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Autore: Nicola Rabbi

L’arte della trasformazione

All’Istiuto dei Ciechi di Bologna Francesco Cavazza con Gruppo Elettrogeno e Orbitateatro.
È orario di prove all’Istituto dei Ciechi di Bologna Francesco Cavazza. Per non disturbare ci soffermiamo in silenzio sulla soglia della palestra. Dentro c’è un percorso a ostacoli. Ad attraversarlo ci sono gli attori di Orbitateatro, la compagnia di vedenti, non vedenti e ipovedenti nata in seno al laboratorio teatrale “Arte della trasformazione”, condotto dal 2008 da Martina Palmieri e Marilena Lodi, in arte Gruppo Elettrogeno. “Pelle”, “carne” e “ossa” sono le parole chiave dell’edizione 2012, prosecuzione ideale del percorso che lo scorso aprile ha visto otto componenti del gruppo protagonisti dello spettacolo Brindisi con boia/Primo studio, riscrittura scenica del radiodramma di Friedrich Dürrenmatt Colloquio notturno con un uomo disprezzato, per ben due repliche sold out al centro sociale e laboratorio di sperimentazione artistica TPO.
Ci siamo così trovati nel mezzo di un’esperienza unica nel suo genere, intima, energica e destabilizzante che terrà impegnati il Gruppo e la compagnia per l’intera stagione 2012-13 in un ciclo laboratoriale di sedici incontri rivolti alla città, con l’obiettivo, per chi lo vorrà, di partecipare nuovamente alla realizzazione di un vero e proprio spettacolo finale aperto al pubblico.
Quella di Orbitateatro è una storia teatrale integrata e tutta in divenire, fatta di incontri, conquiste e conflitti vissuti non a partire dalla propria disabilità ma al di là della stessa, che ci chiama personalmente alla reazione, a rispondere ai nostri deficit e quotidiani smarrimenti con un atto creativo di trasformazione rispettoso e disinibito.
A raccontarcela meglio ci hanno pensato la conduttrice Martina Palmieri e le attrici vedenti e non vedenti Angela, Lisa e Irene, che, tra un esercizio e l’altro, ci hanno rivelato difficoltà e conquiste del proprio percorso “a rivelazioni”, proporzioni in bilico dove il teatro sta all’arte come il limite alla sfida.
Ho cominciato a seguire il laboratorio nel 2009, su consiglio della mia amica Irene, un po’ per gioco e per curiosità, rassicurata dal fatto che si svolgeva al Cavazza, per me da sempre un punto di riferimento importante. La prima cosa che mi ha colpita è stato il confronto con un gruppo di persone molto eterogeneo. Vedenti, non vedenti, sordociechi, persone con diversità sessuali, persone completamente “straniere” tra loro con cui si stava bene comunque senza tanti perché.
Poi c’è stato il confronto con l’azione e gli esercizi… Il solo pensiero di fare certe cose all’inizio mi metteva in imbarazzo, come per esempio l’avere un contatto fisico diretto che non fosse strettamente conoscitivo con persone che non conoscevo o che conoscevo relativamente. Il tempo e gli esercizi in questo senso mi hanno conferito molta più naturalezza, oltre che avermi aiutato nella mobilità. Un esercizio da questo punto di vista utilissimo che spesso sperimentiamo durante le serate di laboratorio è, per esempio, “la zattera”. Si cammina per la palestra, qualcuno è bendato ebisogna capire quando una persona ti si avvicina. A volte ci troviamo di fronte un muro o un ostacolo… superarlo permette di acquisire più coraggio e di conseguenza più autonomia nel movimento.
Dopo le varie peripezie delle prove siamo arrivati a“Brindisi con boia”, un’esperienza esaltante… Arrivare allo spettacolo non ci è sembrato vero, ancora di più sapendo che là fuori c’era la fila. Quando è stata l’ora di entrare si è cercato ovviamente di sdrammatizzare ma nonostante ciò l’emozione è rimasta… Per superarla mi sono detta che alla fine anche se il teatro era pieno io tanto non lo avrei potuto vedere e che quindi non avrei dovuto fare altro se non quello che ero abituata a fare nelle prove. Ha funzionato. Quando ho finito di recitare la mia parte è partito un applauso che non scorderò mai! Le critiche sono state molto positive anche perché era uno spettacolo contemporaneo, cioè non era il solito spettacolo di prosa e chi è venuto a vederlo è rimasto colpito da tutto lo spettacolo in sé, che peraltro non era facilmente comprensibile come primo impatto. Anche il lavoro sul testo infatti è stato diverso da quello che mi aspettavo. Entrambe le mie parti sono state prodotte da me in prima persona sulla base di improvvisazioni che mi avevano vista protagonista. Non ho mai percepito nel pubblico atteggiamenti pietistici, anche perché sfido a capire nel mezzo del contesto dello spettacolo chi fosse cieco e chi no, nelle scene che sono state composte infatti non era facilmente comprensibile… Il bello di questo spettacolo è che c’è stata un’integrazione forte con tutti, attori e pubblico senza commiserazioni e senza imbarazzi.
Arrivata a questo punto credo ora di dovermi cimentare in un ruolo diverso. Sto scoprendo negli ultimi incontri di laboratorio quanto mi piace far capire e percepire ai nuovi arrivati quello che io ho ricevuto nelle esperienze precedenti. Mi sono accorta di quanto anche tra le persone normodotate ognuno di noi abbia sempre qualcosa di personale da migliorare e da scoprire.
Angela

