Il cuore del progetto Postmarks sono stati i laboratori che abbiamo realizzato in collaborazione con il Dipartimento educativo MAMbo e, in particolare, l’artista educatrice Ilaria del Gaudio.
Abbiamo scelto di presentarveli in ordine cronologico, descrivendone il contenuto e la metodologia, perché possano divenire uno strumento utile e replicabile in altri contesti.
La descrizione dei laboratori è accompagnata dal commento di alcuni partecipanti, esperienze personali che offrono uno sguardo intimo sulle attività e, complementariamente, un approfondimento dell’aspetto educativo che arricchisca e completi lo strumento.
Sessione 1: Il corpo è presente
Laboratorio 1
Al centro del primo laboratorio abbiamo messo il corpo come metafora in grado di raccontare la nostra identità personale. Abbiamo deciso di cominciare da questo tema perché lo riteniamo importante per noi, per la nostra consapevolezza e la nostra crescita, specialmente per le persone con disabilità.
Siamo partiti dall’idea che il corpo è un luogo nel quale la nostra identità fa esperienza di se stessa. Alcune opere d’arte ci hanno offerto lo spunto di partenza: i dipinti di Frida Kahlo e le performance di Sissi. Entrambe le artiste condividono l’idea del corpo come un contenitore emotivo, con un’anatomia parallela e un particolare linguaggio: al posto delle parole usano colori e atmosfere particolari, forme e movimenti, emozioni e ricordi. Come se il corpo fosse una specie di percorso, camminare attraverso le sue strade ti permette di scoprire una mappa personale fatta di tracce e organi considerati come le radici dei sentimenti e delle sensazioni. In sintesi, l’idea del workshop era quella di realizzare un viaggio attraverso il sé, una ricerca in giro per il proprio corpo.
I partecipanti sono stati invitati a creare una mappa personale ed emotiva dei propri corpi. Ognuno ha ricevuto una sagoma anatomica del corpo umano sulla quale si dovevano segnare i punti forti con segni rossi, i punti deboli con segni neri e il percorso delle emozioni all’interno del corpo con il colore preferito.
Poi i partecipanti hanno dovuto scegliere, tra alcuni disegni di organi interni come stomaco, cervello, utero e polmoni, quello che li rappresentava meglio, e personalizzare il disegno secondo l’emozione o il pensiero che volevano comunicare. Una ragazza, per esempio, ha scelto il cervello e l’ha coperto con fili di cotone aggrovigliati in modo da rappresentare la grande quantità dei suoi “pensieri aggrovigliati”.
Così, a partire da uno schema comune, tutti hanno dovuto riflettere a livello personale, e ogni partecipante ci ha mostrato una parte molto intima del sé.
Esperienze
Dapprima ci hanno presentato l’esperienza vissuta dall’artista Frida Khalo, a proposito della quale sono rimasto davvero a bocca aperta quando ci hanno raccontato del gravissimo incidente subito e di come l’artista sia sostenuta da un ferro che attraversava tutta la colonna vertebrale. Ciò le permette così, non solo di svolgere più o meno normalmente gli atti della vita quotidiana, ma riesce al contempo a trasmetterci i propri sentimenti e le proprie emozioni fissandoli su un supporto artistico. Sono rimasto enormemente affascinato dalla sua smisurata voglia di vivere. Penso anche che questa sua stramaledetta voglia di vivere la vita sia un ottimo stimolo anche per tutti quelli che, come me, hanno incontrato un grosso ostacolo (il coma) al normale svolgimento della propria vita, ma sono riusciti a ottenere un buon miglioramento grazie alla terapia, alla fede e alla forza di volontà.
Subito dopo le ragazze del museo ci hanno mostrato le opere di Sissi, un’artista che ama mostrare il suo corpo visto attraverso la lente del profondo dolore interiore che ha caratterizzato tutta la sua vita; infatti giovanissima ha dovuto imparare a arrangiarsi da sola e in piena autonomia, in quanto è rimasta orfana, ma questo fatto non l’ha privata della sua “vena” artistica e del desiderio di dare visibilità alle sue opere. Emblematico, a questo proposito, l’esempio di una sua prestazione: una foto che la ritraeva nuda in mezzo a un mare di scooby-doo. Questa opera riesce a trasmettere, al meglio, le vicissitudini e il travaglio interiore e questa rappresentazione riesce bene a offrire l’immagine di un’artista eclettica nel trascendere il suo profondo disagio intimo, esibendo il proprio corpo tale e quale a se stesso.
Mattias Fregni, animatore disabile del Progetto Calamaio
Laboratorio 2
Fulcro del secondo laboratorio è stato l’autoritratto, concepito come uno sforzo per definire la propria identità. Uno dei motivi più importanti del nostro percorso è riflettere sulla differenza tra l’immagine che abbiamo di noi stessi e l’immagine che gli altri hanno di noi, argomento assolutamente centrale per il gruppo. Dopo aver mostrato ai partecipanti diversi ritratti e autoritratti, dal XV secolo alla contemporaneità, come opere d’arte di Piero della Francesca, Rembrandt, Giuseppe Penone e Arman, insieme abbiamo discusso le diverse tonalità della pratica dell’autoritratto e i suoi diversi obiettivi, che non sono solo connessi alla somiglianza fisica, ma anche ai valori sociali o all’introspezione personale. Un altro aspetto importante è stato quello di considerare le diverse tecniche usate dagli artisti: pittura, fotografia o oggetti personali con un valore metaforico. A partire da tutto ciò, l’idea sulla quale si è basata il laboratorio è stata quella di riflettere sull’identità personale rappresentando noi stessi sia a un livello fisico che a uno più emotivo.
Ai partecipanti è stato chiesto di creare quattro diversi autoritratti: autoritratto frontale, autoritratto laterale, autoritratto posteriore e autoritratto interiore. Per i primi tre lavori si doveva scegliere tra fotografia o disegni. Chi ha scelto il disegno aveva a disposizione uno specchio mentre abbiamo preparato una sorta di set per coloro che hanno preferito autoritrarsi in una “sessione fotografica”. L’autoritratto interiore, invece, è stato creato usando colori e diversi materiali con valori metaforici, come cotone per la tenerezza o corde per indicare vincoli o limiti.
Per i primi tre lavori i partecipanti si erano concentrati sulla posa del corpo o l’espressione del volto, mentre questo quarto autoritratto è stato come una sorta di radiografia interiore.
Abbiamo raccolto tutti i lavori prodotti nei due laboratori, li abbiamo spediti al gruppo inglese, poi li abbiamo presentati durante il seminario a Castellón.
Esperienze
Uno splendido salto indietro nel tempo: allo stesso modo in cui da bravo scolaretto mi sono recato per la prima volta a scuola, mi sono sentito tutto eccitato e, come mai prima, ansioso di cogliere il meglio dall’esperienza. Nel creare questo sentimento sensazionale ha contribuito anche il fatto che in nessun caso prima di allora mi ero imbarcato su un aeroplano.
Mi si è spalancato davanti agli occhi un mondo completamente nuovo della cui esistenza non avevo la minima idea. Mi sono stupito anche di quanto fosse immediato, musicale e semplice hablar (parlare) questa, a parer mio, meravigliosa lingua, lo Spagnolo.
Professionalmente parlando, abbiamo preso parte a un progetto basato sull’idea che l’arte e la creatività non vanno dati per scontati, ma sono un importante motore sociale volto all’inclusione e all’apprendimento permanente. Abbiamo trascorso molto tempo a conoscerci, anche se all’inizio eravamo un po’ diffidenti, ognuno nel suo gruppo, ci siamo pian piano aperti per approfondire la conoscenza fra noi partecipanti, così da poter cogliere al meglio ogni informazione sull’altro. Ogni istituzione ha scelto di lavorare su una comunità svantaggiata del suo territorio.
Giovedì tanto per fare una breve cronaca del memorabile evento vissuto, siamo stati accolti al museo “Espai” e poi ci siamo recati in una sala da the per fare reciproca conoscenza. Inizialmente il clima era un po’ freddino, anche a causa delle naturali difficoltà di comunicazione, ma la birra spagnola era eccellente! Venerdì, dopo una bellissima colazione a base di orzo, miele e torta da leccarsi i baffi, ci siamo diretti verso il paese di Les Coves, a un’oretta di pullman da Castellón, dove abbiamo passato in rassegna e commentato i lavori svolti da tutti i gruppi partecipanti al progetto e precedentemente spediti via posta. Di questo momento ben ricordo la stupenda sensazione provata, di orgoglio mista a grandissima soddisfazione.
