità, cambiamento, cultura, comunità che ti danno la possibilità di scegliere con maggiore consapevolezza l’orientamento che vuoi dare alla tua vita.
La meridiana è nata trent’anni fa avvertendo il compito e la responsabilità di fare cultura del cambiamento a partire dal sud d’Italia allora avvertito come luogo dell’impossibilità al cambiamento, cronicamente malato di inerzia, destinato a essere punto terminale di un’Europa che, con la caduta del muro, spostava alle periferie di se stessa i confini.
Invece l’esperienza che negli anni Ottanta qui avvertivamo era quella che essere periferia significava cogliere e accogliere ciò che il centro non ha nemmeno la possibilità di vedere vista la distanza da ciò che è periferico: sperimentazioni, diversità, opportunità inedite.
L’impegno nelle attività di volontariato e nelle iniziative culturali che gravitavano nei gruppi diocesani, nelle parrocchie ma anche nei movimenti che si animavano grazie a don Tonino mi ha in qualche modo indirizzata naturalmente a pensare che la cultura è uno strumento forte per incidere nei propri territori e, a partire da questi, in ogni luogo dove si pensa che cambiare non solo sia possibile ma anche necessario. Un gruppo di ragazzi e ragazze, di adulti, avevano dato vita alla cooperativa la meridiana nell’87 a partire dall’esperienza di volontariato nei quartieri più periferici della città di Molfetta, paradossalmente collocati al centro della stessa città, obiettori di coscienza alcuni di loro, tra i primi a praticare questa forma di disobbedienza civile e costruttiva al servizio del Paese e della comunità, educatori e insegnanti altri. L’amicizia con alcuni di loro, la condivisione con loro di impegni mi ha fatto dire di sì quando Guglielmo Minervini mi chiese di “dargli una mano” a la meridiana. Una scommessa e una sfida. Colsi questo nella sua proposta. Così l’ho accolta e così la vivo ancora oggi.
Ci sono rimasta scegliendo di farne il mio mestiere. E devo dire senza alcuna esitazione oggi che il valore di un mestiere simile ha assunto dentro di me e va assumendo sempre di più valenza politica, di impegno civico e civile. Penso che scegliere un libro e quindi scegliere di pubblicare alcuni contenuti piuttosto che altri non sia una scelta indifferente. Scegli idee, proposte, esperienza da mettere in circolo.
Il catalogo de la meridiana fin dall’inizio ha scelto di declinare la parola Pace partendo dalla convinzione che questa si costruisce nella dimensione relazionale di ognuno, che è una dimensione educativa di forte responsabilità. Ci rivolgiamo ad adulti che avvertono il bisogno di fare del loro ruolo educativo una occasione di crescita per sé e per gli altri. Provo a spiegarlo meglio. Siamo tutti soggetti che vivono in relazione con altri: dalla famiglia, alla scuola, alla dimensione professionale – qualunque essa sia, – scopriamo noi stessi in relazione con l’altro, la nostra diversità e unicità. Facciamo esperienza del conflitto perché questo è proprio di ogni alterità. Ora, come decidiamo di attraversare questo conflitto fa la differenza di ognuno di noi. Se avvertendolo come opportunità di scoperta e miglioramento e quindi apertura e crescita o se chiudendo le nostre identità. Nella dimensione relazione consumiamo la nostra esistenza. Assunto questo, le nostre collane (cominciano tutte con la P) e i nostri libri si rivolgono a educatori, genitori, operatori del sociale, a quanti vivono la spiritualità non come assunzione di pratiche religiose vuote ma come dimensione della ricerca di ciò che è sacro in ognuno.
Di un catalogo così scopri, guardandolo a ritroso, che ha parlato di inclusione senza farne l’unica bandiera, di impegno politico senza farne una dimensione partitica, di opzione educativa prioritaria senza propagandarla con slogan. Credo oggi che la trasversalità caratterizzi i nostri lettori e i nostri testi. Un insegnante generalmente è anche un genitore, vota e quindi è un cittadino. Può essere o no un credente ma certo ha una visione del mondo e del suo senso più intimo. Certo, la nostra è una nicchia di lettori rispetto alla moltitudine. Ma i nostri sono libri che agiscono per contagio, perché usati come strumento. Forse è solo questa la ragione per cui nel nostro catalogo circa il 40% dei titoli resta vivo (cioè più volte ristampato) anche dopo 10 anni dalla sua prima uscita.
Abbiamo sempre inteso che pubblicare libri non fosse l’unica cosa che un editore può fare. Forse perché molti dei nostri libri nascono da esperienze e sperimentazioni, una volta pubblicati facciamo in modo che presentazioni, incontri, momenti formativi creino occasioni di incontro tra autori e lettori. Ho personalmente del libro e quindi dell’autore e dell’editore una visione militante. Non il salotto e i circoli letterari ma le occasioni per incontrare e far incontrare l’offerta proposta dal libro e chi sta cercando, in quel momento della sua vita, di partire da un bisogno, un confronto. Non è facile, e non sempre e in egual misura con tutti i libri, ma il provarci costantemente e farne la misura della propria identità è la traccia che proviamo a seguire con costanza. Per questo ci sono i corsi di formazione per gli insegnanti ma anche la presenza a convegni, gli incontri nelle scuole che cerchiamo di costruire intorno ai nostri libri, l’uso della comunicazione attraverso i social non solo in termini commerciali ma ragionando di contenuti e provando a cercare i nessi tra la realtà e quello che culturalmente si può fare. Trasferire e condividere un pensiero non un prodotto qual è diventato il libro.
La cultura, dico spesso, riprendendo una definizione splendida di Francesco Remotti, ha la stessa radice di cura (colere). Gli antropologi parlano di cultura intendendo il prendersi cura dell’umanità e la cultura è cura dell’umanità, è un fare umanità prendendosene cura: provando, ricercando, accudendo all’umanità che è in ognuno. E questo è un tempo in cui arrivare alle radici dell’umano che è in ognuno di noi, frammento di una umanità più ampia, rende necessario il mestiere che faccio. E farlo con la meridiana è ancora una sfida e una scommessa.

L’ultima iniziativa de la meridiana: La bottega dei genitori
Un vecchio adagio diceva che genitori non si nasce ma si diventa. Vero. Anzi verissimo. Aggiungiamo che una volta diventati genitori non si smette mai di imparare. Crescono i figli e cresciamo noi nel nostro impegno educativo con loro. Cambiano i tempi, le domande e le esigenze: le preoccupazioni e anche le occupazioni. Quella della genitorialità è una vera e propria bottega dove imparare avendo imparato ma allo stesso tempo sperimentando. Come nelle vecchie botteghe artigiane si crea dal nulla qualcosa di prezioso: la relazione unica con i nostri figli. Strumenti, attrezzi, talento e tanta cura, oltre che tempo sono necessari. E maestri di bottega che con pazienza ci accompagnano nel capire come essere genitori non secondo un modello prestabilito ma secondo l’unico e il solo modo che può renderci genitori dei nostri figli.
Apprendere la genitorialità. Non in una scuola. In una bottega che è anche luogo di incontro virtuale dove su temi e problematiche, esperienze e suggestioni ci faremo accompagnare per diventare non i migliori genitori del mondo ma quelli più in grado di prendersi cura, educando, dei propri figli in un dialogo aperto con gli altri.
Webinair (cioè seminari sul web), appuntamenti online con esperti (maestri e maestre di bottega).
Perché i mestieri più belli del mondo si apprendono andando a bottega.