In principio ho dovuto affrontare un problema di linguaggio. Nella nostra vita quotidiana siamo abituati a usare con naturalezza verbi come “vedi”, “guarda”, “osserva”… e all’inizio lo facevo anch’io, abituata a spiegare così le cose che vedevo e non conoscendo ancora in me la parte che era in grado semplicemente di farle. Ciononostante non ho mai avuto paura di confrontarmi direttamente con la disabilità anche perché il laboratorio non si è mai concentrato su questo concetto ma, piuttosto, su quello di trasformazione. Ognuno di noi ha le propria disabilità. La realizzazione di “Brindisi con boia” è stato un esperimento molto intenso che ci è servito a rinforzare il gruppo e a capire che il lavoro dei tre anni precedenti aveva un fine. Lavorare poi in uno spazio scenico immerso tra le persone avendo per parametro non la disabilità ma l’uniformità del meccanismo ha fatto inoltre del nostro non il classico spettacolino dei non vedenti ma lo spettacolo di una vera e propria compagnia teatrale. Anche portare lo spettacolo in un centro sociale come il TPO ha infatti la sua importanza, la maggior parte delle persone che incontravo quando lo promuovevo si ritrovavano spiazzate dal fatto che non si tenesse al Cavazza… Il nostro è un teatro contemporaneo prima di tutto perché del qui e dell’ora, basato sulla ricerca di quelle piccole crepe e di quegli interstizi che risiedono in noi e che dobbiamo imparare a riscrivere.
Lisa

Quello con il Gruppo è stato un incontro ai limiti del casuale. Io faccio parte dell’Unione Ciechi e una volta, a Torino. sono venuta a conoscenza di un’esperienza del genere e ne ho cercata una analoga  Bologna. Qui ho incontrato Martina.

Avendo frequentato scuola e università avevo alla fine più amici vedenti che non vedenti per cui all’idea di partecipare a un laboratorio integrato ero più curiosa che spaventata. Ho scoperto che  mi piace questo tipo di esperienza benché ne avessi già iniziate un po’ di tutti i colori, compreso il tango! Con il teatro tuttavia ho imparato a sviluppare un atteggiamento più rilassato verso me stessa. Nel fare sulla scena cose che nella vita quotidiana non faresti mai infatti, c’è un forte senso di liberazione. Quello che a teatro mi ha particolarmente coinvolto è il lavoro sull’espressione del corpo e del viso, essendo cieca dalla nascita non ho chiara la percezione di questo tipo di movimento, ho sempre bisogno che qualcuno a riguardo mi dia un feedback. L’esperienza di “Brindisi con boia” è stata divertente e faticosa, io in particolare ero in attesa del mio bambino e avevo sempre paura di non arrivare alla fine… Farcela è stato molto gratificante anche di fronte al pubblico così numeroso con cui mi sono rapportata, credo, con una certa serenità. Il rischio del pietismo ovviamente è sempre insito nella disabilità, si sa che può sempre suscitare compassione nel vero senso del termine… A mio parere non si può evitare così come non ha senso nasconderla, l’unico modo è cercare di lavorare al di là della disabilità. Allo stesso modo, va detto, io non devo dimostrare niente a nessuno, al massimo posso giocare con me stessa. Non ci è mai stato chiesto, d’altronde, un lavoro sulla cecità…
Irene

Io sono ipovedente ma me la cavo bene grazie al teatro, forse per questo o forse no… ormai non lo so più dire. Dopo aver svolto diverse esperienze con il Gruppo, nato nel ’99, siamo passati dall’organizzazione di festival al lavoro che tutt’oggi proseguiamo con i detenuti del carcere della Dozza, finché non ho incontrato Fernando Torrente, il nostro coordinatore del Cavazza, che mi ha fatto conoscere Irene.
All’inizio non è stato semplice, ho dovuto prendere le misure, tanto per cominciare perché si tende a spiegare qualcosa facendolo vedere. Le prime questioni da risolvere, dunque, erano di carattere pratico. In seguito ci sono state una serie di prove durante le quali la qualità della ricerca si è alzata. Abbiamo cercato di uscire da obiettivi, cliché e stereotipi che appartengono a tutti. Ogni vedente e ipovedente ha la sua storia, c’è chi si applica a fare in modo che ciò non si veda e lo ripropone in scena, chi invece prova ad andare oltre. Abbiamo cominciato a capire come si svolge l’azione, che cosa è la scenografia e cosa non lo è, che cosa vuol dire muoversi nello spazio scenico. Superare gli stereotipi, non è facile per nessuno e credo sia stato il momento di ricerca teatrale più interessante. Per i vedenti infatti sembra sempre si tratti di una grande esperienza mistica quando in realtà non c’è fascino nell’essere non vedente. Dire che hanno una diversa capacità sensoriale è molto politicamente corretto. Se quello che teatralmente ne emerge è buono è perché dietro c’è un’esperienza, fatta a volte con una certa consapevolezza e competenza, dovuta alla pratica e all’allenamento. Per un vedente sembra forte il fatto di essere bendati, in realtà sono esperienze che a teatro si fanno normalmente. Noi non facciamo teatro terapia, il teatro ha già insita in sé questa funzione, il teatro può voler dire molte cose e si fa per i motivi più disparati. Ci sono persone che anche se hanno ormai concluso il percorso se lo ricordano sia perché ha fatto emergere dei conflitti sia perché ha fatto emergere dei risultati e chi invece continua a farlo come fosse una necessità. Tra queste persone tuttavia abbiamo scoperto che ce ne sono alcuni con identità artistiche, attori capaci e creativi come se fossero vedenti. Nessuno di noi è dentro il cappello di “teatro sociale”, ci sono delle esperienze di teatro prima di tutto dove per fatalità la compagnia non può più lavorare in altri contesti per interesse. Questo non toglie la responsabilità di lavorare su obiettivi di qualità, l’esperienza di compagnia, le prove, devono avere un livello alto, lo spettacolo deve essere in grado di girare, dentro si esprime anche la disabilità ma vale per tutti ed è parte del teatro. Avvicinare realmente le persone alla cecità è difficilissimo, fa paura. Dietro ci sono lo specchio e il rischio.
Martina Palmieri

L’iniziativa è realizzata con il sostegno della provincia di Bologna e in collaborazione con: 0GK – Associazione internazionale per la promozione sociale dell’arte; Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti – Sezione provinciale di Bologna; Istituto dei ciechi Francesco Cavazza di Bologna; Accademia di Belle Arti di Bologna. 