Sabato abbiamo visitato Valencia e dopo aver visto il mercato cittadino, siamo andati a vedere la mostra di un’artista del territorio, che ha scelto di mostrare fiori a cui erano stati divelti i pistilli in varie riprese, per rappresentare la lotta all’infibulazione femminile, da lei sentita in modo fortissimo. Inoltre mentre abbiamo girato in lungo e in largo Valencia per cercare anche un po’ di ricordini da portare a casa, ci siamo imbattuti nelle opere di Blu, lavori davvero meravigliosi capaci di rendere vivo il più semplice muro cittadino.
Sconvolgente quanto fosse buono il cibo che abbiamo gustato in questi quattro giorni…
Alla fine della piacevolissima trasferta abbiamo risolto con successo i problemi di comprensione, mischiando e integrando le nostre personalità e le nostre culture, tanto che dopo esserci salutati a fine di una cena alla Tasca – un locale davvero tipico e a conduzione familiare – a base di ottime tapas, ci siamo augurati vicendevolmente: “alla prossima”, facendoci il saluto spagnolo “Hola, hasta luego”!
Mattias Fregni, animatore disabile del Progetto Calamaio
Ci caliamo nel Calamaio
Quanti di noi, guardandosi allo specchio, accelerano il passaggio sulle parti che non ci piacciono! Le evitiamo, fingiamo che non ci siano, non le riconosciamo. Lo sguardo fugge e si va a posare su ciò che ci piace, che sentiamo nostro, che ci fa sentire ad agio con noi stessi.
Lavorare sulla sagoma del corpo, sui punti forti e sui punti deboli è stato per il nostro gruppo occasione di nuove scoperte, di nuove cose da dire a noi stessi, dire agli altri e soprattutto lasciarci dire dagli altri.
Quanto e come una persona con disabilità motoria sente il corpo? Quanto e come sente le parti che non funzionano, che sono causa della propria disabilità? Il laboratorio ha permesso alle persone con disabilità del gruppo di esprimere in modo molto chiaro la difficoltà a vedere e a riconoscere alcune parti negate. Per alcuni erano le gambe, immobili sulla carrozzina, per qualcuno era più facile lavorare solo con il viso, escludendo il corpo intero, per altri è stata la possibilità di dare un’immagine di sé al gruppo e ricevere un feedback rispettoso ma diverso. “Non è vero che il tuo braccio è dritto”, e con la complicità degli altri, potere riconoscere e dire che, sì il mio braccio è proprio storto; è il mio braccio e ora lo guardo e lo sento come tale.
Ma anche per gli educatori è stato possibile avere un confronto diverso, diretto e autentico sul sentire reale, non mediato dal ruolo e dai contenuti che caratterizzano la riflessione e il lavoro quotidiano. Abbiamo toccato con mano la carne viva di ognuno di noi. Il gruppo, e soprattutto il gruppo misto, ha permesso che – nel metterci in gioco e nell’accogliere il lavoro faticoso o giocoso degli altri – sentissimo che l’aspetto della fragilità appartiene a tutti noi. La condivisione lo ha reso visibile e riconoscibile come elemento insostituibile e immancabile della nostra identità.
Sessione 2: Lo spazio per noi
Laboratorio 1
La seconda sessione di laboratori è stata dedicata alla relazione emotiva con la nostra città e l’ambiente che ci circonda. Il territorio si è trasformato in uno spazio condiviso, un punto di partenza per la produzione di lavori che raccontano l’identità, reale e percepita, al fine di indagare il senso di appartenenza, la relazione tra le persone e i luoghi di vita quotidiana, l’identità privata e lo spazio pubblico. In base a queste idee abbiamo dato un’occhiata al “geoblog” www.percorsi-emotivi.com. Questo sito web è stato costruito dal gruppo di ricerca Associazione Mappe Urbane e mira a sviluppare il dialogo e l’interazione tra i cittadini di Bologna e la mappa elettronica della loro stessa città. Le persone che consultano la mappa possono collocare su un punto specifico di essa i loro pensieri, la loro proposta o i loro ricordi, suscitati da uno spazio determinato (strade, edifici, giardini…). I contributi caricati possono essere foto, video, disegni o testi, allo scopo di far crescere una Bologna “esperita”, vissuta e suggerita accanto a quella reale. Abbiamo anche guardato una sezione del sito web dedicato al progetto Percorsi emotivi per bambini e giovani, realizzato con il Dipartimento Educativo del MAMbo con lo scopo di costruire un geoblog con una nuova mappa emotiva, totalmente dedicata ai bambini e creata dai loro contributi. Abbiamo inoltre condiviso un breve resoconto del seminario a Castellón, trattando la forte appartenenza territoriale mostrata dal gruppo spagnolo. Il tour che abbiamo fatto a Les Coves, i racconti che abbiamo ascoltato, il cibo che abbiamo mangiato sono divenuti una grande fonte di ispirazione.
Con queste basi abbiamo avviato il seminario chiedendo al gruppo di costruire insieme una mappa emotiva collettiva di Bologna. Avevamo già preparato una grande mappa del centro storico della città composta di circa 40 cartoline illustrate, ognuna con una parte della città, come fosse una specie di puzzle. Ogni partecipante ha risposto alla domanda “quale parte della città rappresenta davvero una parte di me?”. Inoltre, abbiamo scelto alcune parole chiave come amore, paura, stupore e ricordo che potessero essere inserite nelle mappe. Ogni partecipante ha riflettuto sulla domanda, quindi ha scelto una cartolina/mappa sulla quale intervenire e una parola chiave per descrivere il proprio lavoro. Per personalizzare le cartoline potevano disegnare, tracciare segni, usare colori con valore simbolico o materiali particolari come disegni di strade e edifici realizzati da bambini. Per questo laboratorio abbiamo considerato Bologna come una specie di simbolo comune ma con valori differenti e personali: ecco perché abbiamo deciso di concentrarci solo sul centro della città e non anche sulla periferia.
Laboratorio 2
Dalla città simbolica comune, all’esperienza personale quotidiana. Abbiamo iniziato il secondo laboratorio con l’idea che uno “spazio assoluto” non esiste. Solo lo “spazio per me” esiste, perché lo spazio è qualcosa di davvero soggettivo e profondamente collegato con le nostre esperienze. Abbiamo discusso molto su questi argomenti con i partecipanti, per esempio a proposito delle differenti percezioni di alcuni luoghi sentite da una persona normodotata e da una persona disabile, o a proposito dei diversi sentimenti che lo stesso luogo ci suggerisce ora oppure quando eravamo bambini. Inoltre, è possibile trovare molte cose diverse dentro lo spazio, come rumori, voci, odori, atmosfere e contatti. I nostri sentimenti danno alla nostra percezione dello spazio molti toni emotivi e la rendono un’esperienza in continuo cambiamento. Ciò perché lo spazio è sempre vissuto e costruito dalle relazioni tra il “sé” e l’“altro”.
Perciò, l’idea del laboratorio era considerare lo spazio con occhi rinnovati. Se lo spazio è qualcosa che cambia sempre, possiamo sempre guardare le strade, gli edifici, gli angoli che siamo abituati a vedere in molti modi diversi, come se ogni giorno fosse la prima volta che li vediamo. Ai partecipanti è stato chiesto di creare una mappa emotiva del loro percorso quotidiano personale da casa al lavoro. Abbiamo dato a tutti dei colori e un cartoncino bianco su cui abbozzare il percorso. Il primo passo è consistito nel disegnare il punto di partenza ‒ la loro casa ‒ e il punto di arrivo ‒ la sede di lavoro. Poi hanno potuto collegare questi due luoghi disegnando il percorso e tutte le cose che “incontrano” durante il tragitto. Dovevano riflettere sulle strade che attraversano abitualmente, gli odori e i rumori che sentono solitamente, i colori e le dimensioni degli edifici che vedono, ricordando i più piccoli dettagli. È stata molto interessante la differenza tra ogni lavoro: da un percorso molto complesso e colorato a uno molto minimale, fatto di rumori e suoni.