3.3. Inciampare nei libri e nelle biblioteche
di Della Passarelli, editore

Credo che oggi più che mai debbano essere creati, salvaguardati e sostenuti luoghi dove la presenza di libri (e non solo: musica, teatro, arte, nuove tecnologie, cinema) possa promuovere relazioni, con se stessi e con gli altri, con il mondo e con il territorio che abitiamo. Luoghi dove ci si possa incontrare, parlarsi, prendere tempo, perdere tempo, conoscere.
Mentre scrivo (25 febbraio 2017) è appena accaduto un episodio di stupida violenza: due donne zingare, sorprese a frugare tra la merce fallata, vengono rinchiuse, insultate, sbeffeggiate e “messe in rete” da due o tre maschi dipendenti del supermercato dove accadeva il fatto; episodio rimbalzato sui social che hanno mostrato il lato peggiore degli esseri umani: la violenza delle parole a sostegno degli “eroi” che si sono divertiti a diventare carcerieri è stata scioccante. Inammissibile, direi.
Mi sorprendo ogni giorno che passa di fronte alla incapacità che abbiamo di creare un sistema forte e lungimirante, che promuova cultura e conoscenza e che ostacoli con fermezza l’ignoranza e le ideologie pericolose che da questa derivano. Basterebbe studiare alcuni dati, leggere saggi e approfondimenti, per capire che non è degli zingari che dobbiamo aver paura. Ma forse di chi li rinchiude sì…
Eppure ci sono tante azioni, nelle scuole, nelle biblioteche, nelle associazioni, che potrebbero essere messe assieme, potrebbero essere sostenute e incentivate. Messe a sistema, non una contro l’altra ma una per l’altra. Sempre più difficile appare invece creare relazioni su obiettivi comuni e condivisi.
Qui sono stata invitata a scrivere di pratiche che invece possono testimoniare un cambiamento, possono essere spunto per il ribaltamento di stereotipi e la crescita di pensiero. Pratiche alle quali ho contribuito, grazie alle relazioni che attorno a queste si sono create.
A partire dalla nascita di Sinnos – la casa editrice che dirigo – in un carcere, quasi trenta anni fa. Alla fine degli anni ’80, nel Penale di Rebibbia a Roma, un piccolo gruppo di detenuti, italiani e stranieri aveva imparato a impaginare. E voleva costruirsi una possibilità di lavoro, per superare il carcere, per ritornare al mondo, aggiungendo qualcosa. Inutile ricordare qui quanto il lavoro sia elemento fondamentale della nostra repubblica democratica, sia la spina dorsale della nostra Costituzione. Che prevede, con l’art. 27, una pena mirata alla rieducazione. Vi consiglio di leggere su questo Fine pena ora, di Elvio Fassone (Sellerio 2015).
Da quel luogo dimenticato e terribile quale è il carcere, nasce Sinnos, che ha aggiunto qualcosa – come tutti i progetti editoriali che si rispettino – per i giovani lettori.
Ha fatto conoscere loro le storie delle persone che stavano iniziando ad abitare il nostro paese, le loro lingue e le loro tradizioni. Per non generalizzare mai. Per pretendere di comprendere e di scegliere come comportarsi. E oggi continua a farlo, cambiata senz’altro, alla ricerca di letteratura piuttosto che di testimonianza ormai. Ma con un timone ben fermo sulla qualità delle storie, della loro scrittura e delle loro illustrazioni, capaci di portarsi dietro valori e contenuti dai quali eravamo partiti.
I libri hanno questo grande valore: quello di aggiungere senso. Quando sono buoni libri. Trovo importante che persone che stavano saldando il loro conto con la giustizia, abbiano pensato a una casa editrice per ragazzi. Non una casa editrice qualsiasi. E così ho avuto il privilegio di assistere a un bel ribaltamento di stereotipi.
Che i libri possano cambiare molte cose, l’ho vissuto sulla mia pelle. E quando chi, più di ogni altro di noi, ha creduto nel progetto Sinnos e lo ha difeso contro perplessità e scetticismi, se ne è andato, troppo presto, è stato naturale ricordarlo con un progetto legato ai libri.
Dal 2005, ogni anno, Sinnos acquista i migliori libri per ragazzi, li aggiunge al suo catalogo, per fornire di una “Biblioteca di Antonio” una scuola che non abbia accesso ai libri e alla lettura, ma che abbia un progetto ben definito di biblioteca scolastica, che sia lungimirante.
Di luoghi così è piena l’Italia. Non ci sono biblioteche scolastiche. Pochissime biblioteche pubbliche con fondi adeguati. Pochissime librerie indipendenti. Luoghi dove ci sono libraie e librai competenti, capaci di farci conoscere autori che mai avremmo potuto trovare su motori di ricerca, ignorandone nome e opere.
C’è una storia che inevitabilmente doveva intrecciarsi con quella di Sinnos. Quella di Jella Lepman, ebrea tedesca fuggita dalla Germania nazista nel 1938; alla fine della guerra, nel 1945, viene riportata nel suo paese dall’esercito americano con il compito di rieducare donne e bambini. E capisce che solo i libri avrebbero potuto ridare all’infanzia tedesca pensiero e immaginazione. E far sì che quel paese potesse ricostruirsi, rinascere. La storia della Lepman è straordinaria. L’abbiamo tradotta in La strada di Jella. Prima fermata Monaco (Sinnos 2009), e stiamo iniziando a lavorare a una seconda edizione, più ricca di informazioni e speriamo di immagini.
La Lepman non si limita a far nascere la più grande biblioteca internazionale per bambini e ragazzi del mondo, la Jugendbibliothek (www.ijb.de), riconosciuta in tutto il mondo come il più importante centro di studio, di ricerca e di catalogazione della letteratura per l’infanzia, ma fonda IBBY, International Board on Books for Young People (www.ibby.org), in Svizzera, nel 1953. A questo comitato internazionale partecipano 75 paesi nel mondo; la presenza di un paese in IBBY consente anche la possibilità di candidare i propri autori all’Hans Christian Andersen Award , il premio nobel della letteratura e delle illustrazioni per ragazzi. I vincitori italiani per ora sono stati Gianni Rodari e Roberto Innocenti; vi consiglio di dare uno sguardo alle liste e leggere i discorsi di chi lo ha vinto. Vi renderete conto dell’importanza di questo settore dell’editoria.
La sezione italiana di IBBY cura diversi progetti, bibliografie e formazione. E stanno nascendo in questi ultimi mesi comitati locali, che possano sostenere progetti a misura, nella direzione della missione di IBBY.
Tra i progetti più “visibili” vi è senz’altro quello di Lampedusa, avviato nel 2012 che si è articolato attorno a due iniziative: la costituzione di una biblioteca per ragazzi a Lampedusa, dedicata ai bambini e ragazzi che vivono sull’isola e ai giovani ospiti del Centro di Primo Soccorso e Accoglienza e la realizzazione di una selezione internazionale di Silent Book, in collaborazione con la rete IBBY International e il Palazzo delle Esposizioni di Roma.
La creazione di una biblioteca comunale nell’isola ha una valenza altamente simbolica: Lampedusa è il simbolo di tutti i luoghi remoti dove bambine e bambini, ragazze e ragazzi, non hanno accesso a libri e lettura. A Lampedusa, su 6000 abitanti, ci sono oltre 1000 bambine e bambini, ragazze e ragazzi, tutti lampedusani. Hanno accesso alle nuove tecnologie, hanno tablet e smartphone, ma gli unici libri che aveva- no fino all’arrivo dei volontari IBBY, erano quelli scolastici o messi a disposizione dalla scuola. A Lampedusa non ci sono librerie né biblioteche. Ci sono molte sale gioco, in compenso. Il progetto IBBY Italia che si sta realizzando a Lampedusa è un’occasione per portare all’attenzione delle istituzioni e della società civile i bisogni di chi cresce lontano dalla lettura. Obiettivo del progetto è sostenere l’avvio della biblioteca, con la raccolta e donazione di libri, ma anche la formazione delle tante qualificate voci dell’editoria italiana per ragazzi, per promuovere testi di qualità. Alla biblioteca di Lampedusa sono stati donati più di quattrocento titoli personale. La Biblioteca che verrà è il nome dello spazio in via Roma 34, fino a che finalmente non verrà istituita, ed è stata, soprattutto per la popolazione dei più giovani, una scoperta straordinaria. Io stessa ricordo la fila, alle 7.30 della mattina, nel novembre 2013, di bambine e bambini della primaria, in attesa che noi volontari aprissimo la porta perché potessero prendere un libro, e parlarci, prima di entrare a scuola. Prendere un libro, parlarci. All’inizio il prestito era quasi una scusa per avvicinarci, ma poi i libri li hanno iniziati a leggere davvero e sono diventati ponti, motivo di discussione e condivisione. I volontari degli IBBY Camp si fermano sull’isola una settimana l’anno, generalmente in novembre. A un certo punto, i ragazzi più grandi hanno chiesto di essere formati per gestire in autonomia la biblioteca, almeno un paio di giorni a settimana. Ecco il capovolgimento: da che li lasciavamo cupi e silenziosi, traditi da questo nostro passare, senza fermarci, nel giro di un paio di anni bambini e ragazzi lampedusani sono diventati protagonisti dei loro desideri (e della loro biblioteca). Grande potere dei libri e delle relazioni e dei luoghi che permettono alla lettura e alle relazioni di realizzarsi. Attualmente sappiamo che i lavori nella Biblioteca per Ragazzi di via Roma 34 si stanno concludendo. Si tratta ora di capire a chi ne sarà affidata la gestione.
Lampedusa quindi come un laboratorio, che mostra quello che potrebbe accadere se rimuovessimo gli ostacoli alla lettura e ai libri, se facessimo in modo che i bambini e i ragazzi naturalmente inciampassero nei libri e nelle biblioteche: nelle strade dei territori che abitano, nelle scuole.
Lampedusa è l’isola dell’approdo di tanti minori che vi arrivano dopo viaggi terribili. Era questo il primo nucleo del progetto IBBY Italia, che poi si è andato a fondere con la realizzazione di una Biblioteca Ragazzi, dopo aver scoperto quanti fossero i minori lampedusani. Tutta IBBY Internazionale, attraverso la gestione e direzione della sua sezione italiana, voleva accogliere i bambini migranti con i libri. I libri senza parole (Silent Books) affidando il racconto alle sole immagini, riescono ad annullare ogni barriera linguistica e culturale. Libri particolarmente adatti a stimolare e facilitare l’incontro tra bambini di origini diverse e, al tempo stesso, utili per gettare solide basi per l’apprendimento di un vocabolario delle immagini, veicolo privilegiato nel mondo della comunicazione globalizzata.
La selezione bibliografica attualmente è di 120 titoli, provenienti da oltre 20 paesi di 4 continenti, ogni titolo è arrivato in tre copie una delle quali rimane come fondo presso lo Scaffale d’Arte del Palazzo delle Esposizioni di Roma, a disposizione di ricercatori, docenti e appassionati; la seconda copia è necessaria per realizzare una mostra documentaria itinerante, che può circolare a richiesta in Italia e all’estero; la terza arriva alla biblioteca di Lampedusa. La raccolta titoli avviene ogni due anni e si arricchisce quindi naturalmente. I libri senza parole sono stati utilizzati con grande efficacia in particolare nell’ultimo IBBY Camp, del novembre 2016.
Sulla storia e le potenzialità del progetto IBBY – Lampedusa potete leggere I tesori della lettura nell’Isola dell’accoglienza, di Elena Zizioli e Giulia Franci (Sinnos 2017).
 Leggere non è facile, ma quando diventiamo lettori allora possiamo essere in grado di interpretare la complessità della vita, possiamo essere capaci di ribellarci alle ingiustizie e di godere della bellezza delle relazioni. E noi, che siamo il presente del nostro futuro, che abbiamo il dovere di dare alla nostra infanzia tutti gli strumenti per essere consapevoli e un po’ felici, dobbiamo difendere e promuovere per loro il diritto di leggere.

Gli obiettivi di IBBY
Promuovere la cooperazione e la comprensione internazionale attraverso i libri per bambini e ragazzi. I libri offrono ai bambini una più ampia conoscenza delle altre culture, degli altri paesi, delle loro tradizioni e valori. In questo modo possono favorire il confronto positivo tra le nazioni e incoraggiare la pace e la tolleranza.
Difendere la possibilità di accesso a libri di grande qualità artistica e letteraria per i bambini in ogni luogo del mondo. La lettura allena il pensiero critico.
L’analfabetismo non è solo un problema nei paesi in via di sviluppo ma anche, sempre di più, delle nazioni industrializzate.
Stimolare la ricerca e lo studio della letteratura per l’infanzia, la produzione e la promozione dei libri per bambini e ragazzi.
Incoraggiare la pubblicazione e distribuzione di libri di alta qualità artistica, letteraria, grafica, editoriale per bambini e ragazzi, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Nel cuore di IBBY c’è la convinzione che, per diventare un lettore, ogni bambino abbia bisogno di incontrare buoni libri, ricchi di emozioni, interrogativi, dilemmi, esperienze e linguaggi artistici.
Sostenere la formazione professionale e la cultura di chi lavora quotidianamente con i bambini, i ragazzi e la letteratura per l’infanzia.

3.4. La Biblioteca che verrà–Pratica di cittadinanza attiva
Intervista ad Anna Sardone, insegnante Istituto omnicomprensivo Pirandello di Lampedusa e Linosa

Chi sei e di cosa ti occupi?
Non sono di Lampedusa, ma ci vivo ormai stabilmente da diversi anni. Nel 2003 il Provveditorato agli studi di Agrigento mi ci ha mandato per una supplenza annuale e mi sono innamorata dell’isola che, secondo un percorso comune a molti, mi ha conquistata più che nella versione chiassosa e affollata della stagione estiva che conoscevo da turista, per la bellezza della sua realtà invernale. Inoltre ho scoperto ben presto che è un posto che offre molti stimoli, in cui ci si sente veramente di costruire qualcosa. Molto più di quanto avvenga in altri luoghi, anche cittadini, che sembrano offrire maggiori opportunità, ma dove in realtà, forse, si dà tutto per scontato. Mi hanno conquistato, soprattutto, gli studenti che sembrano avere una marcia in più, un valore aggiunto di sensibilità e affetto.
Insegno italiano, storia e geografia (di ruolo dal 2007) presso la scuola secondaria di I grado nell’unico istituto scolastico delle Pelagie. Si tratta infatti di un istituto omnicomprensivo con classi che vanno dalla scuola dell’infanzia alla scuola secon- daria di II grado con i suoi tre indirizzi: alberghiero, turistico, scientifico. Un plesso distaccato si trova nella vicina Linosa. Gli studenti che frequentano la scuola sono circa 1000. È una popolazione giovane quella di Lampedusa, che conta complessivamente circa 6000 abitanti.
Il fatto di essere una delle poche insegnanti stabili mi impone di assumere, all’interno della scuola, anche incarichi di tipo organizzativo. Sono funzione strumentale e mi occupo della costruzione e attuazione del piano dell’offerta formativa: in sintesi, cerco di individuare strategie e obiettivi per il miglioramento delle competenze dei nostri studenti. Tra i progetti scolastici che organizzo o ai quali aderisco, quelli di promozione della lettura sono i principali.

