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Autore: Nicola Rabbi

4. È sempre difficile essere padre. Qualche volta è più difficile.

di Andrea Canevaro, docente di pedagogia speciale – Università di Bologna

È più difficile se ci si sente in colpa e non si capisce perché.
Se si pensa che tutti gli altri siano colpevoli, perché non capiscono.
Se si fanno confronti e ci sembra di essere sempre perdenti.
Se nonostante tutto ci si sente vincitori, ma gli altri…
E tanti altri “se”.

Nessuno è a parte
Cervo Mite, un indiano del sud del Dakota nato nel 1903 e morto nel 1974, diceva: “Tutti noi dobbiamo imparare a vederci come parte di questa Terra, non come un nemico che viene dall’esterno e cerca di imporre la sua volontà. Noi, che conosciamo il Segreto della Pipa, sappiamo anche che, in quanto parte vivente di questa Terra, non possiamo farle violenza senza ferire anche noi stessi”.
Cervo Mite può dirci qualcosa di utile per la nostra riflessione. Vederci come parte di questa terra significa ragionare sull’appartenenza. Il Segreto della Pipa, per le nazioni indiane, era l’evocazione di un simbolo ma anche di una possibilità concreta, quella di incontrare l’altro e avere un mediatore, la pipa. Un simbolo che collega al respiro del mondo quindi ha una possibilità di non agire unicamente con la propria solitudine ma di aspettare che il respiro del mondo suggerisca. Si potrebbe anche dire “prendere tempo”: invece di scandire immediatamente le nostre idee, avere un oggetto mediatore che ci impegni e ci permetta di aspettare. Non solo aspettare che una decisione già realizzata nel nostro animo, nella nostra testa, cambi, non esista più, sparisca, ma anche, eventualmente, aspettare per trovare il modo per realizzare quella decisione senza ferire. In una altro punto Cervo Mite diceva: “Il fumo della nostra sacra Pipa è il respiro del Grande Spirito. Quando noi sediamo insieme e fumiamo la Pipa formiamo un cerchio, che è senza fine e circonda tutto ciò che esiste sulla Terra”.
Don Lorenzo Milani scriveva in una lettera – che quindi aveva la dimensione del rapporto a due e non di una dichiarazione per tanti – : “Il sacerdote è padre universale? Se così fosse mi spreterei subito. E se avessi scritto un libro con cuore di padre universale non v’avrei commosso. V’ho commosso, convinto, solo perché vi siete accorti che amavo alcune centinaia di creature, ma che le amavo con cuore singolare e non universale”.
Vi è da prendere queste parole con molta delicatezza ma anche con l’attenzione all’irruenza con cui vengono scritte. L’amore ha bisogno di radicarsi, di essere in contesti, non può essere qualcosa di elegantemente – diciamolo così – ideale. Ha bisogno di incarnarsi e di esprimersi in relazioni concrete, fatte di carne e parole.
Due elementi quindi, l’attesa e la relazione al singolare.
Attesa intesa come tempo necessario all’elaborazione, all’ascolto, alla scoperta.
Relazione come strumento e mezzo fondamentale dell’amore. 

Che cosa dire? Si può dire la verità?
Cosa si deve dire a chi cresce come nostro figlio o figlia e ha bisogni speciali?
Far finta di niente? Dire o non dire?
Bonhoeffer scrive: “Colui che pretende di ‘dire la verità’ dappertutto, in ogni momento e a chiunque, è un cinico che esibisce soltanto un morto simulacro della verità, circondandosi dell’aureola di fanatico della verità, che non può aver riguardo per le debolezze umane, costui distrugge la verità vivente tra gli uomini. Egli offende il pudore, profana il mistero, viola la fiducia, tradisce la comunità in cui vive, e sorride con arroganza sulle rovine che ha causato e sulla debolezza umana che ‘non sopporta la verità’. Egli dice che la verità è distruttiva ed esige delle vittime, e si sente come un dio sopra delle deboli creature, ma non sa di essere al servizio di Satana”.
Il teologo ci fa riflettere sulla posizione che possiamo assumere nei confronti della verità. Brandirla come una clava oppure cercare le mediazioni per poterla offrire come una ricerca e come una realtà che salva. Far crescere i bambini e le bambine all’interno della ricerca di verità è importante, affrontarli con una verità che colpisce come un pugno e stordisce con un colpo in testa è quello che Bonhoeffer dice essere un modo arrogante di utilizzare la verità. Ed è questo il punto importante per cui abbiamo bisogno di mediatori e di mediazioni, non per nascondere ma per ricercare, non per opprimere ma per offrire. E allora bisogna trovare i mediatori giusti e condividere questa ricerca con altri, sapendo che non è facile, sapendo che esige anche una sopportazione di sofferenza e di attesa.
Bisogna mettere insieme i tempi di molte persone e farlo con una pazienza che a volte è proprio quella che manca quando si è in una fase di ricostruzione, e si vorrebbe subito affrontare un terreno nuovo, un’aria nuova, una vita nuova. Ma la vita nuova non può che essere costruita tenendo conto che la vecchia non va distrutta ma solo messa in condizioni di essere anch’essa nuova.
Vi è una dimensione orizzontale che facilita il contatto, la costruzione di percorsi e non di un solo percorso. È molto importante avere una rete di percorsi, per evitare l’insuccesso ripetuto. Avere una sola strada e trovarla sbarrata significa rischiare di avere un insuccesso che ripetendosi può creare la sindrome da insuccesso. E oltre alla mediazione nella rete orizzontale, c’è anche l’altra dimensione, verticale, che vuol dire avere una possibilità di trascendere dall’attuale.
Il padre può essere mediatore ma ha anche bisogno di mediazioni. Ha un ruolo di traduttore ma anche lui ha bisogno che gli vengano tradotte le esperienze che sta vivendo.

Indicazioni su cui lavorare
Tre parole: responsabilità, rituali, resilienza. Tre elementi di un’educazione che possono essere: proposte, innovazioni ma, e questo ci sembra più importante, modi di leggere il valore, il positivo che già esiste.
Tre parole che possono aiutarci a passare dalla logica del “se” che ci destina a un’attesa senza impegno a quella del “quando” che presuppone, al contrario, un’accettazione della situazione di partenza e una progettualità condivisa che proponga un orizzonte verso il quale muoversi.
Vorremmo che i padri fossero capaci di assumersi la responsabilità di mettere in movimento una dinamica che favorisca non l’imposizione ma la scelta, non la spavalderia dell’azzardo, ma l’avventura del progetto sostenibile.
Indicazioni per padri, quindi, che, al di là delle specifiche caratteristiche del ruolo o dei bisogni dei loro figli, vogliano vivere il loro ruolo con impegno e motivazione ma anche con prospettive e indicatori di direzione.
Uno studioso che riteniamo importante, Antoine De La Garanderie, sostiene che la motivazione non è un fatto solitario, esige una vita di relazione. Sostiene ancora che gli educatori dovrebbero essere motivati dalla loro ignoranza. Una motivazione, quella del padre, che lo porti ad agire con maggiore intenzionalità e, quindi, una maggiore capacità di efficacia e di riproducibilità nel tempo e nello spazio della sua esperienza.

La responsabilità
Una prima indicazione si riferisce al termine responsabilità che ha una evidente radice nel termine rispondere: rispondere di sé e rispondere agli altri. Educare alla responsabilità lo vogliamo intendere non tanto e non solo come un’assunzione di compiti straordinari, quanto come una necessità di sapere che anche il piccolo gesto della quotidianità ha delle conseguenze di cui dobbiamo assumerci la responsabilità. Un esercizio della responsabilità, quindi, attraverso la quotidianità delle piccole cose che, senza facile retorica, sono i mattoni che ci permettono di costruire un percorso, un movimento che, basato su solide basi, ci permetta di crescere, ognuno nel proprio ruolo.
Chi cresce, si dice, impara a camminare cadendo, ma anche impara a camminare evitando di cadere. Un bambino o una bambina piccola inevitabilmente cadono ma sta agli adulti, che sono in qualche modo responsabili di quella crescita, evitare che vi siano degli elementi di pericolo per cui le cadute diventino una minaccia con conseguenze gravi. Vi è quindi la necessità di predisporre un contesto, e questo esige una prima assunzione di responsabilità, perché vi sia, da parte di chi cresce, una possibilità di assumere le conseguenze dei propri movimenti, certamente quelli corporei, e poi dei propri “movimenti mentali”, dei propri pensieri, delle proprie espressioni, delle proprie scelte, di parole, di strumenti, di azioni da fare. Questa complessità di elementi collega il controllo e la responsabilità.
Il padre in questo ha una maggiore libertà, nel permettere al figlio di correre dei rischi, di scontrarsi, anche fisicamente, con le proprie difficoltà, per sperimentare, per imparare, per apprendere e per accettare. Un rischio, ovviamente, collegato a un contesto protetto, o meglio potremmo dire, adatto all’età e alle singole esigenze di ognuno.
Padre come promotore del rischio controllato ma padre anche come sostegno alla definizione di un progetto. Responsabilità sia nell’evitare il pericolo che nel permettere al figlio di affrontare  le difficoltà che sono alla loro portata.
È interessante trovare, in un altro autore importante della nostra epoca come Frankl, alcune indicazioni che riguardano un atteggiamento di provvisorietà nella vita. Frankl considera tale atteggiamento come tipico di coloro che, vivendo in un periodo bellico, sono costretti a vivere alla giornata. Sembra, però, che anche in un periodo di pace apparente, come nella nostra epoca e nei nostri paesi, vi sia questo stesso senso di provvisorietà, di incertezza del domani, che porta, o si accompagna, a un atteggiamento da Frankl chiamato fatalista, ovvero a un’accettazione di quello che accade. Avere un progetto, pensare e immaginare un futuro, definire un orizzonte di senso contrasta con questo atteggiamento fatalista perché ci spinge a una partecipazione responsabile alla costruzione di chi vogliamo essere.
Fatalità, inoltre, contrasta con accettazione, anzi è una falsa accettazione. Perché accettare significa aprirsi alla possibilità, significa sperimentare possibilità, significa cadere e rialzarsi.

I rituali
La nostra realtà educativa in generale è assai povera di rituali, e in generale tutta l’esperienza educativa è all’insegna di una certa irrisione per quelli che sono i rituali. Certo, vi sono aspetti dell’educazione che hanno rituali propri, ma all’interno di settori specifici: la specificità degli sport, ad esempio, oppure quella dell’educazione nelle religioni. Ma anche in questi casi i rituali portano a essere piuttosto derisi che non compresi per la loro importanza. In particolare, poi, quelli che vengono definiti i riti di passaggio, sono quanto mai confusi. I nostri anni sono contrassegnati da una totale confusione di quelle che sono le tappe di sviluppo e di assunzione di compiti, all’interno di un contesto sociale. Le possibilità di comprendere con esattezza quale è la fase di sviluppo di una persona, attraverso i periodi e i riti che sono connessi ai diversi periodi di sviluppo, è oggi molto più difficile di ieri, perché anche a chi è molto giovane viene chiesta una presenza, o viene indotta una necessità di essere presente, da molte azioni che sono nell’ordine della giornata e della nottata: le stesse scansioni ritmiche del giorno e della notte diventano degli elementi opzionali a seconda delle occasioni, dell’interesse, delle convenienze che il soggetto potrebbe avere.
I riti di passaggio sono confusi, a volte sembrano addirittura scomparsi. È vero che per quanto riguarda la situazione del nostro paese i rituali hanno avuto un periodo, quello del ventennio fascista, contrassegnato da una volontà di controllo e da un’esaltazione delle parate, delle messe in scena. Questo ha provocato indubbiamente una certa seria avversione nei confronti di un modo di intendere i rituali. Ma è anche vero che all’interno della riflessione pedagogica vi sono state due correnti di pensiero: una considerata più progressista, e legata all’éducation nouvelle, che aveva nei confronti dei rituali una certa diffidenza, pensando che avessero una natura essenzialmente conservatrice; l’altra era invece, sempre all’interno dell’educazione attiva, considera i rituali un valore nella definizione dei passaggi di crescita.
Il padre è il punto di riferimento del rito di passaggio. Come un antico capo villaggio conduce il giovane, ormai pronto per entrare nel mondo adulto, ad affrontare tale rito, consapevole delle sue potenzialità e fiducioso nel suo coraggio.
Ancora più importante diventa il ruolo del padre quando il figlio, per la propria condizione di disabilità, mette in crisi i riti di passaggio condivisi dai suoi coetanei. Sia nei tempi che nei modi. La prima uscita da solo, il primo bacio, la prima trasgressione alle regole.
Riti che aiutano a definire un’identità, a sperimentarsi, a varcare i confini.
Riti che, troppo spesso, vengono negati o evitati al giovane con disabilità. Ecco che il padre, allora, può porsi come conduttore, favorendo esperienze rituali che, tenendo conto delle specifiche esigenze, consentano al figlio di sperimentarsi e affrontare prove che lo aiutino a diventare adulto.

La resilienza
La parola resilienza deriva dalla fisica. Il vocabolario Larousse la spiega come una caratteristica meccanica, che definisce la resistenza alla pressione e all’urto di un materiale. La resilienza umana va anche oltre, e viene definita come la capacità di una persona, o di un gruppo sociale, di una famiglia, di una comunità, di un villaggio, di una minoranza etnica, dei rifugiati, e anche di una scuola, a svilupparsi nonostante circostanze difficili, come ad esempio un ambiente sfavorevole o anche ostile. Gli adulti resilienti hanno sviluppato questa capacità dall’infanzia, avendo assorbito il trauma con un senso di competenza e di coscienza che gli consente di aver sviluppato un certo controllo sul proprio destino e sulla propria vita.
Ed è importante tenere memoria di ciò che abbiamo affrontato, elementi importanti e significativi in una prospettiva di apprendimento. Si può anche parlare di una “vaccinazione” che si realizza attraverso i piccoli contrasti dell’esistenza. La persona che cresce può sviluppare una sicurezza interna che, mettendo alla prova, rinforza attraverso la possibilità di interiorizzare quelli che sono gli elementi di sostegno e di fiducia, senza bisogno di averli sempre vicini, sempre evidenti, sempre manifesti; li sente propri, e quindi li rinforza attraverso le prove.
Queste dinamiche sono conosciute ma a volte solo a posteriori, e non è ancora chiaro come produrle, cioè come educare alla resilienza. Gli studiosi insistono su tre grandi insiemi di fattori:
– le caratteristiche della personalità, l’autostima, la riuscita di alcuni compiti… un senso dell’umorismo e la presa di distanza, la capacità di organizzare la propria vita;
– la coesione, il calore del gruppo, l’assenza di discordia o almeno una buona relazione con le figure educative, con un pari del proprio sesso e anche dell’altro sesso;
– i sistemi di sostegni esterni che incoraggiano e appoggiano gli sforzi che chi cresce fa per fronteggiare una situazione.
Questi tre insiemi di fattori possono essere in qualche modo progettati da un ambiente educativo che si faccia carico di questo tipo di elementi, importanti per l’apprendimento. Pensiamo a come oggi ci sia una continua “doccia scozzese” dei ragazzi e delle ragazze, fra la protezione eccessiva che vorrebbe impedire che siano sfiorati dal dolore, dalla sofferenza, e che interpreta dolore e sofferenza qualsiasi cosa, come ad esempio la mancanza di un oggetto; e diventa poi trasmissione dell’incapacità di soffrire per un’attesa, di costruire con fatica.
La “doccia scozzese” è fatta di contrasti: l’abbandono, il lasciar soli, lasciare che chi cresce si trovi improvvisamente in certe ore della giornata a dover decidere da solo, da sola, di tutto, ad esempio come vestirsi, cosa mangiare, come usare i soldi. A volte le avversità condivise con il gruppo di riferimento o con degli adulti sono un fattore che protegge l’individuo molto più che il riparare dalle avversità.
A ben pensarci, in effetti, è meglio condividere la fatica di una difficoltà oppure evitare tale difficoltà? È più utile far sentire la presenza e condividere dubbi e preoccupazioni o scegliere per l’altro evitando dubbi e responsabilità?
Il padre è maggiormente capace di mantenere l’equilibrio tra protezione e sofferenza, tra concessione e attesa, tra sostituzione e menefreghismo.
Un equilibrio necessario alla formazione della resilienza come abilità che permetta di trasformare un ostacolo in un’occasione, una difficoltà in una possibilità.
Se pensiamo al percorso di crescita di un ragazzo o una ragazza, con disabilità o meno, gli ostacoli e le difficoltà sono all’ordine del giorno. Compito della famiglia, come della scuola e degli altri contesti educativi è proprio quello di permettere loro di sviluppare la capacità di crescere nonostante circostanze difficili e, anzi, fare di queste un apprendimento. 

Bibliografia
A. De La Garanderie, La motivation. Son éveil son développement, Bayard éd., Paris, 1996.
K. Recheis, G. Bski (a cura di) Sai che gli alberi parlano? La saggezza degli Indiani di America, Il Punto di incontro edizioni, Vicenza, 1992, p. 15 e p. 44
L. Milani, I care ancora. Inediti. Lettere, appunti e carte varie, EMI, Bologna, 2001 (il volume è curato da G. Pecorini), p. 146.
D. Bonhoeffer, Etica, Bompiani, Milano, 1999, p. 131.
V.E. Frankl, Homo patiens. Soffrire con dignità, Queriniana, Brescia, 1998.
P. Bertolini, La responsabilità educativa, Il Segnalibro, Torino, 1996.
B. Cyrulnik, Un merveilleux maleur, Ed. O. Jacob, Paris, 1999.
IDEM, Playdoyer pour les Enfants, Fond Houtman 1989-1999, Bruxelles, 1999.
B. Cyrulink, E. Malaguti, Costruire la resilienza, Erickson, Trento, 2006.
E. Malaguti, Educarsi alla resilienza, Erickson, Trento, 2006.

3. Analisi grammaticale paterna

Ormai è difficile non farsi i fatti degli altri. Basta entrare nel proprio profilo Facebook e vieni investito da decine di foto della vita più o meno privata dei tuoi amici.
Al di là di una qualsiasi valutazione etica, questo modo di comunicare e condividere il proprio vissuto quotidiano, a volte offre spaccati di vita reale molto interessanti. Qualche giorno fa, per esempio, la mia attenzione è stata attirata da un’immagine di una coppia di amici che mi è sembrata l’esatta descrizione della differenza che intercorre tra l’approccio materno e quello paterno.
Nella foto che hanno pubblicato c’è un bambino seduto su una grande roccia. Sotto c’è il papà che l’ha appena fatto sedere lì e la mamma che, pur essendo di schiena, trasuda preoccupazione. È suo infatti il commento alla foto: “Ma perché i papà devono per forza insegnare ai figli a fare cose pericolose?”.
Ho pensato, allora, a un esercizio creativo. Ho provato a realizzare una breve analisi “grammaticale” attraverso la quale comprendere meglio il significato di questa frase.

Ma: dubbio, accusa, rimprovero;
perché: può esprimere il desiderio di capire il senso del gesto oppure sottolineare l’incomprensibilità dell’atteggiamento;
i: articolo che determina il maschile, pluralmente, tutti;
papà: questo sconosciuto;
devono: voce del verbo dovere, scelto più o meno consapevolmente, al posto di amano, desiderano, scelgono. Esprime perfettamente il punto di vista che ritiene, spesso, le azioni paterne come dettate da un istinto impulsivo, un agire irresistibile, irrefrenabile, un po’ selvaggio;
per forza: le mamme agiscono per scelta, cognizione di causa, consapevoli del proprio ruolo mentre i padri si comportano in un certo modo “per forza”, come se non potessero evitare di fare altrimenti;
insegnare: far apprendere cose delle quali si potrebbe fare assolutamente a meno;
ai: preposizione articolata, come di solito è il rapporto tra padri e figli;
figli: chi è stato generato, rispetto ai genitori. Sarebbe molto interessante definire il ruolo generativo del padre, il quale deve scoprire come “partorire” il proprio figlio;
a: preposizione semplice, banale, di poco conto;
fare cose: ecco cosa possono insegnare i padri ai figli, fare delle cose. Non l’alfabeto delle emozioni o la cura delle relazioni bensì a fare delle cose, praticità, manualità. Per fortuna imparare a fare delle cose è fondamentale, è una qualità significativa, un’abilità utile. Dobbiamo imparare, però, a lasciare a ciò il giusto valore e il giusto spazio nel processo educativo;
pericolose: se parliamo di padre, parliamo di pericolo e di coraggio e di avventura e di dolore e di distacco. Parliamo cioè di crescita, del diventare grandi, adulti, ricchi di autostima e fiducia in se stessi.
?: la domanda è ovviamente retorica. Si definisce in questo modo la svalutazione del ruolo paterno, ritenuto, prima che dannoso, secondario, del quale recriminare senza aver la capacità di valorizzarlo.