Abbiamo raccolto tutti i lavori prodotti durante i due laboratori e li abbiamo spediti al gruppo spagnolo.
Ci caliamo nel calamaio
Parlare di spazio comune, di luoghi condivisi, relazione con la città prevede alcuni aspetti della vita personale quali l’autonomia di movimento, le relazioni all’interno di una rete sociale, la frequentazione di luoghi della città, i propri rituali, una propria storia. Elementi non scontati quando parliamo di disabilità.
Non si può parlare del proprio territorio, di una parte precisa della città che ci rappresenta se non abbiamo una frequentazione, una vita, una nostra quotidianità.
I laboratori di questa sessione hanno messo in luce proprio le differenze di ognuno di noi rispetto al proprio modo di vivere e percepire lo spazio e il tempo quotidiano. Che si traducono in differenze sostanziali su come vengono percepite le relazioni, la partecipazione alla vita sociale, la frequentazione dei diversi contesti e dei diversi luoghi. Qualcuno ha identificato come zona rappresentativa di sé la zona universitaria, perché il suo percorso universitario è stato particolarmente caratterizzante del suo percorso di vita. Qualcuno la gelateria del proprio quartiere, dove intrattiene con regolarità le pubbliche relazioni con il vicinato. Altri hanno identificato zone significative del periodo dell’infanzia. E qualcuno la finestra sul canale, utilizzata come strumento di seduzione con le ragazze.
Sessione 3: Disegnare suoni e suonare disegni
Laboratorio 1
Il laboratorio è stato dedicato a rispondere ai lavori che abbiamo ricevuto dal gruppo inglese. Quando abbiamo aperto il pacco, tra curiosità ed entusiasmo, abbiamo trovato due CD-ROM con tracce audio, un grande foglio marrone con strani segni colorati e molte foto stampate del gruppo al lavoro. Abbiamo seguito le istruzioni che Emma ci ha mandato per capire meglio i lavori. I titoli dei due CD erano “Suoni fatti di Disegni” e “Disegni fatti di Suoni”. Dovevamo ascoltare un CD guardando il grande foglio marrone e guardare le foto ascoltando l’altro CD.
Questo lavoro era il frutto di un laboratorio nel quale una musicista produceva suoni di cui il gruppo ha tracciato schizzi sul foglio e nel quale, in seconda battuta, la musicista ha suonato usando alcuni disegni fatti dai partecipanti come fossero spartiti musicali.
Abbiamo riflettuto sui possibili collegamenti tra arte e musica, segni e suoni. Come suona l’arte? È possibile disegnare un suono? Cosa succede se scambiamo i ruoli? Abbiamo sempre bisogno di uno strumento o possiamo suonare anche con il nostro stesso corpo? Al fine di rispondere a queste domande abbiamo iniziato a sperimentare. Abbiamo ascoltato di nuovo i due CD. Durante l’ascolto, i partecipanti hanno prodotto molti segni e tracce colorate. L’unica regola che avevamo consisteva nel non disegnare immagini o simboli. Era importante creare connessioni dirette tra suoni sentiti e gesti liberi. Uno degli obiettivi più importanti era che ogni partecipante trovasse il proprio ritmo, in base ai suoni ma anche al movimento che il corpo poteva/voleva fare. Quindi abbiamo dato a tutti una cornice vuota, utile per scegliere solo una piccola parte dei segni prodotti che sono diventati i nostri spartiti musicali che successivamente abbiamo provato a suonare usando le voci, le mani o alcuni strumenti musicali. Nell’ultima parte del laboratorio abbiamo scambiato i ruoli della prima attività. Su un grande foglio bianco appeso al muro un paio di noi dovevano produrre segni con un colore. Loro erano i direttori d’orchestra mentre gli altri sono diventati l’orchestra di strumenti che dovevano suonare ‒ sempre con voci o mani o strumenti ‒ seguendo il ritmo dei due “direttori di disegno”. Abbiamo iniziato a disegnare suoni e siamo finiti a suonare disegni.
Esperienze
Ricordo un laboratorio fatto con la musica dove mettevamo in musica i nostri stati d’animo con degli strumenti musicali. Seguivo la musica con Sandra e praticamente disegnavamo la musica!!!
Tiziana Ronchetti, animatrice disabile del Progetto Calamaio
Ilaria ci ha raccontato la storia di una musicista che aveva trovato dei segni e questi segni li aveva usati come uno spartito e li aveva trasformati in musica.
Ilaria ha messo su un CD e tutti noi dovevamo ascoltare ciò che la musicista suonava, che poi erano i segni che gli spagnoli avevano creato. La musicista non ha fatto altro che trasformare quei segni in musica.
In una seconda fase dell’attività dovevamo ascoltare la musica che la musicista suonava e trasmettere le emozioni che ci dava disegnandole attraverso solo dei segni.
Per essere ancora più concreta vi spiegherò cosa si vedeva sul mio cartoncino alla fine del lavoro.
Nel mio cartoncino c’erano segni di tre colori: il nero che rappresentava le parti musicali molto tristi; il secondo segno di colore viola era un colore molto indeciso, perché la seconda parte dei suoni mi sono sembrati molto indecisi. Il terzo colore, quello giallo, invece rappresentava gli ultimi suoni della musicista che ho trovato molto sgradevoli, difficili da ascoltare.
Mi è piaciuta tantissimo questa attività perché disegnavo facendo dei segni molto particolari, perché seguivo molto i miei stati emotivi attraverso tutti i sensi; riuscivo proprio a immaginare e a riprodurre lo stato emotivo che stavo vivendo in quei giorni.
Durante la terza fase dell’attività ci siamo divisi in coppie. Ogni coppia, a turno, doveva fare dei segni sul foglio e il resto del gruppo doveva trasformare quei segni in suoni. I suoni potevano essere fatti sia con gli strumenti che con la voce. Avendo usato questo bellissimo modo a forma di coro, mi è piaciuta la terza fase dell’attività, perché si era creata un’atmosfera molto magica e molto bella.
Tiziana Ronchetti, animatrice disabile del Progetto Calamaio
Abbiamo presentato la nostra risposta al gruppo inglese durante il seminario a Berlino.
Esperienze
Giovedì mattina io e Sandra siamo partite per una meravigliosa avventura berlinese.
Per me era la prima volta che partivo in aeroplano. Avevo molta paura ma per fortuna con me c’erano Sandra, Ilaria, Anna e Veronica. Ero molto emozionata visto che viaggiavo da sola senza i miei, ma solo con la mia collega di lavoro Sandra e le ragazze del museo MAMbo di Bologna che mi hanno fatto vivere una bellissima e indimenticabile esperienza. Spero di ritornarci presto; grazie al Calamaio e ai miei meravigliosi colleghi sono stata contentissima.
Sono partita con l’aereo della Lufthansa; il viaggio è durato su per giù due ore. Mi ero messa al braccio un bracciale bianco antistress e guardavo dal finestrino giù in basso perché, essendo la prima volta, avevo una paura folle che l’aereo precipitasse. Ora che è andato tutto bene, non ho più paura dell’aereo e spero al più presto di ripetere questa bellissima esperienza. Vedendo Bologna così piccolina avevo le vertigini. Ma per fortuna la hostess passava con il carrello della colazione, così ho preso una barretta di cioccolata che mi ha dato un po’ di energia.
Finalmente siamo arrivate a Berlino. Ero emozionata e contenta di essere in una città straniera.
Dall’aeroporto abbiamo preso il taxi che ci ha portato al nostro albergo, dove, stanche morte dal viaggio, ci siamo riposate. Io e Sandra eravamo in una stessa camera, nell’altra camera di fronte c’erano Ilaria, Anna e Veronica.
Il momento centrale della trasferta a Berlino è stato il laboratorio alla sede del gruppo berlinese. Quella mattina abbiamo intrecciato fili di lana. Abbiamo fatto un intreccio grandissimo che occupava tutta la stanza, dal soffitto alle pareti e da una parete all’altra, tanto che era diventato difficile camminarci in mezzo.