Per informazioni:
artedellatrasformazione@gmail.com
torrente@cavazza.it
www.gruppoelettrogeno.org 

Dov’è la vittoria?

Si sono da poco concluse le Olimpiadi e, da ancor meno, le Paralimpiadi. Le prime nascono dai Giochi Olimpici antichi, concepiti dai Greci come la massima forma di esibizione e di esaltazione del corpo, forte e perfetto, dell’atleta. Nelle gare, ogni partecipante cerca di superare gli altri ma anche se stesso, i propri limiti umani, cerca di correre sempre più veloce, polverizzando i record precedenti, che ormai si misurano nell’ordine dei centesimi di secondo, una porzione di tempo così infinitesimale che ci è difficile addirittura concepirla. Gli atleti dedicano infinite, costanti attenzioni a quei loro corpi perfetti, ne sono così ossessionati, a volte, da arrivare a gesti insani e sconsiderati come il doping, pur di spremere ogni possibilità di superare i propri limiti e primeggiare nella disciplina praticata. Il limite, non a caso, è un concetto assai ricorrente nello sport. La vittoria è un superamento di esso, prima che dell’avversario. I Greci raffiguravano i vincitori delle gare come delle divinità. Quest’estate ho seguito, come tutti, qualche gara, ammirato dalla potenza, dall’equilibrio e dal controllo di sé dei protagonisti. Poi, ci sono state le Paralimpiadi. Corpi imperfetti, mutilati, con limiti sensoriali, più o meno evidenti. Eppure, era visibile la stessa forza, la stessa determinazione e competizione. Lì, fra gli atleti paralimpici, i limiti si vedevano, eccome. Per questo, il paragone con le Olimpiadi è inevitabile e scontato. I limiti, in quanto umani, li hanno anche gli atleti normodotati. In alcuni casi, anche più evidenti: crampi, stiramenti, cadute, qualcuno che rimaneva indietro, durante le gare olimpiche, c’era sempre, manifestando i limiti della propria fisicità agli occhi del mondo. Nei Giochi Paralimpici, la prima cosa che mi è saltata agli occhi è stata che, nelle gare, sono ben in mostra anche i limiti del vincitore, non solo quelli dei vinti. Gli atleti sono più trasparenti, vincitori e vinti, ognuno deve superare almeno due limiti: il proprio, dovuto a qualche deficit, e quello, relativo, che lo sport e la competizione pongono davanti.
Ho istintivamente pensato a vari casi di atleti disabili che hanno, nel tempo, attirato la mia attenzione. Qualche anno fa ci fu il caso di Pistorius, oggi una vera e propria celebrità. Da bambino gli furono amputate entrambe le gambe, per una coraggiosa intuizione della mamma – ah, le mamme! – che capì che sarebbe stato meglio per lui non avere le gambe piuttosto che averle, ma solo come inutili appendici senza forza. Fu una scelta molto coraggiosa di una mamma che seppe mettere da parte le apparenze e la paura del deficit. Da allora, quel bambino lottò per superare quell’handicap, affinché diventasse addirittura un punto di forza, fino al punto che, all’inizio della carriera agonistica ad alti livelli, anni fa, gli venne impedito di partecipare alle Olimpiadi perché si diceva che le sue protesi di carbonio potessero avvantaggiarlo rispetto ai normodotati. Trovai già allora abbastanza paradossale il pensiero che un deficit così significativo potesse addirittura portare giovamento all’atleta. Se un atleta con un qualsiasi handicap compete con un atleta normodotato, nessuno dei due trarrà soddisfazione dall’avere affrontato la gara e, allo stesso tempo, i propri limiti. Anche l’atleta normodotato, sia che vinca, sia che venga sconfitto, non potrà che nutrire un sentimento ambivalente nei confronti della competizione con un avversario con deficit. È lo stesso motivo per cui io, fin da giovane, non sono mai stato particolarmente favorevole all’idea della classe mista, per lo meno nei primi anni di scuola, dal momento che, avendo frequentato scuole primarie speciali, io mi sono sempre sentito valorizzato nei miei talenti dal fatto di confrontarmi ad armi pari con i miei compagni, senza dovere, fin da subito, affrontare sia la sana competizione scolastica, sia la frustrazione dell’idea di partire, comunque, materialmente svantaggiato rispetto ai miei colleghi. D’altra parte, quando, in una competizione si vuole penalizzare un atleta o anche un’intera squadra per un’infrazione o una scorrettezza, si dice che essi partono con una penalità o con un handicap.
Un altro caso di atleti con deficit che questa estate è stato largamente diffuso, soprattutto sul web, è quello del bambino undicenne brasiliano senza piedi che è diventato un asso del calcio. Non credo sia un caso che il piccolo Gabriel abbia scelto di praticare proprio uno sport come il calcio, che è la massima espressione dell’abilità di giocare a pallone con i piedi. Ritengo che questa scelta manifesti il suo grande desiderio di superare il suo limite proprio nel campo in cui tale limite sarebbe stato particolarmente evidente, quasi a volere dimostrare che, facendo quello, avrebbe sicuramente potuto fare tutto. Per questo bambino, come emerge dalle interviste, ciò che conta non è la mancanza dei piedi, ma è il fatto di avere potuto giocare con la squadra del Barcelona. Il piccolo sembra quasi non percepire la straordinarietà dell’impresa che compie ogni giorno sul campo da calcio in relazione al proprio deficit. Chiaramente, per lui la cosa eclatante è il fatto di essere riuscito a giocare con la sua squadra del cuore, è questo è il limite che lui ha sempre mirato a superare, guardando oltre alla sua diversità di partenza. Un simile esempio dimostra che lo sport per le persone disabili può essere un obiettivo che dà senso almeno a una parte della loro vita, un modo per dire al mondo “posso fare tutto, persino questo!”. La competizione sportiva arriva a modificare la percezione di sé, in questo caso in senso totalmente positivo. Nello sport, normodotati e non si trovano davanti, fin da piccoli, fin dai primi passi in questo mondo, tanti ostacoli da superare, tanti limiti fisici e psicologici che, spesso, costituiscono vere e proprie barriere. Tutti, in una squadra, hanno dei limiti da superare, delle caratteristiche proprie, dei talenti unici e, per contro, cose che proprio non riescono a fare altrettanto bene rispetto a qualche compagno. Le “diverse abilità” accompagnano tutti gli sportivi, senza distinzione. Con esse, devono misurarsi fin da subito, più che in qualsiasi altro contesto. Per questo lo sport può essere davvero un terreno di crescita, di scambio e di confronto sano ed educativo per i ragazzi, abbiano essi deficit più o meno “trasparenti”.
Matteo Cavagnini, giocatore di basket in carrozzina, ha espresso benissimo, a mio avviso, questo pensiero sul superamento del limite tramite lo sport. A 14 anni, come tutti i ragazzini, si sentiva invincibile, invulnerabile. Un incidente in scooter gli “porta via” una gamba, per un adolescente si tratta di un trauma terribile da superare, ci mette due anni a risollevarsi. Poi scopre il basket in carrozzina. Lui potrebbe camminare con le stampelle o una protesi, avendo comunque una gamba sana. Ma, per poter giocare a basket, si siede sulla carrozzina, simbolo forse più emblematico e temuto della disabilità. Aggiungere un simbolo così forte alla propria disabilità avrebbe potuto scoraggiare chiunque, ma, per Cavagnini, si trattava di superare un limite grazie all’emblema del limite. Sedersi sulla carrozzina gli permette di riscoprire lo sport. “È proprio in quel momento, sedendomi sulla carrozzina per giocare, che ho accettato pienamente la mia disabilità”. Queste parole mi sono sembrate estremamente significative. La carrozzina, simbolo del deficit, diventa per qualcuno strumento di libertà e di riscatto. Credo che questa testimonianza valga più di qualsiasi spot per il superamento dell’handicap. Ciascuno di noi, sia che abbia deficit visibili, “trasparenti”, sia che abbia quelli meno trasparenti, legati alla natura umana, che sono propri di tutti, è chiamato ogni giorno a impegnarsi per trasformare a proprio vantaggio un limite in un punto di forza. Se saremo in grado di accettare quella carrozzina tanto temuta e, una volta sedutici sopra, di trasformarla nel nostro trampolino di lancio, allora avremo dato piena realizzazione alla nostra natura umana e la nostra sarà, sì, una vita felice.