Raccontaci quando e perché hai cominciato a interessarti al progetto della biblioteca.
Il mio primo incontro con IBBY Italia e con i suoi magnifici volontari è avvenuto 5 anni fa quando Deborah Soria mi propose di attivare una collaborazione con la scuola per l’organizzazione di una settimana dedicata alla lettura. Inoltre mi fu illustrato il progetto per l’apertura di una biblioteca per ragazzi, che potesse essere una risorsa per i numerosi giovani lampedusani e per i giovani migranti di passaggio sull’isola. Contagiata dall’entusiasmo di Deborah e delle altre volontarie, ho accettato di lavorare con loro. Così è cominciata quella che, nel corso di questi anni, è diventata una delle manifestazioni più attese dai nostri studenti di tutte le età, grazie anche al totale e convinto appoggio della Dirigente scolastica e del Collegio dei docenti. Nella settimana di novembre che coincide con la celebrazione dell’anniversario della Convenzione dei diritti dei bambini, i volontari di IBBY si recano in tutte le classi dell’istituto e propongono ai ragazzi laboratori e attività incentrate sui libri e sulla lettura. Ho cominciato così, insieme a studenti e colleghi, a conoscere e apprezzare il lavoro dei volontari e le finalità dell’associazione. Anzi io stessa vi ho aderito.
Nel frattempo ha preso corpo il progetto della biblioteca per bambini e bambine. L’unica biblioteca, se escludiamo quella piccola e un po’ datata della scuola. Mi pare importante precisare che sull’isola non esisteva, e non esiste neanche oggi, una libreria. Semplicemente a Lampedusa non si leggeva, né tanto meno era avvertita l’esigenza che ci fosse uno spazio per bambini e ragazzi per attività legate ai libri!
Viene individuato un locale da parte dell’amministrazione comunale e lì i volontari sistemano i libri che hanno provveduto a raccogliere: libri per ragazzi, albi illustrati e i bellissimi Silent Books, libri senza parole. I libri sono selezionati da editori, librai, autori e illustratori tra la migliore produzione per l’infanzia.
Nei primi due anni la “Biblioteca che verrà” – così l’abbiamo chiamata in attesa della sua esistenza definitiva e della ristrutturazione che il Comune promette in tempi brevi – rimane aperta solo in quella settimana di novembre, sede di letture ad alta voce e di laboratori artistici e base logistica dei volontari.

Come hanno reagito i ragazzi dell’isola? E i migranti?
I ragazzi lampedusani si sono avvicinati con interesse e passione e sono diventati essi stessi volontari, partecipando a pieno titolo a tutte le attività. È proprio da un gruppo di studenti del liceo che nasce l’idea di fare funzionare la biblioteca durante tutto il resto dell’anno.
Ancora non c’erano tutti i libri, la sede non era stata ristrutturata, ma non mancava la buona volontà e la fantasia! Davanti a una richiesta così appassionata e pressante, insieme ad alcuni adulti abbiamo deciso di provare. La biblioteca per bambini e ragazzi di Lampedusa, dunque, è aperta ogni mercoledì e ogni sabato, dalla fine di novembre 2014.
Certo non ci aspettavamo i risultati che abbiamo ottenuto; soprattutto non immaginavamo tanta disinvoltura da parte dei bambini nell’accostarsi a qualcosa di total- mente nuovo per loro. Già dal primo periodo di apertura, la presenza di ragazzi venuti a fare la tessera e a prendere libri in prestito è stata massiccia. Il gruppo di volontari ha avuto da subito il suo bel da fare e, con entusiasmo e positività, non si è certo tirato indietro: letture per i più piccoli, consigli ai più grandi, dei veri bibliotecari! Gli adulti (sempre pessimisti) pensavano: “è l’entusiasmo dei primi giorni, poi ci sarà un calo”. Nelle settimane successive il calo non c’è stato, anzi, sono aumentati i tesserati, i prestiti, i volontari, le maestre con i loro alunni, i genitori che accompagnano i loro bimbi e trascorrono i pomeriggi in biblioteca, anche adesso che ci siamo spostati in un locale alternativo in attesa della fine dei lavori di ristrutturazione. Non abbiamo mai saltato un giorno di apertura: nonostante gli impegni professionali o familiari dei volontari adulti, è stata garantita sempre la presenza di qualcuno e l’efficienza del servizio. Abbiamo cominciato a organizzare piccoli laboratori artistici e letture animate per gruppi di bambini. La biblioteca è diventata il loro spazio, dove entrano con spontaneità e naturalezza, dove leggono, ascoltano, giocano, disegnano, inventano… e crescono!
Capita (non spessissimo, ma qualche volta) che si fermino i ragazzi ospiti del centro di accoglienza e che chiedano di poter leggere qualcosa. I nostri volontari scelgono con loro libri in francese, in inglese, in arabo o… senza parole. Li leggono insieme, traducono in italiano, loro ricambiano insegnando qualche parola nella loro lingua. Tutto avviene con naturalezza e allegria. Impossibile organizzare qualcosa di più strutturato: la maggior parte delle volte sono passaggi veloci quelli dei migranti a Lampedusa.
La particolarità e la forza della biblioteca è che a gestirla sono loro, i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze di Lampedusa. Noi adulti li aiutiamo, ma i veri protagonisti sono loro. Come lettori sono diventati ogni giorno più esigenti: fanno richieste precise secondo i loro interessi. Oggi i tesserati sono più di 700, i prestiti circa 1900. Un vero successo, per un’isola dove non si leggeva!

Quali sono le prospettive per il prossimo futuro?
Non sappiamo bene cosa succederà nel futuro. Siamo in attesa che l’amministrazione comunale completi l’iter burocratico per l’attribuzione del servizio. Forse non sarà IBBY a gestire la biblioteca. Quello che tutti ci auguriamo è che non si perda un’esperienza importante e forse unica nel suo genere. Una pratica di cittadinanza attiva che coinvolge i giovani lampedusani e che arricchisce tutta la comunità.

3.5. Le parole giuste della Biblioteca della Legalità
di Michele Altomeni, presidente Fattoria della Legalità

“La mafia non esiste!”. Per decenni lo hanno detto i mafiosi, lo hanno ripetuto i politici loro amici e lo hanno confermato giornalisti distratti. Dovette morire Pio La Torre perché fosse approvata la sua proposta di legge in cui era scritto chiaro e tondo che la mafia esiste. E c’è scritto anche, in quella legge, che lo Stato, ai mafiosi, confisca i patrimoni.
E furono altre tragedie, la morte dei giudici Falcone, Borsellino e Morvillo e delle loro scorte, a convincere il Parlamento, sollecitato da un milione di firme raccolte dall’associazione Libera, a portare alcuni miglioramenti a quella legge, affermando che i beni dei mafiosi, oltre a essere confiscati, debbono essere riutilizzati con finalità sociali.
Ne sono passati di anni, eppure, non molto tempo fa, abbiamo dovuto sentire l’allora presidente della Regione Lombardia affermare che sì, la mafia esiste, ma non al Nord, è roba di siciliani, calabresi, campani…
Proprio nella ricca e laboriosa Lombardia, tra Erba, Lecco e Como, gomito a gomito con la ’Ndrangheta, checché ne dica l’allora presidente, operava una mafia locale seminando violenza per raccogliere ricchezze. Finché non li hanno beccati. A quel punto però il boss e la sua famiglia si erano trasferiti in campagna, nelle ridenti colline marchigiane, a Isola del Piano, un paesino di 600 anime. E, neanche a dirlo, nemmeno nelle Marche la mafia esiste.
Il casolare, come previsto dalla legge promossa da Libera, è stato assegnato al Comune, e da questi a un’associazione di volontariato che l’ha trasformata nella “Fattoria della Legalità”. Ma non ci sono animali, almeno per ora, non si coltiva la terra, per adesso. Si piantano idee, si semina cultura, si allevano speranze. È una casa dell’antimafia sociale, l’antimafia che nasce dal basso, dalla gente comune. Qui vengono ogni anno decine di classi di scuole di ogni ordine e grado, a sentirsi dire che la mafia in realtà esiste, ma ognuno può fare qualcosa per farla esistere di meno. E durante l’estate si organizzano campi di lavoro e di studio. E feste. La Fattoria è una stella. Puoi anche non andarci mai. Ma sai che c’è, e tanto basta a sentirti parte di una famiglia. Così ogni tanto arriva qualcuno con un’idea in tasca e pian piano quell’idea prende vita. Attira altre persone che cominciano a coltivarla.
E così è nata anche la Biblioteca della Legalità. Fin dall’inizio una storia alla rovescia. Sì, perché alla Fattoria un giorno è arrivata una grande libreria, dono della CGIL e di un mobiliere. Una libreria vuota, se la guardi, è come un bimbo affamato. Ti stringe il cuore e senti subito il bisogno di nutrirlo. E così, Elisabetta e Valeria, magistrati dell’ANM di Pesaro, hanno proposto di riempirla di libri per ragazzi. Abbiamo chiamato altri amici che di libri se ne intendono: IBBY Italia, il Forum del Libro, l’Associazione Italiana Biblioteche, l’ISIA di Urbino, editori, scrittori e appassionati lettori.
Il “manifesto” che ha unito tutti questi soggetti dice che “il progetto vuole diffondere la cultura della legalità, della responsabilità e della giustizia tra le giovani generazioni, attraverso la promozione della lettura, nella convinzione che le storie abbiano un ruolo fondamentale nella comprensione della realtà e siano strumenti utili anche per promuovere questi valori al fine di costruire un immaginario condiviso all’interno del quale il principio di vivere nella legalità acquista una centralità fondamentale”.
Da questo paiolo magico è nata una prima bibliografia di 101 titoli, dai libri illustrati per bambini più piccoli ai romanzi per i più grandicelli, ma anche fumetti, saggi e storie vere.
Quando i libri sono arrivati abbiamo capito subito che quel tesoro di parole non potevamo lasciarlo sugli scaffali in attesa che qualcuno venisse a sfogliarlo. E allora le abbiamo dato un nome. Bill, che sta per Biblioteca della Legalità, ma con una L in più per Libera, che non è solo un richiamo all’associazione di don Ciotti a cui ci sentiamo legati, ma anche al fatto che pur avendo nella Fattoria la sua casa, per lo più viaggia e incontra persone. Soprattutto bambini, alunni di scuole elementari e medie che durante l’anno scolastico decidono di ospitarla per un periodo ed entrare in quelle storie per tirarne fuori ciascuno i pensieri e i sogni che vuole.
Bill è di quelle creature ribelli che vogliono subito imparare a camminare con le proprie gambe e ampliare gli orizzonti. Così come le sono subito parsi stretti gli scaffali e le pareti della Fattoria della Legalità, ha ben presto alzato lo sguardo oltre le colline e i fiumi della provincia di Pesaro e Urbino. Ha allargato la famiglia trovando altre reti di persone, enti e associazioni pronte ad accoglierla e darle nuove case e strade da percorrere. Ed ora Bill è un’idea che si sta diffondendo in tutta Italia. Ne sono già nate ad Ancona, Padova e Alessandria. Ne stanno nascendo a Roma, Sabaudia, Piandimeleto, San Benedetto del Tronto… e a noi della Fattoria è già chiaro che nessuno potrà più fermarla.
È libera di andare dove vuole la nostra Bill, nasce per questo, per viaggiare e portare a spasso le sue storie. Però la sua forza è la rete, l’unione di tante idee e mani. Per questo ci siamo dati strumenti e occasioni per non perderci mai di vista e raccontarci sempre i paesaggi attraversati.
Per esempio, all’inizio di ogni anno scolastico organizziamo un incontro. Lo chiamiamo “Corso di formazione”, ma questo nome non rende l’idea del vortice di emozioni e di belle relazioni che ogni volta si creano. Vi partecipano gli insegnanti che vogliono ospitare la Bill, ma anche i referenti delle varie reti nate o nascenti in giro per l’Italia. A fine anno festeggiamo il ritorno a casa di Bill organizzando una giornata di giochi e creatività alla Fattoria con le scolaresche che hanno ospitato i libri. Sul sito e sulla pagina Facebook lasciamo traccia delle varie avventure.
Nel frattempo Bill è cresciuta. La bibliografia è passata da 101 a 202 libri. Anzi, a dire il vero sono 203, perché proprio in questi giorni è andata in stampa un’antologia interamente dedicata a lei.
La storia continua ma, piuttosto che scriverla, invitiamo te che hai appena letto questo articolo ad aggiungerne un pezzo facendo nascere anche vicino a te una Bill.