Dopo abbiamo visto i lavori che erano stati esposti alle pareti da tutti i gruppi: il nostro italiano, quello tedesco, lo spagnolo e quello inglese. Ogni gruppo ha presentato i propri lavori e anch’io ho presentato i nostri lavori italiani insieme a Ilaria che mi traduceva dall’italiano all’inglese. Abbiamo fatto vedere alcuni video in cui si vedeva che uno di noi disegnava sulla carta appesa al muro e un altro cercava di ostacolarlo in tutti i modi. Questo laboratorio a me è piaciuto perché mi sono divertita tanto a ostacolare Ilaria.
Quel che mi è piaciuto maggiormente di Berlino è stato il Museo della Cultura Ebraica. Ricordo delle pietre gigantesche su cui appoggiavo le mani e sentivo che erano calde o fredde…
Quando non andavamo in giro per i musei, di sera, nel tempo libero, andavamo nei locali.
La cucina tedesca non è ottima come la nostra bolognese, ma siccome dovevo mangiare… ho mangiato carne cruda e patate lesse; a colazione, fette biscottate con latte e the, e delle gran pizze…Venerdì sera siamo andate a cena con la delegazione in un posto carino di Berlino. Per fortuna Ilaria e Veronica hanno tradotto le chiacchere che ho fatto con tutti gli altri.
Quella sera abbiamo fatto un giro turistico per la città arrivando ad Alexander Platz. Io allora, euforica, mi sono messa a cantare la canzone di Milva che dice “Alexander Platz, auf wiedersehen… c’era la neve…”.
Sabato pomeriggio, dopo aver lavorato alla mattina, siamo andate in giro per i negozi di Berlino. Mi sono comprata un paio di pantacalze larghe alle caviglie, bianche con dei soli disegnati sopra; per mia sorella Grazia ho comprato un pupazzo del segno del leone e per la mia nipotina Giulia una scatola di acquarelli. Purtroppo per mio padre, per la Lucia, la Romana, mia zia Pina e i miei colleghi del Calamaio non ho preso niente perché avevano dei prezzi allucinanti.
Berlino è una città molto bella; ci muovevamo con l’autobus perché a forza di camminare ero stanca morta. Venerdì sera siamo state invitate a una cena, poi sabato ho conosciuto un ragazzo spagnolo piuttosto carino che mi ha fatta ballare. Questo ragazzo mi piaceva parecchio, tanto che mentre ballavamo stretti la Sandra mi ha detto “Lorella, lo conosci da due giorni e già ci balli stretta stretta!”.
Era un bel ragazzo, avrà avuto circa trent’anni. Per me era perfetto perché io ne ho 40!
Spero almeno di diventare sua amica, anche se purtroppo lo vedrò pochissime volte. Ma lui mi ha promesso che a ottobre verrà da me in Italia per il prossimo appuntamento del progetto, così chissà se ce la faccio a costruire una bella amicizia!
Lorella Picconi, animatrice disabile del Progetto Calamaio
Ci caliamo nel calamaio
La disabilità offre molte occasioni di sperimentare forme diverse di comunicazione e di espressione. Spesso le impone; diventano necessarie quando le forme tradizionali non funzionano, non sono efficaci.
In questo laboratorio i linguaggi del disegno in musica ci hanno fatto sentire l’armonia degli stati emotivi che si possono liberare senza codici comunicativi restrittivi e a volte paralizzanti. Ci hanno fatto sentire ed esprimere le nostre sfumature e ci hanno permesso di cogliere le sfumature dell’altro.
L’alfabeto delle emozioni è ricco e infinito. Il linguaggio verbale lo limita, lo incasella in schemi che devono necessariamente essere restrittivi per essere compresi da tutti. Ma disegnare la musica e suonare il disegno ha rappresentato per noi l’esperienza di uscire doppiamente da quegli schemi. Abbiamo sperimentato in modo inusuale una forma comunicativa ed espressiva differente: per il tempo del laboratorio quella forma espressiva è diventata per il gruppo una forma convenzionale e condivisa, perché non si limitava a farci esprimere il nostro stato emotivo, ma ci ha permesso di esprimerlo agli altri, di condividerlo, di sentire l’altro nella sua parte più intima. Il disegno insieme all’altro nel rispetto degli spazi ma nella possibilità di narrare la propria unicità è diventato così uno spartito di suoni e di accordi, un’armonia relazionale.
Sessione 4: Confini e relazioni
Laboratorio 1
La quarta sessione del nostro percorso laboratoriale ha messo al centro l’idea dei confini personali e delle modalità più intime attraverso le quali costruiamo relazioni con le persone. Nel primo laboratorio queste idee chiave hanno preso la forma di connessioni e/o legami. Abbiamo iniziato con un resoconto del seminario a Berlino e abbiamo tratto ispirazione dall’installazione collettiva che abbiamo costruito insieme al Raum 29, sede del gruppo berlinese, dove abbiamo riempito in forma tridimensionale la stanza tessendo una rete di fili colorati con gomitoli di lana che venivano lanciati e passati da una persona all’altra. Lo abbiamo considerato come una rappresentazione del processo che viviamo e mettiamo in atto ogni volta che ci avviciniamo alle persone e ci siamo chiesti: qual è il nostro modo specifico e personale di costruire relazioni? Indubbiamente ciò è sempre diverso, perché dipende da fattori come la propria personalità, le emozioni interiori e il linguaggio del corpo. Inoltre, quando stiamo creando relazioni, il nostro comportamento è uno specchio della nostra identità “con” e “per” gli altri. Possiamo rappresentare questi processi a livello visivo?
Ci siamo fatti suggestionare da una vecchia mappa dell’apparato circolatorio umano, che ci sembrava simile a uno strano corpo tutto fatto di strade, passaggi e vicoli o di fili, nodi e corde. Ogni partecipante ha ricevuto due copie di tale mappa, che si dovevano unire per creare un solo grande foglio di carta. Una mappa simbolizzava il sé, mentre la seconda rappresentava l’altro. A quel punto è stato chiesto a tutti di rendere visibile il proprio personale modo di avvicinarsi alle persone collegando insieme le due mappe con segni, colori e scarabocchi. Ognuno doveva scegliere un punto di partenza – cervello, braccia, stomaco, ecc. – un tipo di percorso – diretto, complesso o instabile – e un punto di arrivo sulla seconda mappa. Il risultato finale era una rappresentazione grafica dei tentativi personali di creare relazioni. Tutto è stato scelto da un punto di vista fisico ed emotivo. Il secondo stadio del laboratorio è consistito nel trasformare i legami rappresentati bidimensionalmente sul foglio, in relazioni tridimensionali, usando lana, cotone, fili di plastica e altri materiali simili. Nella fase finale i partecipanti hanno realizzato una specie di tableaux vivants al fine di rappresentare fisicamente i loro legami con gli altri. Per compiere questo lavoro hanno posato per alcune foto insieme a un compagno, utilizzando il legame tridimensionale creato in precedenza, del tutto simile a quello rappresentato nelle mappe bidimensionali. Abbiamo preso in considerazione soltanto la persona che cerca di avvicinarsi all’altra e non la persona che viene avvicinata. Ciò perché questa attività è stata un allenamento per il secondo laboratorio e ha portato il gruppo a pensare alle relazioni come percorsi sconosciuti i cui territori sono costruiti dalle connessioni di due ‒ o più ‒ identità differenti.
Esperienze
Il laboratorio del MAMbo si è svolto in questo modo: ci hanno consegnato due fogli in cui erano raffigurate le sagome di corpi con i centri nervosi. Noi dovevamo collegare un foglio con l’altro partendo dall’organo con cui, principalmente, ci relazioniamo con gli altri. Io ho scelto il cuore e l’ho collegato con il cuore dell’altro perché è la parte che mi rappresenta di più, perché mi relaziono con gli altri soprattutto attraverso il sentimento. Per questo ho fatto una linea col pastello rosso dal mio cuore al cuore dell’altra persona.
Per la rappresentazione della relazione con l’altro dovevamo scegliere una persona a caso e alcuni materiali tra carta, filo, nastri, carta d’alluminio, corda, ecc. Cioè dovevamo rappresentare quello che avevamo disegnato. Poi ci hanno fotografato e dovevamo così spiegare la nostra scelta del materiale, del colore, dell’organo, ecc.
Io ho scelto il filo rosso perché il rosso è il colore della passione e perché, quando conosco delle persone, non è scontato entrare subito in sintonia e quindi il rosso è anche il colore del sentimento che può nascere, se nasce, col tempo e che nasce se anche l’altro vuole entrare in relazione.