Untitled

Una fotografia è un segreto che parla di un segreto, più essa racconta, meno è possibile conoscere.
Diane Arbus

Ci sono persone, che con il loro agire, fanno la differenza. Permettono alla storia di fare un passo, un salto in avanti. E spesso lo fanno senza saperlo, senza quella consapevolezza che porterebbe a dire più che a fare, facendo perdere forza proprio all’azione.
Diane Arbus è una di queste persone.
Cresciuta in una ricca famiglia ebrea, ha una sorella e un fratello. Si sposa giovane contro il parere dei genitori e dal marito apprende la tecnica fotografica.
Base di partenza per il suo percorso artistico, che trasforma ogni scatto in uno specifico punto di vista, nel racconto della realtà. Almeno di quella che lei riconosce come realtà, spesso nascosta agli occhi dei più.
Soggetto delle sue foto diventa l’umanità, non quella normale, accettabile, conosciuta per cui controllabile. Bensì l’umanità che vive in un quartiere parallelo, nascosto: i freaks, i nani o i giganti, omosessuali e travestiti, ritardati mentali, gemelli. Considerati, quando va bene come fossero un gioco, uno scherzo della vita. Non ai suoi occhi però. Proprio quelle persone diventano per lei e, quindi, per noi, il dizionario attraverso cui leggere la realtà. Quelle fotografie diventano, a loro volta, un obiettivo dal quale osservare la realtà. Certo, questo provoca sconcerto e un momento di perdita di equilibrio, ci troviamo senza punti fermi, come se, a un certo punto, 2 + 2 non facesse più 4.
Perché? Non è possibile! Cos’è successo? Cos’è cambiato negli ultimi trenta secondi?
Proprio questo smarrimento è alla base delle opere della Arbus.
Non conoscevo il lavoro di Diane fino a che, quest’estate, sono entrato al Martin Gropius Bau, bellissimo museo di Berlino. Duecento scatti in bianco e nero, un’emozionante retrospettiva intitolata solo “Diane Arbus”, senza nessun altro nome a definire il contenuto delle foto.
La pioggia fuori scendeva copiosa e il cielo grigio non faceva filtrare molta luce. Si era creata così una strana intimità tra il fuori e il dentro del museo, tra il bianco e nero delle foto e il grigio del cielo. Un’intimità che mi ha pervaso e mi ha fatto entrare nelle fotografie, come se le persone ritratte non mi fossero davvero estranee, come fossero il racconto di una realtà parallela ma che mi apparteneva.
Il bianco e nero, il formato quadrato e sintetico liberano le immagini di inutili suppellettili e mettono al centro i protagonisti, favorendo in questo modo un incontro personale ed eterno, diverso per ogni paio di occhi che lì si posano. Ecco come il punto di vista dell’artista costruisce un nuovo modo di approcciare la realtà, soprattutto quella nascosta, che viene così sdoganata, raccontata come qualcosa di contemporaneo, cioè presente nello stesso momento e nello stesso spazio di tutto il resto.
Diverso ma non per questo escludibile dal contesto.