Per saperne di più:
Facebook: biblioteca della legalità info@bibliotecadellalegalita.it

Un’antologia dedicata a Bill
Parole, figure, libri per narrare ai ragazzi responsabilità, diritto, giustizia, dignità
I libri di una speciale biblioteca che vuole diffondere la cultura della legalità tra le giovani generazioni, attraverso la promozione della lettura, sono i protagonisti di Bill Biblioteca della Legalità.
Parole, figure, libri per narrare ai ragazzi responsabilità, diritto, giustizia, dignità, un libro, una antologia che offre una polifonia di voci, di parole e immagini, che intreccia scritture.
Storie firmate da magistrati, da scrittori, da editori, da figure diverse della società civile che, pagina dopo pagina, dichiarano lo spirito libero di Bill mentre IBBY Italia, in accordo con il Gruppo Bill, cura la regia del tutto. Intesse i fili, attesta l’esistenza di una comunità in un indice che accompagna il lettore nella lettura, offrendo parti- colari stazioni di posta in cui fermarsi a riflettere, a pensare, a sognare.
Bill è una pubblicazione che dichiara l’importanza della circolazione delle storie, delle narrazioni che si trasmettono da una persona a un’altra, che circolano come circolano i libri, passando di mano in mano.
Si propagano le idee, prendono forma i pensieri.
Un’antologia per tutti, grandi e piccoli assieme, dentro e fuori dalla scuola, dalla biblioteca, dalla famiglia, dalle aule di giustizia e in molti altri luoghi ancora, perché le storie qui contenute possano raccontare altre storie in un processo germinativo che vede le sue radici in parole importanti quali libertà, diritto, bellezza.
Silvana Sola Presidente IBBY Italia

Bill biblioteca della legalità Parole, figure, libri per narrare ai ragazzi responsabili- tà diritto, giustizia, dignità, Bologna, Giannino Stoppani, 2017.

3.6. Biblioteca Collina della Pace–Un mondo di opportunità per una vita migliore
 di Paola Tinchitella, bibliotecaria

Inaugurata il 23 aprile 2016 da Biblioteche di Roma, la Biblioteca Collina della Pace si erge sulla cima di una collina, per anni abbrutita da un ecomostro e dimenticata dal mondo, quale icona del bene che vince sul male, della legalità che schiaccia l’illegalità, della forza benefica data dall’unione dei cittadini e delle istituzioni per raggiungere un obiettivo comune e condiviso.
Una biblioteca e un centro di aggregazione per sottolineare, proprio in questi spazi comuni, il segnale forte di ciò che si può ottenere da un bene confiscato alle mafie, grazie all’impegno di ogni cittadino singolo o associato. La sua partenza è da ricercare in un legittimo desiderio di riqualificare la Borgata, il suo successo nella scelta di intraprendere il percorso attraverso la promozione e diffusione della cultura, con particolare attenzione alla diversità, all’intercultura, all’inclusione, al sociale. Uno strumento nelle mani di adulti responsabili che operano per seminare e far crescere nei ragazzi la cultura della legalità, la cura dell’ambiente circostante, l’attenzione verso i deboli e gli indifesi, l’inclusione di ogni soggetto a tutti i livelli.
I bibliotecari non si sono trovati soli nell’ideare e progettare attività e servizi destinati al territorio, attività e servizi che avevano come strumento centrale la promozione del libro. Grazie alla rete territoriale attivissima, preesistente alla nostra apertura, si sono potuti definire – in un anno di vita della Biblioteca – molteplici progetti che hanno coinvolto scuole, singoli cittadini, piccole e grandi associazioni che da sempre perseguono azioni di sostegno alla cultura della legalità in senso lato, della difesa delle minoranze, della prevenzione e del supporto all’ambiente e alla salute collettiva. In poche parole l’obiettivo è il bene comune!
Per la settimana di festa, dedicata all’apertura nell’aprile del 2016, non a caso è stato coniato il titolo Un mondo di opportunità per una vita migliore, pieno di promesse per questa estrema periferia che nasconde substrati di povertà assoluta affiancati da un grande bisogno di riscatto. Le attività che si sono alternate da mattina a sera hanno affrontato, in maniera ludica o laboratoriale per i più piccoli e sotto forma di incontri di formazione, laboratori e conferenze per gli adulti, i temi di legalità, beni confiscati, diritti umani, ambiente, che sono stati di orientamento anche per tutte le attività progettate in seguito, in un continuo confronto con insegnanti, ragazzi e genitori, associazioni, enti pubblici e privati.
Proprio nell’ottica dell’attenzione ai territori di confine e al disagio connesso a questa condizione, la Presidenza del Consiglio ha voluto che il Protocollo d’intesa e dei meccanismi di gestione del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile fosse presentato a Collina della Pace.
Questa realtà così attesa e oggi molto amata è una promessa mantenuta per i 3000 studenti che la popolano e, se analizziamo i tanti progetti messi in campo in questo primo anno, quello che sicuramente ha fatto la differenza nell’educazione e nella crescita di valori indiscussi per una società civile è stato mettere al centro il confronto e il rispetto reciproco, guardando al passato per migliorare il presente e garantire a tutti un futuro dignitoso. Tutti, ragazzi e adulti, sono stati maestri e alunni, dedicando anche parte del loro tempo libero per lavorare gomito a gomito a progetti comuni.
Tra i tanti, ricordiamo due progetti che hanno coinvolto gli Istituti comprensivi del VI Municipio di Roma: Ribelli della montagna con proiezioni dedicate, mostre e vetrine, incontri con gli ultimi partigiani ancora viventi e gli enti che ne custodiscono la memoria, e Leggo di te, leggo di me, partito nella giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne che ha trovato nell’inclusione del maschile e femminile il leitmotiv per prevenire la violenza, dichiarando chi siamo e cosa proviamo senza preoccuparci di sentirci fragili, maschi e femmine, anziani e bambini. Anche questo è un passo verso giustizia e legalità per imparare a distinguere tra male e bene, scegliere senza compromessi, riconoscere gli abusi e i soprusi, rifuggire l’ambiguità di una relazione malata che non rende felici e tantomeno liberi.
Tanti incontri e la scoperta della necessità di aprire all’interno della Biblioteca lo Sportello d’Ascolto Collina della Pace: una risposta al bisogno di sentirsi accolti senza condizioni, pregiudizi.
È stato dedicato spazio anche alle mamme in attesa e ai piccolissimi, con tante letture animate nell’ambito del progetto nazionale Nati per Leggere.
Abbiamo poi dedicato la Mediateca un giorno a settimana all’alfabetizzazione infor- matica di soggetti con disabilità cognitive medio-gravi coinvolgendo, in veste di tutor, anche gli studenti dell’Alternanza Scuola Lavoro. Anche questi sono passi importanti verso l’integrazione e la cooperazione per una società equilibrata nella condivisione del patrimonio culturale e del bene comune.
La cultura della legalità è da sempre la ragione d’essere di questa nostra realtà e del territorio che la circonda, il parco antistante la Biblioteca è stato intitolato a Peppino Impastato, giornalista e attivista ucciso dalla mafia, il cui ricordo è particolarmente caro agli studenti e alle associazioni di Quartiere. Fin dall’inizio, molte delle attività con i ragazzi sono state dedicate a questo filone, fra queste una maratona di lettura sul libro di Alessandro D’Avenia Ciò che inferno non è che ha visto utenti di tutte le età avvicendarsi alla lettura in sequenza delle pagine dedicate a Don Pino Puglisi.
Tutte azioni che trovano faro e guida in questa grande voglia di abbattere muri lasciando che la legalità innondi le nostre piccole e grandi scelte, facendo sì che lealtà e giustizia crescano insieme ai nostri figli e camminino con loro. Ogni persona entrata in Biblioteca dal 23 aprile ad oggi aveva negli occhi questo bisogno di partecipare al cambio di rotta, di rendersene protagonista. Lo stesso sguardo era nei nostri occhi di bibliotecari quando Silvana Sola e Della Passarelli, incontrando la nostra realtà l’hanno riconosciuta degna di essere una Bill – Biblioteca della Legalità per Roma e Lazio.
Ora tutti, bibliotecari, associazioni, studenti, insegnanti, cittadini attendiamo trepidanti la Biblioteca della Legalità a Collina della Pace, prevista per settembre 2017. Siamo tutti pronti a fare la nostra parte e a dare il nostro prezioso contributo. Anche questa sarà una bella sfida e ci vedrà coesi nel raggiungimento del bene comune. Avere cura delle periferie, delle aree e dei soggetti svantaggiati resta il nostro primo obiettivo e riconosciamo in Bill la prima prevenzione per la salute culturale e sociale delle generazioni future: liberi di leggere, liberi di scegliere.

3.7. Libri Sotto Casa, libreria itinerante in bicicletta
Intervista a Luca Ambrogio Santini, libraio

Raccontaci chi sei, cosa facevi e come ti è venuta in mente l’idea di una libreria viaggiante.
Diciassette anni fa, all’alba dei miei quarant’anni, decisi di cambiare decisamente vita. Oltre a sposarmi e diventare padre, ho scelto di lasciare il lavoro fisso per diventare imprenditore di me stesso trasformando in attività lavorativa due mie passioni: i libri e i dischi. Ho aperto una libreria in un quartiere di Milano che non ne aveva più alcuna, davanti al neonato Teatro Auditorium, casa dell’Orchestra Sinfonica Giuseppe Verdi. Vendevo anche cd, avevo 45 metri quadri, un microstore di quartiere (era l’epoca in cui stavano aprendo ovunque enormi megastore).
Dopo tredici anni e diversi tentativi per salvarla ho dovuto cedere alla crisi economica e alla crisi di lettura e ho chiuso. Non volevo perdere tutti quegli anni di esperienza, lavoro e contatti con il territorio e volevo continuare a fare questo bellissimo mestiere senza i costi fissi a cui un negozio costringe. Ho scoperto il “commercio itinerante”, solitamente utilizzato dai caldarrostai o dai venditori di fiori agli angoli delle strade e l’ho unito a un’altra mia passione: la bicicletta. Così ho inventato la prima libreria itinerante a pedali, LibriSottoCasa, che da poco più di un anno è dotata anche di una rossa fiammante cargo bike chiamata Libretta, la libreria in bicicletta.