Stefania Mimmi, animatrice disabile del Progetto Calamaio
Io invece ho rappresentato il mio segno con vari fili di lana di colore rosso che esprimono il mio affetto quando incontro gli altri. A volte è ingarbugliato, ciò rappresenta il mio sentimento ma anche la mia paura perché non tutti gli incontri sono uguali. Il mio filo partiva dal mio stomaco e arrivava a quello dell’altro perché a me le emozioni sia positive che negative arrivano allo stomaco. Un’altra cosa che mi è piaciuta è stato fare la regista del mio lavoro e nel finale, lavorare insieme a Robby mi è piaciuto.
Tiziana Ronchetti, animatrice disabile del Progetto Calamaio
Ricordo il laboratorio sulla relazione con l’altro. Sceglievamo una parte del corpo che utilizziamo per relazionarci con gli altri. Abbiamo lavorato a coppia e utilizzato dei materiali che ci collegavano. Io ho fatto questo laboratorio con Tatiana e ho legato la mia mano sinistra con la sua, utilizzando un filo rosso, perché è una parte del corpo che utilizzo bene e credo che le mani siano importanti per relazionarci con gli altri.
Lorella Picconi, animatrice disabile del Progetto Calamaio
Io invece ho scelto gli occhi perché la mia relazione con l’altro parte dallo sguardo.
Diego Centinaro, animatore disabile del Progetto Calamaio
Laboratorio 2
Il secondo laboratorio è stato ispirato dalle opere di Matthew Barney, in particolare Drawing Restraint [“Disegnare con limiti”, ndt]. In quest’opera ‒ ancora in corso ‒ l’artista esplora i limiti e le nuove possibilità dell’atto di disegnare dandosi dei vincoli. La parte interessante di questi video è vedere come Barney provi a superare le difficoltà e come i suoi disegni siano il risultato del rapporto tra segni e confini.
Abbiamo provato a “importare” queste idee nel complesso campo della relazione con le persone. Questo argomento è cruciale per il nostro gruppo perché l’incontro con l’altro ‒ in modo particolare con persone disabili ‒ spesso abbandona le convenzioni e ti porta in una terra sconosciuta. Inizialmente può apparire come un’esperienza dura o difficile e l’imbarazzo è una delle conseguenze più comuni. Avvicinarsi a una persona con disabilità ‒ ma non solo ‒ provoca questo sentimento perché la diversità in generale ci costringe a uscire da noi stessi, oltre i nostri confini, per confrontarci con l’alterità. Questo movimento verso l’esterno viene sentito come una perdita di parte della nostra identità. Considerando questo tipo di ostacoli, possiamo scegliere tra mantenere un atteggiamento di paura e diffidenza o trasformarlo in curiosità e creatività. Se supereremo queste difficoltà, constateremo che è possibile sperimentarci in questo territorio sconosciuto, scoprendo altri modi di comunicazione e contatto. In questo modo possiamo creare una relazione, sempre rispettando i limiti reciproci, con la soddisfazione di averli superati insieme.
Queste considerazioni sono state il punto di partenza del laboratorio. I partecipanti sono stati coinvolti in una performance allo scopo di rappresentare i limiti o le possibilità che una relazione con le altre persone può darci. Abbiamo appeso su un muro una lunga striscia di carta bianca. Il gruppo è stato diviso in coppie, tutte composte da una persona normodotata e da una con disabilità. I due soggetti di ogni coppia dovevano scegliere il loro ruolo. Uno di loro avrebbe dovuto essere “il disegnatore”, mentre l’altro avrebbe dovuto impersonare il ruolo del “limite”. “Il disegnatore” doveva dichiarare un semplice obiettivo come, per esempio, disegnare una linea retta o piccoli cerchi tutti della stessa dimensione. “Il limite”, invece, doveva scegliere in segreto tra essere un ostacolo oppure un aiuto. La prima persona ha iniziato a disegnare sulla striscia di carta, cercando di raggiungere il proprio obiettivo, mentre la seconda ha rivelato il proprio scopo attraverso il proprio comportamento. La relazione tra di loro cominciava dall’interazione perché “il disegnatore” era costretto a considerare la presenza dell’altra persona e a reagire evitandola o trasformandola in un elemento utile. “Il limite” poteva anche decidere di cambiare il proprio ruolo durante la performance, da un ostacolo a un aiuto e viceversa. Nessuno poteva prevedere cosa sarebbe avvenuto. Tutto era nelle mani della coppia che si stava esibendo. Con questo laboratorio abbiamo cercato di concentrarci sul costruire o cambiare una relazione, mostrando il suo processo ‒ con le varie performance ‒ e i suoi “percorsi” descritti in forma di segni, limiti e scarabocchi.
Esperienze
Restraint è una parola inglese.
Tradotta nella nostra lingua indica un vincolo, un trattenimento, un freno.
Utilizzando il vocabolo in ambito giuridico-legale può addirittura significare un confinamento, una reclusione, una segregazione.
Il termine restraint, dunque, indica certamente un limite, che sia questo fisico, psicologico o spaziale.
Risalendo etimologicamente dal lemma “limite” arriviamo al latino: limes, ovvero confine, frontiera.
I limiti, i confini, le barriere rappresentano degli ostacoli. Ostacoli quotidiani con i quali metterci alla prova, confrontarci.
Era una mattina di luglio dello scorso anno quando le ragazze del dipartimento educativo del MAMbo ci hanno proposto un laboratorio sulla sfida al nostro limite, alle nostre difficoltà, oggettive o autoimposte.
Il workshop era ispirato da una parte della serie dell’opera di un artista statunitense, Matthew Barney, chiamata appunto Drawing Restraint.
Il nome dell’opera non mi era nuovo, essendo il titolo di un disco di Bjork che possedevo da alcuni anni. Quel giorno venni a conoscenza che non era altro che la colonna sonora dell’omonimo film sperimentale diretto dallo stesso Barney, compagno della cantautrice islandese.
In questo lavoro l’artista esplora i confini e le possibilità dell’atto del disegnare, imponendosi alcune difficoltà, alcuni ostacoli: restraints, appunto.
Il lavoro di Barney è un’unione tra segni e limiti.
Le educatrici del MAMbo hanno cercato di trasportare queste idee nell’ambito della relazione tra persone. Il discorso relazionale e della consapevolezza dei proprio limiti è fondamentale per chi come noi si confronta quotidianamente con la disabilità.
Siamo stati coinvolti in una performance artistica che è diventata una meravigliosa metafora di come la relazione con l’altro possa darci nuove prospettive e possibilità.
L’incontro quotidiano con la disabilità ci “costringe” a forti sensazioni emotive, a non sottovalutare mai l’aspetto relazionale, a osservare le nostre frontiere e a confrontarci con esse.
Ispirati dalla “follia artistica” di Barney ci siamo di nuovo resi conto del potenziale presente nella relazione e di come il limite, qualsiasi limite, può comunque essere sfidato. D’altra parte, pur vivendo in un momento storicamente controverso, la sfida per iniziare ad abbattere alcuni restraints/limiti/frontiere è già stata avviata, almeno a livello politico e geografico, come mostrano gli accordi di Schengen.
La battaglia è culturale, non solo politica. Noi del Calamaio, aiutati dalle educatrici del MAMbo e da Matthew Barney, giocando con i nostri limiti li abbiamo rimessi in discussione.
Luca Cenci, educatore del Progetto Calamaio
Io ho aiutato Laura, che era in coppia con me, a disegnare. All’inizio non ci riuscivo ma con un po’ di aiuto ce l’ho fatta e sono rimasta anche contenta di vedere il risultato che è venuto fuori.
Stefania Mimmi, animatrice disabile del Progetto Calamaio
Un altro laboratorio che ricordo è quello sulla relazione e sull’aiuto. Anche qui lavoravamo a coppie, mentre uno dei due disegnava l’altro poteva scegliere se aiutarlo o essergli di ostacolo. Io ho scelto di ostacolare Patrizia, le tiravo il braccio e le facevo i dispetti!