Untitled
L’ultima serie di scatti di Diane, pubblicata postuma con il titolo Untitled, ritrae un gruppo di persone con disabilità che vivono in istituto.
“I giochi, i travestimenti di Halloween delle donne giovani e vecchie, i loro lineamenti toccati dalla malattia, gli abiti, le maschere, prendono in questo contesto particolare il valore di un’ebbra danza funebre, impregnata di una comicità folle, di fronte alla quale ci ritraiamo come di fronte a uno spettacolo troppo autentico, indiscreto. Ci vergogniamo, ma non possiamo vincere l’impulso che ci obbliga a guardare. Lì, Arbus ritrovava una sorta di impossibile innocenza, di oblio del tempo e della morte”.
Mi ritrovo perfettamente nel commento di Stefano Chiodi. Quando ho visto gli scatti alla mostra di Berlino, ho provato anche io un senso di vergogna e, allo stesso tempo, il desiderio di guardare, indagare, conoscere. Per certi versi era come se le persone ritratte fossero spogliate, come se fosse messa a nudo la loro più intima identità. Ciò non risultava volgare, nemmeno offensivo. La fatica richiesta allo spettatore era quella di uscire da uno schema perbenista, superare il pregiudizio e approcciarsi a quelle immagini, belle, come fossero la foto di una classe di bambini felici alla fine della scuola oppure un gruppo di amici al tramonto sulla spiaggia o degli avventurieri nella savana.
Guardare e vedere quelle foto per ciò che erano, il racconto di una realtà contemporanea e viva.
Ovviamente, tale racconto non nega i limiti e le sofferenze, anzi li svela, li mostra semplicemente perché ne fanno parte, e non raccontarli significherebbe celarli quindi mentire. Ciò che succede ormai troppo spesso grazie all’uso di programmi che permettono di ritoccare, cambiare, eliminare, ricreare.

Un’empatia non sentimentale
“Nonostante si voglia continuare a credere, nella migliore tradizione romantica, che Arbus non potrà salvarsi da una partecipazione emotiva, che la consumerà nell’anima, sta di fatto che nel suo lavoro colpisce proprio l’evidente esistenza di ‘un’empatia non sentimentale’: una forma di reciproca accettazione, in virtù della quale la fotografa non mostra compassione per i fotografati, che non la chiedono, perché non esprimono disagio o sofferenza per il proprio esser ‘strani’, quasi lo apparissero solo ai nostri occhi”.
Porre lo sguardo su certe realtà senza compassione è fondamentale.
La compassione, intesa come desiderio di bene per gli esseri viventi, è assolutamente augurabile, ma quando diventa atteggiamento pietistico, non accetta e definisce una distanza di sicurezza oltre la quale diventa difficile andare. Le fotografie dell’artista annullano proprio questa distanza e ci permettono una relazione empatica ma non devota, esageratamente emotiva. Guardando quegli scatti ti sembra veramente di entrare nei loro panni, di sentire il loro stato d’animo, percepisci persino l’allegria o lo smarrimento. Non ti senti uno spettatore distaccato ma non provi nemmeno il desiderio di piagnucolare, come fosse il modo migliore per dimostrare che certe situazioni di vita ti interessano.
Nelle foto, come nella quotidianità di ognuno di noi, l’altro, chiunque esso sia, non è strano perché diverso. Questo senso di estraneità è dato dal nostro sguardo. La diversità, intesa come definizione di vincitori e vinti, di migliori e peggiori, di assistenti e assistiti, è data proprio dal modo in cui noi “guardiamo” l’altro, in cui ci poniamo nella relazione con l’altro.
L’accettazione reciproca, forse anche mediata dalla presenza di una macchina fotografica, che la Arbus definiva con i soggetti che voleva fotografare, ribalta ancora una volta il senso comune.
Non c’è chi deve accettare e chi deve essere accettato. In una relazione che funziona entrambi i protagonisti sono chiamati e autorizzati a fare un piccolo sforzo. Mi vengono allora in mente tante storie di educazione nelle quali insegnanti o educatori o assistenti si arrogano il diritto della fatica dell’accettazione dell’altro/assistito, bambino o anziano o disabile, come fosse un privilegio donato, un’approvazione che viene concessa dall’alto. Mentre l’assistito deve stare zitto, non ha diritto di domandarsi, di capire, di affrontare la fatica dell’accettazione. Uno vale l’altro, comunque, a qualunque condizione.
“Voglio fotografare i rituali degni di nota del nostro presente, dato che tendiamo, vivendo qui e ora, a percepirne solo la parte casuale, arida, informe. E mentre lamentiamo che il presente non somigli al passato e disperiamo che possa mai diventare il futuro, i suoi innumerevoli e imperscrutabili aspetti giacciono in attesa del loro significato”.
Il 26 luglio 1971 Diane Arbus muore.
Si toglie la vita. Troppa depressione, insopportabile compagna di vita.
Ci lascia con una ferita, non poteva farci regalo migliore.
Una ferita come una feritoia, una fessura dalla quale guardare l’interno oltre l’involucro, un invito ad andare oltre, a non accontentarsi dell’apparenza e preferire la sostanza.
Quella che lei ha tentato, ogni volta, di fissare sulla pellicola.