2. L’uomo come padre e il padre in quanto uomo. Archetipi del maschile in letteratura

Quando pensiamo al maschile, ognuno di noi fa riferimento a un’immagine specifica, legata alle relazioni e alle esperienze personali ma anche a ciò che la società e i processi culturali offrono alla nostra attenzione. Una varietà di immagini che, da una parte, presentano la difficoltà a identificarne una socialmente condivisibile ma, dall’altra, raccontano la ricchezza di una figura che è difficile schematizzare in quanto piena di sfumature.
Sfumature che, a loro volta, si riversano all’interno del ruolo paterno che dal maschile prende forma e sostanza.

2.1. Ulisse, l’uomo errante
“Il mito è quel nulla che è tutto.
Lo stesso sole che apre i cieli
è un mito brillante e muto –
il corpo morto di Dio,
vivente e nudo.
Questi, che qui approdò,
poiché non c’era cominciò ad esistere.
Senza esistere ci bastò.
Per non essere venuto venne
e ci creò.
La leggenda così si dipana,
penetra la realtà
e a fecondarla decorre.
La vita, metà di nulla,
in basso muore”.
(Fernando Pessoa, Ulisse)

Il grande poeta portoghese Pessoa definisce Ulisse come un arkhè, come l’inizio del Mito, principio di creazione, il non essere mai esistito che però diventa verità. Ulisse è un’immagine reale ma non oggettiva, personalmente interpretabile ma non soggettiva. Quando Ulisse incontro il ciclope Polifemo sceglie di farsi chiamare Nessuno per sconfiggerlo e ci riesce, appunto perché non gli lascia la possibilità di identificarlo precisamente. Ulisse è solo un nome: potenzialmente uno, nessuno e centomila, diventa un modello, una forma multiforme, una vita sola piena di varie potenzialità.
Il personaggio che Omero ci presenta e a cui Pessoa dedica la poesia è un uomo in viaggio, in bilico tra l’avventura e il ritorno. Ulisse è il rappresentante di un modo di essere uomo e di vivere la mascolinità, che unisce avventura, mistero e voglia di casa. Uomo errante, in viaggio verso una meta che è sempre un altro mondo, una speranza che ci porta lontani da casa. Un viaggio che è ricerca della comprensione del senso dell’esistere in generale e, secondo il nostro specifico punto di vista, dell’essere uomo.
Un altro aspetto centrale nel viaggio di Ulisse e, più in generale, nel percorso di vita di ogni uomo, è il rapporto padre e figlio e, in particolare, la ricerca di una relazione col padre. Telemaco aspetta e insegue suo padre in una ricerca che è un viaggio relazionale, un cercare di conoscere il padre da dentro, non accontentandosi più di una sterile apparenza. Telemaco insegue il padre, non solo perché ne ha bisogno per difendere la casa ma perché ha bisogno di sapere da dove viene, quali sono le sue radici.
Il lungo viaggio dell’eroe è, quindi, l’immagine della scoperta di un mondo interiore complesso, dove convivono responsabilità familiari e desiderio di avventura. Come Ulisse è combattuto tra questi due poli, così l’uomo contemporaneo si muove tra il bisogno di realizzazione sociale e il benessere dell’intimità familiare. Due poli non contrapposti ma che si intrecciano continuamente.
Il padre carica sulle spalle tutto il suo desiderio di essere, allo stesso tempo, un porto e una casa. Diviso tra l’andare e il tornare, errante in ricerca e sguardo che si fa trovare. Il padre che ama di un amore comune, maschile e singolare.

2.2. Adriano, l’uomo di potere
“Sarebbe facile mostrare quel che t’ho raccontato finora come la storia d’un soldato troppo letterato che vuol farsi perdonare le sue letture: ma semplificare così la prospettiva è falso. Regnavano in me di volta in volta personaggi diversi, nessuno dei quali molto a lungo; ma presto quello esautorato riconquistava il potere: l’ufficiale meticoloso, fanatico della disciplina, pronto a dividere con gioia le privazioni della guerra con i suoi uomini; il malinconico sognatore di dèi, l’amante pronto a tutto per un istante di ebbrezza; il giovane luogotenente altero che si ritira sotto la tenda, studia le sue carte alla luce d’un lume, e non fa mistero agli amici del suo disprezzo per come va il mondo; finanche il futuro statista. Ma non dimentichiamo neppure il cortigiano ignobile, che, per non dispiacere, accetta di ubriacarsi alla tavola imperiale; il giovincello che sentenzia dall’alto su ogni questione con sicumera ridicola; il parlatore frivolo, capace di perdere un amico per una battuta; il soldato, che compie con precisione meccanica i suoi bassi compiti da gladiatore. E ricordiamo pure quel personaggio vacuo, senza nome, senza posto nella storia, ma che è me stesso tanto quanto tutti gli altri, semplice zimbello delle cose, null’altro che un corpo, disteso sul letto da campo, distratto da un profumo, preoccupato d’un soffio, vagamente attento al ronzio incessante di un’ape”.
(Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano)

Marguerite Yourcenar immagina l’imperatore Adriano ormai stanco e malato, scrivere una  lettera al diciassettenne Marco, nella quale racconta lo svilupparsi della sua esistenza, dalla vita in famiglia ai primi servigi offerti all’Impero, fino al suo ruolo di Imperatore e alle vicende a esso legate. Indubbiamente Adriano è rappresentante dell’uomo di potere, naturalmente portato a assumere ruoli di guida e di responsabilità, capace di prendere decisioni importanti per la collettività. Rappresenta un potere libero, che si nutre della libera scelta, del dare valore alle esperienze in modo che diventino veramente pienezza del senso della vita, un potere che non schiaccia ma riempie.
La caratteristica particolare di Adriano sta nel riconoscersi sempre uguale, qualsiasi sia il ruolo ricoperto, sempre se stesso, capace cioè di vivere con specificità ogni situazione pur mantenendo la propria identità.
Uomo di potere che, però, riconosce la propria piccolezza e la propria limitatezza di fronte all’immensità del cielo. Adriano, infatti, amava sacrificare il sonno per poter guardare le stelle. Un semplice atto che sottolinea una caratteristica tipica del vero uomo di potere: l’essere consapevole che c’è un passato che viene prima di te, che ti permette di esserci in quel momento e al quale dobbiamo portare rispetto; riconoscere la responsabilità del proprio ruolo nei confronti di tutto ciò che ci circonda.
L’uomo di potere è una guida, capace di condurre, di indicare l’orizzonte, di infondere fiducia e coraggio, responsabile di un esercito pronto a rispondere ai suoi ordini. Aspetti, questi, che fanno parte anche del DNA del ruolo paterno che si ritrova a essere guida per i figli, che deve condurli, indicare loro un orizzonte verso il quale dirigersi e che, come qualsiasi uomo di potere, non può prescindere dal giudizio popolare, da una relazione basata sulla fiducia e sul riconoscimento del ruolo stesso.

2.3. Kafka, l’uomo sottomesso
“Tu non riesci a fingere, è vero, ma voler asserire solo in base a questo che solo gli altri padri fingono è una pura prepotenza che non ammette discussioni, oppure – e penso sia questo il vero motivo – l’impressione mascherata di un qualcosa che tra noi non funziona, per causa tua ma senza tua colpa. Se è questo che intendi, allora siamo d’accordo. Naturalmente non dico di essere diventato quello che sono solo per causa tua. Sarebbe un’esagerazione eccessiva (anche se intendo esasperare questo aspetto). È molto probabile che se fossi cresciuto del tutto libero dalla tua influenza non sarei divenuto mai un uomo rispondente alle tue attese. Quasi di certo sarei comunque diventato un essere malaticcio, ansioso, titubante, inquieto, né un Robert Kafka né un Karl Hermann, eppure molto diverso da quello che sono in realtà e avremmo potuto trovare un ottimo accordo. Sarei stato felice di averti come amico, come superiore, come zio, come nonno, (sì, sebbene con qualche dubbio) anche come suocero. Invece, proprio come padre sei stato troppo forte per me anche perché i mie fratelli morirono bambini, le sorelle nacquero molto più tardi, e io dovetti reggere da solo il primo urto, per il quale ero troppo debole”.
(Franz Kafka, Lettera al padre)

La lettera che Franz Kafka scrive al padre può essere considerata una vera e propria autoanalisi, una profonda riflessione rispetto al complesso rapporto con Hermann, suo padre.
Le figure maschili che incontriamo leggendo la lettera sono due: il padre, grande e forte, e il figlio, un bambino, piccolo, che fatica a rapportarsi a una figura di quel tipo. Le emozioni che suscita la lettera sono varie e spaziano dalla rabbia alla tenerezza, le stesse che vive il piccolo Franz in continua ricerca della comprensione del padre, della sua accettazione in riferimento al suo essere e alle sue attività.
Ricerca e rifiuto sono anche i due poli tra i quali si svolge la relazione genitori-figli. In particolare il padre, per il ruolo di sostegno allo sviluppo verso l’adultità e di cui parleremo successivamente, si trova a giocare un ruolo importante tra questi due poli.
Ricerca di approvazione e rifiuto di un’identità imposta.
Ricerca di intimità e rifiuto di un legame che non fa crescere.
Ricerca di sostegno e rifiuto di invadenza.
La fatica di Hermann Kafka è la stessa di molti padri, conseguenza, anche, dell’equilibrio che (non) si stabilisce con il ruolo materno che si trova troppo spesso a compensare l’assenza paterna, riempiendo spazi vuoti che non riesce ad accettare come tali.
“Ero un bambino pauroso; ma ero anche testardo, come lo sono i bambini; certo, la mamma mi viziava, ma non posso credere di essere stato particolarmente indocile, non posso credere che con una parola gentile, uno sguardo affettuoso, prendendomi per mano in silenzio, non si sarebbe ottenuto da me tutto ciò che si voleva. E tu sei, in fondo, una persona bonaria e dolce (quanto sto per dire non è in contraddizione parlo solo dell’impressione che da bambino avevo di te), ma non tutti i bambini hanno la resistenza e il coraggio di cercare a lungo l’affetto sino a trovarlo”.
(Franz Kafka, Lettera al padre)

La fatica della ricerca dell’affetto del proprio padre aveva realmente schiacciato il povero Franz il quale, oramai, era in balia di un fortissimo senso di colpa, dovuto all’incapacità di soddisfare le aspettative del genitore, di essere una sua copia fedele e di non possedere capacità considerate da lui come importanti.
Il maschio, forte, si trova ad affrontare  forse la sfida per lui più grande: prendersi cura senza schiacciare, offrire un’identità senza pretendere di ottenere una copia, educare all’autonomia accettandone il suo primo effetto, la libertà.
“Tutto ciò che scrivevo trattava di te; che facevo io con questo atto se non versare le lacrime che non avevo potuto versare sul tuo petto?”.
(Franz Kafka, Lettera al padre)

2.4. Eriko, l’uomo in ricerca
“Quando la mamma morì, Eriko lasciò il lavoro. Solo e con un bambino piccolo, non sapeva proprio che fare. Allora decise di diventare donna… Siccome non è tipo da lasciar le cose a metà si fece fare l’operazione anche al viso e il resto. Coi soldi che le restavano ha aperto il locale e mi ha tirato su. Insomma mi ha fatto anche da padre”.
(Banana Yoshimoto, Kitchen)

Il breve racconto della scrittrice giapponese Banana Yoshimoto descrive la vita della famiglia Tanabe composta dal figlio, dalla madre-padre e da una terza persona, una ragazza che adora cucinare e che accompagna il lettore alla scoperta del passato di Eriko e del suo strano modo di essere genitore.
La figura descritta dalla scrittrice giapponese, ci aiuta a visualizzare il ruolo paterno nella sua dimensione più contemporanea, in quanto presenta un esempio del modo di essere padri oggi e ci permette una riflessione circa il bisogno che l’uomo sente di dover assumere “vesti femminili” nella gestione dei rapporti con i figli.
Il padre dei nostri giorni è una figura eclissata e allo stesso tempo pesantemente sospesa nell’immaginario sociale e nel vissuto del figlio.
“Il padre è assente come immagine ancor più che come individuo: il padre assente è l’immagine del padre oggi. Assente perché si rifiuta di combattere nei rapporti. Il padre, quindi, non c’è più anche quando non ha divorziato e abita ancora nella stessa casa. Il padre, quindi non fa anche quando agisce. Al padre, più ancora di quello che ha fatto, viene oggi addebitato quello che non ha fatto. Quello che non ha detto più di quello che ha detto”. (Cfr. L. Zoja, Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Bollate Boringhieri, Torino, 2013)
Un’assenza dovuta alla mancanza di un’immagine sociale a cui riferirsi, frutto di una scarsa educazione dell’uomo al proprio ruolo sociale. Il rischio di questa crisi, che vede il padre  così disorientato, è quello di sostituire la ricerca di caratteristiche specifiche con l’assunzione di modalità genitoriali e comportamentali tipicamente materne.
Eriko svela questo rischio e ci aiuta a comprendere la differenza tra imitare ed essere.
Perché copiando il ruolo materno non si creano le condizioni per quell’alterità fondamentale nella relazione genitoriale. La possibilità, cioè, di una pluralità di identificazioni che spesso travalica la relazione con i genitori biologici ma che trova in loro i primi “altri” con cui instaurare un rapporto. Per questo è importante che i padri scoprano le loro caratteristiche specifiche, per offrirsi come alterego per la costruzione delle singole identità.
Il padre deve recuperare quel ruolo di iniziatore che, attraverso i riti e rituali permettono ai figli di diventare adulti.
Nel libro di Banana Yoshimoto troviamo un’estremizzazione di questo aspetto, la trasformazione del padre in madre, una vera e propria sostituzione che, presa come spunto di riflessione e non come pura analisi del testo, descrive in modo concreto la sensazione che vivono molti uomini: se fossi un po’ più mamma, se fossi un po’ più come…, se fossi diverso forse…
Tanti “se”, che non possono trovare risposta in un copiare che chiude e blocca ma solo in un essere che apre e costruisce.
“Piangevo senza ritegno, ma non potevo prendere un taxi, benché facesse un freddo cane. Un uomo che piange non può prendere un taxi. Credo che sia stato allora che per la prima volta ho pensato: – Che fregatura essere uomo! –”.
(Banana Yoshimoto, Kitchen)

1. A cosa “serve” il padre? Il ruolo paterno tra pregiudizi e specificità

A cura di Roberto Parmeggiani – educatore e scrittore
Illustrazioni di Attilio Palumbo – illustratore e atelierista

Ogni viaggio, ogni ricerca, ogni progresso, ogni invenzione inizia con una domanda e dal bisogno, impellente, di trovare una risposta.
Può trattarsi di una esigenza tecnica o gestionale, di un bisogno legato alla sopravvivenza o alla protezione dei cari.
Oppure potrebbe essere una curiosità naturale che ci spinge a conoscere più in profondo la realtà che ci circonda: naturale, scientifica, fisica.
Anche la nostra ricerca parte da una domanda che ci permetterà di avventurarci dentro il tema dell’essere padre di figli con disabilità, partendo da un ragionamento generale sul ruolo del padre. Cominciamo con una provocazione che, come tutte le forzature, ci aiuta a svelare un aspetto della realtà un po’ nascosto. Chiederci “A cosa ‘serve’ il padre?”, infatti, ci permette di entrare direttamente nel cuore del discorso e ci consente di evitare discorsi retorici, scontati e poco utili alla nostra indagine.
Per esempio è scontato che la madre “serva” a qualcosa. Si potrebbero elencare facilmente quali sono i suoi compiti, definire qual è il suo ruolo sociale ed educativo e in che modo interviene nell’evoluzione della specie.
Se dovessimo dire a che cosa serve la madre, tutti individueremmo con facilità alcune risposte, probabilmente condivise.
Lo stesso non si può dire per il padre che si trova, da sempre, a lottare per la definizione specifica del proprio ruolo a livello sociale, culturale ed educativo.
Per cercare di fare un po’ di chiarezza, proverò a dare una risposta, seguendo un percorso temporale.
Se rispondessimo a questa domanda come se fossimo uomini primitivi, diremmo che il padre non serve a niente.
L’ignoranza della paternità, il fatto cioè che gli esseri umani non avessero consapevolezza del ruolo del maschio nei fatti della vita e, in particolare, nel processo della nascita, relegava il padre fuori dalle relazioni sociali.
Provate a immaginare cosa possa significare essere esclusi dalle relazioni biologiche, quando queste erano le uniche relazioni?
Da qui, allora, nasce la necessità di trovare una soluzione al problema della condizione maschile, una collocazione al maschio percepito come non necessario. La soluzione, tutta culturale, viene dalla regola della proibizione dell’incesto, individuata dall’antropologo Lévi-Strauss, dal matrimonio e dai sistemi di parentela in generale che costruiscono relazioni allargate nelle quali, quindi, l’uomo entra per regola e all’interno delle quali assumerà un ruolo sempre più preciso.
Al maschio che, apparentemente, non serve a niente viene riservato un ruolo attraverso una regola.
Facendo un lungo salto temporale, arriviamo al secolo scorso durante il quale, se qualcuno avesse dovuto rispondere alla nostra domanda, avrebbe detto che il padre serve principalmente a procacciare denaro, a imporre una serie di regole e a difendere l’onorabilità del cognome: il padre padrone, detentore del potere, capofamiglia.
Un ruolo ben definito, ancora una volta figlio delle regole ma con dei limiti.
Poco tempo da dedicare alle “cose di casa”, interventi a livello familiare incentrati sull’ordine e le punizioni, nessuno spazio per la dimensione emotiva e le relazioni affettive.
E arrivando a oggi, in che modo risponderemmo a questa domanda?
Prendetevi un minuto per pensarci.
Qual è il ruolo del padre, quali sono le sue caratteristiche principali, a cosa serve il padre a livello sociale, culturale ed educativo?
Personalmente la risposta che mi sento di dare è: “Boh!?”
A cosa serve il padre, oggi, non è possibile dirlo.
E le tante e diverse risposte che tanti padri diversi potrebbero dare sarebbero la conferma di questa difficoltà a definire con chiarezza, e in modo condiviso, il ruolo del padre nella società contemporanea.
Dopo il maschio escluso per l’ignoranza biologica, dopo il padre padrone e dopo il tentativo di definire un ruolo avvicinandosi a quello materno (mammo, padre peluche…) ora ci troviamo in una situazione di vuoto.
Se a un primo momento questo vuoto potrebbe sembrare una tragedia, e i tanti padri in difficoltà di fronte al proprio ruolo potrebbero confermarlo, credo che invece siamo di fronte a una vera e propria occasione. Quella di superare pregiudizi e luoghi comuni del passato e tentare di scoprire un ruolo specifico e ben definito che non si contrapponga a quello materno ma lo completi.

Codice materno e codice paterno
La sfida che ci troviamo ad affrontare, padri, madri e tutti coloro che si occupano di educazione, è quella di aumentare la consapevolezza rispetto al ruolo che i padri possono e devono giocare e come questo possa avvenire in relazione al ruolo materno.
Ecco che torna utile, a questo punto, affrontare il tema dei codici, quello materno e quello paterno.
Scrive Claudio Riva: “Quando parliamo di femminile intendiamo ciò che fa riferimento al mondo uterino, vaginale. Quindi l’accoglienza, la morbidezza, la protezione. Un simbolo antico del femminile è la coppa. Quando parliamo di codice maschile intendiamo invece ciò che fa riferimento alla fallicità e quindi la fermezza, la forza, la direzione. Un simbolo antico del maschile è la freccia”. (Cfr. “Conflitti”, Anno 10 n. 4, 2011).
Madre e padre sono diversi e in modo differente si relazionano con il mondo e con i figli.
Morbida, sicura e accogliente la madre; deciso, forte e propositivo il padre.
Due modi diversi ma egualmente importanti per la crescita e lo sviluppo del bambino.
Madre e padre, quindi, entrambi necessari.
A titolo di esempio prendiamo in considerazione il tema della protezione. Lo stereotipo ci invita a pensare che la madre sia più protettiva del padre: la coppa infatti protegge più della freccia. Ciò non è corretto perché la madre che accoglie e protegge dalle proprie paure il figlio, rassicura allo stesso modo del padre che esorcizza e sprona il figlio ad affrontarle, le proprie paure.
La madre rassicura con il contenimento nella coppa mentre il padre lo fa con la forza della freccia.
I due codici, inoltre, sono differenti rispetto al modo in cui si attivano.
Il codice materno, infatti, viene attivato a livello biologico, in modo assolutamente naturale. Quando ciò non succede, infatti, possono verificarsi varie problematiche, quale, per esempio, una depressione post partum o un rifiuto più o meno del neonato.
Il codice paterno, invece, richiede un’evoluzione, un tempo e uno spazio di definizione perché a livello biologico, durante il concepimento, nell’uomo non succede nulla. Il maschio diventa padre biologico ma non conseguentemente anche padre psicologico.
Insomma, differenze che sono alla base della possibile definizione di un ruolo specifico.
Differenze che ci permettono di rispondere con maggiore chiarezza alla domanda che abbiamo posto all’inizio.
A cosa serve il padre?
Il padre serve in quanto altro rispetto al rapporto simbiotico che il figlio instaura con la madre, serve in quanto sguardo che si rivolge verso il futuro con progettualità e coraggio, serve come contro canto al figlio nella definizione della propria identità.