Stefania Baiesi, animatrice disabile del Progetto Calamaio
Ci caliamo nel calamaio
Il laboratorio ci ha offerto l’occasione di lavorare sul nostro modo di entrare in relazione con l’altro, ed è stato certamente fra i più emotivi. Ci ha richiesto un passaggio ulteriore rispetto ai precedenti perché, dopo avere contattato molte parti della nostra identità personale – ognuno di noi secondo la propria capacità e disponibilità ad andare negli strati più profondi di sé – abbiamo potuto uscire dall’Io per andare verso l’altro. Abbiamo così individuato e riconosciuto il personale modo di ognuno di partire dal dentro per cercare l’altro, il diverso, il nuovo.
Le attività ci hanno permesso di ascoltarci nel contatto diretto fra i corpi o attraverso strumenti di mediazione che rappresentavano simbolicamente, ma in modo molto riconoscibile, il legame, la ricerca, le vicinanze e le distanze.
La sperimentazione dei punti di contatto e dei limiti ha ancora una volta permesso di condividere sensazioni dense di significato emotivo attraverso gesti e segnali non convenzionali. E ancora una volta la potenza del gruppo, che accoglie e contiene, ha autorizzato espressioni forti quali la provocazione del limite, che può essere della persona con disabilità ma che il disabile stesso può anche trasformare in risorsa.
Sessione 5: Identità provvisorie
Laboratorio 1
Il laboratorio doveva essere dedicato a rispondere ai lavori ricevuti dal gruppo spagnolo. Un evento inaspettato ha cambiato, in parte, le carte in tavola. Qualche tempo dopo il terremoto in Emilia, l’intera Cooperativa Sociale Accaparlante ha dovuto abbandonare la sede resa inagibile per alcuni danni alla struttura e spostarsi in un altro edificio per ragioni di sicurezza. Questo grande cambiamento ha sconvolto il gruppo, che era molto legato alla vecchia sede in quanto rappresentazione dell’identità comune, il “corpo” della sua storia di gruppo, il luogo delle sue radici, abitato e vissuto. Dall’altro lato, il nuovo edificio veniva percepito come estraneo, troppo piccolo, troppo scomodo, troppo lontano dalla gran parte delle loro case. Purtroppo, o per fortuna, però, la nuova sede rappresentava l’unica concreta possibilità per continuare a lavorare e, quindi, si doveva accettare. Ecco perché, a differenza di quanto avevamo programmato, l’attività ha subito una modifica per riorganizzare il laboratorio cercando sia di rispondere al gruppo spagnolo che di dare espressione al forte disagio sentito dal gruppo. Insieme abbiamo aperto il pacco e abbiamo trovato molte cartoline con attaccate immagini dei volti del gruppo spagnolo. Sembrava una specie di puzzle colorato perché i visi erano divisi a metà e ci siamo davvero divertiti a creare nuove e folli facce oppure a cercare di ricomporre le facce nel modo giusto. Abbiamo riconosciuto alcune persone che avevamo già incontrato durante i primi due seminari e le abbiamo presentate a tutto il gruppo. È stato molto interessante verificare che cosa le persone che erano a Castellón e Berlino ricordassero del gruppo spagnolo e come raccontassero i loro ricordi agli altri partecipanti. Quindi abbiamo riflettuto su una possibile reinterpretazione delle cartoline e abbiamo deciso di dare importanza più al “processo di ricostruzione” piuttosto che al risultato finale. Ci siamo concentrati sull’idea di identità come qualcosa che cambia sempre, anche supponendo condizioni provvisorie a un livello emotivo, sociale e fisico. Che cosa succede durante il momento di passaggio da uno stato particolare a un altro? Come possiamo definire il momento di transizione di questo delicato processo? Le parole “difficoltà”, “crisi” e “frammento” sono state le più usate dai partecipanti. Le discussioni originatesi hanno consentito agli allievi di connettere queste idee sia al loro trasloco forzato che al lavoro del gruppo spagnolo, che si è trasformato in un pretesto per poter parlare dell’identità del gruppo, della sua crisi e dei suoi frammenti.
Quindi siamo passati alla fase pratica del lavoro.
Ogni partecipante ha ricevuto una cornice vuota con la richiesta di trovare la loro parte preferita della nuova sede. Le cornici hanno costretto i partecipanti a isolare un solo dettaglio o parte dello spazio e a guardarlo in modo diverso. Dovevano anche riportare i dettagli selezionati su carta, usando varie tecniche come disegno, colori, frottage e collage di elementi naturali o materiali simbolici. Non c’erano regole particolari perché la cosa importante era considerare che cosa avrebbero scelto e come lo avrebbero riportato su carta. Qualcuno ha scelto il giardino perché gli ricordava un parco pubblico, un luogo piacevole dove passare del tempo, qualcuno ha scelto la cucina perché gli ricordava la vecchia sede dove lo spazio cucina era uno di quelli maggiormente condivisi, qualcuno ha fatto il frottage di un muro grezzo perché era simile ai muri della propria casa. Ognuno ha fatto una scelta diversa ma con un elemento comune: tutti i dettagli selezionati sono stati scelti per le loro qualità evocative e non per la loro appartenenza a quello specifico edificio. Abbiamo creato un catalogo di identità frammentate.
Abbiamo presentato la nostra risposta al gruppo spagnolo durante il seminario a Bologna.
Esperienze
Vi racconto una cosa molto carina e emozionante che questo lavoro mi ha fatto ricordare. Quando ero piccola, ma forse anche adesso per la mia manualità, avendo la mano destra fannullona, non riuscivo ad assemblare i puzzle, così con la mia educatrice di allora mi organizzavo in questo modo: io trovavo i pezzi da unire e lei li prendeva e li attacava. Lo stesso è successo in questo laboratorio ed è stato molto bello. Io ho raccolto dei pezzi di giardino, dell’erba e delle foglie grandi e secche, alcune anche rosse e ho ricalcato la corteccia di un albero.
Questo lavoro mi è piaciuto molto e mi sono divertita tantissimo.
Alla fine del laboratorio abbiamo raccontato come abbiamo realizzato i nostri lavori. Io ho spiegato al gruppo che avevo scelto il giardino come luogo mio rappresentativo per il fatto che mi ricordava di quando mio papà mi aveva costruito la mia casetta in giardino.
Tiziana Ronchetti, animatrice disabile del Progetto Calamaio
Ma il mio ricordo più bello è legato a quando gli altri ragazzi del progetto europeo sono venuti a trovarci a Bologna per condividere i lavori: quella sera siamo usciti a mangiare e bere tutti insieme… È stato bellissimo uscire con i colleghi del Progetto Calamaio, ero davvero emozionata, anche perché erano presenti anche persone a me molto care. Ho provato forti e calde sensazioni che mi hanno tolto il respiro, tanto da sentirmi il cuore in gola; era come se in quel momento nella mia vita non mi fossero successe delle cose tristi e brutte.
Tiziana Ronchetti, animatrice disabile del Progetto Calamaio
Ci caliamo nel calamaio
Le risorse che attiviamo nel nostro quotidiano non bastano quando si verifica un evento traumatico. Un evento imprevisto, una crisi inaspettata mutano necessariamente ciò che siamo nelle difficoltà “prevedibili”, mutano la nostra identità nota e sperimentata. È allora che diventa determinante la nostra capacità di riadattamento, di ricostruzione, di ristrutturazione del contesto e dell’Io che vi si immerge con grande fatica.
L’importante allenamento del nostro lavoro di gruppo è stato consolidato nel corso di questi laboratori e in questo preciso momento di difficoltà è stato importante poterci raccontare il nostro disagio e le risorse su cui volevamo e potevamo contare per ripartire.
La perdita dei punti di riferimento, quali la sede di lavoro, i nostri oggetti che hanno sempre rappresentato la nostra storia e la nostra identità di gruppo, ci ha fatto ritrovare la nostra storia, la nostra dimensione di insieme.
È stato importante guardare e accogliere le nostre identità interrotte per cominciare a ricomporre il nuovo, l’evoluzione e la crescita.
