L’arte della trasformazione
All’Istiuto dei Ciechi di Bologna Francesco Cavazza con Gruppo Elettrogeno e Orbitateatro.
È orario di prove all’Istituto dei Ciechi di Bologna Francesco Cavazza. Per non disturbare ci soffermiamo in silenzio sulla soglia della palestra. Dentro c’è un percorso a ostacoli. Ad attraversarlo ci sono gli attori di Orbitateatro, la compagnia di vedenti, non vedenti e ipovedenti nata in seno al laboratorio teatrale “Arte della trasformazione”, condotto dal 2008 da Martina Palmieri e Marilena Lodi, in arte Gruppo Elettrogeno. “Pelle”, “carne” e “ossa” sono le parole chiave dell’edizione 2012, prosecuzione ideale del percorso che lo scorso aprile ha visto otto componenti del gruppo protagonisti dello spettacolo Brindisi con boia/Primo studio, riscrittura scenica del radiodramma di Friedrich Dürrenmatt Colloquio notturno con un uomo disprezzato, per ben due repliche sold out al centro sociale e laboratorio di sperimentazione artistica TPO.
Ci siamo così trovati nel mezzo di un’esperienza unica nel suo genere, intima, energica e destabilizzante che terrà impegnati il Gruppo e la compagnia per l’intera stagione 2012-13 in un ciclo laboratoriale di sedici incontri rivolti alla città, con l’obiettivo, per chi lo vorrà, di partecipare nuovamente alla realizzazione di un vero e proprio spettacolo finale aperto al pubblico.
Quella di Orbitateatro è una storia teatrale integrata e tutta in divenire, fatta di incontri, conquiste e conflitti vissuti non a partire dalla propria disabilità ma al di là della stessa, che ci chiama personalmente alla reazione, a rispondere ai nostri deficit e quotidiani smarrimenti con un atto creativo di trasformazione rispettoso e disinibito.
A raccontarcela meglio ci hanno pensato la conduttrice Martina Palmieri e le attrici vedenti e non vedenti Angela, Lisa e Irene, che, tra un esercizio e l’altro, ci hanno rivelato difficoltà e conquiste del proprio percorso “a rivelazioni”, proporzioni in bilico dove il teatro sta all’arte come il limite alla sfida.
Ho cominciato a seguire il laboratorio nel 2009, su consiglio della mia amica Irene, un po’ per gioco e per curiosità, rassicurata dal fatto che si svolgeva al Cavazza, per me da sempre un punto di riferimento importante. La prima cosa che mi ha colpita è stato il confronto con un gruppo di persone molto eterogeneo. Vedenti, non vedenti, sordociechi, persone con diversità sessuali, persone completamente “straniere” tra loro con cui si stava bene comunque senza tanti perché.
Poi c’è stato il confronto con l’azione e gli esercizi… Il solo pensiero di fare certe cose all’inizio mi metteva in imbarazzo, come per esempio l’avere un contatto fisico diretto che non fosse strettamente conoscitivo con persone che non conoscevo o che conoscevo relativamente. Il tempo e gli esercizi in questo senso mi hanno conferito molta più naturalezza, oltre che avermi aiutato nella mobilità. Un esercizio da questo punto di vista utilissimo che spesso sperimentiamo durante le serate di laboratorio è, per esempio, “la zattera”. Si cammina per la palestra, qualcuno è bendato ebisogna capire quando una persona ti si avvicina. A volte ci troviamo di fronte un muro o un ostacolo… superarlo permette di acquisire più coraggio e di conseguenza più autonomia nel movimento.