Cosa è di preciso “LibriSottoCasa”? Come sono organizzate le tue giornate? Dove trovi i clienti?
LibriSottoCasa è un tentativo di mantenere umano il rapporto tra libraio e lettore in questo periodo storico, caratterizzato dall’enorme successo delle vendite online. I miei clienti ordinano i libri via telefono, e-mail o incontrandomi per strada, ed io nel più breve tempo possibile provvedo al reperimento e alla consegna a casa o appunto sotto casa, cioè in una serie di negozi di vicinato che mi aiutano in questo. Tutti i giorni quindi vado dai grossisti per ritirare i libri ordinati e posso così vedere di persona tutte le uscite e le novità delle maggiori case editrici. Questo è molto utile per continuare a dare anche consulenza e consiglio: la parte più bella ed emozionate del mio lavoro. Posso creare una mia proposta tra le novità in uscita che porto sulla mia Libretta agli angoli delle strade del mio quartiere o molto più spesso a eventi della mia zona: presentazioni, incontri culturali, mostre, concerti, mercati, feste di piazza.
Un altro aspetto positivo importante che ha portato questo cambiamento, oltre all’abbattimento delle spese fisse, è il non avere più orari rigidi. Posso amministrare i tempi della mia giornata in maniera molto più libera e quindi trovare più spazio da dedicare alla mia famiglia.
La maggior parte dei clienti me li porto dietro dall’esperienza della vecchia Libreria Largo Mahler, ma molti sono anche nuovi, probabilmente affascinati da questo modo diverso di ricevere i libri direttamente da un libraio con cui poter anche scambiare pareri e impressioni sui libri e non solo. Rinunciano per questo anche agli sconti importanti che la concorrenza online può proporre.

Quali sono le tipologie di libri che ti vengono più richiesti?
Non ci sono generi più richiesti, anche perché le quantità di venduto non sono altissime (rispetto a quando avevo il negozio ovviamente le vendite sono molto diminuite). Diverso è ciò che vendo sulla mia libreria ambulante: lì propongo molti libri per bambini e narrativa, più una piccola specializzazione sui libri che trattano di mobilità dolce, o meglio di urban bike, tutto ciò che concerne il muoversi in bicicletta in città. Inoltre tendo sempre a proporre piccolissimi editori, con cui ovviamente esiste un’affinità.

Ti occupi anche di libri per ragazzi?
Certamente sì. Da quando ho incominciato a fare il libraio ho tessuto una serie di rapporti importanti con le scuole del quartiere. In molte di esse organizzo settimane del libro in cui per diversi giorni una libreria si sposta a scuola, i bambini per una volta possono scegliere i libri che preferiscono e hanno anche l’occasione di incontrare scrittori e illustratori. Mi piace molto il mondo dell’editoria per ragazzi, che è anche uno dei settori meno in crisi in assoluto.

Raccontaci qualche episodio particolare (la richiesta più strana, il luogo di consegna più lontano e/o più “lontano” dall’idea di lettura…)
Non mi vengono in mente episodi da segnalare, diciamo però che la caratteristica della mia attività, ma lo è in generale per i librai indipendenti, è quella di non arrendersi davanti ai difetti del mercato e tentare sempre di soddisfare il cliente, anche nei casi più difficili. Magari bisogna ordinare un libro da pochi euro a una piccolissima casa editrice in Sicilia e le spese di spedizione superano il margine di guadagno della libreria. Ma lo si fa perché il nostro è un servizio. Vedere la soddisfazione di una persona che si è riusciti ad accontentare nonostante sapesse della difficoltà di reperimento del libro è impagabile.
A casa degli anziani mi capitano le scene più emozionanti: c’è chi mi offre un caffè, chi un bicchierino, tutti mi fermano per chiacchierare un po’.
Spesso mi capita di consegnare libri presso uffici o imprese le più diverse. Oltrepassare certe cancellate di multinazionali con la mia biciclettina, per di più per consegnare dei libri, oggetti anomali lì dentro, è certo un’esperienza strana, diversa. Vengo a conoscere mondi a me molto lontani, ma spesso persone interessantissime.

È ancora necessario documentare, raccogliere e creare luoghi (intendendo con luoghi anche un’esperienza come la tua) in cui il libro sia al centro e diventi strumento oltre che di conoscenza anche di relazioni e superamento delle differenze? Cosa ne pensi? Il libro, secondo la tua specifica esperienza, è ancora un ponte, come diceva Jella Lepman, per immaginare un futuro nuovo?
Il libro è un oggetto che può aiutare a soddisfare i bisogni delle persone, esattamente come del buon pane di un capace fornaio o i giusti chiodi di un esperto ferramenta, ma il libraio, come il bibliotecario, ha un ruolo diverso, non soddisfa solo quel bisogno del cliente, gliene propone di altri, gli propone “il mondo”. Attraverso la lettura si arriva dappertutto, si viaggia nel tempo, nello spazio, ma soprattutto dentro se stessi.
Ci sono sempre meno librerie, meno edicole e meno biblioteche, ma l’uomo non ha mai letto tanto come in questo periodo. Solo che non legge libri ma legge su supporti elettronici, si informa sui social network e lì interviene su tutto come non si è mai fatto nei tempi passati. Ma questa è una cultura spezzettata, e la scuola ci mette del suo: noto che i giovani di oggi non sempre hanno il senso del tempo e dello spazio.
Dobbiamo aiutare le persone a tornare al libro, che sia cartaceo o digitale, perché è un’esperienza che non ha eguali.
Quindi è importantissimo il ruolo del libraio indipendente che deve essere da sprone ai lettori e tra gli indipendenti quella manciata di itineranti (in Italia siamo sei o sette) che portano i libri alla gente, che li fanno uscire dai luoghi accademici.

3.8. La Grande Fabbrica delle Parole–Parole per tutti, nessuno escluso
di Francesca Frediani, responsabile de La Grande Fabbrica delle Parole

I muri sono il contrario dei ponti. Impediscono di guardare al di là. Non si possono attraversare. Rendono quello che c’è dall’altra parte inaccessibile.
Alcuni bambini davanti alla parola scritta, ai libri, ai luoghi della cultura trovano dei muri. Invisibili, ma ugualmente inesorabili.
Sara è ipovedente. Prende un libro, lo avvicina agli occhi e lo rimette sullo scaffale scuotendo la testa.
Xiao è arrivato in Italia da poco. Ha nove anni, e non sa scrivere né in italiano né nella sua lingua di origine. Non parla: sta chiuso in un silenzio che è allo stesso tempo un riparo e una prigione.
Davide disegna molto bene. Quando gli suggerisco di andare alla pinacoteca di Brera, per copiare i disegni dei grandi artisti e imparare da loro, mi risponde che lui a Brera non ci può andare. Lo caccerebbero fuori, dice, perché non è posto per lui.
Sara e Xiao li ho incontrati a La Grande Fabbrica delle Parole, il laboratorio di scrittura di Insieme nelle Terre di mezzo Onlus di cui sono responsabile, che si occupa soprattutto di bambini e ragazzi a rischio di marginalizzazione culturale. Davide è il motivo per cui faccio questo mestiere. L’ho conosciuto anni fa in una scuola forte- mente “di frontiera” dell’hinterland milanese e le sue parole non le ho mai digerite. Mi ha fatto capire quanto siano reali ed efficaci le pareti invisibili che impediscono l’accesso ai luoghi della cultura.
La Grande Fabbrica delle Parole non è solo un laboratorio di scrittura, in cui imparare a conoscere i libri mettendosi in gioco in prima persona. È soprattutto un incessante lavoro di smantellamento di barriere. Ha sede a Milano e lavora principalmente con i bambini e i ragazzi delle scuole primarie e secondarie di primo grado.
Per raggiungere le scuole con gli alunni più a rischio e non creare disparità di accesso i suoi laboratori sono gratuiti.
Dal 2009 a oggi più di 7000 bambini e ragazzi hanno partecipato gratuitamente ai nostri laboratori, grazie anche alla qualificata e appassionata presenza dei nostri tutor-volontari.
La metodologia riprende il modello di 826 Valencia, scuola di scrittura non profit creata dallo scrittore Dave Eggers e dall’educatrice Ninive Calegari a San Francisco. Siamo stati i primi, nel 2009, a portare questo modello in Italia, e l’abbiamo integrato con l’eccellenza italiana (Rodari, Munari, Lodi, Montessori). Abbiamo lavorato e lavoriamo perché ogni attività sia totalmente inclusiva, accessibile e fruibile con soddisfazione da qualsiasi livello di competenza linguistica e cognitiva.
Sono tante le attività di scrittura, e ogni anno ci arricchiamo di belle ed eclettiche collaborazioni (dal rapper Dydo Huga Flame al Museo degli strumenti musicali antichi del Castello Sforzesco, dal Museo del Novecento ai Cracking Art, da Accaparlante e il Pio Istituto dei Sordi a Dave Eggers).
Al laboratorio i bambini trovano insieme le parole per raccontare la propria storia, si danno il permesso di sbagliare – perché gli errori raccontano di strade nuove che hanno provato a percorrere, invece di accontentarsi di quelle già segnate –, fanno esercizio del diritto all’espressione, sancito dalla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.
Insomma, vivono la cultura nel suo significato più profondo, quello di territorio di ascolto reciproco, di arricchimento di senso, in cui ogni singola storia conta perché unica.
Quello che facciamo noi adulti è semplicemente rimuovere gli ostacoli che si frappongono tra i bambini e la gioia di raccontarsi con la propria voce autentica. Alcune volte si tratta solo di sedersi alla loro altezza, invece di “troneggiare” dall’alto, per eliminare una distanza che alcuni di loro traducono in aspettative a cui conformarsi. In altri casi la sfida è più difficile. Per ogni bambino bisogna trovare la parola giusta, o il silenzio giusto che lo faccia sentire accolto.
Altre volte bisogna individuare, ad esempio, l’ausilio tecnologico che aiuti Sara a ingrandire le pagine del libro che ha preso in mano, in modo che possa leggerlo per davvero e non debba rimetterlo sullo scaffale.
Abbattere muri.
Ne vale la pena, perché i bambini ci riportano ogni giorno non solo al senso autentico della scrittura, ma anche al senso autentico delle cose.
Per questo voglio concludere con i versi di un grande poeta, che ha appena imparato ad allacciarsi le scarpe:

“Io sono
l’odore dell’acqua
e il rumore del cielo”.
Omi, 9 anni

Per saperne di più: www.grandefabbricadelleparole.it

3.9. Storie per tutti
di Belén Sotelo Fernández, educatrice

La genesi del progetto
Qualche tempo fa ero immersa nella lettura di un libro che evidenziava, sulla base di svariate ricerche, come “i bambini con disabilità della comunicazione siano esposti meno dei coetanei sia al linguaggio orale che alla narrazione orale e alla lettura ad alta voce […] i bambini con disabilità e complessi bisogni comunicativi sono quelli che avrebbero più vantaggi dall’essere esposti alla lettura ad alta voce non prestazionale, anche molto precocemente, e che hanno più bisogno del ‘su misura’ e che spesso sono invece quelli a cui meno si legge, più tardi, e per i quali non si trovano mai libri adatti”.
Interessata da tempo alla accessibilità dei libri per l’infanzia, ora mi trovavo a interrogarmi sull’accessibilità alle letture ad alta voce, come diverse facce della stessa moneta.
Spesso nelle biblioteche ci sono iniziative di letture ad alta voce, talvolta in diverse lingue, letture tematiche per la ricorrenza di eventi, oppure eseguite con diverse modalità di “messa in scena”; ma queste letture, quanto o in che modo sono pensate per essere fruibili da bambini con disabilità? Qual è l’offerta culturale pensata per questi bambini, sia in termini quantitativi che qualitativi? I dati delle ricerche che parlano di bambini con bisogni comunicativi complessi, possono essere estendibili anche ai bambini con altri bisogni speciali?
È così che nel 2016 ha preso vita “Storie per tutti”, un progetto di letture ad alta voce accessibili, per bambini tra i 3 e gli 8 anni. Dopo una prima edizione sperimentale molto positiva di 3 appuntamenti è stata realizzata una seconda edizione con 20 ap- puntamenti itineranti per Bologna e comuni limitrofi (nonché appuntamenti straor- dinari, come ad esempio alla Fiera Bookcity di Milano).