Sessione 6: L’anatomia della memoria
Laboratorio 1
L’ultimo laboratorio è stato dedicato alla memoria. Abbiamo deciso di riflettere su questo argomento per ultimo, al fine di fare una sintesi dell’intera esperienza del progetto Postmarks, e anche per i partecipanti era di grande interesse poter affrontare la complessa relazione tra memoria e disabilità. Siamo partiti con l’idea che ogni ricordo, ogni esperienza che viviamo è come una mattonella che aggiungiamo al mosaico in continuo mutamento della nostra identità. Inoltre, possiamo considerare i ricordi come le rughe, le tracce, le impronte prodotte in noi stessi da almeno uno dei nostri cinque sensi. Per questo abbiamo mostrato ai partecipanti alcune opere d’arte di Evgen Bavčar, un fotografo che è diventato cieco. Ciò che maggiormente colpisce di questo artista è che ha imparato a usare i suoi limiti e la sua disabilità come ingredienti importanti nel suo processo creativo. L’opera di Bavčar indaga le relazioni tra visione, cecità e invisibilità: una delle sue sfide è la riunione dei mondi visibile e invisibile. La fotografia gli consente di cambiare il metodo stabilito della percezione tra coloro che vedono e coloro che non vedono. L’artista scatta immagini di cose che non ha mai visto e non vedrà mai. Si ricorda di come la sua vista ‒ e i pensieri che aveva mentre osservava ‒ funzionava. Quindi si ferma davanti a cose che gli sembrano interessanti e scatta una foto, in cui è possibile vedere il soggetto ritratto e le sue mani che toccano il soggetto stesso. Un po’ come se scattasse foto dalla memoria. L’altra fonte di ispirazione è stato il lavoro del gruppo tedesco, e in particolare le composizioni di Sylvia e Krystha che hanno dato come regalo a Ilaria durante il seminario a Bologna. Guardandole abbiamo anche riflettuto sull’idea che la memoria assomiglia a un filo che a volte è aggrovigliato, a volte lineare, a volte spezzato. Nel nostro cervello questi fili si intrecciano, si annodano e si accavallano fino a creare fitte trame che salvaguardano “tesori” intimi come una piccola pietra, un vecchio biglietto, un odore particolare…
Partendo da queste basi, abbiamo dato a ogni partecipante una piccola scatola da riempire con materiali differenti, in base alle seguenti categorie:
– il filo della memoria
– un oggetto speciale
– un ricordo dell’infanzia
– una parola importante
– un ricordo recente
– un sogno o un incubo.
Questa attività ha condotto i partecipanti a riflettere sulla loro memoria personale suddividendola nei suoi elementi fondamentali, rappresentati dalle categorie. Ognuno ha creato il proprio “archivio segreto” trasformando i propri ricordi in immagini, segni, colori, parole e oggetti. I partecipanti hanno messo un’impronta ‒ che è un altro tipo di ricordo ‒ della parte preferita del loro corpo sul coperchio di ogni scatola.
Abbiamo raccolto tutti i lavori prodotti durante tutte le 6 sessioni e li abbiamo inviati al gruppo inglese.
Esperienze
I primi accenni di primavera mi facevano ben sperare nella fine dell’inverno, da me sempre detestato, e nell’inizio di una radiosa bella stagione. I pensieri ottimisti si rincorrevano gioiosi in calde fantasie estive: “finalmènt dall’invèran a sàn fòra!” consideravo, io pugliese, nel mio bolognese artefatto. Mi trastullavo nel godimento di tutta questa atmosfera. Rimaneva preminente, comunque, la trasferta lavorativa a Birmingham per l’incontro conclusivo del progetto europeo Postmarks: una “quattro-giorni e tre-notti” tutta da assaporare fino in fondo. Non me ne preoccupavo affatto, sicuro com’ero della mia carica adrenalinica al sapore di olio abbronzante della vicina estate. A spezzare l’incanto, però, era la “nuova e lieta novella” di un collega che, con aria seriosa, mi invitava a mettere in valigia abiti invernali perché in Inghilterra nevicava. “Mìzzica, questa non ci voleva!” riflettevo tra me e me, condendo il mio slang di un po’ di siculo per poi arricchirlo di coraggioso romanesco “ma che me frega, basta che se magna e se dorme bbene!”.
L’arrivo all’aeroporto di Birmingham vedeva i cinque “espatriati” italiani più spavaldi che mai, sicuri di una calda accoglienza da parte di tutti: “I’m italian, I’m greatest!”, ero sicuro di me e, per fortuna, nessuno poteva ascoltare i miei pensieri nel mio inglese beatlesiano improvvisato. Ero ignaro di quello che avrei incontrato da lì a pochi minuti, ma fiducioso nel magico e avanzato mondo britannico. Infatti, tutto quel viaggio si stava condendo di fatata magia. A rompere l’incanto, però, era un nuovo ostacolo: la scelta del taxi attrezzato per il trasporto dei disabili. “Non c’è problema, male che vada ci pensiamo noi a farti salire sul taxi!” sancivano con solennità quasi austera i colleghi, mentre io con tono più dimesso ribattevo: “Non c’è problema?”. I taxi britannici sono diversi dai nostri. Innanzitutto sono più alti e all’interno sembra di entrare in un piccolo salotto. Mancava solo il the pomeridiano e un altro incantesimo si sarebbe aggiunto a quell’atmosfera incantata. Intirizzito com’ero dal freddo, non mi riusciva tanto facile piegare la gamba per fare il mitico balzo in avanti verso quel “salottino”, ma a provvedere a tutto erano i miei “amici di ventura” che afferrandomi, chi dalle gambe e chi dalle braccia, mi sospingevano con decisione. L’aiuto decisivo mi veniva offerto da chi con coraggio premeva sui miei glutei, provocando la mia reazione fatta di risata e smarrimento: “Che m’ tocca fà pè campà!”, tornavo alla madrelingua pugliese.
Il tragitto in taxi fino al nostro hotel era fatto di considerazioni e frasi spiritose. Non si poteva fare a meno di volgere, di tanto in tanto, lo sguardo verso il finestrino per constatare con rassegnazione o con gradimento, a seconda dei gusti di ciascuno, che la neve continuava a cadere giù dal cielo. “Ma chi è stato quel ‘santone’ che ha asserito che in Inghilterra si mangia male?”, chiedevo con incredulità. “Qui si mangia bene, altroché”. Il Mario Fast Food che era in me gioiva degustando pietanze a base di riso e pollo. Intanto notavo la compostezza e il silenzio dei commensali ai tavoli vicini, mentre noi “italians” più fracassoni ci davamo al tono di voce più sostenuto e alla gestualità più folkloristica: “Sono anch’io vittima di pregiudizi nei miei stessi confronti!”, constatavo con canzonatoria ilarità.
Dopo il pranzo si correva all’Ikon Gallery dove avremmo incontrato gli altri partners europei: con “How are you?… What a nice surprise!” si sarebbe fermata la mia conoscenza d’inglese se non fossero venuti in soccorso vecchi e recenti ricordi di titoli di canzoni, e allora sotto con “Strawberry fields forever!” e più ancora con “Satisfaction!” fino alla più recente “Sky fall!”. Persino gli inglesi mi facevano i complimenti per l’ottima pronuncia garganico-anglosassone ed io, ignaro di tutto, sorridevo soddisfatto. Che bella sensazione era trovarsi in quella sala ricca dei lavori di ogni gruppo: “Ooohhh!”, restavo a bocca aperta.
I giorni passavano velocemente mentre pensavo a cosa portare con me in Italia come souvenir. Prima, però, avevo da svolgere un laboratorio ludico-creativo a cui avrebbero partecipato anche famiglie e bambini della zona. Ci veniva chiesto di decorare in modo personale e creativo degli oggetti di varia natura (cornici, bastoncini, griglie di ferro) con nastri colorati: “nelle cose manuali so’ proprj ‘na chiavica!” asserivo con severità. In quel momento mi si avvicinava una graziosa e gentile ragazza belga che, mostrandomi il suo lavoro, me lo regalava: “Un cadeau pour toi!”. Col francese avevo più confidenza, quindi rispondevo prontamente: “Merci beaucoup, tu es très gentile!”. Il souvenir britannico era stato così trovato senza costi aggiuntivi. Al quarto giorno la sveglia preannunciava il nostro rientro in “patria italica” e io non potevo che guardare con nostalgia ai miei magici giorni in terra oltremanica.
Mario Fulgaro, animatore disabile del Progetto Calamaio
Fare memoria di chi siamo e di chi siamo stati è un bisogno primario dell’uomo, come mangiare e dormire, tanto che alcune demenze senili che si portano via la memoria quasi annullano la persona, perché ognuno di noi è quel che è per la sua storia, per quello che si porta dietro da quando è nato, gli eventi della sua vita e ancor di più le emozioni che si risvegliano al ricordo di quegli eventi.