Riprendere il tempo che resta

Quando questa rubrica verrà pubblicata, il film di cui parleremo non sarà più in sala da tempo: cercatelo, comunque, se possibile in modo legale, ma non negatevi la possibilità di vivere il racconto di Jacques Audiard, regista nei confronti del quale personalmente nutro una considerazione ambivalente, ma che con l’ultimo Un sapore di ruggine e ossa (De rouille et d’os) ci offre numerosi spunti di riflessione e “acuminate” ragioni d’emozione…
Un film in cui, “accidentalmente”, la disabilità/handicap si inserisce e “lavora” in uno dei modi che più ci convincono, ovvero come elemento costante, qui anche presente in modo esplicito sin dai primi minuti, ma non limitante e riferito a un singolo individuo. Anzi, come tratto che qualifica non tanto la persona, quanto il mondo che questa vive e sulla quale questo preme.
Come scrivono i due autori della sceneggiatura, Audiard stesso e Thomas Bidegain, nelle note di regia, riferendosi al libro (edito in Italia da Einaudi) da cui il film trae ispirazione, “C’è qualcosa di veramente coinvolgente nella raccolta di racconti Ruggine e ossa (Rust and bones) di Craig Davidson: il quadro di un mondo vacillante, all’interno del quale dei percorsi individuali, dei destini semplici, si trovano enfatizzati dal dramma e dagli eventi. Una rappresentazione degli Stati Uniti (ma il film è ambientato in Francia, n.d.r.) come un universo razionale dove i corpi lottano per procurarsi un loro spazio, per tentare di stravolgere il destino che gli è stato riservato”.
È questo “destino disabile/handicappato” che accomuna tanti personaggi del film e che non riguarda la sola Stephanie (un’ottima Marion Cotillard), che perde le gambe in seguito a un incidente di lavoro. Un elemento che imporrebbe uno scarto sofferto nelle vite di ognuno il quale può essere perseguito e raggiunto e, contemporaneamente al contrario, restare come possibilità inespressa. In entrambi i casi, attraverso un percorso che Audiard è abile a mostrarci in tutta la sua sofferente dolcezza e ambivalenza. Utilizzando una regia “espressionista” e, cito sempre le note di regia, esprimendo “un’estetica brutale e contrastata”: non si pensi però a una regia nervosa, adrenalinica o, peggio, voyeuristica, maliziosa, morbosa. Audiard, in questo lavoro, sembra capire i suoi personaggi e sa come restituirne il dolore, i limiti, i bisogni, gli errori, le tensioni reciproche. Delineando l’uomo come essere fallace e dolce, insieme di contraddizioni vissute ed espresse, subite e replicate, in un rapporto con la società che lo vede sempre come produttore e vittima delle contraddizioni e dei contrasti che quella determinano e informano. Mai, in definitiva, come semplice essere oppresso.
In questa realtà contrastata, indefinibile, si inserisce anche la condizione di disabilità di Stephanie che, da persona bisognosa di un aiuto per superare o almeno convivere con quella condizione imposta e acquisita, si rivela motore di conoscenza e cambiamento altrui. È convincente questo tentativo di narrare la “liquidità” dei rapporti e delle condizioni umane, mai date una volta per tutte, se l’individuo si mostra consapevole di poter modificare, in qualche modo, la sua sorte: e l’elemento liquido, introdotto già dai titoli di testa e relativo al lavoro svolto da Stephanie (istruttrice di orche), è un elemento formale costante, che partecipa alla costruzione di momenti esteticamente ed empaticamente molto coinvolgenti.
Convince anche la dolcezza con cui il regista “tocca” e racconta il corpo menomato di Stephanie, che, nel suo “mancare di qualcosa”, sempre secondo questa sorta di logica dell’imperfezione delle cose, paradossalmente compensa la prestanza e la compiutezza del corpo di Alì (Matthias Schoenaerts), il vero personaggio principale della pellicola. E il corpo di Stephanie, pur non subendo trasformazioni successive (protesi removibili a parte), si modifica nella misura in cui Stephanie stessa modifica il rapporto che ha con questo nuovo corpo che è stata costretta ad abitare. E poi, o insieme, libera di imparare ad amare e godere.
Anche a questo livello fisico, materico (il titolo restituisce bene anche questo senso) di notevole importanza nell’economia narrativa del film, il regista tesse una tela complessa di rimandi, contrasti, repulsioni, affinità, dolore e desideri. Una rigenerazione, una riscoperta fisica (un abuso consapevole, se volete, nel caso di Alì) che accompagna e sollecita (o può minacciare) una rinascita emotiva ed esistenziale.
Audiard pure sul punto, a volte, di “scivolare” nella costruzione di questo racconto naturalista, riesce comunque a mantenere una tensione dell’immagine forte e non compiacente o conciliata, e a descrivere quasi con rabbia i destini di persone intente a riprendersi il tempo che resta. 