9. Testimonianze dei genitori

Una casa, tanti percorsi
Noi siamo fra le famiglie arrivate qui più tardi, tardi ma sempre in tempo.
Giorgia è una ragazza giovane, ha 22 anni, abbiamo avuto l’opportunità di conoscere Roberto e l’associazione, il progetto ci è sembrato degno delle aspettative per la vita di nostra figlia.
Anzi abbiamo proprio auspicato che potesse avvenire l’inserimento di Giorgia.
Mia figlia è giovane, era inserita in un centro diurno dove si trovava bene e la situazione familiare era gestibile. Quello che ci ha fatto volgere verso questa casa è stata propria la qualità del progetto.
Prima di arrivare all’apertura è passato un anno, abbiamo avuto il tempo e il modo di conoscerci, io di conoscere loro e loro di conoscere me. Ci siamo trovati bene, ho trovato un’associazione affiatata, molto coesa, tesa verso questo grande obiettivo che è stato un punto fermo verso cui tendevano tutti i genitori e questo ha tenuto unita come un collante particolare l’associazione.
Il presidente che ha saputo nel corso degli anni tenere insieme questo gruppo numeroso non solo con sentimenti di amicizia ma direi proprio di fratellanza, è stato molto bravo perché questo è sempre un lavoro arduo.
Siamo arrivati all’apertura che è stato un traguardo agognato, abbiamo lavorato nella struttura per abbellirla, per renderla idonea e personalizzata sulle esigenze dei nostri figli. Anche la scelta degli operatori che è stata fatta naturalmente dalla direzione ha seguito le nostre indicazioni.
A distanza di un anno la particolarità dei genitori all’interno della struttura è l’elemento che più la qualifica e la caratterizza nel bene e nel male.
Nel bene perché i genitori sono stati una risorsa informativa per aumentare la conoscenza che è stata di aiuto a entrare in relazione con i nostri figli. Per la maggior parte degli operatori i nostri figli erano degli sconosciuti ed entrare in rapporto con 16 ragazzi con grandi difficoltà – perché i nostri figli hanno grandi difficoltà – non è stato semplice, sebbene gli operatori fossero del mestiere e preparati. L’aiuto dei genitori ha reso più facile questo passaggio.
Nel male perché talvolta la presenza dei genitori può essere stata vista come un ingombro, un impiccio, un’ingerenza nella professionalità stessa degli operatori.
Anche questo però rientra nelle dinamiche, perché le nostre aspettative come genitori erano, e sono, talmente alte (se no non sarebbe un sogno da vivere…) che dovevano già essere messe nel conto. Queste dinamiche hanno agito nella nostra organizzazione per cui la propensione spiccata di ogni genitore nei confronti del proprio figlio può avere determinato una qualche forma di incomprensione.
Le nostre aspettative sono talmente alte, elevate che possiamo vedere come criticità delle piccole cose, legate alle nostre ansie ma anche al fatto che i nostri ragazzi hanno delle specificità così differenziate per cui non possono essere accettati dei trattamenti standardizzati, devono essere dei trattamenti specifici, personalizzati. Questa richiesta può aver determinato delle criticità.
Questo si è avvertito soprattutto all’inizio quando gli operatori dovevano conoscere e noi avevamo l’ansia di trasmettere tutto il nostro bagaglio di conoscenze in modo che diventassero patrimonio per gli operatori.
Il benessere dei ragazzi non si deve vedere solo da come si gestiscono il cambio del pannolino, l’igiene o il cibo. Queste cose io le voglio dare per scontate, sono la base da cui partire per vedere cosa si può fare per stare bene, per farli partecipare al mondo e alla vita.
Se si arriva al punto di dover ragionare su queste cose vuol dire che si è molto lontani dall’obiettivo, a me piacerebbe ragionare sulle attività, su come riusciamo a far passare in maniera decorosa le giornate.
Questa è la loro casa, la loro vita e lo sarà per sempre.
Marcella, mamma di Giorgia

Un posto sicuro
Noi come gruppo siamo insieme dal 2000. Per tutti il pensiero era il domani. Mio figlio frequentava un centro diurno da quando aveva 16 anni ma il pensiero era sempre il domani. Quando è uscito questo progetto a me è sembrato rappresentare il futuro migliore per nostro figlio.
Piano piano è cresciuta anche un’amicizia tra noi, ho conosciuto delle persone che poi sono diventate mie amiche mentre prima ero sempre chiusa in casa.
Per me è sempre stata una festa venire in associazione.
Il futuro è questo, io adesso lo vedo. Dobbiamo pensare a come fare per migliorare, contribuendo anche noi nell’andamento della struttura perché questo è un periodo di rodaggio (è un anno che la casa è aperta) e anche se ci sono delle cose che vanno migliorate, delle questioni che vanno valutate, nell’insieme sono contentissima.
È una sensazione bella perché sappiamo che qualunque cosa possa succedere i nostri figli sono in un posto sicuro, anzi meglio: sono in una casa, perché questa è la loro casa non è una struttura.
Silvana, mamma di Brunetto

Una famiglia allargata
Conosco Roberto da sempre, veniamo dallo stesso paese. Conoscevo la sua storia e non mi è stato difficile capire, conoscendolo, quale era il progetto a cui aveva dato corpo.
L’esigenza della mia famiglia era quella, simile a quella di tutte le famiglie che ci sono qui, di cercare di capire quale era il modo migliore di assicurare a nostra figlia un domani buono per lei.
Dal punto di vista dell’età, questa idea avrebbe forse potuto essere rimandata ma per un problema legato al trasporto di mia figlia abbiamo avuto l’esigenza di pensarci prima di quanto potevamo prevedere.
Ognuno di noi credo abbia combattuto a lungo prima di decidersi a cercare una soluzione di vita fuori dalla famiglia; ragionando poi non solo con i sentimenti ma anche con l’intelletto abbiamo cominciato a guardarci in giro. Conoscendo Roberto, conoscendo il suo progetto ci siamo convinti non solo che questa fosse una soluzione necessaria ma anche una bella risposta.
Nelle finalità e negli obiettivi ci abbiamo creduto subito, dobbiamo creare una vera e propria famiglia allargata perché l’obiettivo a cui teniamo è lo stesso non solo verso i nostri figli ma per tutti i ragazzi. Abbiamo deciso di fare parte di questo progetto e ci siamo buttati seguendo attivamente l’associazione, prima mia moglie e poi anch’io, dopo essere andato in pensione.
Il progetto non era nuovo solo per noi, era nuovo anche per gli operatori ma anche per i nostri familiari. Dobbiamo ancora lavorare molto per cambiare la mentalità tutti insieme, operatori e genitori. Talvolta, nell’ansia di essere collaborativi possiamo anche creare disagio, correre il rischio d’interferire… Stiamo cercato di “disciplinarci”.
Piero, papà di Ilaria

Un posto per noi
Le nostre storie sono più o meno tutte uguali, quando si arriva al fondo sono tutte uguali.
La differenza può essere nell’età dei nostri figli, la mia ha 42 anni, e nel numero di tessera dell’associazione, la mia è la numero 2 dopo quella di Roberto perché la prima volta che l’ho incontrato ho aderito subito al progetto vedendo la persona che era.
Ho lasciato mia figlia per dieci anni a Osimo, l’unico posto allora dove riuscivano a lavorare con lei. A Genova a quei tempi un posto come quello lo sognavo.
Adesso lo abbiamo trovato un posto per noi.
Giuliano, papà di Susanna

Una prospettiva diversa
Dico la verità: ho sempre avuto il terrore che mio figlio andasse in un ricovero per “vecchi”, in un istituto per finire in un letto senza nessuno in grado di capirlo o stimolarlo visto che lui non chiede neanche da bere o da mangiare se non è sollecitato. Tante volte mi dicevo “non so cosa farei per non lasciarlo”.
Con l’associazione si è aperta tutta un’altra prospettiva, un sogno per mio figlio ma anche per noi. Abbiamo deciso di mangiare insieme il mercoledì, di stare insieme, di parlare.
Questo mi ha fatto sentire sollevata, mi ha fatto capire di non essere sola. Conoscere le altre persone è stato un sollievo per me, prima ero sempre chiusa con il mio dolore.
Il dolore rimane, però mi sembra più sopportabile perché è condiviso con gli altri.
Per me avere mio figlio in questa casa, poterlo vedere, venire e poter stare insieme a lui per me è una cosa grandissima; non mi sembra di vivere quel distacco di cui avevo paura.
Sono grata a Roberto, all’associazione perché è una cosa bella, ci sono aspetti che piano piano andranno migliorati ma sono veramente felice che mio figlio sia qui.
Raffaella, mamma di Maurizio

Un “sogno” da vivere e da migliorare
Questo posto è stato anni fa sede di una scuola speciale, di un centro che anche mio figlio ha frequentato. Non funzionava bene ma il posto era (ed è) bellissimo e io l’ho sempre pensato come un luogo adatto per farci una casa, una residenza per i nostri figli, per quel domani che a noi genitori preoccupa tanto e ho spinto anche mio marito perché si andasse in questa direzione. Nonostante questo impegno forte non avrei voluto che mio figlio vivesse in questa casa da subito, era un pensiero che mi attanagliava. Però in un qualche modo noi dovevamo dare l’esempio per cui mio figlio è entrato tra i primi.
La cosa più difficile è stato il prima, il pensiero del distacco; il momento in cui poi l’ho portato è stato meno pesante, anche perché c’erano altri genitori nella mia situazione con cui parlare e confrontarsi. Adesso è una cosa che mi fa stare tranquilla.
Prima di tutto questo è un posto unico, e anche il gruppo è buono. Ci sono cose da migliorare, qualche volta mi arrabbio anch’io per qualche cosa che non funziona ma poi funziona tutto abbastanza bene anche tenendo conto che, come diceva qualcuno, siamo ancora in rodaggio.
È il primo anno, il sogno da vivere esiste già ma si può sempre migliorarlo anche se sono contenta, siamo contenti…
Le attività secondo me sono ancora poche e questo sia per l’organizzazione recente e per la complessità delle disabilità che richiedono un gran lavoro per cogliere gli spunti di interesse da trasformare in piccole proposte.
I nostri ragazzi non si rappresentano, non dicono e non chiedono niente; noi abbiamo il dovere di essere attenti al fatto che le esigenze fondamentali siano accolte, non è un controllo ma proprio l’esercizio del nostro dovere.
Noemi, mamma di Alberto

Condividere una direzione
Chi si è interessata per far entrare Alessandro qui è stata mia moglie Ada. Siamo in associazione da 11 anni, abbiamo vissuto tutte le fasi e questo ci ha permesso di diventare sempre più affiatati.
Mia moglie non voleva inserirlo subito mentre io invece sì, penso che una cosa o si fa o non si fa. E nel marzo del 2011 è entrato, adesso siamo molto contenti di quello che sta succedendo.
Penso che una realtà come questa sia molto rara se non unica: questo perché noi abbiamo la possibilità di condividere la direzione, siamo qui tutti i mercoledì per le attività dell’associazione e per stare insieme come una grande famiglia con la possibilità di venire non per controllare ma per mettere a disposizione anche le nostre capacità…
In tutte le cose c’è il margine di miglioramento ma noi siamo ben contenti di essere qui…
Enrico, papà di Alessandro

Mantenere i legami
Mia figlia era l’unica a essere inserita in un altro residenziale per scelta sua. È una scelta che Sandra ha voluto fare coscientemente perché era stanca di stare a casa. Sentiva il desiderio e la motivazione di uscire di casa. Quindi mi sono dato da fare. Ci è sembrata proprio una bella opportunità per cui abbiamo aderito; è nata l’associazione perché la nostra idea non era solo quella di collocare il figlio quanto quella di poter stare vicino, di mantenere i legami anche quando il figlio vive in una struttura. Abbiamo sentito tutti subito il bisogno di formare un ambiente comune dove riflettere sui problemi, ma anche ricco di rapporti umani per scaricare i momenti di tristezza e partecipare in allegria, di qui l’idea dei nostri mercoledì di ritrovo e incontro. È stato bello, Roberto è un vulcano di idee e soprattutto ci ha sempre trasmesso l’idea che la nostra associazione non deve stare chiusa in se stessa, dobbiamo aprirci e questa è una cosa che condividevo perfettamente. Per questo sono nati tanti contatti, iniziative. Roberto sa creare molte cose e credo che qui tutti abbiamo un senso di riconoscenza verso di lui.
Poi ovviamente ci sono anche le discussioni, i battibecchi; d’altra parte dove c’è una comunità umana queste cose nascono, ci sono. Ma è vita anche quella, non sono cose negative. Forse si stenta a capire che le differenze di opinioni sono una ricchezza perché sono un contributo di idee, uno scambio che oltre a permetterci di conoscerci meglio ci fa realizzare un bilancio più completo dei pro e dei contro e questo è utile per tutti.
Adesso siamo qui, ho sentito con molto piacere che c’è grande soddisfazione e credo che la misura migliore sia quella data dai ragazzi: infatti quando vengono qualche giorno a casa poi hanno voglia di tornare qui. Dove Sandra era inserita prima le cose andavano bene, qui vanno meglio.
C’è un buon gruppo di operatori che lavora bene. Il giudizio è molto positivo.
L’associazione si è resa disponibile a collaborare. È molto utile la partecipazione dei genitori. Ovviamente questa integrazione deve essere fatta con intelligenza, bisogna rimanere in una ragionevole misura senza creare invadenze.
Una delle preoccupazioni maggiori come genitori era quella di staccarsi dal figlio, io per la mia esperienza ho cercato di rassicurare dicendo che i ragazzi si adattano molte bene, apprezzano il fatto di avere intorno molte persone, non sempre le stesse facce.
A casa hanno sempre solo due facce intorno.
Qui arrivano persone nuove, ospiti, c’è sempre qualcuno che viene, altre famiglie che vengono a vedere, c’è movimento e questo è positivo.
L’attenzione è quella di creare un ambiente di relazione buono per i ragazzi. Noi entriamo anche nei momenti dedicati alla cura e possiamo rischiare di essere inopportuni. Dobbiamo trovare la misura, senza assumere la figura di “guardiano”, negativa perché dimostra una mancanza di fiducia in chi lavora; è importante trasmettere agli operatori un senso di amicizia, di vicinanza positiva.
È importante che i ragazzi ricevano dall’ambiente, dagli operatori, segni di amore, di vicinanza. E io vedo questi piccoli segni che fanno la differenza, la carezza, l’attenzione a chiudere la finestra se c’è una corrente… Perché per quanto sia grave la situazione la sensibilità di ricevere affetto non è mai persa, anzi se mai è un canale privilegiato.
Mino, papà di Sandra

Il genitore come risorsa
Prima di arrivare all’associazione ho incontrato varie realtà in cui ho sperimentato una sottovalutazione del genitore.
Quello che mi è piaciuto molto di questo progetto è l’interesse del genitore di proporsi come risorsa, non come indagatore ma come una parte in grado di contribuire. Io lo vivo in modo positivo, a me piace avere questo dialogo con gli operatori, le figure sanitarie, questo scambio di conoscenza che mette insieme cosa vedo io e cosa vede l’altro, l’osservatorio privilegiato del genitore e la competenza professionale dell’operatore.
Criticità importanti non mi sento di rilevarle anche perché il tempo che è trascorso dall’apertura sembra tanto ma in realtà è poco. Perché si crei un feeling fra le persone occorre un certo spazio temporale, non tutti possono avere la stessa umanità, non con tutti si crea quella dimensione empatica.
Sergio, papà di Giorgia

7. I laboratori

Il cuore del progetto Postmarks sono stati i laboratori che abbiamo realizzato in collaborazione con il Dipartimento educativo MAMbo e, in particolare, l’artista educatrice Ilaria del Gaudio.
Abbiamo scelto di presentarveli in ordine cronologico, descrivendone il contenuto e la metodologia, perché possano divenire uno strumento utile e replicabile in altri contesti.
La descrizione dei laboratori è accompagnata dal commento di alcuni partecipanti, esperienze personali che offrono uno sguardo intimo sulle attività e, complementariamente, un approfondimento dell’aspetto educativo che arricchisca e completi lo strumento.

Sessione 1: Il corpo è presente
Laboratorio 1
Al centro del primo laboratorio abbiamo messo il corpo come metafora in grado di raccontare la nostra identità personale. Abbiamo deciso di cominciare da questo tema perché lo riteniamo importante per noi, per la nostra consapevolezza e la nostra crescita, specialmente per le persone con disabilità.
Siamo partiti dall’idea che il corpo è un luogo nel quale la nostra identità fa esperienza di se stessa. Alcune opere d’arte ci hanno offerto lo spunto di partenza: i dipinti di Frida Kahlo e le performance di Sissi. Entrambe le artiste condividono l’idea del corpo come un contenitore emotivo, con un’anatomia parallela e un particolare linguaggio: al posto delle parole usano colori e atmosfere particolari, forme e movimenti, emozioni e ricordi. Come se il corpo fosse una specie di percorso, camminare attraverso le sue strade ti permette di scoprire una mappa personale fatta di tracce e organi considerati come le radici dei sentimenti e delle sensazioni. In sintesi, l’idea del workshop era quella di realizzare un viaggio attraverso il sé, una ricerca in giro per il proprio corpo.
I partecipanti sono stati invitati a creare una mappa personale ed emotiva dei propri corpi. Ognuno ha ricevuto una sagoma anatomica del corpo umano sulla quale si dovevano segnare i punti forti con segni rossi, i punti deboli con segni neri e il percorso delle emozioni all’interno del corpo con il colore preferito.
Poi i partecipanti hanno dovuto scegliere, tra alcuni disegni di organi interni come stomaco, cervello, utero e polmoni, quello che li rappresentava meglio, e personalizzare il disegno secondo l’emozione o il pensiero che volevano comunicare. Una ragazza, per esempio, ha scelto il cervello e l’ha coperto con fili di cotone aggrovigliati in modo da rappresentare la grande quantità dei suoi “pensieri aggrovigliati”.
Così, a partire da uno schema comune, tutti hanno dovuto riflettere a livello personale, e ogni partecipante ci ha mostrato una parte molto intima del sé.