In fondo noi siamo quello che ricordiamo di noi e quello che ci ricordano gli altri.
Nel film Il favoloso mondo di Ameliè la protagonista ritrova per caso, nascosta in un buco dentro al muro, dietro a una mattonella della parete della cucina, una vecchia scatola di latta contenente diversi oggetti raccolti di certo da un bambino tanti anni prima e lì nascosti come un tesoro. E così, informandosi dagli altri vecchi condomini, risale al nome del proprietario precedente e si mette a cercarlo in tutta Parigi, suonando nelle case dove risulta abitare un uomo con quel nome e cognome. E, dopo vari tentativi, alla fine lo trova: senza dire nulla gli fa trovare la scatola in una cabina telefonica e lui, un signore ormai avanti con l’età, guarda quell’oggetto della sua infanzia ormai dimenticato e scoppia a piangere.
Ameliè riprende così le vie trafficate e caotiche della città, soddisfatta, con la conferma che quello in cui credeva, e cioè quanto potesse essere importante quell’oggetto per quella persona, valeva la fatica di quella ricerca. Un gesto gratuito il suo, mosso certamente da una sensibilità acuta e sottile, ma che rivela in fondo il sentire più intimo di ognuno di noi.
È questo che ho ritrovato nello svolgere il laboratorio della scatola: una commozione dolce e dolorosa allo stesso tempo di quel che è stato e che non è più, una nostalgia per quell’infanzia che sembra sempre bella rispetto ai problemi da adulti e alla vita quotidiana.
Ci sono state date sei tracce da seguire:
– il filo della memoria: la richiesta era di rappresentare la nostra vita dalla nascita fino a quel momento con fili di diversi materiali (lana, plastica, cotone, spago,…) e di diversi colori;
– un oggetto speciale: dovevamo rappresentare, dando forma alla plastilina, un oggetto reale che possediamo ancora e che per noi ha un’importanza particolare;
– un ricordo dell’infanzia;
– una parola importante: reale o immaginaria che ci riporta a momenti speciali, una sorta di parola “magica” con la quale aprivamo le porte della nostra fantasia;
– un ricordo recente;
– un sogno o un incubo.
Sei elementi dentro a un’ordinaria scatolina di plastica bianca con sei scomparti, di quelle per dividere viti, anelline o oggetti di piccole dimensioni, comprata di certo in una normalissima ferramenta… Ma che, con quel contenuto così prezioso e personale e forte e unico (nessuna scatola aveva anche solo un elemento uguale a quello di un’altra), ha acquistato un valore e una pregnanza non definibili.
Non ci è stato chiesto né il nome, il cognome, né il titolo di studio, lo stato civile, l’età o la nostra professione. Sarebbe stato troppo facile e, soprattutto molto arido, perché non significa esporsi, ma comunicare dei semplici dati.
Invece, utilizzare questi strumenti per presentarsi all’Altro che non conosciamo – era questo uno degli obiettivi del laboratorio – ha significato aprire una porta molto intima e personale, che qualcuno di noi, forse, aveva tenuto chiusa per tanto tempo anche a se stesso, dimenticata in un angolo della casa, come il personaggio del film, e poi chi ci pensa più…
Ma i ricordi si divertono a giocare a nascondino e così è sufficiente un odore, un oggetto ritrovato, una vecchia foto per riaprire un passato in fondo mai dimenticato.
Ora sono in giardino e da una finestra di qualche casa indecifrata qui attorno è uscito un profumo invitante di peperonata: è bastato un respiro per riaprire i ricordi di quando da bambina, in estate, la mia nonna mi cucinava il “friggione” sulla stufa a legna fuori nell’aia…
Di certo questo è stato il laboratorio più bello a cui ho partecipato.
Patrizia Passini, educatrice del Progetto Calamaio
Ci caliamo nel calamaio
Ciò che siamo oggi ha origini molto lontane. L’identità attuale è la somma di attimi a volte talmente piccoli, da non apparire nemmeno importanti. Ma lo sono, sono determinanti. Sono i dettagli della memoria. Sono ciò che rende ogni storia originale e senza eguali. Sono le sfumature di ogni individuo, il colore e il sapore di ogni storia.
Questa riflessione pare quasi che contrasti e stoni con le storie di vita impregnate e caratterizzate in modo assoluto da elementi tanto ingombranti e travolgenti quali la disabilità, il trauma, il lutto, la malattia. Come se non potesse rimanere spazio per nient’altro. Come se chi è impegnato a “sopravvivere” alla tragedia non avesse alcun interesse e alcuna possibilità di guardarsi attorno e vivere la vita.
Per fortuna non è così. O non è solo così. Questo laboratorio ha portato a galla dettagli, piccole cose, veloci momenti che hanno caratterizzato le storie di ognuno di noi. La disabilità fa da sfondo, ma non impedisce lo scorrere della vita anche nelle fessure dei particolari.
E in effetti, pensandoci bene, è l’unico modo che conosciamo di vivere!
8. L’ultimo laboratorio
A conclusione del progetto, abbiamo deciso di realizzare un ultimo laboratorio, una sorta di saluto, la chiusura di un cerchio.
Le parole di Francesca Aggio, animatrice disabile del Progetto Calamaio, ci raccontano contenuti e sensazioni, quelle personali ma certamente condivisibili da tutto il gruppo.
Le tirocinanti hanno disegnato il nostro profilo su un foglio poi l’hanno ritagliato come se si aprisse una finestra. Sul cartoncino sottostante dovevamo, attraverso uno scarabocchio, descrivere un’esperienza bella o brutta recente. Io ho scelto di descrivere un’esperienza di teatro.
Nella seconda attività ci era stato dato il compito di spiegare, sempre attraverso il segno, la nostra maniera di relazionarci con l’altro. Questo lavoro l’ho svolto con Sandra: ognuno aveva un pennarello di un colore diverso. Partendo da due punti opposti sul foglio, attraverso degli scarabocchi, dovevamo arrivare a incontrare i segni dell’altro. Dal mio foglio si capiva che la relazione che io instauro con l’altro è molto movimentata e anche travagliata e io tendo a invadere il territorio dell’altro.
Facendo questa attività ho capito che a volte la relazione con l’altro diventa più profonda e quindi di fiducia. La maggior parte delle mie relazioni all’inizio sono sempre molto travagliate, perché io non mi concedo con molta facilità. Non sono assolutamente capace di dimostrare all’inizio di qualsiasi relazione che voglio bene o che accetto quella persona, anche considerando i miei limiti e i suoi limiti.
L’altra attività che ci è stata proposta ha preso spunto da un artista che si chiama Luigi Ontani. Ci sono stati distribuiti dei cartoncini sui quali ci hanno chiesto di comporre un mostro di nostra immaginazione prendendo delle immagini che ci colpivano sparse sui tavoli e poi ritagliarle e incollarle dove e come volevamo noi. In seguito dovevamo assegnare un titolo al nostro lavoro.
Il mostro doveva rappresentare l’Altro diverso da me.
Io ho usato delle immagini di dei greci perché ho sempre amato la mitologia e perché mi sembrava che rappresentassero il diverso da me.
Le immagini che ho scelto avevano anche altri significati. Infatti, ho utilizzato anche delle figure di gambe e di mani di persone per fare il collage del mio mostro perché volevo far trasparire i miei limiti nell’usare le gambe e le braccia, in particolare la mano sinistra, visto che l’altro diverso da me nella mia idea può muovere le gambe e le braccia e può camminare, mentre io non posso farlo come vorrei. È questo che volevo fare capire con l’immagine del mio mostro.
Mi è piaciuto fare questo lavoro perché ho potuto mettere in luce cose a cui non avevo mai pensato su di me e sulle persone che mi circondano, e con le quali non avevo mai parlato perché mi sembrava un discorso forzato, sia per me che per gli altri.
Pensavo che non fosse di interesse, invece attraverso l’Arte ho potuto fare vedere quello che in realtà ho sempre cercato di nascondere, ovvero la mia paura di non essere all’altezza delle altre persone e metterlo in luce senza fare del male a me e fare del male a loro.