Dopo le varie peripezie delle prove siamo arrivati a“Brindisi con boia”, un’esperienza esaltante… Arrivare allo spettacolo non ci è sembrato vero, ancora di più sapendo che là fuori c’era la fila. Quando è stata l’ora di entrare si è cercato ovviamente di sdrammatizzare ma nonostante ciò l’emozione è rimasta… Per superarla mi sono detta che alla fine anche se il teatro era pieno io tanto non lo avrei potuto vedere e che quindi non avrei dovuto fare altro se non quello che ero abituata a fare nelle prove. Ha funzionato. Quando ho finito di recitare la mia parte è partito un applauso che non scorderò mai! Le critiche sono state molto positive anche perché era uno spettacolo contemporaneo, cioè non era il solito spettacolo di prosa e chi è venuto a vederlo è rimasto colpito da tutto lo spettacolo in sé, che peraltro non era facilmente comprensibile come primo impatto. Anche il lavoro sul testo infatti è stato diverso da quello che mi aspettavo. Entrambe le mie parti sono state prodotte da me in prima persona sulla base di improvvisazioni che mi avevano vista protagonista. Non ho mai percepito nel pubblico atteggiamenti pietistici, anche perché sfido a capire nel mezzo del contesto dello spettacolo chi fosse cieco e chi no, nelle scene che sono state composte infatti non era facilmente comprensibile… Il bello di questo spettacolo è che c’è stata un’integrazione forte con tutti, attori e pubblico senza commiserazioni e senza imbarazzi.
Arrivata a questo punto credo ora di dovermi cimentare in un ruolo diverso. Sto scoprendo negli ultimi incontri di laboratorio quanto mi piace far capire e percepire ai nuovi arrivati quello che io ho ricevuto nelle esperienze precedenti. Mi sono accorta di quanto anche tra le persone normodotate ognuno di noi abbia sempre qualcosa di personale da migliorare e da scoprire.
Angela
In principio ho dovuto affrontare un problema di linguaggio. Nella nostra vita quotidiana siamo abituati a usare con naturalezza verbi come “vedi”, “guarda”, “osserva”… e all’inizio lo facevo anch’io, abituata a spiegare così le cose che vedevo e non conoscendo ancora in me la parte che era in grado semplicemente di farle. Ciononostante non ho mai avuto paura di confrontarmi direttamente con la disabilità anche perché il laboratorio non si è mai concentrato su questo concetto ma, piuttosto, su quello di trasformazione. Ognuno di noi ha le propria disabilità. La realizzazione di “Brindisi con boia” è stato un esperimento molto intenso che ci è servito a rinforzare il gruppo e a capire che il lavoro dei tre anni precedenti aveva un fine. Lavorare poi in uno spazio scenico immerso tra le persone avendo per parametro non la disabilità ma l’uniformità del meccanismo ha fatto inoltre del nostro non il classico spettacolino dei non vedenti ma lo spettacolo di una vera e propria compagnia teatrale. Anche portare lo spettacolo in un centro sociale come il TPO ha infatti la sua importanza, la maggior parte delle persone che incontravo quando lo promuovevo si ritrovavano spiazzate dal fatto che non si tenesse al Cavazza… Il nostro è un teatro contemporaneo prima di tutto perché del qui e dell’ora, basato sulla ricerca di quelle piccole crepe e di quegli interstizi che risiedono in noi e che dobbiamo imparare a riscrivere.
Lisa
Quello con il Gruppo è stato un incontro ai limiti del casuale. Io faccio parte dell’Unione Ciechi e una volta, a Torino. sono venuta a conoscenza di un’esperienza del genere e ne ho cercata una analoga Bologna. Qui ho incontrato Martina.