Esperienze
Dapprima ci hanno presentato l’esperienza vissuta dall’artista Frida Khalo, a proposito della quale sono rimasto davvero a bocca aperta quando ci hanno raccontato del gravissimo incidente subito e di come l’artista sia sostenuta da un ferro che attraversava tutta la colonna vertebrale. Ciò le permette così, non solo di svolgere più o meno normalmente gli atti della vita quotidiana, ma riesce al contempo a trasmetterci i propri sentimenti e le proprie emozioni fissandoli su un supporto artistico. Sono rimasto enormemente affascinato dalla sua smisurata voglia di vivere. Penso anche che questa sua stramaledetta voglia di vivere la vita sia un ottimo stimolo anche per tutti quelli che, come me, hanno incontrato un grosso ostacolo (il coma) al normale svolgimento della propria vita, ma sono riusciti a ottenere un buon miglioramento grazie alla terapia, alla fede e alla forza di volontà.
Subito dopo le ragazze del museo ci hanno mostrato le opere di Sissi, un’artista che ama mostrare il suo corpo visto attraverso la lente del profondo dolore interiore che ha caratterizzato tutta la sua vita; infatti giovanissima ha dovuto imparare a arrangiarsi da sola e in piena autonomia, in quanto è rimasta orfana, ma questo fatto non l’ha privata della sua “vena” artistica e del desiderio di dare visibilità alle sue opere. Emblematico, a questo proposito, l’esempio di una sua prestazione: una foto che la ritraeva nuda in mezzo a un mare di scooby-doo. Questa opera riesce a trasmettere, al meglio, le vicissitudini e il travaglio interiore e questa rappresentazione riesce bene a offrire l’immagine di un’artista eclettica nel trascendere il suo profondo disagio intimo, esibendo il proprio corpo tale e quale a se stesso.
Mattias Fregni, animatore disabile del Progetto Calamaio

Laboratorio 2
Fulcro del secondo laboratorio è stato l’autoritratto, concepito come uno sforzo per definire la propria identità. Uno dei motivi più importanti del nostro percorso è riflettere sulla differenza tra l’immagine che abbiamo di noi stessi e l’immagine che gli altri hanno di noi, argomento assolutamente centrale per il gruppo. Dopo aver mostrato ai partecipanti diversi ritratti e autoritratti, dal XV secolo alla contemporaneità, come opere d’arte di Piero della Francesca, Rembrandt, Giuseppe Penone e Arman, insieme abbiamo discusso le diverse tonalità della pratica dell’autoritratto e i suoi diversi obiettivi, che non sono solo connessi alla somiglianza fisica, ma anche ai valori sociali o all’introspezione personale. Un altro aspetto importante è stato quello di considerare le diverse tecniche usate dagli artisti: pittura, fotografia o oggetti personali con un valore metaforico. A partire da tutto ciò, l’idea sulla quale si è basata il laboratorio è stata quella di riflettere sull’identità personale rappresentando noi stessi sia a un livello fisico che a uno più emotivo.
Ai partecipanti è stato chiesto di creare quattro diversi autoritratti: autoritratto frontale, autoritratto laterale, autoritratto posteriore e autoritratto interiore. Per i primi tre lavori si doveva scegliere tra fotografia o disegni. Chi ha scelto il disegno aveva a disposizione uno specchio mentre abbiamo preparato una sorta di set per coloro che hanno preferito autoritrarsi in una “sessione fotografica”. L’autoritratto interiore, invece, è stato creato usando colori e diversi materiali con valori metaforici, come cotone per la tenerezza o corde per indicare vincoli o limiti.
Per i primi tre lavori i partecipanti si erano concentrati sulla posa del corpo o l’espressione del volto, mentre questo quarto autoritratto è stato come una sorta di radiografia interiore.
Abbiamo raccolto tutti i lavori prodotti nei due laboratori, li abbiamo spediti al gruppo inglese, poi li abbiamo presentati durante il seminario a Castellón.

Esperienze
Uno splendido salto indietro nel tempo: allo stesso modo in cui da bravo scolaretto mi sono recato per la prima volta a scuola, mi sono sentito tutto eccitato e, come mai prima, ansioso di cogliere il meglio dall’esperienza. Nel creare questo sentimento sensazionale ha contribuito anche il fatto che in nessun caso prima di allora mi ero imbarcato su un aeroplano.
Mi si è spalancato davanti agli occhi un mondo completamente nuovo della cui esistenza non avevo la minima idea. Mi sono stupito anche di quanto fosse immediato, musicale e semplice hablar (parlare) questa, a parer mio, meravigliosa lingua, lo Spagnolo.
Professionalmente parlando, abbiamo preso parte a un progetto basato sull’idea che l’arte e la creatività non vanno dati per scontati, ma sono un importante motore sociale volto all’inclusione e all’apprendimento permanente. Abbiamo trascorso molto tempo a conoscerci, anche se all’inizio eravamo un po’ diffidenti, ognuno nel suo gruppo, ci siamo pian piano aperti per approfondire la conoscenza fra noi partecipanti, così da poter cogliere al meglio ogni informazione sull’altro. Ogni istituzione ha scelto di lavorare su una comunità svantaggiata del suo territorio.
Giovedì tanto per fare una breve cronaca del memorabile evento vissuto, siamo stati accolti al museo “Espai” e poi ci siamo recati in una sala da the per fare reciproca conoscenza. Inizialmente il clima era un po’ freddino, anche a causa delle naturali difficoltà di comunicazione, ma la birra spagnola era eccellente! Venerdì, dopo una bellissima colazione a base di orzo, miele e torta da leccarsi i baffi, ci siamo diretti verso il paese di Les Coves, a un’oretta di pullman da Castellón, dove abbiamo passato in rassegna e commentato i lavori svolti da tutti i gruppi partecipanti al progetto e precedentemente spediti via posta. Di questo momento ben ricordo la stupenda sensazione provata, di orgoglio mista a grandissima soddisfazione.
Sabato abbiamo visitato Valencia e dopo aver visto il mercato cittadino, siamo andati a vedere la mostra di un’artista del territorio, che ha scelto di mostrare fiori a cui erano stati divelti i pistilli in varie riprese, per rappresentare la lotta all’infibulazione femminile, da lei sentita in modo fortissimo. Inoltre mentre abbiamo girato in lungo e in largo Valencia per cercare anche un po’ di ricordini da portare a casa, ci siamo imbattuti nelle opere di Blu, lavori davvero meravigliosi capaci di rendere vivo il più semplice muro cittadino.
Sconvolgente quanto fosse buono il cibo che abbiamo gustato in questi quattro giorni…
Alla fine della piacevolissima trasferta abbiamo risolto con successo i problemi di comprensione, mischiando e integrando le nostre personalità e le nostre culture, tanto che dopo esserci salutati a fine di una cena alla Tasca – un locale davvero tipico e a conduzione familiare – a base di ottime tapas, ci siamo augurati vicendevolmente: “alla prossima”, facendoci il saluto spagnolo “Hola, hasta luego”!
Mattias Fregni, animatore disabile del Progetto Calamaio

Ci caliamo nel Calamaio
Quanti di noi, guardandosi allo specchio, accelerano il passaggio sulle parti che non ci piacciono! Le evitiamo, fingiamo che non ci siano, non le riconosciamo. Lo sguardo fugge e si va a posare su ciò che ci piace, che sentiamo nostro, che ci fa sentire ad agio con noi stessi.
Lavorare sulla sagoma del corpo, sui punti forti e sui punti deboli è stato per il nostro gruppo occasione di nuove scoperte, di nuove cose da dire a noi stessi, dire agli altri e soprattutto lasciarci dire dagli altri.
Quanto e come una persona con disabilità motoria sente il corpo? Quanto e come sente le parti che non funzionano, che sono causa della propria disabilità? Il laboratorio ha permesso alle persone con disabilità del gruppo di esprimere in modo molto chiaro la difficoltà a vedere e a riconoscere alcune parti negate. Per alcuni erano le gambe, immobili sulla carrozzina, per qualcuno era più facile lavorare solo con il viso, escludendo il corpo intero, per altri è stata la possibilità di dare un’immagine di sé al gruppo e ricevere un feedback rispettoso ma diverso. “Non è vero che il tuo braccio è dritto”, e con la complicità degli altri, potere riconoscere e dire che, sì il mio braccio è proprio storto; è il mio braccio e ora lo guardo e lo sento come tale.
Ma anche per gli educatori è stato possibile avere un confronto diverso, diretto e autentico sul sentire reale, non mediato dal ruolo e dai contenuti che caratterizzano la riflessione e il lavoro quotidiano. Abbiamo toccato con mano la carne viva di ognuno di noi. Il gruppo, e soprattutto il gruppo misto, ha permesso che – nel metterci in gioco e nell’accogliere il lavoro faticoso o giocoso degli altri – sentissimo che l’aspetto della fragilità appartiene a tutti noi. La condivisione lo ha reso visibile e riconoscibile come elemento insostituibile e immancabile della nostra identità.

Sessione 2: Lo spazio per noi
Laboratorio 1
La seconda sessione di laboratori è stata dedicata alla relazione emotiva con la nostra città e l’ambiente che ci circonda. Il territorio si è trasformato in uno spazio condiviso, un punto di partenza per la produzione di lavori che raccontano l’identità, reale e percepita, al fine di indagare il senso di appartenenza, la relazione tra le persone e i luoghi di vita quotidiana, l’identità privata e lo spazio pubblico. In base a queste idee abbiamo dato un’occhiata al “geoblog” www.percorsi-emotivi.com. Questo sito web è stato costruito dal gruppo di ricerca Associazione Mappe Urbane e mira a sviluppare il dialogo e l’interazione tra i cittadini di Bologna e la mappa elettronica della loro stessa città. Le persone che consultano la mappa possono collocare su un punto specifico di essa i loro pensieri, la loro proposta o i loro ricordi, suscitati da uno spazio determinato (strade, edifici, giardini…). I contributi caricati possono essere foto, video, disegni o testi, allo scopo di far crescere una Bologna “esperita”, vissuta e suggerita accanto a quella reale. Abbiamo anche guardato una sezione del sito web dedicato al progetto Percorsi emotivi per bambini e giovani, realizzato con il Dipartimento Educativo del MAMbo con lo scopo di costruire un geoblog con una nuova mappa emotiva, totalmente dedicata ai bambini e creata dai loro contributi. Abbiamo inoltre condiviso un breve resoconto del seminario a Castellón, trattando la forte appartenenza territoriale mostrata dal gruppo spagnolo. Il tour che abbiamo fatto a Les Coves, i racconti che abbiamo ascoltato, il cibo che abbiamo mangiato sono divenuti una grande fonte di ispirazione.
Con queste basi abbiamo avviato il seminario chiedendo al gruppo di costruire insieme una mappa emotiva collettiva di Bologna. Avevamo già preparato una grande mappa del centro storico della città composta di circa 40 cartoline illustrate, ognuna con una parte della città, come fosse una specie di puzzle. Ogni partecipante ha risposto alla domanda “quale parte della città rappresenta davvero una parte di me?”. Inoltre, abbiamo scelto alcune parole chiave come amore, paura, stupore e ricordo che potessero essere inserite nelle mappe. Ogni partecipante ha riflettuto sulla domanda, quindi ha scelto una cartolina/mappa sulla quale intervenire e una parola chiave per descrivere il proprio lavoro. Per personalizzare le cartoline potevano disegnare, tracciare segni, usare colori con valore simbolico o materiali particolari come disegni di strade e edifici realizzati da bambini. Per questo laboratorio abbiamo considerato Bologna come una specie di simbolo comune ma con valori differenti e personali: ecco perché abbiamo deciso di concentrarci solo sul centro della città e non anche sulla periferia.

Laboratorio 2
Dalla città simbolica comune, all’esperienza personale quotidiana. Abbiamo iniziato il secondo laboratorio con l’idea che uno “spazio assoluto” non esiste. Solo lo “spazio per me” esiste, perché lo spazio è qualcosa di davvero soggettivo e profondamente collegato con le nostre esperienze. Abbiamo discusso molto su questi argomenti con i partecipanti, per esempio a proposito delle differenti percezioni di alcuni luoghi sentite da una persona normodotata e da una persona disabile, o a proposito dei diversi sentimenti che lo stesso luogo ci suggerisce ora oppure quando eravamo bambini. Inoltre, è possibile trovare molte cose diverse dentro lo spazio, come rumori, voci, odori, atmosfere e contatti. I nostri sentimenti danno alla nostra percezione dello spazio molti toni emotivi e la rendono un’esperienza in continuo cambiamento. Ciò perché lo spazio è sempre vissuto e costruito dalle relazioni tra il “sé” e l’“altro”.
Perciò, l’idea del laboratorio era considerare lo spazio con occhi rinnovati. Se lo spazio è qualcosa che cambia sempre, possiamo sempre guardare le strade, gli edifici, gli angoli che siamo abituati a vedere in molti modi diversi, come se ogni giorno fosse la prima volta che li vediamo. Ai partecipanti è stato chiesto di creare una mappa emotiva del loro percorso quotidiano personale da casa al lavoro. Abbiamo dato a tutti dei colori e un cartoncino bianco su cui abbozzare il percorso. Il primo passo è consistito nel disegnare il punto di partenza ‒ la loro casa ‒ e il punto di arrivo ‒ la sede di lavoro. Poi hanno potuto collegare questi due luoghi disegnando il percorso e tutte le cose che “incontrano” durante il tragitto. Dovevano riflettere sulle strade che attraversano abitualmente, gli odori e i rumori che sentono solitamente, i colori e le dimensioni degli edifici che vedono, ricordando i più piccoli dettagli. È stata molto interessante la differenza tra ogni lavoro: da un percorso molto complesso e colorato a uno molto minimale, fatto di rumori e suoni.
Abbiamo raccolto tutti i lavori prodotti durante i due laboratori e li abbiamo spediti al gruppo spagnolo.

Ci caliamo nel calamaio
Parlare di spazio comune, di luoghi condivisi, relazione con la città prevede alcuni aspetti della vita personale quali l’autonomia di movimento, le relazioni all’interno di una rete sociale, la frequentazione di luoghi della città, i propri rituali, una propria storia. Elementi non scontati quando parliamo di disabilità.
Non si può parlare del proprio territorio, di una parte precisa della città che ci rappresenta se non abbiamo una frequentazione, una vita, una nostra quotidianità.
I laboratori di questa sessione hanno messo in luce proprio le differenze di ognuno di noi rispetto al proprio modo di vivere e percepire lo spazio e il tempo quotidiano. Che si traducono in differenze sostanziali su come vengono percepite le relazioni, la partecipazione alla vita sociale, la frequentazione dei diversi contesti e dei diversi luoghi. Qualcuno ha identificato come zona rappresentativa di sé la zona universitaria, perché il suo percorso universitario è stato particolarmente caratterizzante del suo percorso di vita. Qualcuno la gelateria del proprio quartiere, dove intrattiene con regolarità le pubbliche relazioni con il vicinato. Altri hanno identificato zone significative del periodo dell’infanzia. E qualcuno la finestra sul canale, utilizzata come strumento di seduzione con le ragazze.

Sessione 3: Disegnare suoni e suonare disegni
Laboratorio 1
Il laboratorio è stato dedicato a rispondere ai lavori che abbiamo ricevuto dal gruppo inglese. Quando abbiamo aperto il pacco, tra curiosità ed entusiasmo, abbiamo trovato due CD-ROM con tracce audio, un grande foglio marrone con strani segni colorati e molte foto stampate del gruppo al lavoro. Abbiamo seguito le istruzioni che Emma ci ha mandato per capire meglio i lavori. I titoli dei due CD erano “Suoni fatti di Disegni” e “Disegni fatti di Suoni”. Dovevamo ascoltare un CD guardando il grande foglio marrone e guardare le foto ascoltando l’altro CD.
Questo lavoro era il frutto di un laboratorio nel quale una musicista produceva suoni di cui il gruppo ha tracciato schizzi sul foglio e nel quale, in seconda battuta, la musicista ha suonato usando alcuni disegni fatti dai partecipanti come fossero spartiti musicali.
Abbiamo riflettuto sui possibili collegamenti tra arte e musica, segni e suoni. Come suona l’arte? È possibile disegnare un suono? Cosa succede se scambiamo i ruoli? Abbiamo sempre bisogno di uno strumento o possiamo suonare anche con il nostro stesso corpo? Al fine di rispondere a queste domande abbiamo iniziato a sperimentare. Abbiamo ascoltato di nuovo i due CD. Durante l’ascolto, i partecipanti hanno prodotto molti segni e tracce colorate. L’unica regola che avevamo consisteva nel non disegnare immagini o simboli. Era importante creare connessioni dirette tra suoni sentiti e gesti liberi. Uno degli obiettivi più importanti era che ogni partecipante trovasse il proprio ritmo, in base ai suoni ma anche al movimento che il corpo poteva/voleva fare. Quindi abbiamo dato a tutti una cornice vuota, utile per scegliere solo una piccola parte dei segni prodotti che sono diventati i nostri spartiti musicali che successivamente abbiamo provato a suonare usando le voci, le mani o alcuni strumenti musicali. Nell’ultima parte del laboratorio abbiamo scambiato i ruoli della prima attività. Su un grande foglio bianco appeso al muro un paio di noi dovevano produrre segni con un colore. Loro erano i direttori d’orchestra mentre gli altri sono diventati l’orchestra di strumenti che dovevano suonare ‒ sempre con voci o mani o strumenti ‒ seguendo il ritmo dei due “direttori di disegno”. Abbiamo iniziato a disegnare suoni e siamo finiti a suonare disegni.

Esperienze
Ricordo un laboratorio fatto con la musica dove mettevamo in musica i nostri stati d’animo con degli strumenti musicali. Seguivo la musica con Sandra e praticamente disegnavamo la musica!!!
Tiziana Ronchetti, animatrice disabile del Progetto Calamaio

Ilaria ci ha raccontato la storia di una musicista che aveva trovato dei segni e questi segni li aveva usati come uno spartito e li aveva trasformati in musica.
Ilaria ha messo su un CD e tutti noi dovevamo ascoltare ciò che la musicista suonava, che poi erano i segni che gli spagnoli avevano creato. La musicista non ha fatto altro che trasformare quei segni in musica.
In una seconda fase dell’attività dovevamo ascoltare la musica che la musicista suonava e trasmettere le emozioni che ci dava disegnandole attraverso solo dei segni.
Per essere ancora più concreta vi spiegherò cosa si vedeva sul mio cartoncino alla fine del lavoro.
Nel mio cartoncino c’erano segni di tre colori: il nero che rappresentava le parti musicali molto tristi; il secondo segno di colore viola era un colore molto indeciso, perché la seconda parte dei suoni  mi sono sembrati molto indecisi. Il terzo colore, quello giallo, invece  rappresentava gli ultimi suoni della musicista che ho trovato molto sgradevoli, difficili da ascoltare.
Mi è piaciuta tantissimo questa attività perché disegnavo facendo dei segni molto particolari, perché seguivo molto i miei stati emotivi attraverso tutti i sensi; riuscivo proprio a immaginare e a riprodurre lo stato emotivo che stavo vivendo in quei giorni.
Durante la terza fase dell’attività ci siamo divisi in coppie. Ogni coppia, a turno, doveva fare dei segni sul foglio e il resto del gruppo doveva trasformare quei segni in suoni. I suoni potevano essere fatti sia con gli strumenti che con la voce. Avendo usato questo bellissimo modo a forma di coro, mi è piaciuta la terza fase dell’attività, perché si era creata un’atmosfera molto magica e molto bella.
Tiziana Ronchetti, animatrice disabile del Progetto Calamaio

Abbiamo presentato la nostra risposta al gruppo inglese durante il seminario a Berlino.