Un sapore di ruggine e ossa (De rouille et d’os)
(Belgio, Francia, 2012)
Durata: 120’
Regia: Jacques Audiard                                                                                                             Sceneggiatura: Jacques Audiard, Thomas Bidegain
Fotografia: Stéphane Fontaine
Montaggio: Juliette Welfling
Musiche: Alexandre Desplat
Interpreti: Marion Cotillard, Matthias Schoenaerts, Céline Sallette, Bouli Lanners, Corinne Masiero, Jean-Michel Correia, Armand Verdure
Produzione: Page 114, Why Not Productions, France 2 Cinéma, Les Films du Fleuve
Distribuzione: BIM

E io l’ausilio me lo faccio in casa. Un concorso in Francia condivide le idee che migliorano la vita quotidiana

Si è tenuta il 15 giugno scorso a Parigi la premiazione della 15° edizione del “Concours des Papas Bricoleurs et des Mamans Astucieuses”, un concorso nazionale promosso dalla catena del bricolage Leroy Merlin e dall’associazione Handicap International, cui partecipano gli amanti del fai da te che hanno realizzato un ausilio originale “fatto in casa” per migliorare la vita di un familiare con disabilità. Tra le invenzioni vincitrici dell’edizione 2012, oggetto di brevi video illustrativi sul sito www.handicap-international.fr, un poggiapiedi retrattile da applicare alla sedia, un fasciatoio a borsetta da usare in piscina dove le cabine non consentono di entrare con la carrozzina, e un “dito bourguignon” per manovrare agevolmente i comandi a tasto di una carrozzina elettrica.
Abbiamo parlato della storia e degli obiettivi del concorso con Nicole Crochet, responsabile del servizio di mobilitazione per Handicap International in Francia.

Come è nata l’idea di questo concorso? E come si sono costituite le collaborazioni che lo rendono possibile oggi?
Il signor Facon (oggi deceduto), padre di una bambina disabile chiamata Perrine, incontrò una ventina di anni fa un membro della Direzione di Leroy Merlin, che, in occasione di un Telethon, proponeva un’animazione di bricolage in un grande magazzino. Il signor Facon aveva avuto l’idea di creare un’associazione di papà bricoleurs, come lui genitori di bambini e ragazzi disabili e desiderosi di creare ausili semplici e non costosi, che rispondessero ai bisogni dei bambini come dei genitori: semplificare il quotidiano e condividere le proprie “trovate” fra genitori.
E di anno in anno l’idea si è ingrandita. Handicap International è stato il primo partner di questo progetto, che mirava ad andare al di là degli scambi in un’associazione del nord della Francia, per promuovere il concetto sul piano nazionale. L’idea di aprire gli scambi attraverso un concorso (i premi sotto forma di buoni acquisto sono offerti dai grandi magazzini Leroy Merlin) era un invito a proporre innovazioni non di mercato al maggior numero di persone. Grazie alla rivista Déclic [“Scatto fotografico”, ndr], dedicato alle famiglie di bambini e adolescenti disabili con ogni tipo di deficit e creato da Handicap International, altri partner sono venuti a unirsi al progetto: in principio la federazione dei servizi di aiuto a domicilio (rete di terapisti occupazionali), e più tardi altre associazioni di famiglie di persone disabili. I dossier di deposito delle realizzazioni tecniche sono disponibili in tutti i grandi magazzini Leroy Merlin, e su richiesta presso Déclic o Handicap International.

Quante idee hanno partecipato al concorso in questi anni?
Il concorso ha appena festeggiato il suo 15° anniversario, e contiamo più di 300 invenzioni pubblicate e 50 invenzioni premiate.

Come sono assegnati i diversi premi di ogni edizione?
Una giuria composta di rappresentanti di ogni partner, come pure una giuria di famiglie di bambini e ragazzi disabili, si riuniscono ogni anno nel mese di marzo per selezionare i candidati in un primo momento, e poi per scegliere le invenzioni premiate. I genitori conferiscono 2 premi, i partner 4 premi.

Quali ausili presentati in questi anni vi hanno colpito di più?
Tutti gli ausili hanno il proprio interesse, e non siamo in grado di sceglierne uno piuttosto di un altro, essendo l’essenziale proporre un adattamento semplice, non costoso, fuori dalle reti di mercato, accessibile al maggior numero di persone e che offra tutte le garanzie di sicurezza.

Gli ausili che partecipano al concorso sono realizzati da bricoleurs esperti, o anche da principianti/amatori?
Il concorso è aperto a tutti i bricoleurs amatori; i professionisti non hanno diritto a partecipare.

Ci sono anche delle “mamme bricoleuses”?
Il nome esatto del concorso è “concorso dei papà bricoleurs e delle mamme astute”; nell’ultima edizione, avevamo lo stesso numero di maschi e di femmine che ci hanno inviato le proprie candidature.

Che voi sappiate, ci sono stati ausili “fatti in casa”, tra quelli premiati o in concorso in questi anni, la cui idea sia stata sfruttata per avviare produzioni industriali? E come funziona il “riuso” da parte di altre famiglie?
Le invenzioni che vengono pubblicate non devono essere oggetto di commercializzazione, devono essere fabbricate in un pensiero di condivisione ed essere di riproduzione facile e gratuita. Tenuto conto del loro carattere “su misura”, queste innovazioni non entrano nel settore di mercato, che non avrebbe alcun interesse commerciale a duplicare le invenzioni dei parenti.

Come funziona il “riuso” da parte di altre famiglie?
Noi mettiamo in contatto le famiglie (quelle che creano e quelle che desiderano riprodurre l’invenzione) affinché condividano le loro idee e le loro astuzie di bricolage. Il concorso dei papà bricoleurs e delle mamme astute permette dei begli incontri tra famiglie che condividono le loro creazioni e il loro “segreto di fabbricazione”. E gli incontri sono sempre più numerosi ogni anno.