Perché “Storie per tutti”?
Crediamo che l’accesso alla cultura e all’arte in tutte le sue forme sia un diritto di tutti e che esse debbano essere pensate prendendo in considerazione le diverse abilità. E così Storie per tutti nasce con l’intento di offrire ai bambini un’occasione inclusiva rendendo lo spazio/tempo del racconto un momento piacevole e fruibile da tutti, anche per chi non accede al libro e alla lettura in modo convenzionale. A tal fine vengono diversificati le modalità e gli strumenti comunicativi per rendere la lettura accessibile e coinvolgente con strategie di comprovata efficacia.
Riteniamo che le letture ad alta voce siano importantissime per qualsiasi bambino durante la prima infanzia per tutte le valenze che esse assumono, legate a modelli di comunicazione positivi e affettivi. Secondo Laura Anfuso, studiosa di letteratura per l’infanzia: “Leggere ad alta voce ai bambini è importante perché sollecita il loro desiderio di esplorazione e di scoperta, sviluppa la costruzione autonoma di un’immagine del mondo e di se stessi, favorisce la conoscenza di qualcosa di cui non sapevano di aver bisogno, nutre la capacità di dare un nome ai sentimenti, consente l’espressione libera e consapevole delle emozioni, nutre il bisogno di silenzio, di ascolto, di accoglienza reciproca, di un confronto aperto con gli altri”.
Questo progetto vuole essere un modo per dare una risposta alla mancanza di accessibilità alle letture ad alta voce e vuole promuovere l’accessibilità come fondamento della civiltà e della cittadinanza. In più vuole favorire una visione del ruolo sociale della persona disabile come cittadino attivo e favorire la sua partecipazione alla vita quotidiana della comunità.
Ci sembra importante poter offrire, soprattutto alle famiglie con bambini con disabilità, altri contesti dove poter vivere esperienze piacevoli durante il tempo libero, essendo spesso le esperienze di questi bambini, al di là della propria casa o la scuola, abbastanza limitate.

 Ecco qui le parole di Emma, la mamma di un bambino che ha partecipato alle letture:
“Sono la mamma di un bambino con autismo di 6 anni, di nome Vittorio. I giorni più complicati sono per noi il sabato e la domenica, quindi cerchiamo sempre nuovi contesti e nuove situazioni per poter arricchire queste giornate per mio figlio. Vittorio inizialmente è stato accompagnato per questo percorso dalla nonna. Già dal primo incontro la nonna mi riferisce di un ambiente molto sereno, rilassato, adeguato ai tempi di attenzione di suo nipote, dichiarando tanta gioia nel vederlo molto interessato. Le letture successive sono risultate ancora più coinvolgenti. È ormai diventata una piacevole abitudine mia e di mio figlio seguire Storie per tutti. Sono rimasta affascinata dalla loro presentazione sulle intenzioni del percorso: ritenere che l’arte e la lettura siano diritti per tutti. Posso affermare che con questo percorso ciò è stato ampiamente garantito a mio figlio. Penso che vi siano tante esperienze di lettura con i bambini, ma in Storie per tutti ho notato la volontà, la competenza, la formazione per saper narrare anche ai bambini con fragilità. È una gioia immensa vedere tutta l’attenzione e l’interesse che ha mio figlio nel seguire le Storie”.

“Storie per tutti”… dove?
La volontà di portare questo progetto in luoghi pubblici e di coinvolgere individui svantaggiati e non risponde al desiderio di fare di questo momento un tempo prezioso di incontro, di socializzazione, di coesione della comunità agendo anche come opera di integrazione culturale e intergenerazionale e di sensibilizzazione empatica verso la diversità, cioè di legittimazione di rappresentazioni diverse.
Così, attraverso i nostri appuntamenti itineranti, le Storie sono arrivate a diverse biblioteche, spazi lettura, ma anche a luoghi più inusuali come parchi pubblici, ReMida Terre d’Acqua (centro di riuso creativo dei materiali di scarto aziendale) oppure al Galaxy, struttura per l’accoglienza di famiglie con problematiche abitative in cui abitano un gran numero di famiglie migranti e dove probabilmente il bisogno di occasioni come questa è molto grande ma le opportunità quotidiane molto minori.

Quali letture? Cosa significa “su misura”?
Per le storie ad alta voce utilizziamo 3 modalità diverse per cercare di renderle al più possibile “su misura”:

  • Letture in simboli: il testo viene convertito in simboli utilizzando i simboli WLS (Widgit Literacy Symbols), utilizzati nell’ambito della Comunicazione Aumentativa e Alternativa
  • LIS (Lingua dei Segni Italiana): le letture vengono accompagnate dalla traduzione simultanea in LIS
  • Narrazioni polisensoriali: le letture vengono rappresentate sui diversi piani sensoriali offrendo ai bambini sollecitazioni tattili, uditive e olfattive.

Per “mettere in scena” le letture, utilizziamo svariate tecniche rappresentative tra le quali proiezioni, ombre, kamishibai, illustrazioni dal vivo. Alcune letture sono anche accompagnate con musica dal vivo.
Ecco i pensieri di Giulio un bambino che ha partecipato alla narrazione polisensoriale:
“Io sbirciavo un po’ perché se no con quei occhiali rimanevo cieco! Mi piaceva tanto l’acqua e la sabbia, mi ricordava il mare! Mi sono divertito un sacco ma poi non mi piaceva quando c’era la pioggia perché mi bagnavo i capelli e poi a casa mi devo asciugare con il phon. Poi meno male che il vento non era forte, se no volavo via!”.

Per la scelta delle storie, abbiamo cercato di fare una selezione molto accurata, in quanto siamo consapevoli della grandissima responsabilità che ha l’adulto in questo processo.
Le tematiche che abbiamo scelto sono svariate, ma sicuramente hanno la prevalenza storie che parlano del valore della diversità e dell’auto-accettazione insieme ad altre storie che raccontano il mondo che ci circonda in modo evocativo e con un’alta dose di senso dell’umorismo.
Altri criteri dei quali abbiamo tenuto conto nello scegliere le storie, sono stati la qualità delle illustrazioni e la complessità della loro possibile “lettura”, le suggestioni della storia, la ricchezza del vocabolario, l’equilibrio tra storie potenzialmente conosciute e altre inedite.
Presente che è futuro
Per concludere, riporto le impressioni di due genitori, una mamma e un papà i cui bambini (e loro stessi) hanno partecipato alle letture.
“Ho avuto il piacere di partecipare a due letture che, indirizzate a bambini dai 3 agli 8 anni, si sono rivelate un momento prezioso sopratutto per me: è stata un’occasione per sperimentare modalità di comunicazione speciali. In viaggio invento era una narrazione polisensoriale nella quale io e i miei due figli più piccoli siamo stati bendati; privati del senso della vista, ci hanno raccontato la storia permettendoci di visualizzarla attraverso tutti gli altri sensi con l’ausilio di materiali da manipolare, profumi da cogliere, musica, rumori, vento… una modalità di lettura molto diversa dalla classica lettura di un albo illustrato per bambini, per noi nuova ed entusiasmante nella quale mi sono sentita coinvolta totalmente sia nel ruolo di ascoltatore che di genitore ‘cieco’ accompagnatore”. (Francesca)

“Abbiamo partecipato diverse volte agli incontri di Storie per tutti e ogni volta è stata una piacevole scoperta. Molto bello il fatto di coinvolgere di volta in volta persone nuove che si mettono a disposizione con quello che sanno fare (suonare, raccontare storie…) e con la loro umanità. Un ringraziamento anche a loro! Tutti dovremmo mettere parte del nostro tempo a disposizione degli altri e soprattutto dei bambini.
Penso che ad Alessandro siano piaciute soprattutto le storie con la musica dal vivo (chitarra, tromba…) e le esperienze sensoriali, quelle in cui i bimbi toccano con mano, odorano e utilizzano sensi meno utilizzati come appunto il tatto.
Probabilmente sottovalutiamo il fatto che questi incontri costruttivi e divertenti per i bambini siano molto importanti anche per i grandi, per i genitori. Ad esempio in uno di questi incontri ho avuto modo di conoscere dei libri che ignoravo.
Libri che parlano ai bimbi della diversità. Ma parlano soprattutto a noi grandi, che abbiamo sicuramente più pregiudizi e paura del ‘diverso’ dei bambini”. (Marco)

Questi rimandi ci danno una grande gioia e una grande spinta per continuare a lavorare guardando al futuro, speriamo che Storie per tutti continui a crescere e che questo progetto diventi un “grido” per dimostrare e ricordare che l’accessibilità non deve essere un accessorio, un optional, ma deve assolutamente essere parte inscindibile della progettazione culturale.

2 L’orizzonte verso cui guardare

2.1.“Luoghiterzi”disocialità culturale
di Marco Muscogiuri – Politecnico di Milano / Alterstudio Partners

Ho iniziato a occuparmi di progettazione di biblioteche all’inizio degli anni Duemila, e ho pubblicato il mio primo libro su questi temi – Architettura della Biblioteca – nel 2004. Non posso fare a meno di constatare che, rispetto ad allora, le modalità di fruizione e diffusione della cultura e dell’informazione hanno subito enormi cambiamenti: tablet e smartphone non erano sul mercato; quasi non esistevano i social network; servizi come Google Books Search erano ancora agli inizi; erano poco diffusi gli e-book, che al contrario, oggi coprono in alcuni paesi una fetta molto significativa del mercato editoriale.
Tutto ciò premesso, è lecito domandarsi se tale crescita vertiginosa delle nuove tecnologie dell’informazione non renda obsoleta persino l’idea stessa di costruire nuove biblioteche. Una parziale risposta a questa domanda è data dalla constatazione che mai come in questi ultimi vent’anni sono state rinnovate o costruite così tante biblioteche in tutto il mondo, tra cui, senza dubbio, le più grandi e ambiziose mai realizzate, e altre ancora sono attualmente in cantiere.
Tuttavia, i nuovi strumenti e le istanze della società dell’informazione stanno cambiando profondamente ruolo, funzioni e contenuti della biblioteca, in un modo che non ha precedenti nella storia: non solo per le differenti modalità di conservazione dei documenti, rese possibili dalla digitalizzazione e dall’accesso in rete, ma soprattutto in quanto emerge la richiesta di nuovi servizi bibliotecari, inedite esigenze di conoscenza e informazione, differenti forme di mediazione e di consultazione dei documenti, nonché un differente ruolo del bibliotecario e un diverso rapporto tra utente e biblioteca, tanto che da alcuni anni si parla di Library 2.0.