Esperienze
Giovedì mattina io e Sandra siamo partite per una meravigliosa avventura berlinese.
Per me era la prima volta che partivo in aeroplano. Avevo molta paura ma per fortuna con me c’erano Sandra, Ilaria, Anna e Veronica. Ero molto emozionata visto che viaggiavo da sola senza i miei, ma solo con la mia collega di lavoro Sandra e le ragazze del museo MAMbo di Bologna che mi hanno fatto vivere una bellissima e indimenticabile esperienza. Spero di ritornarci presto; grazie al Calamaio e ai miei meravigliosi colleghi sono stata contentissima.
Sono partita con l’aereo della Lufthansa; il viaggio è durato su per giù due ore. Mi ero messa al braccio un bracciale bianco antistress e guardavo dal finestrino giù in basso perché, essendo la prima volta, avevo una paura folle che l’aereo precipitasse. Ora che è andato tutto bene, non ho più paura dell’aereo e spero al più presto di ripetere questa bellissima esperienza. Vedendo Bologna così piccolina avevo le vertigini. Ma per fortuna la hostess passava con il carrello della colazione, così ho preso una barretta di cioccolata che mi ha  dato un po’ di energia.
Finalmente siamo arrivate a Berlino. Ero emozionata e contenta di essere in una città straniera.
Dall’aeroporto abbiamo preso il taxi che ci ha portato al nostro albergo, dove, stanche morte dal viaggio, ci siamo riposate. Io e Sandra eravamo in una stessa camera, nell’altra camera di fronte c’erano Ilaria, Anna e Veronica.
Il momento centrale della trasferta a Berlino è stato il laboratorio alla sede del gruppo berlinese. Quella mattina abbiamo intrecciato fili di lana. Abbiamo fatto un intreccio grandissimo che occupava tutta la stanza, dal soffitto alle pareti e da una parete all’altra, tanto che era diventato difficile camminarci in mezzo.
Dopo abbiamo visto i lavori che erano stati esposti alle pareti da tutti i gruppi: il nostro italiano, quello tedesco, lo spagnolo e quello inglese. Ogni gruppo ha presentato i propri lavori e anch’io ho presentato i nostri lavori italiani insieme a Ilaria che mi traduceva dall’italiano all’inglese. Abbiamo fatto vedere alcuni video in cui si vedeva che uno di noi disegnava sulla carta appesa al muro e un altro cercava di ostacolarlo in tutti i modi. Questo laboratorio a me è piaciuto perché mi sono divertita tanto a ostacolare Ilaria.
Quel che mi è piaciuto maggiormente di Berlino è stato il Museo della Cultura Ebraica. Ricordo delle pietre gigantesche su cui appoggiavo le mani e sentivo che erano calde o fredde…
Quando non andavamo in giro per i musei, di sera, nel tempo libero, andavamo nei locali.
La cucina tedesca non è ottima come la nostra bolognese, ma siccome dovevo mangiare… ho mangiato carne cruda e patate lesse; a colazione, fette biscottate con latte e the, e delle gran pizze…Venerdì sera siamo andate a cena con la delegazione in un posto carino di Berlino. Per fortuna Ilaria e Veronica hanno tradotto le chiacchere che ho fatto con tutti gli altri.
Quella sera abbiamo fatto un giro turistico per la città arrivando ad Alexander Platz. Io allora, euforica, mi sono messa a cantare la canzone di Milva che dice “Alexander Platz, auf wiedersehen… c’era la neve…”.
Sabato pomeriggio, dopo aver lavorato alla mattina, siamo andate in giro per i negozi di Berlino. Mi sono comprata un paio di pantacalze larghe alle caviglie, bianche con dei soli disegnati sopra; per mia sorella Grazia ho comprato un pupazzo del segno del leone e per la mia nipotina Giulia una scatola di acquarelli. Purtroppo per mio padre, per la Lucia, la Romana, mia zia Pina e i miei colleghi del Calamaio non ho preso niente perché avevano dei prezzi allucinanti.
Berlino è una città molto bella; ci muovevamo con l’autobus perché a forza di camminare ero stanca morta. Venerdì sera siamo state invitate a una cena, poi sabato ho conosciuto un ragazzo spagnolo piuttosto carino che mi ha fatta ballare. Questo ragazzo mi piaceva parecchio, tanto che mentre ballavamo stretti la Sandra mi ha detto “Lorella, lo conosci da due giorni e già ci balli stretta stretta!”.
Era un bel ragazzo, avrà avuto circa trent’anni. Per me era perfetto perché io ne ho 40!
Spero almeno di diventare sua amica, anche se purtroppo lo vedrò pochissime volte. Ma lui mi ha promesso che a ottobre verrà da me in Italia per il prossimo appuntamento del progetto, così chissà se ce la faccio a costruire una bella amicizia!
Lorella Picconi, animatrice disabile del Progetto Calamaio

Ci caliamo nel calamaio
La disabilità offre molte occasioni di sperimentare forme diverse di comunicazione e di espressione. Spesso le impone; diventano necessarie quando le forme tradizionali non funzionano, non sono efficaci.
In questo laboratorio i linguaggi del disegno in musica ci hanno fatto sentire l’armonia degli stati emotivi che si possono liberare senza codici comunicativi restrittivi e a volte paralizzanti. Ci hanno fatto sentire ed esprimere le nostre sfumature e ci hanno permesso di cogliere le sfumature dell’altro.
L’alfabeto delle emozioni è ricco e infinito. Il linguaggio verbale lo limita, lo incasella in schemi che devono necessariamente essere restrittivi per essere compresi da tutti. Ma disegnare la musica e suonare il disegno ha rappresentato per noi l’esperienza di uscire doppiamente da quegli schemi. Abbiamo sperimentato in modo inusuale una forma comunicativa ed espressiva differente: per il tempo del laboratorio quella forma espressiva è diventata per il gruppo una forma convenzionale e condivisa, perché non si limitava a farci esprimere il nostro stato emotivo, ma ci ha permesso di esprimerlo agli altri, di condividerlo, di sentire l’altro nella sua parte più intima. Il disegno insieme all’altro nel rispetto degli spazi ma nella possibilità di narrare la propria unicità è diventato così uno spartito di suoni e di accordi, un’armonia relazionale.

Sessione 4: Confini e relazioni
Laboratorio 1
La quarta sessione del nostro percorso laboratoriale ha messo al centro l’idea dei confini personali e delle modalità più intime attraverso le quali costruiamo relazioni con le persone. Nel primo laboratorio queste idee chiave hanno preso la forma di connessioni e/o legami. Abbiamo iniziato con un resoconto del seminario a Berlino e abbiamo tratto ispirazione dall’installazione collettiva che abbiamo costruito insieme al Raum 29, sede del gruppo berlinese, dove abbiamo riempito in forma tridimensionale la stanza tessendo una rete di fili colorati con gomitoli di lana che venivano lanciati e passati da una persona all’altra. Lo abbiamo considerato come una rappresentazione del processo che viviamo e mettiamo in atto ogni volta che ci avviciniamo alle persone e ci siamo chiesti: qual è il nostro modo specifico e personale di costruire relazioni? Indubbiamente ciò è sempre diverso, perché dipende da fattori come la propria personalità, le emozioni interiori e il linguaggio del corpo. Inoltre, quando stiamo creando relazioni, il nostro comportamento è uno specchio della nostra identità “con” e “per” gli altri. Possiamo rappresentare questi processi a livello visivo?
Ci siamo fatti suggestionare da una vecchia mappa dell’apparato circolatorio umano, che ci sembrava simile a uno strano corpo tutto fatto di strade, passaggi e vicoli o di fili, nodi e corde. Ogni partecipante ha ricevuto due copie di tale mappa, che si dovevano unire per creare un solo grande foglio di carta. Una mappa simbolizzava il sé, mentre la seconda rappresentava l’altro. A quel punto è stato chiesto a tutti di rendere visibile il proprio personale modo di avvicinarsi alle persone collegando insieme le due mappe con segni, colori e scarabocchi. Ognuno doveva scegliere un punto di partenza – cervello, braccia, stomaco, ecc. – un tipo di percorso – diretto, complesso o instabile – e un punto di arrivo sulla seconda mappa. Il risultato finale era una rappresentazione grafica dei tentativi personali di creare relazioni. Tutto è stato scelto da un punto di vista fisico ed emotivo. Il secondo stadio del laboratorio è consistito nel trasformare i legami rappresentati bidimensionalmente sul foglio, in relazioni tridimensionali, usando lana, cotone, fili di plastica e altri materiali simili. Nella fase finale i partecipanti hanno realizzato una specie di tableaux vivants al fine di rappresentare fisicamente i loro legami con gli altri. Per compiere questo lavoro hanno posato per alcune foto insieme a un compagno, utilizzando il legame tridimensionale creato in precedenza, del tutto simile a quello rappresentato nelle mappe bidimensionali. Abbiamo preso in considerazione soltanto la persona che cerca di avvicinarsi all’altra e non la persona che viene avvicinata. Ciò perché questa attività è stata un allenamento per il secondo laboratorio e ha portato il gruppo a pensare alle relazioni come percorsi sconosciuti i cui territori sono costruiti dalle connessioni di due ‒ o più ‒ identità differenti.

Esperienze
Il laboratorio del MAMbo si è svolto in questo modo: ci hanno consegnato due fogli in cui erano raffigurate le sagome di corpi con i centri nervosi. Noi dovevamo collegare un foglio con l’altro partendo dall’organo con cui, principalmente, ci relazioniamo con gli altri. Io ho scelto il cuore e l’ho collegato con il cuore dell’altro perché è la parte che mi rappresenta di più, perché mi relaziono con gli altri soprattutto attraverso il sentimento. Per questo ho fatto una linea col pastello rosso dal mio cuore al cuore dell’altra persona.
Per la rappresentazione della relazione con l’altro dovevamo scegliere una persona a caso e alcuni materiali tra carta, filo, nastri, carta d’alluminio, corda, ecc. Cioè dovevamo rappresentare quello che avevamo disegnato. Poi ci hanno fotografato e dovevamo così spiegare la nostra scelta del materiale, del colore, dell’organo, ecc.
Io ho scelto il filo rosso perché il rosso è il colore della passione e perché, quando conosco delle persone, non è scontato entrare subito in sintonia e quindi il rosso è anche il colore del sentimento che può nascere, se nasce, col tempo e che nasce se anche l’altro vuole entrare in relazione.
Stefania Mimmi, animatrice disabile del Progetto Calamaio
Io invece ho rappresentato il mio segno con vari fili di lana di colore rosso che esprimono il mio affetto quando incontro gli altri. A volte è ingarbugliato, ciò rappresenta il mio sentimento ma anche la mia paura perché non tutti gli incontri sono uguali. Il mio filo partiva dal mio stomaco e arrivava a quello dell’altro perché a me le emozioni sia positive che negative arrivano allo stomaco. Un’altra cosa che mi è piaciuta è stato fare la regista del mio lavoro e nel finale, lavorare insieme a Robby mi è piaciuto.
Tiziana Ronchetti, animatrice disabile del Progetto Calamaio

Ricordo il laboratorio sulla relazione con l’altro. Sceglievamo una parte del corpo che utilizziamo per relazionarci con gli altri. Abbiamo lavorato a coppia e utilizzato dei materiali che ci collegavano. Io ho fatto questo laboratorio con Tatiana e ho legato la mia mano sinistra con la sua, utilizzando un filo rosso, perché è una parte del corpo che utilizzo bene e credo che le mani siano importanti per relazionarci con gli altri.
Lorella Picconi, animatrice disabile del Progetto Calamaio

Io invece ho scelto gli occhi perché la mia relazione con l’altro parte dallo sguardo.
Diego Centinaro, animatore disabile del Progetto Calamaio

Laboratorio 2
Il secondo laboratorio è stato ispirato dalle opere di Matthew Barney, in particolare Drawing Restraint [“Disegnare con limiti”, ndt]. In quest’opera ‒ ancora in corso ‒ l’artista esplora i limiti e le nuove possibilità dell’atto di disegnare dandosi dei vincoli. La parte interessante di questi video è vedere come Barney provi a superare le difficoltà e come i suoi disegni siano il risultato del rapporto tra segni e confini.
Abbiamo provato a “importare” queste idee nel complesso campo della relazione con le persone. Questo argomento è cruciale per il nostro gruppo perché l’incontro con l’altro ‒ in modo particolare con persone disabili ‒ spesso abbandona le convenzioni e ti porta in una terra sconosciuta. Inizialmente può apparire come un’esperienza dura o difficile e l’imbarazzo è una delle conseguenze più comuni. Avvicinarsi a una persona con disabilità ‒ ma non solo ‒ provoca questo sentimento perché la diversità in generale ci costringe a uscire da noi stessi, oltre i nostri confini, per confrontarci con l’alterità. Questo movimento verso l’esterno viene sentito come una perdita di parte della nostra identità. Considerando questo tipo di ostacoli, possiamo scegliere tra mantenere un atteggiamento di paura e diffidenza o trasformarlo in curiosità e creatività. Se supereremo queste difficoltà, constateremo che è possibile sperimentarci in questo territorio sconosciuto, scoprendo altri modi di comunicazione e contatto. In questo modo possiamo creare una relazione, sempre rispettando i limiti reciproci, con la soddisfazione di averli superati insieme.
Queste considerazioni sono state il punto di partenza del laboratorio. I partecipanti sono stati coinvolti in una performance allo scopo di rappresentare i limiti o le possibilità che una relazione con le altre persone può darci. Abbiamo appeso su un muro una lunga striscia di carta bianca. Il gruppo è stato diviso in coppie, tutte composte da una persona normodotata e da una con disabilità. I due soggetti di ogni coppia dovevano scegliere il loro ruolo. Uno di loro avrebbe dovuto essere “il disegnatore”, mentre l’altro avrebbe dovuto impersonare il ruolo del “limite”. “Il disegnatore” doveva dichiarare un semplice obiettivo come, per esempio, disegnare una linea retta o piccoli cerchi tutti della stessa dimensione. “Il limite”, invece, doveva scegliere in segreto tra essere un ostacolo oppure un aiuto. La prima persona ha iniziato a disegnare sulla striscia di carta, cercando di raggiungere il proprio obiettivo, mentre la seconda ha rivelato il proprio scopo attraverso il proprio comportamento. La relazione tra di loro cominciava dall’interazione perché “il disegnatore” era costretto a considerare la presenza dell’altra persona e a reagire evitandola o trasformandola in un elemento utile. “Il limite” poteva anche decidere di cambiare il proprio ruolo durante la performance, da un ostacolo a un aiuto e viceversa. Nessuno poteva prevedere cosa sarebbe avvenuto. Tutto era nelle mani della coppia che si stava esibendo. Con questo laboratorio abbiamo cercato di concentrarci sul costruire o cambiare una relazione, mostrando il suo processo ‒ con le varie performance ‒ e i suoi “percorsi” descritti in forma di segni, limiti e scarabocchi.

Esperienze
Restraint è una parola inglese.
Tradotta nella nostra lingua indica un vincolo, un trattenimento, un freno.
Utilizzando il vocabolo in ambito giuridico-legale può addirittura significare un confinamento, una reclusione, una segregazione.
Il termine restraint, dunque, indica certamente un limite, che sia questo fisico, psicologico o spaziale.
Risalendo etimologicamente dal lemma “limite” arriviamo al latino: limes, ovvero confine, frontiera.
I limiti, i confini, le barriere rappresentano degli ostacoli. Ostacoli quotidiani con i quali metterci alla prova, confrontarci.
Era una mattina di luglio dello scorso anno quando le ragazze del dipartimento educativo del MAMbo ci hanno proposto un laboratorio sulla sfida al nostro limite, alle nostre difficoltà, oggettive o autoimposte.
Il workshop era ispirato da una parte della serie dell’opera di un artista statunitense, Matthew Barney, chiamata appunto Drawing Restraint.
Il nome dell’opera non mi era nuovo, essendo il titolo di un disco di Bjork che possedevo da alcuni anni. Quel giorno venni a conoscenza che non era altro che la colonna sonora dell’omonimo film sperimentale diretto dallo stesso Barney, compagno della cantautrice islandese.
In questo lavoro l’artista esplora i confini e le possibilità dell’atto del disegnare, imponendosi alcune difficoltà, alcuni ostacoli: restraints, appunto.
Il lavoro di Barney è un’unione tra segni e limiti.
Le educatrici del MAMbo hanno cercato di trasportare queste idee nell’ambito della relazione tra persone. Il discorso relazionale e della consapevolezza dei proprio limiti è fondamentale per chi come noi si confronta quotidianamente con la disabilità.
Siamo stati coinvolti in una performance artistica che è diventata una meravigliosa metafora di come la relazione con l’altro possa darci nuove prospettive e possibilità.
L’incontro quotidiano con la disabilità ci “costringe” a forti sensazioni emotive, a non sottovalutare mai l’aspetto relazionale, a osservare le nostre frontiere e a confrontarci con esse.
Ispirati dalla “follia artistica” di Barney ci siamo di nuovo resi conto del potenziale presente nella relazione e di come il limite, qualsiasi limite, può comunque essere sfidato. D’altra parte, pur vivendo in un momento storicamente controverso, la sfida per iniziare ad abbattere alcuni restraints/limiti/frontiere è già stata avviata, almeno a livello politico e geografico, come mostrano gli accordi di Schengen.
La battaglia è culturale, non solo politica. Noi del Calamaio, aiutati dalle educatrici del MAMbo e da Matthew Barney, giocando con i nostri limiti li abbiamo rimessi in discussione.
Luca Cenci, educatore del Progetto Calamaio

Io ho aiutato Laura, che era in coppia con me, a disegnare. All’inizio non ci riuscivo ma con un po’ di aiuto ce l’ho fatta e sono rimasta anche contenta di vedere il risultato che è venuto fuori.
Stefania Mimmi, animatrice disabile del Progetto Calamaio

Un altro laboratorio che ricordo è quello sulla relazione e sull’aiuto. Anche qui lavoravamo a coppie, mentre uno dei due disegnava l’altro poteva scegliere se aiutarlo o essergli di ostacolo. Io ho scelto di ostacolare Patrizia, le tiravo il braccio e le facevo i dispetti!
Stefania Baiesi, animatrice disabile del Progetto Calamaio

Ci caliamo nel calamaio
Il laboratorio ci ha offerto l’occasione di lavorare sul nostro modo di entrare in relazione con l’altro, ed è stato certamente fra i più emotivi. Ci ha richiesto un passaggio ulteriore rispetto ai precedenti perché, dopo avere contattato molte parti della nostra identità personale – ognuno di noi secondo la propria capacità e disponibilità ad andare negli strati più profondi di sé – abbiamo potuto uscire dall’Io per andare verso l’altro. Abbiamo così individuato e riconosciuto il personale modo di ognuno di partire dal dentro per cercare l’altro, il diverso, il nuovo.
Le attività ci hanno permesso di ascoltarci nel contatto diretto fra i corpi o attraverso strumenti di mediazione che rappresentavano simbolicamente, ma in modo molto riconoscibile, il legame, la ricerca, le vicinanze e le distanze.
La sperimentazione dei punti di contatto e dei limiti ha ancora una volta permesso di condividere sensazioni dense di significato emotivo attraverso gesti e segnali non convenzionali. E ancora una volta la potenza del gruppo, che accoglie e contiene, ha autorizzato espressioni forti quali la provocazione del limite, che può essere della persona con disabilità ma che il disabile stesso può anche trasformare in risorsa.

Sessione 5: Identità provvisorie
Laboratorio 1
Il laboratorio doveva essere dedicato a rispondere ai lavori ricevuti dal gruppo spagnolo. Un evento inaspettato ha cambiato, in parte, le carte in tavola. Qualche tempo dopo il terremoto in Emilia, l’intera Cooperativa Sociale Accaparlante ha dovuto abbandonare la sede resa inagibile per alcuni danni alla struttura e spostarsi in un altro edificio per ragioni di sicurezza. Questo grande cambiamento ha sconvolto il gruppo, che era molto legato alla vecchia sede in quanto rappresentazione dell’identità comune, il “corpo” della sua storia di gruppo, il luogo delle sue radici, abitato e vissuto. Dall’altro lato, il nuovo edificio veniva percepito come estraneo, troppo piccolo, troppo scomodo, troppo lontano dalla gran parte delle loro case. Purtroppo, o per fortuna, però, la nuova sede rappresentava l’unica concreta possibilità per continuare a lavorare e, quindi, si doveva accettare. Ecco perché, a differenza di quanto avevamo programmato, l’attività ha subito una modifica per riorganizzare il laboratorio cercando sia di rispondere al gruppo spagnolo che di dare espressione al forte disagio sentito dal gruppo. Insieme abbiamo aperto il pacco e abbiamo trovato molte cartoline con attaccate immagini dei volti del gruppo spagnolo. Sembrava una specie di puzzle colorato perché i visi erano divisi a metà e ci siamo davvero divertiti a creare nuove e folli facce oppure a cercare di ricomporre le facce nel modo giusto. Abbiamo riconosciuto alcune persone che avevamo già incontrato durante i primi due seminari e le abbiamo presentate a tutto il gruppo. È stato molto interessante verificare che cosa le persone che erano a Castellón e Berlino ricordassero del gruppo spagnolo e come raccontassero i loro ricordi agli altri partecipanti. Quindi abbiamo riflettuto su una possibile reinterpretazione delle cartoline e abbiamo deciso di dare importanza più al “processo di ricostruzione” piuttosto che al risultato finale. Ci siamo concentrati sull’idea di identità come qualcosa che cambia sempre, anche supponendo condizioni provvisorie a un livello emotivo, sociale e fisico. Che cosa succede durante il momento di passaggio da uno stato particolare a un altro? Come possiamo definire il momento di transizione di questo delicato processo? Le parole “difficoltà”, “crisi” e “frammento” sono state le più usate dai partecipanti. Le discussioni originatesi hanno consentito agli allievi di connettere queste idee sia al loro trasloco forzato che al lavoro del gruppo spagnolo, che si è trasformato in un pretesto per poter parlare dell’identità del gruppo, della sua crisi e dei suoi frammenti.
Quindi siamo passati alla fase pratica del lavoro.
Ogni partecipante ha ricevuto una cornice vuota con la richiesta di trovare la loro parte preferita della nuova sede. Le cornici hanno costretto i partecipanti a isolare un solo dettaglio o parte dello spazio e a guardarlo in modo diverso. Dovevano anche riportare i dettagli selezionati su carta, usando varie tecniche come disegno, colori, frottage e collage di elementi naturali o materiali simbolici. Non c’erano regole particolari perché la cosa importante era considerare che cosa avrebbero scelto e come lo avrebbero riportato su carta. Qualcuno ha scelto il giardino perché gli ricordava un parco pubblico, un luogo piacevole dove passare del tempo, qualcuno ha scelto la cucina perché gli ricordava la vecchia sede dove lo spazio cucina era uno di quelli maggiormente condivisi, qualcuno ha fatto il frottage di un muro grezzo perché era simile ai muri della propria casa. Ognuno ha fatto una scelta diversa ma con un elemento comune: tutti i dettagli selezionati sono stati scelti per le loro qualità evocative e non per la loro appartenenza a quello specifico edificio. Abbiamo creato un catalogo di identità frammentate.
Abbiamo presentato la nostra risposta al gruppo spagnolo durante il seminario a Bologna.