Avendo frequentato scuola e università avevo alla fine più amici vedenti che non vedenti per cui all’idea di partecipare a un laboratorio integrato ero più curiosa che spaventata. Ho scoperto che mi piace questo tipo di esperienza benché ne avessi già iniziate un po’ di tutti i colori, compreso il tango! Con il teatro tuttavia ho imparato a sviluppare un atteggiamento più rilassato verso me stessa. Nel fare sulla scena cose che nella vita quotidiana non faresti mai infatti, c’è un forte senso di liberazione. Quello che a teatro mi ha particolarmente coinvolto è il lavoro sull’espressione del corpo e del viso, essendo cieca dalla nascita non ho chiara la percezione di questo tipo di movimento, ho sempre bisogno che qualcuno a riguardo mi dia un feedback. L’esperienza di “Brindisi con boia” è stata divertente e faticosa, io in particolare ero in attesa del mio bambino e avevo sempre paura di non arrivare alla fine… Farcela è stato molto gratificante anche di fronte al pubblico così numeroso con cui mi sono rapportata, credo, con una certa serenità. Il rischio del pietismo ovviamente è sempre insito nella disabilità, si sa che può sempre suscitare compassione nel vero senso del termine… A mio parere non si può evitare così come non ha senso nasconderla, l’unico modo è cercare di lavorare al di là della disabilità. Allo stesso modo, va detto, io non devo dimostrare niente a nessuno, al massimo posso giocare con me stessa. Non ci è mai stato chiesto, d’altronde, un lavoro sulla cecità…
Irene
Io sono ipovedente ma me la cavo bene grazie al teatro, forse per questo o forse no… ormai non lo so più dire. Dopo aver svolto diverse esperienze con il Gruppo, nato nel ’99, siamo passati dall’organizzazione di festival al lavoro che tutt’oggi proseguiamo con i detenuti del carcere della Dozza, finché non ho incontrato Fernando Torrente, il nostro coordinatore del Cavazza, che mi ha fatto conoscere Irene.
All’inizio non è stato semplice, ho dovuto prendere le misure, tanto per cominciare perché si tende a spiegare qualcosa facendolo vedere. Le prime questioni da risolvere, dunque, erano di carattere pratico. In seguito ci sono state una serie di prove durante le quali la qualità della ricerca si è alzata. Abbiamo cercato di uscire da obiettivi, cliché e stereotipi che appartengono a tutti. Ogni vedente e ipovedente ha la sua storia, c’è chi si applica a fare in modo che ciò non si veda e lo ripropone in scena, chi invece prova ad andare oltre. Abbiamo cominciato a capire come si svolge l’azione, che cosa è la scenografia e cosa non lo è, che cosa vuol dire muoversi nello spazio scenico. Superare gli stereotipi, non è facile per nessuno e credo sia stato il momento di ricerca teatrale più interessante. Per i vedenti infatti sembra sempre si tratti di una grande esperienza mistica quando in realtà non c’è fascino nell’essere non vedente. Dire che hanno una diversa capacità sensoriale è molto politicamente corretto. Se quello che teatralmente ne emerge è buono è perché dietro c’è un’esperienza, fatta a volte con una certa consapevolezza e competenza, dovuta alla pratica e all’allenamento. Per un vedente sembra forte il fatto di essere bendati, in realtà sono esperienze che a teatro si fanno normalmente. Noi non facciamo teatro terapia, il teatro ha già insita in sé questa funzione, il teatro può voler dire molte cose e si fa per i motivi più disparati. Ci sono persone che anche se hanno ormai concluso il percorso se lo ricordano sia perché ha fatto emergere dei conflitti sia perché ha fatto emergere dei risultati e chi invece continua a farlo come fosse una necessità. Tra queste persone tuttavia abbiamo scoperto che ce ne sono alcuni con identità artistiche, attori capaci e creativi come se fossero vedenti. Nessuno di noi è dentro il cappello di “teatro sociale”, ci sono delle esperienze di teatro prima di tutto dove per fatalità la compagnia non può più lavorare in altri contesti per interesse. Questo non toglie la responsabilità di lavorare su obiettivi di qualità, l’esperienza di compagnia, le prove, devono avere un livello alto, lo spettacolo deve essere in grado di girare, dentro si esprime anche la disabilità ma vale per tutti ed è parte del teatro. Avvicinare realmente le persone alla cecità è difficilissimo, fa paura. Dietro ci sono lo specchio e il rischio.
Martina Palmieri
L’iniziativa è realizzata con il sostegno della provincia di Bologna e in collaborazione con: 0GK – Associazione internazionale per la promozione sociale dell’arte; Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti – Sezione provinciale di Bologna; Istituto dei ciechi Francesco Cavazza di Bologna; Accademia di Belle Arti di Bologna.
Per informazioni:
artedellatrasformazione@gmail.com
torrente@cavazza.it
www.gruppoelettrogeno.org