Negli ultimi dieci anni si è assistito a un sostanziale spostamento del focus della biblioteca dal patrimonio librario alle modalità di accesso alle risorse documentarie (cartacee o digitali che siano). L’accento e l’attenzione sono passati dalle modalità di organizzazione delle collezioni alle modalità di mediazione e comunicazione; dal possesso dei documenti all’accesso (anche remoto) ai documenti stessi; dalla messa a disposizione di materiali documentari (adeguatamente mediati dall’attività di supporto bibliografico) all’erogazione di servizi culturali e di reference più articolati. Infine, ha riacquistato una nuova e vitale importanza anche la fisicità del “luogo” della biblioteca, nei suoi spazi e nei suoi arredi.
La funzione primaria che la biblioteca ha sempre avuto è quella di centro di diffusione e trasferimento della conoscenza e di promozione della lettura, di supporto alla formazione nel modo più ampio possibile. Le nuove tecnologie dell’informazione non inficiano questa funzione della biblioteca, anzi la amplificano: la biblioteca pubblica diventa anche centro e laboratorio di informazione contro il digital divide, porta di accesso e strumento di orientamento nell’universo multimediale.

Biblioteche e capitale sociale
Ma, sempre più, cresce oggi anche il suo ruolo di luogo di aggregazione sociale, punto di riferimento per la comunità locale e nuova piazza urbana. Progressivamente nelle città scompaiono i luoghi collettivi di aggregazione, soprattutto per i giovani, sostituiti dai centri commerciali e polifunzionali di intrattenimento, a cui in vario modo è delegata la gestione del tempo libero dei cittadini e l’impostazione dei suoi contenuti. La quotidianità finisce troppo spesso per risolversi nell’ambito di relazioni di natura quasi esclusivamente funzionale: tra casa, scuola, lavoro, luoghi del consumo. Ma è sempre più evidente la richiesta di “luoghi terzi” – per citare il sociologo americano Ray Oldemburg – che non siano i centri commerciali dove vige la compulsione all’acquisto, bensì luoghi dove coltivare interessi conoscitivi di varia natura, dove poter avere anche libere occasioni di incontro e di scambio con gli altri. Da questo punto di vista una biblioteca pubblica, concepita in modo moderno e accattivante, può essere, più di un pub o di una caffetteria, un “terzo luogo” per eccellenza, in quanto è uno dei pochi luoghi realmente “pubblici” rimasti, un luogo “sicuro” e “neutrale”, in cui possono incontrarsi e conoscersi persone diverse per età, cultura, ceto sociale, provenienza.
Ma il valore delle biblioteche si iscrive in un orizzonte di significato anche più ampio. Nella società contemporanea assumono sempre più valore beni immateriali come l’informazione, la conoscenza e la creatività, che sono riconosciuti essere fattori determinanti per lo sviluppo economico di un territorio o di una nazione. Questo è tanto più vero in un paese come l’Italia, in cui settori come il turismo, il design, la moda, la gastronomia, che si basano su “beni simbolici”, possono mantenersi e dare i loro frutti migliori solo se sono iscritti in un “ecosistema culturale diffuso”, che non può prescindere dall’investimento nella cultura, nella scuola, nella formazione in generale. Inoltre, è ormai assodato che il lifelong learning e l’aggiornamento delle proprie competenze siano diventati i principali fattori chiave di competitività. Per queste ragioni, l’offerta culturale locale non può ridursi a semplice intrattenimento, proponendo consumo di “prodotti culturali usa e getta”, ma deve investire in strutture e azioni finalizzate a durare nel tempo, e a rafforzare quello che è “capitale sociale” del territorio, diventandone motore e collante dello sviluppo socio-economico. In tutto questo le biblioteche possono giocare un ruolo essenziale come “infrastrutture” per la conoscenza e l’informazione: luoghi per la socialità culturale, per lo sviluppo della creatività e dei propri talenti, per favorire il dialogo interculturale e intergenerazionale.

Nuovi modelli, nuove frontiere
L’impatto sociale delle biblioteche può essere enorme e le biblioteche vanno dunque intese non soltanto come gangli del sistema della cultura, ma anche del sistema del welfare, luoghi di inclusione e coesione sociale, utili anche e soprattutto per le fasce più deboli della popolazione.
All’estero vi sono casi particolarmente eclatanti: pensiamo alle open libraries danesi, fortemente incentrate sulla digitalizzazione e al contempo luoghi di aggregazione sociale, in cui sono erogati anche numerosi servizi al cittadino, oppure alle Common Libraries del Regno Unito, dove vi sono spazi dedicati alla creatività, al tempo libero o al bricolage, eccetera. Ma le contaminazioni non finiscono qui, e in molte città, da Colonia a Pistoia, da Helsinki a Cinisello Balsamo, vediamo nelle biblioteche un fiorire di maker space e fab lab, laboratori del cosiddetto “artigianato digitale”, una versione tecnologica e digitale di quel “saper fare” che discende dalla letteratura grigia e dalla manualistica da bricoleur, che in vario modo ha sempre trovato ospitalità negli scaffali delle biblioteche pubbliche.
Pensiamo, infine, alle Idea Store di Londra: un modello innovativo di biblioteca di grande successo, che integra servizi bibliotecari, servizi per la formazione e il tempo libero, servizi per il cittadino e spazi di socialità. Anche esperienze recenti italiane, come la Biblioteca “Sala Borsa” di Bologna o la “San Giorgio” di Pistoia, il “Pertini” di Cinisello, la “Tilane” di Paderno Dugnano, il “Multiplo” di Cavriago, la MedaTeca di Meda (MB) e varie altre presentano risultati di tutto rispetto, e dimostrano come in questo settore sia l’offerta a creare la domanda, e come anche in Italia biblioteche concepite in modo innovativo riescano sempre ad avere un successo enorme e un enorme impatto sulla città e sulla comunità.

“Un bel posto dove andare”
Perché una biblioteca abbia successo, l’architettura dell’edificio, gli spazi e gli arredi in esso contenuti, sono fondamentali tanto quanto i servizi offerti. Gli edifici bibliotecari devono essere attraenti e confortevoli: devono essere dei luoghi speciali, in cui sia piacevole andare e intrattenersi, facili da utilizzare, ospitali. È questo uno dei principali motivi per cui in alcuni paesi del Nord Europa al progressivo calare dell’indice dei prestiti non corrisponde un progressivo calo della frequentazione delle biblioteche. Nel momento di massima diffusione dei social network le biblioteche devono puntare su quell’unica cosa che Google, Facebook o Amazon non hanno e non avranno mai: la fisicità di un bel posto dove andare, la possibilità di accedere a molte risorse documentarie contemporaneamente usufruendo della mediazione competente di un bibliotecario, la possibilità di incontrare amici o persone che non si conoscono.
Oggi le biblioteche sono al bivio, soprattutto in Italia in cui vertono in una situazione di grave arretratezza, tra la possibilità di acquisire un importante ruolo di “condensatore urbano” e il rischio di scomparire del tutto, soppiantato da altri servizi “pubblici”, dalle finalità commerciali più o meno palesi. Per sopravvivere la biblioteca deve essere in grado di accogliere la sfida e rinnovarsi, arricchirsi di contenuti, diventare un centro culturale integrato: di servizi per la cultura, la formazione, l’informazione, l’immaginazione, la creatività, lo studio, il tempo libero, la socializzazione. Ridefinendone il ruolo e le funzioni, è necessario ridefinire anche la configurazione e le caratteristiche dell’edificio biblioteca: ricercando forme, linguaggi e soluzioni architettoniche in grado di riaffermare il valore dell’istituzione, di comunicare contenuti innovativi e di esprimere fortemente il nuovo ruolo che essa può avere nella società contemporanea.
Le biblioteche pubbliche devono porsi, oggi, come “catalizzatori urbani per la promozione di politiche culturali”. E non è un caso che in questa mia definizione di biblioteca non vi sia un riferimento diretto alla promozione della lettura e dei libri, anche se questo deve restare il core business della biblioteca: ritengo infatti che, investendo soltanto nella promozione del libro e della lettura, la biblioteca non riuscirà ad attrarre quel 70% della popolazione che, stando alle statistiche correnti in Italia, non compra e non legge libri [ISTAT], oppure quel 36% della popolazione che in Italia non utilizza internet [CENSIS], o quel 47% di italiani che risultano essere “analfabeti funzionali” [OCSE].
Ma sono proprio queste persone ad avere maggiore bisogno delle biblioteche. E quest’utenza potenziale non la si può attrarre soltanto con la promozione dei servizi legati al libro e alla lettura, né si può lasciare solo ai centri commerciali e polifunzionali la delega di occuparsi del tempo libero di questa così ampia fetta della popolazione.
Le biblioteche pubbliche vanno dunque progettate per intercettare soprattutto coloro che non sono utenti abituali: o perché non sono interessati ai libri e alla lettura, oppure perché, al contrario, sono “lettori forti” ma non sono interessati ai servizi attualmente offerti dalle biblioteche. Una biblioteca “amichevole”, accessibile e aperta a tutti, che non intimorisca coloro che non sono abituati ad andarci ma che anzi li attragga e li incuriosisca, e che al contempo soddisfi tutte le necessità di coloro che invece già conoscono e usano le biblioteche e che qui troveranno potenziati tutti i servizi

2.2 La biblioteca vive, la biblioteca muore
di Alessandro Riccioni, bibliotecario e scrittore

Il titolo di questo breve contributo mi serve a sottolineare come il dibattito sul ruolo delle biblioteche sia sempre vivo ma, a volte, viziato da ottimismi e pessimismi eccessivi. Cercherò qui di sviluppare alcune riflessioni sul ruolo delle biblioteche, in modo particolare su quelle definite “di pubblica lettura”: quelle dei quartieri, dei paesi, delle realtà esterne al mondo della cultura accademica. È ormai evidente che proprio queste sono le biblioteche che devono sostenere una vera e propria sfida per la sopravvivenza.