Esperienze
Vi racconto una cosa molto carina e emozionante che questo lavoro mi ha fatto ricordare.  Quando ero piccola, ma forse anche adesso per la mia manualità, avendo la mano destra fannullona, non riuscivo ad assemblare i puzzle, così con la mia educatrice di allora mi organizzavo in questo modo: io trovavo i pezzi da unire e lei li prendeva e li attacava. Lo stesso è successo in questo laboratorio ed è stato molto bello. Io ho raccolto dei pezzi di giardino, dell’erba e delle foglie grandi e secche, alcune anche rosse e ho ricalcato la corteccia di un albero.
Questo lavoro mi è piaciuto molto e mi sono divertita tantissimo.
Alla fine del laboratorio abbiamo raccontato come abbiamo realizzato i nostri lavori. Io ho spiegato al gruppo che avevo scelto il giardino come luogo mio rappresentativo per il fatto che  mi ricordava di quando mio papà mi aveva costruito la mia casetta in giardino.
Tiziana Ronchetti, animatrice disabile del Progetto Calamaio

Ma il mio ricordo più bello è legato a quando gli altri ragazzi del progetto europeo sono venuti a trovarci a Bologna per condividere i lavori: quella sera siamo usciti a mangiare e bere tutti insieme… È stato bellissimo uscire con i colleghi del Progetto Calamaio, ero davvero emozionata, anche perché erano presenti anche persone a me molto care. Ho provato forti e calde sensazioni che mi hanno tolto il respiro, tanto da sentirmi il cuore in gola; era come se in quel momento nella mia vita non mi fossero successe delle cose tristi e brutte.
Tiziana Ronchetti, animatrice disabile del Progetto Calamaio

Ci caliamo nel calamaio
Le risorse che attiviamo nel nostro quotidiano non bastano quando si verifica un evento traumatico. Un evento imprevisto, una crisi inaspettata mutano necessariamente ciò che siamo nelle difficoltà “prevedibili”, mutano la nostra identità nota e sperimentata. È allora che diventa determinante la nostra capacità di riadattamento, di ricostruzione, di ristrutturazione del contesto e dell’Io che vi si immerge con grande fatica.
L’importante allenamento del nostro lavoro di gruppo è stato consolidato nel corso di questi laboratori e in questo preciso momento di difficoltà è stato importante poterci raccontare il nostro disagio e le risorse su cui volevamo e potevamo contare per ripartire.
La perdita dei punti di riferimento, quali la sede di lavoro, i nostri oggetti che hanno sempre rappresentato la nostra storia e la nostra identità di gruppo, ci ha fatto ritrovare la nostra storia, la nostra dimensione di insieme.
È stato importante guardare e accogliere le nostre identità interrotte per cominciare a ricomporre il nuovo, l’evoluzione e la crescita.

Sessione 6: L’anatomia della memoria
Laboratorio 1
L’ultimo laboratorio è stato dedicato alla memoria. Abbiamo deciso di riflettere su questo argomento per ultimo, al fine di fare una sintesi dell’intera esperienza del progetto Postmarks, e anche per i partecipanti era di grande interesse poter affrontare la complessa relazione tra memoria e disabilità. Siamo partiti con l’idea che ogni ricordo, ogni esperienza che viviamo è come una mattonella che aggiungiamo al mosaico in continuo mutamento della nostra identità. Inoltre, possiamo considerare i ricordi come le rughe, le tracce, le impronte prodotte in noi stessi da almeno uno dei nostri cinque sensi. Per questo abbiamo mostrato ai partecipanti alcune opere d’arte di Evgen Bavčar, un fotografo che è diventato cieco. Ciò che maggiormente colpisce di questo artista è che ha imparato a usare i suoi limiti e la sua disabilità come ingredienti importanti nel suo processo creativo. L’opera di Bavčar indaga le relazioni tra visione, cecità e invisibilità: una delle sue sfide è la riunione dei mondi visibile e invisibile. La fotografia gli consente di cambiare il metodo stabilito della percezione tra coloro che vedono e coloro che non vedono. L’artista scatta immagini di cose che non ha mai visto e non vedrà mai. Si ricorda di come la sua vista ‒ e i pensieri che aveva mentre osservava ‒ funzionava. Quindi si ferma davanti a cose che gli sembrano interessanti e scatta una foto, in cui è possibile vedere il soggetto ritratto e le sue mani che toccano il soggetto stesso. Un po’ come se scattasse foto dalla memoria. L’altra fonte di ispirazione è stato il lavoro del gruppo tedesco, e in particolare le composizioni di Sylvia e Krystha che hanno dato come regalo a Ilaria durante il seminario a Bologna. Guardandole abbiamo anche riflettuto sull’idea che la memoria assomiglia a un filo che a volte è aggrovigliato, a volte lineare, a volte spezzato. Nel nostro cervello questi fili si intrecciano, si annodano e si accavallano fino a creare fitte trame che salvaguardano “tesori” intimi come una piccola pietra, un vecchio biglietto, un odore particolare…
Partendo da queste basi, abbiamo dato a ogni partecipante una piccola scatola da riempire con materiali differenti, in base alle seguenti categorie:
– il filo della memoria
– un oggetto speciale
– un ricordo dell’infanzia
– una parola importante
– un ricordo recente
– un sogno o un incubo.

Questa attività ha condotto i partecipanti a riflettere sulla loro memoria personale suddividendola nei suoi elementi fondamentali, rappresentati dalle categorie. Ognuno ha creato il proprio “archivio segreto” trasformando i propri ricordi in immagini, segni, colori, parole e oggetti. I partecipanti hanno messo un’impronta ‒ che è un altro tipo di ricordo ‒ della parte preferita del loro corpo sul coperchio di ogni scatola.
Abbiamo raccolto tutti i lavori prodotti durante tutte le 6 sessioni e li abbiamo inviati al gruppo inglese.

Esperienze
I primi accenni di primavera mi facevano ben sperare nella fine dell’inverno, da me sempre detestato, e nell’inizio di una radiosa bella stagione. I pensieri ottimisti si rincorrevano gioiosi in calde fantasie estive: “finalmènt dall’invèran a sàn fòra!” consideravo, io pugliese, nel mio bolognese artefatto. Mi trastullavo nel godimento di tutta questa atmosfera. Rimaneva preminente, comunque, la trasferta lavorativa a Birmingham per l’incontro conclusivo del progetto europeo Postmarks: una “quattro-giorni e tre-notti” tutta da assaporare fino in fondo. Non me ne preoccupavo affatto, sicuro com’ero della mia carica adrenalinica al sapore di olio abbronzante della vicina estate. A spezzare l’incanto, però, era la “nuova e lieta novella” di un collega che, con aria seriosa, mi invitava a mettere in valigia abiti invernali perché in Inghilterra nevicava. “Mìzzica, questa non ci voleva!” riflettevo tra me e me, condendo il mio slang di un po’ di siculo per poi arricchirlo di coraggioso romanesco “ma che me frega, basta che se magna e se dorme bbene!”.
L’arrivo all’aeroporto di Birmingham vedeva i cinque “espatriati” italiani più spavaldi che mai, sicuri di una calda accoglienza da parte di tutti: “I’m italian, I’m greatest!”, ero sicuro di me e, per fortuna, nessuno poteva ascoltare i miei pensieri nel mio inglese beatlesiano improvvisato. Ero ignaro di quello che avrei incontrato da lì a pochi minuti, ma fiducioso nel magico e avanzato mondo britannico. Infatti, tutto quel viaggio si stava condendo di fatata magia. A rompere l’incanto, però, era un nuovo ostacolo: la scelta del taxi attrezzato per il trasporto dei disabili. “Non c’è problema, male che vada ci pensiamo noi a farti salire sul taxi!” sancivano con solennità quasi austera i colleghi, mentre io con tono più dimesso ribattevo: “Non c’è problema?”. I taxi britannici sono diversi dai nostri. Innanzitutto sono più alti e all’interno sembra di entrare in un piccolo salotto. Mancava solo il the pomeridiano e un altro incantesimo si sarebbe aggiunto a quell’atmosfera incantata. Intirizzito com’ero dal freddo, non mi riusciva tanto facile piegare la gamba per fare il mitico balzo in avanti verso quel “salottino”, ma a provvedere a tutto erano i miei “amici di ventura” che afferrandomi, chi dalle gambe e chi dalle braccia, mi sospingevano con decisione. L’aiuto decisivo mi veniva offerto da chi con coraggio premeva sui miei glutei, provocando la mia reazione fatta di risata e smarrimento: “Che m’ tocca fà pè campà!”, tornavo alla madrelingua pugliese.
Il tragitto in taxi fino al nostro hotel era fatto di considerazioni e frasi spiritose. Non si poteva fare a meno di volgere, di tanto in tanto, lo sguardo verso il finestrino per constatare con rassegnazione o con gradimento, a seconda dei gusti di ciascuno, che la neve continuava a cadere giù dal cielo. “Ma chi è stato quel ‘santone’ che ha asserito che in Inghilterra si mangia male?”, chiedevo con incredulità. “Qui si mangia bene, altroché”. Il Mario Fast Food che era in me gioiva degustando pietanze a base di riso e pollo. Intanto notavo la compostezza e il silenzio dei commensali ai tavoli vicini, mentre noi “italians” più fracassoni ci davamo al tono di voce più sostenuto e alla gestualità più folkloristica: “Sono anch’io vittima di pregiudizi nei miei stessi confronti!”, constatavo con canzonatoria ilarità.
Dopo il pranzo si correva all’Ikon Gallery dove avremmo incontrato gli altri partners europei: con “How are you?… What a nice surprise!” si sarebbe fermata la mia conoscenza d’inglese se non fossero venuti in soccorso vecchi e recenti ricordi di titoli di canzoni, e allora sotto con “Strawberry fields forever!” e più ancora con “Satisfaction!” fino alla più recente “Sky fall!”. Persino gli inglesi mi facevano i complimenti per l’ottima pronuncia garganico-anglosassone ed io, ignaro di tutto, sorridevo soddisfatto. Che bella sensazione era trovarsi in quella sala ricca dei lavori di ogni gruppo: “Ooohhh!”, restavo a bocca aperta.
I giorni passavano velocemente mentre pensavo a cosa portare con me in Italia come souvenir. Prima, però, avevo da svolgere un laboratorio ludico-creativo a cui avrebbero partecipato anche famiglie e bambini della zona. Ci veniva chiesto di decorare in modo personale e creativo degli oggetti di varia natura (cornici, bastoncini, griglie di ferro) con nastri colorati: “nelle cose manuali so’ proprj ‘na chiavica!” asserivo con severità. In quel momento mi si avvicinava una graziosa e gentile ragazza belga che, mostrandomi il suo lavoro, me lo regalava: “Un cadeau pour toi!”. Col francese avevo più confidenza, quindi rispondevo prontamente: “Merci beaucoup, tu es très gentile!”. Il souvenir britannico era stato così trovato senza costi aggiuntivi. Al quarto giorno la sveglia preannunciava il nostro rientro in “patria italica” e io non potevo che guardare con nostalgia ai miei magici giorni in terra oltremanica.
Mario Fulgaro, animatore disabile del Progetto Calamaio

Fare memoria di chi siamo e di chi siamo stati è un bisogno primario dell’uomo, come mangiare e dormire, tanto che alcune demenze senili che si portano via la memoria quasi annullano la persona, perché ognuno di noi è quel che è per la sua storia, per quello che si porta dietro da quando è nato, gli eventi della sua vita e ancor di più le emozioni che si risvegliano al ricordo di quegli eventi.
In fondo noi siamo quello che ricordiamo di noi e quello che ci ricordano gli altri.
Nel film Il favoloso mondo di Ameliè la protagonista ritrova per caso, nascosta in un buco dentro al muro, dietro a una mattonella della parete della cucina, una vecchia scatola di latta contenente diversi oggetti raccolti di certo da un bambino tanti anni prima e lì nascosti come un tesoro. E così, informandosi dagli altri vecchi condomini, risale al nome del proprietario precedente e si mette a cercarlo in tutta Parigi, suonando nelle case dove risulta abitare un uomo con quel nome e cognome. E, dopo vari tentativi, alla fine lo trova: senza dire nulla gli fa trovare la scatola in una cabina telefonica e lui, un signore ormai avanti con l’età, guarda quell’oggetto della sua infanzia ormai dimenticato e scoppia a piangere.
Ameliè riprende così le vie trafficate e caotiche della città, soddisfatta, con la conferma che quello in cui credeva, e cioè quanto potesse essere importante quell’oggetto per quella persona, valeva la fatica di quella ricerca. Un gesto gratuito il suo, mosso certamente da una sensibilità acuta e sottile, ma che rivela in fondo il sentire più intimo di ognuno di noi.
È questo che ho ritrovato nello svolgere il laboratorio della scatola: una commozione dolce e dolorosa allo stesso tempo di quel che è stato e che non è più, una nostalgia per quell’infanzia che sembra sempre bella rispetto ai problemi da adulti e alla vita quotidiana.
Ci sono state date sei tracce da seguire:
– il filo della memoria: la richiesta era di rappresentare la nostra vita dalla nascita fino a quel momento con fili di diversi materiali (lana, plastica, cotone, spago,…) e di diversi colori;
– un oggetto speciale: dovevamo rappresentare, dando forma alla plastilina, un oggetto reale che possediamo ancora e che per noi ha un’importanza particolare;
– un ricordo dell’infanzia;
– una parola importante: reale o immaginaria che ci riporta a momenti speciali, una sorta di parola “magica” con la quale aprivamo le porte della nostra fantasia;
– un ricordo recente;
– un sogno o un incubo.

Sei elementi dentro a un’ordinaria scatolina di plastica bianca con sei scomparti, di quelle per dividere viti, anelline o oggetti di piccole dimensioni, comprata di certo in una normalissima ferramenta… Ma che, con quel contenuto così prezioso e personale e forte e unico (nessuna scatola aveva anche solo un elemento uguale a quello di un’altra), ha acquistato un valore e una pregnanza non definibili.
Non ci è stato chiesto né il nome, il cognome, né il titolo di studio, lo stato civile, l’età o la nostra professione. Sarebbe stato troppo facile e, soprattutto molto arido, perché non significa esporsi, ma comunicare dei semplici dati.
Invece, utilizzare questi strumenti per presentarsi all’Altro che non conosciamo – era questo uno degli obiettivi del laboratorio – ha significato aprire una porta molto intima e personale, che qualcuno di noi, forse, aveva tenuto chiusa per tanto tempo anche a se stesso, dimenticata in un angolo della casa, come il personaggio del film, e poi chi ci pensa più…
Ma i ricordi si divertono a giocare a nascondino e così è sufficiente un odore, un oggetto ritrovato, una vecchia foto per riaprire un passato in fondo mai dimenticato.
Ora sono in giardino e da una finestra di qualche casa indecifrata qui attorno è uscito un profumo invitante di peperonata: è bastato un respiro per riaprire i ricordi di quando da bambina, in estate, la mia nonna mi cucinava il “friggione” sulla stufa a legna fuori nell’aia…
Di certo questo è stato il laboratorio più bello a cui ho partecipato.
Patrizia Passini, educatrice del Progetto Calamaio

Ci caliamo nel calamaio
Ciò che siamo oggi ha origini molto lontane. L’identità attuale è la somma di attimi a volte talmente piccoli, da non apparire nemmeno importanti. Ma lo sono, sono determinanti. Sono i dettagli della memoria. Sono ciò che rende ogni storia originale e senza eguali. Sono le sfumature di ogni individuo, il colore e il sapore di ogni storia.
Questa riflessione pare quasi che contrasti e stoni con le storie di vita impregnate e caratterizzate in modo assoluto da elementi tanto ingombranti e travolgenti quali la disabilità, il trauma, il lutto, la malattia. Come se non potesse rimanere spazio per nient’altro. Come se chi è impegnato a “sopravvivere” alla tragedia non avesse alcun interesse e alcuna possibilità di guardarsi attorno e vivere la vita.
Per fortuna non è così. O non è solo così. Questo laboratorio ha portato a galla dettagli, piccole cose, veloci momenti che hanno caratterizzato le storie di ognuno di noi. La disabilità fa da sfondo, ma non impedisce lo scorrere della vita anche nelle fessure dei particolari.
E in effetti, pensandoci bene, è l’unico modo che conosciamo di vivere!

8. L’ultimo laboratorio
A conclusione del progetto, abbiamo deciso di realizzare un ultimo laboratorio, una sorta di saluto, la chiusura di un cerchio.
Le parole di Francesca Aggio, animatrice disabile del Progetto Calamaio, ci raccontano contenuti e sensazioni, quelle personali ma certamente condivisibili da tutto il gruppo.
Le tirocinanti hanno disegnato il nostro profilo su un foglio poi l’hanno ritagliato come se si aprisse una finestra. Sul cartoncino sottostante dovevamo, attraverso uno scarabocchio, descrivere un’esperienza bella o brutta recente. Io ho scelto di descrivere un’esperienza di  teatro.
Nella seconda attività ci era stato dato il compito di spiegare, sempre attraverso il segno, la nostra maniera di relazionarci con l’altro. Questo lavoro l’ho svolto con Sandra: ognuno aveva un pennarello di un colore diverso. Partendo da due punti opposti sul foglio, attraverso degli scarabocchi, dovevamo arrivare a incontrare i segni dell’altro. Dal mio foglio si capiva che la relazione che io instauro con l’altro è molto movimentata e anche travagliata e io tendo a invadere il territorio dell’altro.
Facendo questa attività ho capito che a volte la relazione con l’altro diventa più profonda e quindi di fiducia. La maggior parte delle mie relazioni all’inizio sono sempre molto travagliate, perché io non mi concedo con molta facilità. Non sono assolutamente capace di dimostrare all’inizio di qualsiasi relazione che voglio bene o che accetto quella persona, anche considerando i miei limiti e i suoi limiti.
L’altra attività che ci è stata proposta ha preso spunto da un artista che si chiama Luigi Ontani. Ci sono stati distribuiti dei cartoncini sui quali ci hanno chiesto di comporre un mostro di nostra immaginazione prendendo delle immagini che ci colpivano sparse sui tavoli e poi ritagliarle e incollarle dove e come volevamo noi. In seguito dovevamo assegnare un titolo al nostro lavoro.
Il mostro doveva rappresentare l’Altro diverso da me.
Io ho usato delle immagini di dei greci perché ho sempre amato la mitologia e perché mi sembrava che rappresentassero il diverso da me.
Le immagini che ho scelto avevano anche altri significati. Infatti, ho utilizzato anche delle figure di gambe e di mani di persone per fare il collage del mio mostro perché volevo far trasparire i miei limiti nell’usare le gambe e le braccia, in particolare la mano sinistra, visto che l’altro diverso da me nella mia idea può muovere le gambe e le braccia e può camminare, mentre io non posso farlo come vorrei. È questo che volevo fare capire con l’immagine del mio mostro.
Mi è piaciuto fare questo lavoro perché ho potuto mettere in luce cose a cui non avevo mai pensato su di me e sulle persone che mi circondano, e con le quali non avevo mai parlato perché mi sembrava un discorso forzato, sia per me che per gli altri.
Pensavo che non fosse di interesse, invece attraverso l’Arte ho potuto fare vedere quello che in realtà ho sempre cercato di nascondere, ovvero la mia paura di non essere all’altezza delle altre persone e metterlo in luce senza fare del male a me e fare del male a loro.