Come premessa
La realtà del nostro paese presenta situazioni molto diverse, con servizi di eccellenza accanto ad altri sull’orlo della chiusura. La politica sembra sempre più dimenticarsi delle biblioteche, i finanziamenti sono spesso ridotti al lumicino e ancor più scarso è l’interesse per i luoghi del libro e della lettura. Eppure, in molte città e in molti paesi, anche piccolissimi, i bibliotecari continuano, pur tra mille difficoltà, a reinventare di giorno in giorno la propria biblioteca per farne un luogo vivo, accogliente, in cui la gioia dell’incontro sia il primo passo per ogni percorso di conoscenza, informazione, studio. Con una testardaggine e un coraggio davvero insoliti, per il tempo in cui viviamo, i bibliotecari cercano di rimanere fedeli ad alcuni semplici obiettivi: la gestione delle informazioni, il sostegno all’utenza, la promozione della lettura, l’educazione alla lettura come strumento principe di formazione di una consapevolezza dell’essere cittadini, tutti, qualunque lingua parliamo, dovunque siamo nati e cresciuti, di qualunque età o condizione siamo. Il vero lavoro dei bibliotecari, a mio avviso, ha oggi a che fare più con la formazione di una coscienza, di un’appartenenza, che con le competenze professionali o gli aspetti tecnici, per quanto importanti questi siano. La biblioteca è infatti uno dei crocevia di tutti i mutamenti della società contemporanea, uno dei punti di riferimento per un’utenza “allargata”, e per questo non può e non deve escludere nessuno, anzi, dovrà coniugare il verbo “includere” nel senso di invitare qualcuno a entrare in casa per farne lo spazio comune, il luogo della condivisione, il luogo della costruzione del patrimonio di conoscenze e informazioni che si accumulano, a volte con una velocità impensabile, e che hanno quindi bisogno di essere analizzate, sistemate, con un lavoro che non può essere delegato solo ai tecnici che vi lavorano. La biblioteca deve sapere incontrare i nuovi cittadini, le nuove povertà (economiche e culturali), i nuovi bisogni di utilizzo degli strumenti più aggiornati di ricerca delle informazioni, e le nuove modalità di comunicazione e fruizione di un patrimonio sempre in divenire, in continua mutazione eppure in continuo dialogo con quanto già esiste.
Partendo da queste premesse, la biblioteca non può più essere solo il centro di documentazione, il patrimonio che ospita, il luogo del protrarsi della memoria. Certo, essa è la “casa” dove quelle cose stanno e dovranno continuare a stare, ma è anche il luogo dove si cerca di comprendere il cambiamento e di viverlo insieme a tutti coloro che la frequentano. Un luogo libero, gratuito, aperto, inclusivo, vorremmo anche dire sicuro, un luogo di vita e non solo di cultura. Mai come oggi, la biblioteca è lo spazio dove cercare risposte, ma soprattutto dove continuare a farsi domande su quanto sta accadendo nel mondo, su quanta parte di ciò che accade possa essere compreso e magari anche modificato e migliorato.
Una biblioteca, per dirla in altre parole, vive solo se sa “andare incontro”, se sa essere appunto la casa di tutti. Perché ciò avvenga, è necessario che chi ci lavora, oltre a conoscere gli aspetti tecnici della sua professione, riesca a mantenere vivo l’interesse per il contesto in cui il suo servizio è inserito. È la comunità che dovrebbe creare la sua biblioteca, tramite l’esplicitazione di esigenze, desideri, curiosità, bisogni che solo lì possono trovare ascolto. L’ascolto, però, ha sempre bisogno di energia aggiunta, di fantasia aggiunta.
Un aiuto concreto, e uno stimolo al dibattito in corso, lo possiamo trovare nelle biblioteche e centri di documentazione che potremmo definire “a tema”, realtà il cui patrimonio documentale è stato costruito per rispondere alle nuove sfide che impongono cambiamenti al nostro modo di intendere e di vivere la società (diritti, disabilità, nuove povertà, esclusione sociale, immigrazione, nuovi analfabetismi).
Queste esperienze sono certamente una fonte di suggerimenti e di pratiche virtuose, lo sprone perché le biblioteche ripensino e rilancino il loro ruolo “sociale”, un ruolo che, in verità, hanno sempre svolto, magari senza gli strumenti e le competenze necessarie, ma con una volontà davvero encomiabile. La nascita e lo sviluppo di queste realtà ha avuto anche il merito di ribadire che il patrimonio di ciascuna biblioteca è e resta vivo solo se attorno a esso si costruiscono progetti, percorsi, attività, se la divulgazione e la promozione dei documenti ritrova un senso nel presente e riesce a farsi materia per il futuro.

Per parte mia
La mia piccola esperienza di bibliotecario “di montagna” (come amo definirmi), si origina da uno sguardo il più attento possibile alle trasformazioni del servizio bibliotecario nel corso degli anni e si basa su una visione forse non molto ortodossa di una delle regole fondamentali della biblioteconomia, e cioè che “la biblioteca è un organismo che cresce”, visto non tanto nel senso di patrimonio in espansione, bensì come organismo che cresce con gli utenti, nel tempo e nel luogo dove ha sede. In fondo, siamo tutti, e di nuovo, i bambini di Jella Lepman, la donna che iniziò un lungo e prezioso lavoro di educazione (rieducazione) degli adulti attraverso i bambini orfani dell’orrore nazista; siamo i bambini con nelle mani libri-ponte capaci di accendere il dialogo con l’altro e di farsi strumenti di un possibile e migliore futuro. Abbiamo perciò l’obbligo di considerare, e utilizzare, i libri (ma anche i nuovi strumenti oggi a disposizione) per crescere tutti lettori e cittadini forti, consapevoli, curiosi. Dobbiamo infatti dire che, quando una biblioteca è riuscita in qualche modo a sopravvivere, e a farlo anche abbastanza dignitosamente, lo ha fatto dove e se ha saputo dialogare con le altre istituzioni che hanno a che fare con l’educazione e la formazione, in primis le scuole di ogni ordine e grado. Se molte sono ormai le positive esperienze di relazione biblioteca-scuola, è invece ancora un tema da discutere e sviluppare quello dei progetti rivolti alle famiglie, poiché, spesso, l’ambiente in cui i nostri bambini crescono è un ambiente non solo senza libri, senza storie, ma anche senza più curiosità e voglia di scommettere su un futuro migliore.

Semi-finale
Ho cercato, spero non troppo confusamente, di riflettere sulla vita delle biblioteche, su quelle che ho imparato a conoscere e frequentare. Ho cercato di indicare una piccola strada, lastricata più da pietre di passione che da pietre teoriche e professionali. Ora è il momento di dare un senso, seppure con un leggero senso di paura, alla seconda parte del titolo: la biblioteca muore. La biblioteca muore se rinuncia al suo ruolo di luogo d’incontro, di possibilità aggiunta, di spazio libero e inclusivo. La biblioteca muore se chiude gli occhi al mondo, se crede di essere neutrale, salva, immune da tutto ciò che la circonda. La biblioteca muore, è doveroso dire anche questo, se le si toglie il carburante: risorse umane competenti e denari. E questo, soprattutto nel nostro travagliato paese, sta purtroppo accedendo spesso, troppo spesso.

Quando le società sportive possono ospitare tutti

di Cristina Ferrarini

“All inclusive sport” è la più ampia iniziativa di rete della provincia di Reggio Emilia impegnata a inserire bambini e ragazzi con disabilità nelle società sportive del territorio. Il suo obiettivo è creare le condizioni perché i bambini e i ragazzi con disabilità possano praticare sport con i coetanei e partecipare alla vita delle società sportive del loro territorio. In che modo? Creando un’alternativa ai percorsi sportivi dedicati esclusivamente ai diversamente abili, puntando piuttosto sul loro inserimento in più ampie società sportive “inclusive”, capaci di ospitare tutti, grazie alla presenza di Tutor di sostegno correttamente formati.
Un progetto piccolo ma ambizioso, che sta concludendo la sua fase sperimentale e che mira, nel lungo periodo, a provocare un cambiamento culturale.

Sport agevoli
Ci racconta Federica Severini, responsabile dell’area progettazione sociale di DarVoce, Centro Servizi per il Volontariato di Reggio Emilia: “Siamo partiti tre anni fa con le Associazioni di Volontariato che si occupano di disabilità come il GIS (Genitori per l’Inclusione Sociale), la Fa.Ce (Famiglie Celebrolesi) e Valore Aggiunto: chiedevano che i loro ragazzi potessero fare sport il pomeriggio con gli amici, proprio come i compagni di classe. Insieme a loro, abbiamo messo in rete tanti soggetti che si occupano di sport e disabilità e abbiamo mappato le società sportive della provincia di Reggio, scoprendo che molte di loro sono aperte all’inclusione ma nella pratica non si sentono preparate per accogliere i ragazzi diversamente abili in squadra”.
“All inclusive sport” ha così dato il via a un programma di formazione per Tutor sportivi, che conta oggi 45 iscritti: man mano che si liberano risorse economiche, queste vengono impiegate per inserire i ragazzi con disabilità nelle società sportive, affiancando a ciascuno di loro un Tutor di sostegno, ingaggiato per favorire l’integrazione e la progressiva acquisizione di autonomia dell’atleta nel gruppo.
Per fare questo, “All inclusive sport” si avvale di figure di coordinamento, i cosiddetti Supertutor: professionisti impegnati da anni nell’inclusione sportiva, che offrono il loro tempo al progetto per orientare le famiglie nella scelta della società sportiva e per accompagnare i Tutor nel loro percorso di crescita accanto ai rispettivi atleti con disabilità.
In questo momento “All inclusive sport” sta dialogando con oltre 70 società sportive “aperte all’inclusione” nella provincia di Reggio Emilia e sta seguendo l’inserimento di 20 fra bambini, ragazzi e adulti nel judo, nel calcio, nel football americano, nel basket, nell’atletica, nel pattinaggio… seguendo i desideri e le inclinazioni dei ragazzi.
Ma il progetto sta acquisendo un’eco sempre più ampia. Ci dice ancora Federica Severini: “Oggi non ci chiamano più solo le associazioni di volontariato. Ci chiamano gli insegnanti, che identificano ragazzi con disabilità particolarmente bisognosi di fare sport al di fuori della scuola in compagnia dei loro coetanei, così come le famiglie che hanno conosciuto il progetto da amici o conoscenti. E soprattutto, ci chiamano le società sportive che vorrebbero iniziare un percorso inclusivo e chiedono un piccolo aiuto per partire. Noi speriamo che sia questa la chiave di svolta, perché ogni società sportiva che diventa inclusiva potrà accogliere negli anni decine e decine di ragazzi con disabilità. Così i numeri decuplicano e il nostro sforzo ha un senso. Così l’inclusione diventa normalità e non più l’eccezione di poche società sportive virtuose”.
“All inclusive sport” fa parte di “Reggio Emilia Città senza Barriere” del Comune di Reggio Emilia, e conta sul prezioso sostegno di tante realtà locali pubbliche e private, come Fondazione per lo Sport, Consorzio Renergy International, Farmacie Comunali Riunite, Banco Popolare BSGSP, Intesa San Paolo, Montanari e Gruzza Spa e Banca Prossima. Al progetto aderiscono inoltre a vario titolo le sedi locali di numerose realtà come il Comitato Paralimpico, il Centro Sportivo Italiano, la UISP, l’ASL, l’INAIL, la Fondazione Durante e Dopo di Noi, le cooperative sociali di educatori.
E, come in ogni progetto di questo tipo, sono soprattutto le persone a fare la differenza.
A una mamma di un bambino con autismo inserito in una scuola di judo abbiamo chiesto: “Qual è la cosa che ti piace di più dello sport?” Ci ha risposto: “La cosa che mi piace di più dello sport ha un nome, si chiama Carla, è la nostra allenatrice inclusiva. Non le cose, ma le persone fanno la differenza. Chi lavora per le persone, cambia la vita delle persone.
Carla, con nostro figlio Mattia e con noi, ha fatto questo. L’allenamento di judo è diventato un appuntamento irrinunciabile della nostra settimana, porta grandi benefici in termini di autonomia, autostima, divertimento e amicizia. Auguro a chiunque di avere un bambino come Mattia e di poter vivere con lui tutti i momenti gioiosi che stiamo vivendo noi”.