6. “Scusa, non riesco a seguirti, puoi parlare più lentamente?”

di Ilaria Del Gaudio, educatrice museale – artista educatrice, Dipartimento educativo MAMbo

Prima dell’attività ero davvero agitata. Il cuore risuonava in gola, le guance ribollivano sul viso e le gambe si erano saldate al pavimento. Eppure, mi dicevo, dovrei essere abituata a comunicare con le persone. È anche vero, continuavo a dirmi, che sono sempre in fibrillazione prima di cominciare una nuova esperienza, prima di ogni laboratorio. Prima. Gli attimi del “prima” sono sempre i più critici. Nel tentativo di calmarmi ho allestito i materiali sul tavolo di lavoro con le mani che tremavano come due sardine vive. Ho cercato di sistemare matite, pastelli, immagini e fili colorati in modo che risultasse chiaro il loro utilizzo. Ho esplorato la stanza con lo sguardo, alla ricerca di un appiglio a cui far arrampicare il discorso. Di fianco a me c’era Veronica, che mi aveva accompagnata solo per questo primo incontro, ma che sarebbe stata comunque un punto di riferimento per quelli successivi. Di fronte a me, i cosiddetti “learners”, ovvero le persone a cui era dedicato il progetto Postmarks. Avrei lavorato con questo gruppo per molto tempo, quindi ho smesso di concentrarmi sulle aspettative che avevo verso me stessa e ho rivolto a loro la mia attenzione. Ridevano, chiacchieravano, addirittura si prendevano in giro, per poi di nuovo ridere e chiacchierare, alternando parole di scherno affettuoso a discorsi dal tono più serio. Ecco il gruppo del Progetto Calamaio. Se dovessi descriverli con poche parole utilizzerei soltanto “rumore” e “movimento”. Sembrerebbe paradossale, dato che molti di loro non possono muoversi oppure hanno difficoltà a parlare, ma tutt’ora non riesco a trovare termini più adeguati. Finalmente ho cominciato a parlare, introducendo l’argomento della giornata. Avremmo affrontato “di petto” il tema dell’identità partendo dalla pratica dell’autoritratto e dalla metafora del corpo. Forse era proprio questo ad agitarmi tanto. Mentre raccontavo la vita e la poetica di artisti come Rembrandt, Frida Kahlo e Sissi, che hanno reso visibile il processo di esplorazione del sé, una serie di considerazioni affollavano la mia mente, sovrapponendosi le une alle altre. L’approccio che avevo scelto era troppo diretto? Io per prima faccio fatica a guardarmi allo specchio, né tantomeno mi piace farmi fotografare. Come avrebbero reagito le persone disabili? E poi ancora, sarebbero stati in grado di fare quello che stavo chiedendo? Non solo a livello di elaborazione personale, ma anche dal punto di vista pratico: tra loro c’era chi non riusciva a tenere in mano nemmeno una matita. Il laboratorio proposto sarebbe stato abbastanza inclusivo? E se qualcuno si fosse distratto o fosse rimasto indietro? Il mio tono di voce era abbastanza alto? E se… La marcia serrata di queste domande è stata interrotta da una richiesta: “Scusa, non riesco a seguirti, puoi parlare più lentamente?”. Mario, un animatore disabile del Progetto Calamaio, mi ha riportata bruscamente alla realtà. Ho capito che di nuovo stavo concentrando l’attenzione sulle mie paure invece che sulle persone che erano di fronte a me. Anzi, con me. Il cuore si è spostato dalla gola ed è tornato dove dovrebbe stare, la saldatura tra le gambe e il pavimento ha ceduto, le mani hanno smesso di tremare. Devo a quel momento il cambio di prospettiva che mi ha permesso di considerare questo e i laboratori successivi come preziose occasioni di relazione. In quasi due anni di lavoro abbiamo esplorato insieme il tema dell’identità, e quindi della diversità, raccontandoci attraverso un’ampia gamma di sfumature: dal legame con il territorio alla memoria individuale, dal senso di appartenenza a un gruppo all’indagine dei limiti e delle nuove possibilità dei rapporti interpersonali. Abbiamo sperimentato nuovi alfabeti espressivi, intrecciato parole colorate, comunicato attraverso le azioni, anche performative. Il tempo trascorso insieme, compresi i viaggi all’estero, ha accresciuto la conoscenza e la fiducia reciproche, permettendoci di apprendere gli uni dagli altri e quindi di “fare davvero la differenza”.

5. Accesso all’arte e l’arte come accesso

Io mi ricordo le due facce
Io mi ricordo che stavo bene e stavo male
Io mi ricordo che le facce erano a metà, come me
Io mi ricordo che era come un puzzle
Io mi ricordo che è stato come un gioco 
Ermanno

Ermanno, in effetti, è a metà.
Non solo perché muove con difficoltà la parte sinistra del suo corpo, ma perché ha chiaro che, nella sua storia c’è un prima e un dopo. Una vita prima dell’incidente e una dopo. Metà vita da una parte e metà dall’altra.
Se avessimo cercato, anche con immenso impegno, una metafora per descrivere il rapporto tra arte ed educazione, avremmo faticato a trovarne una migliore di quella offerta da Ermanno.
Il progetto Postmarks è stato, per il nostro gruppo, l’occasione per rapportarci direttamente con l’arte come strumento, come occasione, come punto di vista.
Ermanno ha fatto parte di questo percorso e, nel descrivere uno dei laboratori svolti in sede, ci offre un esempio, il punto di partenza (o forse quello di arrivo) per scoprire quanto l’accessibilità all’arte e, in generale, alla cultura, in realtà permettano all’arte e alla cultura di renderci accessibili. Cioè capaci di raccontarci, metterci in gioco, capirci, conoscerci e non avere più paura dell’unicità che ci contraddistingue e della diversità che ci caratterizza.

L’opera d’arte frutto del percorso e della condivisione esperienziale dell’artista
L’oggetto che vediamo esposto in un museo, sia esso un dipinto, una stampa, un’installazione o un video è il frutto di un processo creativo. Ciò non significa che l’artista, un bel gionro, si è svegliato di buon umore (o cattivo, a seconda dell’effetto che ci procura l’opera) e preso da un raptus creativo ha realizzato qualcosa, così, di punto in bianco.
L’opera d’arte è il frutto di un percorso di conoscenza di se stessi e del contesto nel quale viviamo; è la condivisione intima di un pensiero, di un’intuizione, di un sentimento vissuto e rielaborato dall’artista. È vero, succede che a un certo punto arrivi, all’improvviso, quasi cogliendo impreparato il pittore o lo scultore di turno. Ma ciò è possibile solo perché c’è stato un prima, una ricerca, una pazienza. È come il germoglio che sbuca nella terra. Lo fa all’improvviso, sorprendetemente ma solo perché c’è stato un prima, una preparazione, un’attesa.
Confrontarsi, quindi, con il frutto di tale percorso è come tuffarsi in un mare sconosciuto, in un territorio intimo, nella relazione con l’alterità. Chiaramente la mediazione dell’opera consente di avvicinarsi senza troppi timori e di scegliere se passare in modo distratto oppure soffermarsi e  farsi mettere in discussione dal percorso che ha portato a quell’opera. Non è forse lo stesso nel momento in cui ci avviciniamo all’altro?

Arte come continuo superamento di un limite
La tela, la pietra, il corpo, la pagina… Sono tutti limiti con i quali l’artista è chiamato a confrontarsi. Per rispettarli, per trasgredirli, superarli, affrontarli…
Tutte queste azioni, però, ne prevedono una precedente. Prevodono che l’artista accetti tali limiti, che consapevolmente li guardi e ne prenda coscienza. Perché è dentro e fuori da quei limiti che si giocherà tutto il suo processo artistico, nella continua tensione tra adattamento e superamento. La tela impone al pittore delle scelte e, allo stesso tempo, contiene e si prende cura della sua pittura; la pietra nasconde l’opera che deve essere liberata, senza però eliminare troppo materiale protettivo, altrimenti si rischia di essere troppo esposti; il corpo messo in gioco, da solo o in relazione, nudo o agghindato, sospeso o in movimento; la pagina vuota, assillo di ogni scrittore ma anche confine oltre il quale immaginare il sogno del lettore. Insomma, limiti dentro e oltre i quali si apre il possibile, quello spazio dentro e oltre il quale si gioca la partita delle relazioni e dell’accesso al futuro.
Avere avuto la possibilità di partecipare a questo progetto ha rafforzato in noi la convinzione che un impegno a livello culturale può garantire a tutti uno spazio sociale attivo. E l’arte, in quanto forma di cultura, se resa accessibile, sotto ogni punto di vista, rende accessibili anche le relazioni e, con esse e attraverso di esse, permette una reale valorizzazione delle diversità.

4. Una lunga tavola apparecchiata

di Veronica Ceruti, responsabile Dipartimento educativo MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna

Castellón (vicino a Valencia), Spagna, febbraio 2012
Una lunga tavola apparecchiata: vino tinto, tapas e molte chiacchiere in un unico inglese dai tanti accenti, quello perfetto di Birmingham, quello secco e deciso di Berlino, la cadenza cantilenante dei bolognesi dalle vocali aperte e prolungate e quello suadente e a tratti aspirato dei padroni di casa, gli spagnoli.
Seduti (non in questo ordine): Tom, il coordinatore, barba bianca, sguardo attento, eleganza british e risata contagiosa; Emma, anima e motore della Ikon Gallery; Meredith e Jennifer, old ladies della periferia britannica, sorridenti e pronte ad assaggiare ogni sapore, momento, veduta;
Anna, tenace quanto riservata, capace di ideare e alimentare di creatività il KulturLabor della capitale tedesca, uno spazio coraggioso e ospitale; con lei Krista, Silvia e le altre… Disabili psichiche? O emotivamente diversabili? O psichicamente non convenzionali? Divoratrici di vita e di esperienze, comunicative con la parola, i gesti o il canto. Inoltre Juan Francisco, dall’ Espai d’Art Contemporani di Castellón, timido sognatore e capitano di una variopinta squadra di donne almodovariane, passionali e superstiziose al di sopra di ogni cliché, abitanti un villaggio antico, ai confini del caos della città, ai margini di qualsiasi occasione di sviluppo professionale. Io e Ilaria del Gaudio, Dipartimento educativo MAMbo, l’ennesimo passo a due al ritmo di percorsi poetici, pratiche e linguaggi artistici. Fiere di essere accompagnate da Tristano, vulcano di energia e umanità, e da Mattias, disabile al suo primo viaggio fuori casa da solo. Primo volo. Sorprendente autonomia. Scoperta. Stupore. Puro.
Cultura come coltura dello scambio, come semina e raccolto della diversità che germoglia e rende ricchi di messi, nutrimento che fa crescere e diventare grandi, consapevoli della nostra molteplice e sempre cangiante identità.
Questo era il tema di Postmarks, culturale, sociale, produttiva, psicofisica identità da raccontare ed esprimere senza parole, ma con disegni, mappe, performance, fotografie, video, installazioni e sculture da spedire in pacchi postali.
Scambi di identità creative erranti.
Questo è successo, ma insieme agli elaborati hanno viaggiato anche le storie, le paure, i desideri e le memorie di tutti i partecipanti, un gruppo di persone normalmente così lontane e invece eccezionalmente sedute intorno alla stessa tavola.
Abbiamo visitato musei, abbiamo lavorato, ballato, fatto domande, risposto. Insieme.
A progetto concluso, tanti sono i fotogrammi, le immagini, i momenti che vorrei rendere visibili, che meriterebbero di essere raccontati, ma qui e ora riesco a scrivere retoricamente grazie Accaparlante, la “comunità svantaggiata” (gergo/lessico dei bandi europei) che ha avvantaggiato le educatrici del MAMbo rendendo questo progetto un’avventura sorprendente, facile come solo le cose vere e spontanee possono essere.

3. Un incontro inaspettato

Come spesso succede per gli incontri più belli, anche quello avvenuto con il dipartimento educativo del MAMbo era del tutto inaspettato.
È capitato per caso. Durante una visita di valutazione dell’accessibilità del museo, un educatore della cooperativa Accaparlante ha conosciuto Veronica Ceruti, responsabile del dipartimento educativo, la quale gli ha presentato la possibilità di realizzare una visita guidata al museo per il gruppo di animatori disabili della cooperativa.
Nell’incontro organizzativo, durante il quale avremnmo dovuto definire modi e tempi della visita, è successo qualcosa di speciale, l’inaspettato di cui si parlava all’inizio.
È stato chiaro da subito come la possibilità di collaborare andasse oltre a una semplice visita al museo. La diversità dei due gruppi, sia rispetto alla composizione che ai temi trattati, è apparsa immediatamente come una ricchezza e una grande fonte di opportunità.
Ciò non era assolutamente scontato. Non tutti gli incontri si trasformano in una collaborazione reale, nel primo nodo di una rete che aspira ad ampliarsi per poter includere altre persone, idee, sogni, proposte.
Ancora meno scontato lo è quando si parla di disabilità e di gruppi di persone con disabilità. Spesso, infatti, la persona disabile viene vista come colei che può usufruire di un servizio, ancorché culturale, una sorta di passatempo piacevole che inizia con l’entrata al museo o nella platea di un teatro e finisce una volta usciti dalla porta.
Seppur il piacere della cultura sia un diritto sacrosanto, per il Progetto Calamaio è importante anche sottolineare il dovere. Ovviamente, non il dovere a usufruire di un servizio, ma il dovere del proprio ruolo sociale, dell’impegno a restituire il proprio pezzo di responsabilità culturale. Proprio partendo da questo punto di vista, ampiamente condiviso anche dai nostri nuovi compagni di viaggio, si sono definiti i parametri per la cooperazione futura, abbiamo posto le radici di una proficua collaborazione, tra due mondi apparentemente lontani ma soprendentemente così integrati, che, oltre a durare tutt’ora, scopre sempre nuovi orizzonti di fronte a sé.
La proposta di una visita guidata alle esposizione presenti al museo, si è trasformata in uno scambio formativo: il dipartimento educativo del museo ha condotto per noi due incontri di formazione sulle attività e i contenuti specifici del loro lavoro mentre gli animatori del gruppo Calamaio hanno condotto due incontri di formazione e animazione specifici per le educatrici museali del dipartimento educativo.
Non potevamo farci regalo migliore, perché proprio quell’esperienza di scambio ci ha permesso di costruire un percorso di animazione sul tema dell’identità e della relazione con la diversità. Un percorso integrato, cioè che includesse le specificità sia di contenuto che di modalità operativa di entrambi i gruppi. Quei momenti di autoformazione sono stati l’occasione per tutti di sperimentare sulla propria pelle ciò che avremmo poi proposto agli interlocutori esterni.
Tra le tante attività a seguito di quei primi incontri, ne cito una particolarmente significativa.
Dopo aver asisstito alla performance “Imponderabilia” nella quale gli artisti Marina Abramović e Ulay, nudi, fungevano da passaggio obbligato per l’entrata nella Galleria d’Arte Moderna di Bologna nel 1977, abbiamo avviato un dibattito. Immediatamente abbiamo percepito che i temi trattati dalla performance avevano a che fare con l’imbarazzo, il senso del pudore, il contatto con il corpo. Temi che, anche per il nostro gruppo, sono centrali durante i percorsi di animazione che svolgiamo nelle scuole. Da ciò è nata l’idea di riproporre quel passaggio obbligato anche ai bambini, facendoli entrare nella sala/laboratorio nella quale si sarebbe tenuto l’incontro, passando da una porta i cui stipiti erano due animatori, uno dei quali disabile.
È per tutto questo vissuto che, senza troppe indecisioni, abbiamo accolto con entusiasmo la proposta del MAMbo di partecipare al progetto europeo Postmarks.
Una nuova tappa di una rete destinata a proseguire nel tempo.

2. Il progetto Postmarks

di Tom Jones
(traduzione a cura di Massimiliano Rubbi)

I pensieri del coordinatore di Postmarks su ciò che è risultato essere un meraviglioso viaggio di scoperta.

… e sono solo pensieri. Questo non è un rapporto sul progetto Postmarks, è semplicemente il modo in cui il coordinatore vede il progetto ora che è finito. Ho scritto come se stessi parlando con gli amici a Bologna, Castellón, Berlino e Birmingham, quindi non con il linguaggio tecnico usato per i documenti ufficiali.
Penso che tutto sia cominciato quando ho sentito qualcuno, a Birmingham, parlare di attività creative nelle quali veniva chiesto ai partecipanti di dare qualcosa in cambio delle opere d’arte che vedevano. L’idea di dare e ricevere, quindi, era alla base, ma il passaggio a quella che è conosciuta come “arte postale” è arrivato successivamente. L’arte postale esiste ormai da molti anni – artisti che si spediscono l’un l’altro opere d’arte su cartoline postali. In questo senso il progetto Postmarks non era nulla di nuovo! L’idea, invece, che fossero altre persone – non artisti – a farlo, proprio allo stesso modo, era nuova… ed ecco dove tutto si è collegato (in qualche modo) all’idea di un progetto europeo.
Forse avrei dovuto cominciare da qui: circa 8 o 9 anni fa, quando ero direttore del Dipartimento di Arte & Design alla Birmingham City University, ho scoperto il programma europeo Lifelong Learning [apprendimento permanente, ndt] e, in particolare, la parte Grundtvig del programma. Questa offre denaro per aiutare le organizzazioni in tutta Europa a creare partenariati per sostenere l’apprendimento informale degli adulti. Da allora ho ideato e coordinato quattro partenariati Grundtvig, perciò quando ho iniziato a pensare a Postmarks sapevo già che avrebbe avuto successo se fossero state coinvolte le persone giuste. Ciò è veramente importante. È il modo in cui le persone si rapportano tra loro che garantisce il successo o meno di progetti simili. Ed ecco perchè la Ikon Gallery di Birmingham vi è entrata. Ho parlato con loro dell’idea che avevo per Postmarks, e ne erano entusiasti. Ha avuto il pieno sostegno di Jonathan Watkins, il direttore, e del suo team educativo. A quel punto la domanda: con chi lavoriamo in Europa?Jonathan e la Ikon Gallery avevano già collegamenti stretti con l’Espai a Castellón (Spagna), quindi loro sono stati un partner naturale. Anche il MAMbo a Bologna era sulla lista di Jonathan delle gallerie con cui avremmo dovuto collegarci. Oltre a questi rapporti già consolidati ne sono stati attivati di nuovi con gallerie a Ginevra (Svizzera) e Trondheim (Norvegia). Io avevo già lavorato con i Drawing Spaces a Lisbona e il KulturLabor a Berlino. Sebbene non siano gallerie come gli altri partner, sono gruppi di artisti che fanno un interessante lavoro con le comunità locali. E questa è diventata un’altra caratteristica di Postmarks: che ogni organizzazione d’arte avrebbe lavorato con gruppi locali di adulti che vivono in luoghi soggetti a ri-edificazione o che sono in qualche altro modo svantaggiati.
Perché abbiamo creato Postmarks? Ovviamente, c’è più di una risposta. Un obiettivo generale dello schema Grundtvig è aiutare le persone che sono in qualche modo svantaggiate a imparare nuove abilità, incontrare persone nuove e in generale vedere le cose in una struttura europea più ampia, e Postmarks è stato certamente progettato per fare questo. In aggiunta, ognuna delle organizzazioni partner si occupa di arte contemporanea, e in questo avevamo due obiettivi: creare arte e condividerla l’uno con l’altro e rendere l’arte contemporanea accessibile alle persone. Immagino che in altri paesi sia come nel Regno Unito: molte persone pensano che l’arte contemporanea sia per una nicchia e la vedono come separata dalla vita quotidiana. Quando vedono una mostra, spesso dicono frasi come “Non lo capisco – è tutta immondizia!”, o “Non so niente di arte – non sono mai stato bravo in arte a scuola”. Volevamo mostrare che questo non è vero, rendendo Postmarks un’opportunità, per le persone, di creare arte contemporanea che avesse un significato per loro.
Così, all’incirca a novembre 2010, tutto era pronto. I partner nei sei paesi – tutti che si occupano in un modo o nell’altro del mondo dell’arte contemporanea – avrebbero lavorato con le persone locali per guidarle nel creare opere d’arte che significassero qualcosa per loro. Le opere d’arte potevano parlare dei luoghi in cui vivono, del come si sentono in generale oppure in relazione alla loro identità e qualunque cosa avesse significato per loro. Le persone di un paese avrebbero quindi spedito per posta le loro opere d’arte a quelle in un altro paese. Queste, a partire da ciò che avevano ricevuto, avrebbero creato le proprie opere d’arte in risposta – di nuovo su se stessi e su chi sono. Avrebbero quindi spedito per posta questi disegni a un altro gruppo… e così via. Volevamo che Postmarks diventasse una specie di conversazione condotta attraverso opere d’arte tra persone che probabilmente non potevano parlare l’una la lingua dell’altra: parlarsi l’un l’altro attraverso l’arte. La parte emozionante era che nessuno di noi sapeva dove questo ci avrebbe portato. Avevamo programmato che ogni partner avrebbe ospitato un incontro per tutti gli altri durante il quale condividere le nostre opere d’arte e parlarne.
Il primo miracolo che è avvenuto è che Grundtvig ha approvato l’idea e i partner hanno ricevuto il finanziamento dalle loro agenzie nazionali… tranne il partner a Ginevra. Questa è stata una delusione, ma non era l’unica che ci attendeva… Dopo circa un mese il partner a Lisbona ha dovuto ritirarsi dal progetto perché la situazione economica in Portogallo lo aveva costretto a cessare le attività. Mentre il cambiamento di gestione della galleria a Trondheim li ha portarti a valutare che, in quel periodo di incertezza, fosse meglio non continuare con Postmarks. Dopo un preoccupante autunno 2011, abbiamo iniziato il progetto con una struttura riveduta e solo quattro partner. Alcuni di noi non erano sicuri di come ci saremmo occupati del progetto, altri erano preoccupati che il clima economico europeo potesse provocare il ritiro di altri partner. Non avevo mai coordinato un progetto in cui avessimo perso quasi metà dei partner prima ancora di cominciare. Per vari motivi, eravamo tutti piuttosto ansiosi.
Ma tutto è cambiato alla luce del sole di primavera in Spagna! Con il senno di poi, penso che tutti noi dobbiamo un grande “grazie” alle persone dell’Espai a Castellón e alle persone della città di Les Coves, perché sono riuscite a impostare il modello per tutto il progetto. L’Espai aveva attentamente organizzato tutta la visita e il gruppo a Les Coves l’ha resa speciale. Avevano lavorato duro per farci sentire a nostro agio considerando che eravamo persone che non si erano mai incontrate prima. Gli aquiloni che sventolavano sull’albero, le composizioni di pietra sul pavimento e il delizioso “albero della vita” dicevano: “entrate”. E poi, i pasti! Enormi quantità di cibo coltivato localmente, che avevano cucinato in modi tradizionali. Incredibilmente, dopo quei pasti abbondanti, avevamo comunque abbastanza energia per parlare delle opere d’arte che stavamo creando. Il gruppo spagnolo ci ha mostrato le loro opere d’arte e ha parlato del perché le avevano create e cosa significavano per loro. Lo stesso hanno fatto gli altri con le loro opere. Ed è qui che la magia di Postmarks ha iniziato a funzionare. La chiamo “magia” perché è avvenuta senza averla programmata e ha trasformato una semplice idea meccanica (spedirsi per posta opere d’arte) in qualcosa di vivo, mutevole, emozionante e sorprendente. E c’era un altro elemento: sperimentare la cultura dell’organizzazione ospite. Da quel momento in avanti, condividere il cibo e la specificità culturale sono divenute parti centrali degli incontri Postmarks. Le organizzazioni partner stavano iniziando una scanzonata competizione per rendere ogni viaggio un’esperienza globale.
Non sono certo di cos’altro gli altri partner abbiano provato subito dopo la visita in Spagna, ma per noi del Regno Unito è stato un po’ come l’aver appena scalato una collina difficile e visto di sfuggita un nuovo emozionante paesaggio al di là.
Torniamo un attimo a Birmingham. Emma della Ikon Gallery voleva collegare il progetto con il lavoro che la galleria stava facendo a Northfield, un’area di Birmingham nella quale c’era la più grande fabbrica di automobili nel Regno Unito. L’industria ora se ne è andata, lasciando Northfield devastata; tuttavia, è un’area piena di storia e casa per gruppi di poeti. Abbiamo iniziato a lavorare con le persone a Northfield collegando il disegno alla musica, ascoltando i suoni dei nomi di luoghi a Northfield pronunciati ad alta voce e facendone una mappa con disegni.
Nel frattempo, le persone a Bologna stavano lavorando sull’identità personale, i sentimenti umani e le relazioni tra le persone. Quando quei lavori sono arrivati a Birmingham, inizialmente abbiamo faticato a capire di cosa trattasse perché non c’era alcuna spiegazione scritta. Lo stesso era stato fatto dagli altri partner. Ciò ha portato a realizzare alcune opere d’arte frutto della collaborazione e della creatività del gruppo, perché basate unicamente sulla risposta emotiva che l’opera ricevuta suscitava in chi la riceveva.
Queste diverse direzioni si sono unite nella tappa berlinese. Abbiamo iniziato “disegnando nello spazio” e ci siamo ritrovati ingarbugliati in fili sospesi e gomitoli da un capo all’altro dello studio al Raum 29. Circondati da questo disegno tridimensionale comunitario, abbiamo guardato il lavoro che avevamo fatto in rapporto agli scambi postali dalla visita in Spagna. Anzi, alcuni di noi lo hanno fatto. Le persone della Spagna hanno ideato una sfida portando un regalo per gli italiani – un pacchetto di disegni legati con cura con un nastro. Hanno chiesto loro di dare un senso ai disegni davanti a tutti gli altri. Abbiamo osservato – lieti che non toccasse a noi – mentre i nostri amici di Bologna guardavano i disegni, parlavano tra loro a proposito di cosa significassero e si scervellavano su cosa volessero dire. Un po’ alla volta hanno concluso che tutti i disegni potevano essere messi insieme per formare una mappa della costa orientale della Spagna, con orme vere dappertutto. Ciò che è emerso era un disegno di gruppo di come le donne spagnole avevano viaggiato dalle loro città natali per sposarsi e stabilirsi a Les Coves. Formava una mappa di viaggi personali e un’autobiografia di gruppo, tutto in un solo disegno. Gli italiani hanno mostrato un video di loro stessi che eseguivano un grande disegno di gruppo. Si muovevano energicamente in giro a ritmo di musica, quasi lottando l’uno con l’altro per produrre impronte su grandi fogli di carta. Era la risposta al gruppo di Birmingham che aveva lavorato sul rapporto musica/disegno. Il gruppo di Berlino, invece, aveva creato una macchina da disegno e intrecciato le proprie storie in fili e tessuti che creavano piccole biografie personali. In termini culturali, Berlino ha replicato l’esperienza a Les Coves con una sala da ballo popolare vecchio stile che ha immerso i gruppi in un tumulto di ballo, musica, cibo, birra e risate. Abbiamo lasciato Berlino sentendo che Postmarks sarebbe stato davvero un progetto vivace.
I sentimenti sperimentati dopo Berlino erano giusti, infatti la visita a Bologna è risultata ancora diversa. Il tema della mappa/viaggio ha trovato un collegamento con opere d’arte nate dal come le persone vedevano se stesse. E ciò è avvenuto in un modo particolarmente toccante. Il terremoto di Bologna aveva costretto i nostri amici a spostarsi fuori dal loro centro, in uno in cui si sentivano a disagio. Tuttavia, al ricevere alcuni disegni di Birmingham sul valore delle cose quotidiane, si sono decisi a fare lo stesso con il loro nuovo centro. Hanno scelto un particolare del nuovo centro che a loro piacesse e l’hanno disegnato in vari modi per aiutarsi a percepire in modo più positivo la loro nuova casa. Pensandoci ora, capisco che la visita all’eccezionale museo di Ustica e all’opera d’arte sull’incidente aereo riguardava anche il comprendere diversi tipi di viaggio e lo stabilire la propria identità personale. È strano, ma ora posso vedere collegamenti tra gli incontri Postmarks che non erano evidenti al momento. Abbiamo visto viaggi e identità personali esposte in modo toccante al Museo Ebraico di Berlino e le case ordinarie “Back-to-Back” di 150 anni fa a Birmingham. Mangiare cibo locale durante le visite è stato un altro tema di collegamento: il pasto di campagna di Les Coves, i wurstel e i crauti alla Sala da Ballo a Berlino, le sontuose cene a Bologna, fino al pasto indiano a Birmingham.
L’ultimo incontro è stato a Birmingham ed è stato organizzato come una festa di Postmarks, con una mostra pubblica, di alcune delle opere d’arte prodotte, alla Ikon Gallery. La mostra è stata organizzata come un viaggio attraverso il progetto, collegandosi a uno dei temi principali di Postmarks: rendere accessibile l’arte contemporanea. Ho constatato che alcuni visitatori stavano evitando la mostra perché sentivano di non poterla capire. Tuttavia, quando ho spiegato loro di che cosa trattava e che era prodotta da persone di diversi paesi, che non erano artisti, ma avevano usato l’arte per parlarsi e condividere idee, hanno potuto godere appieno delle opere e del percorso.
Le soprese, però, non erano ancora finite: il gruppo inglese ha messo insieme un “Manuale di disegno Postmarks”, un libretto che era in parte una testimonianza di quanto avevamo prodotto durante il progetto e in parte una guida per i nostri amici, per poter replicare qualcosa di simile dopo che il progetto fosse finito; il gruppo berlinese, a sua volta, ha stupito gli altri con un libro celebrativo di ciò di cui Postmarks aveva trattato.
E che sensazione mi lascia ora Postmarks? In primo luogo, penso che abbia raggiunto molto di più di quanto avesse intenzione di fare. Cioè, abbiamo fatto tutto quello che avevamo detto, ma c’è stato anche molto più. Ci siamo conosciuti e ciò ha un effetto duraturo. Le corrispondenze stanno ancora continuando – incluse quelle intorno allo scrivere questi pensieri! Inoltre, abbiamo raggiunto l’obiettivo di rendere accessibile l’arte contemporanea – persone da quattro diversi paesi hanno creato immagini e prodotto opere d’arte che le hanno sorprese. Non avevano creato nulla di questo genere prima: le opere d’arte erano strane ma emozionanti e, soprattutto, collegate strettamente alle persone che le hanno create perché parlano di loro. E anche questo è stato speciale: benché tutti quelli coinvolti abbiano imparato qualcosa dalla loro esperienza, per alcuni è stata una grande opportunità di cambiamento del modo in cui vedono se stessi e gli altri.
Ora conosciamo molto più cose dei paesi che hanno partecipato e, certamente, abbiamo visto diversi approcci a una stessa attività o concetto. Forse, però, il più grande risultato delle persone coinvolte in Postmarks è stato di produrre collettivamente una raccolta di lavori creativi che non avrebbe potuto essere prodotta da nessun gruppo individualmente. L’elemento collaborativo di Postmarks è stato il suo aspetto più potente. Questo è stato evidente nel modo in cui le persone hanno iniziato a conoscersi e fidarsi l’una dell’altra, a lavorare con gli altri, a seconda degli stimoli ricevuti. Ciò è riscontrabile anche nelle opere d’arte che hanno prodotto. Nella mostra di Birmingham era possibile tenere traccia dei temi e delle idee attraverso i diversi modi in cui le persone li avevano interpretati o sviluppati. A volte in modo spiritoso e a volte seriamente: hanno raccolto l’uno dall’altro e sono stati ispirati da ciò che altri hanno saputo fare per procedere verso un ulteriore lavoro creativo, per se stessi.
Nel concludere questi pensieri su Postmarks, dovrei forse dire che è stato uno dei migliori progetti che abbia coordinato. Da quanto ho ascoltato da altri, se un partner non coopera pienamente ciò può danneggiare l’intero progetto. Nessun problema con Postmarks su questo – tutte le organizzazioni partner hanno lavorato davvero duro per rendere il progetto un successo – ognuna nel proprio modo caratteristico. Ha funzionato e ha avuto così successo semplicemente a causa della magia che le persone hanno generato tra loro. Vorrei cogliere questa occasione per ringraziare tutti quelli coinvolti, per quella che, secondo me, è stata un’esperienza magnifica e gratificante.

1. Introduzione

a cura di Sandra Negri e Roberto Parmeggiani

Il gruppo Calamaio è un gruppo misto di persone con disabilità e persone normodotate. Siamo un gruppo di lavoro. E il nostro lavoro ha a che fare con la relazione, la conoscenza di sé e dell’altro, la consapevolezza di “quel che metto e di quel che mi aspetto” in una relazione. Tutto questo è amplificato se si pensa alla relazione con la diversità, con la disabilità.
Realizziamo percorsi formativi ed educativi in diversi contesti sociali e culturali – primo fra tutti la scuola – allo scopo di favorire sempre più una cultura dell’inclusione di ogni tipo di differenza. Anche e soprattutto quando essa è scomoda, faticosa, mette in crisi.
Ed è proprio la presenza di animatori e educatori con disabilità che permette di fare esperienza diretta di questo tipo di relazione. Dando spazio alla fatica, alla difficoltà, alla crisi. E dando valore e dignità alla scelta di starci in quella relazione, con il tempo e la cura che essa richiede.
La fatica, il tempo e la cura di cui si parla sono in prima persona. Non si tratta di prendersi subito cura dell’altro, ma prima di tutto mi prendo cura di me, di come sto in quella situazione diversa, nuova, a volte imbarazzante e complicata. Mi prendo cura della mia difficoltà, non di quella dell’altro. Perché solo passando da quella cura, da quella attenzione e da quel rispetto posso entrare nella dimensione dell’altro in modo autentico. A quel punto siamo insieme. E insieme stabiliamo i criteri e le misure della nostra relazione.
Entrare in questa dimensione con bambini, ragazzi e adulti richiede per gli animatori del Progetto Calamaio un buon livello di conoscenza di sé, accettazione e consapevolezza della propria disabilità così come delle proprie risorse.
La nostra formazione parte da questo, da un allenamento a guardarci, sentirci, contattare parti di noi che non sono sempre a portata di mano.
Vivere il lungo percorso del progetto Postmarks insieme a MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna e ai partners europei ci ha però fatto avvicinare e interpellare zone di noi che avevano ancora tanto da dirci.
E che grande privilegio potere condividere questa esperienza e questo pezzo di strada con questi gruppi! Si tratta dell’Ikon Gallery di Birmingham e un gruppo di anziani che vivono in periferia; l’Espai d’Art Contemporani de Castelló e una comunità di donne che vivono a Les Coves, un villaggio con un alto tasso di disoccupazione; il KulturLabor di Berlino insieme a un gruppo di disabili psichici. Con loro, abbiamo sentito fin da subito alcune affinità: il desiderio di sperimentarsi e di mettersi in gioco, la voglia di guardarsi in profondità attraverso il potere espressivo dell’arte, il grande desiderio di incontrare l’altro, cogliendo e valorizzando le differenze come occasione di crescita e di esperienza di vita.

14. Bibliografia/sitografia

Tullio De Mauro, Guida all’uso delle parole, Roma, Editori Riuniti, Libri di Base, 2004 (XII edizione)

Tullio De Mauro, La cultura degli italiani, Bari, Laterza, 2010

Stefania Ferrari, Comprehension and l2 reading: an experimental study on the effects of textual modification, Tesi di laurea in Lingua e Letteratura Inglese Università di Bologna, 2002

Annalisa Ghiretti, Comprensibilità di testi modificati e apprendimento della seconda lingua in cittadini stranieri residenti in Italia, Dottorato in Scienze Umane, Università Modena e Reggio Emilia, 2010

Maria Grazia Menegaldo, Guida pratica alla semplificazione dei testi disciplinari, Viterbo, Gruppo Albatros Il Filo, 2011

Walter Ong, Oralità e scrittura, Bologna, Il Mulino, 1986 (capitolo 4)

Gabriele Pallotti (a cura di), Scrivere per comunicare, Milano, Bompiani, 2001 e Capitolo 2

Gabriele Pallotti, Favorire la comprensione dei testi scritti, in LEND, 3, 2000, pp. 28-35

Maria Emanuela Piemontese, Capire e farsi capire. Teorie e tecniche della scrittura controllata, Napoli, Tecnodid, 1996

Giovanni Solimine, L’Italia che legge, Bari, Laterza, 2010

Sitografia

chiaro&semplice

Comunicazione pubblica, scrittura, leggibilità e comprensibilità dei testi scritti; testi di facile lettura; tecniche di scrittura controllata; manuali di stile; corsi di lingua italiana… il blog di Emanuela Piemontese

http://chiaroesemplice.blogspot.it/2006/03/otto-pagine-dueparole-oltre.html

Easy-to-Read Network

Il sito della rete mondiale delle organizzazioni che si occupano di lettura facile

www.easytoread-network.org

Klartale
Quotidiano di facile lettura norvegese prodotto su carta, web, in podcast e in versione Braille; una delle esperienze più complete esistenti in Europa

www.klartale.no

L’essentiel
“L’informazione semplice come il buongiorno” è lo slogan di questo sito web belga di lingua francese

www.journal-essentiel.be

news-2-you

Un settimanale di informazione globale rivolto agli studenti e pensato a livelli di difficoltà differenti

http://news2you.n2y.com

capito – Barrierefreie Information

Semplificazioni dei testi, produzioni di video in questo sito austriaco collegato in rete ad altre esperienze

www.capito.eu/de

Simplify Reality
Un’iniziativa editoriale statunitense che, utilizzando circa 400 parole di base, racconta i fatti importanti dell’America e del mondo; pensato per le persone che non hanno tempo per leggere

http://simplifyreality.com/?page_id=201

13. Easy-Read-Online

di Martin Dobson, direttore

L’esperienza inglese si basa soprattutto sull’attività instancabile di Martin Dobson che ha come obiettivo quello di garantire la libera espressione a chi è in condizione di difficoltà. Per farlo usa la scrittura controllata, ma anche i video e punta molto sul buon uso di internet.
Ho lavorato per oltre 15 anni con insegnanti specializzati che si occupavano di disabili. Per 10 anni ho diretto un’organizzazione che aiutava  le persone disabili a parlare chiaro. Volevamo che queste persone avessero fiducia nei propri pensieri e nelle proprie idee, che non avessero timori a parlare ai propri famigliari e alle persone con cui venivano in contatto.
Nel nostro gruppo di lavoro le persone in difficoltà hanno una posizione centrale; le persone con difficoltà di apprendimento sono alla guida del comitato di gestione, sono cioè i miei “capi”. Ho cercato di coinvolgere le persone disabili in tutti i vari lavori possibili, dalla battitura dei testi alla redazione di report, usando moltissimo i computer che sono una risorsa importante per le persone che hanno difficoltà nello scrivere a mano. Tramite il computer i loro prodotti si avvicinano a quelli delle altre persone.
Mi sono reso conto poi che lo sviluppo velocissimo di internet ha portato molte persone a usarlo per informarsi, comprare, per svagarsi ma di fronte a tutto ciò le persone con difficoltà di apprendimento rimanevano quasi totalmente escluse, perché internet si basava ancora sul testo scritto. Per poter usare bene le tecnologie digitali occorreva comunque essere capaci di leggere e scrivere.
Mi sono reso conto però che internet avrebbe potuto essere per le persone con disabilità intellettiva una grande occasione. Usando l’audio e il video era possibile offrire alle persone tutte le informazioni che volevano. Ho cercato così di trovare un modo per facilitare l’accesso alle nuove tecnologie proprio per le persone con difficoltà di apprendimento.
Noi realizziamo dei documenti facili da leggere, dei siti web facili da usare e infine dei video. Nel primo caso scrivo dei testi easy to read per conto dell’istituzione locale o per il servizio sanitario locale o per tutti quei gruppi che lavorano con persone che hanno difficoltà di apprendimento.
Nel secondo caso faccio dei siti web accessibili per persone che non possono leggere o scrivere. Uso il video in ogni pagina come mezzo di comunicazione e non solo per illustrare qualcosa. Questo perché il video è il principale mezzo di comunicazione per le persone che non sanno leggere e scrivere e funziona meglio di un semplice suono, perché la gente può vedere e si relaziona meglio alla persona che fornisce le informazioni.
Per quanto riguarda i video, sono le persone con difficoltà di apprendimento che ne sono protagoniste.
Infine vorrei ricordare “Dobson’s Choice” un motore di ricerca per le persone che non sanno leggere e scrivere. Utilizza immagini e suoni per aiutare le persone a ottenere le informazioni di cui hanno bisogno.
Per quanto riguarda le regole di scrittura su cui mi baso, uso un plain english (la lingua inglese controllata, n.d.r.), un inglese che si serve solo delle parole e delle frasi che la gente usa nella conversazione di ogni giorno. Quando scrivo penso alle persone che hanno queste difficoltà e che conosco bene; poi  mi domando se capirebbero quello che scrivo. Se introduco parole difficili o gergali, ne dò sempre una spiegazione.
In genere ricevo finanziamenti dalle istituzioni e dai gruppi che hanno bisogno di testi semplificati, ma la ricerca delle risorse economiche rimane un grosso problema. In Inghilterra chi finanzia i servizi per le persone con difficoltà di apprendimento è quasi sempre il governo e, come nel resto d’Europa, anche il nostro paese sta attraversando un periodo di austerità. Non ci sono soldi per questo tipo di servizio e nemmeno per le nuove idee. Tuttavia penso che le prospettive future siano buone, dato che molte organizzazioni si rendono conto che devono fare informazioni più facili per tutti.

Easy-Read-Online
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L17 7AA
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