La marcia delle tartarughe ninja

Quando ho accennato ai miei colleghi l’idea di scrivere un articolo su Leonardo, Michelangelo, Donatello e Raffaello devo ammettere che sono stato un po’ deriso. “Claudio, sono anni che scrivi su tantissimi argomenti, ma cosa c’entrano i grandi del Rinascimento italiano con i tuoi temi?”.
Vero. Amo l’arte, ma non posso improvvisarmi tuttologo.
Non mi avevano capito. Io volevo parlare delle tartarughe ninja.
Ammetto che fino a qualche giorno fa non conoscevo proprio nulla di queste quattro tartarughe mutanti, se non i loro nomi così affascinanti.
Poi una sera in pizzeria, seduto davanti a un bambino e a una quattro stagioni, sono stato “costretto” ad ascoltare le avventure e la storia delle tartarughe ninja e del loro maestro Splinter.
All’inizio ascoltavo distratto, poi lentamente (proprio come una tartaruga!), man mano che il bimbo spiegava la loro trama ho iniziato a pensare, a collegare… La vita ai margini, le lotte per la giustizia, una corazza come protezione, la collaborazione.
Non è che anche questi personaggi fantastici possono darci un contributo culturale? Non sono forse una metafora delle conquiste ottenute negli ultimi cinquant’anni di battaglie per un mondo più accogliente e inclusivo?
Io credo proprio di sì.
Partiamo dal loro contesto, da dove provengono: le tartarughe ninja vivono nascoste, nelle fogne, nel sottosuolo della città, lontane dagli sguardi della gente. Ovviamente ho subito fatto il paragone con il mondo dell’handicap.
Un mondo che spaventava, dunque tenuto nascosto almeno fino alla legge sull’integrazione dei primi anni Settanta. Quel mondo turbava così tanto da non dover essere nemmeno argomento di discussione. Poi qualcosa è cambiato.
È cambiata la mentalità, sia delle persone disabili che della collettività.
L’innovazione dunque è stata legislativa, ma soprattutto culturale.
Dopo tante battaglie così, la diversità non era più rintanata nel sottosuolo. Proprio come le tartarughe ninja, è uscita in superficie per mescolarsi nella società che non poteva più fingere di non vedere.
C’è di più. La metafora tartaruga ninja-disabilità offre un altro spunto interessante. La tartaruga ha una corazza con funzione protettiva, che le è indispensabile per vivere, per proteggersi fisicamente e psicologicamente dalle avversità.
Anche un disabile può avere la sua corazza: la sua carrozzina.
Questa ha una grande funzione difensiva e di sostegno, per resistere agli urti della vita, direbbe Luca Carboni. Un ausilio che dà sicurezza, quindi, sia dal punto di vista fisico che morale, sempre che venga interpretata non come una sfortuna o come un peso, ma come uno scudo. È quello che fanno le tartarughe ninja.
Tartarughe che combattono le battaglie per la giustizia, organizzate sotto la sapiente guida di un “coordinatore” ratto, che crede nel lavoro di gruppo e che ha fiducia nei suoi collaboratori (chiaramente prendo le distanze dai loro metodi di lotta…). Proprio come le molte associazioni che in questi anni hanno contribuito ad aumentare la consapevolezza delle abilità diverse.
Metafore potremmo trovarne ancora… Salutando i miei colleghi Raffaello, Michelangelo, Donatello e Leonardo vi invito a scrivere sulla mia mail claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook, alla ricerca di altre metafore…
Avanti… Marche!

Lettere al direttore

Caro Claudio,
buongiorno!
Mentre leggevo il tuo articolo sulle tazzine da caffè un po’ storte, non so perché mi è venuto in mente il guerriero Bruce Lee che disse: “Sii come l’acqua… svuota la tua mente, sii senza forma, senza limiti. L’acqua in una tazza diventa tazza, in una bottiglia diventa bottiglia. Sii come acqua amico mio!”.
E se l’acqua (o il caffè) prende la forma a seconda dell’involucro, diventa più importante la forma o il contenuto?
Un saluto sincero,
Silvia

Cara Silvia,
quando ho ricevuto la tua bella lettera mi sono chiesto se Bruce Lee conoscesse una mia vecchia poesia, scritta nel lontano 1983 quando l’Italia aveva appena vinto i mondiali e l’urlo di Tardelli riecheggiava ancora… […] Nella baia, un’onda/si appoggia sulla/terra/e subito ritorna in mare. […] Intanto il mare/continua diventare terra/e la terra continua diventare mare.
Questa poesia è stata scritta con una voluminosa Olivetti grigio-verde, la mia amica macchina da scrivere, fedele compagna di viaggio tra realtà e fantascienza che hanno portato alla scrittura della maggior parte delle mie immaginazioni e dei miei pensieri. Mi piace pensare che a ognuno di quei tasti ne sia rimasto attaccato uno… Al tempo scrivevo con il solo uso del mio naso, non c’erano i computer né tablet, né ipad… L’inchiostro diventava carta e la carta inchiostro, nel senso che l’inchiostro si modellava sulla carta e la carta si lasciava modellare con fluidità. È proprio quello che succede qui, con l’acqua-caffè di cui parli tu citando Bruce Lee e con le tazzine dell’uomo con i baffi che descrivevo io qualche tempo fa in un articolo pubblicato sul Messaggero di Sant’Antonio.
Bisogna imparare a diventare elementi plasmabili e adattabili, sia che questo riguardi la forma (la tazzina e la bottiglia per intenderci) o il contenuto (l’acqua e il caffè). La disabilità è un contenitore affascinante proprio perché ci chiama alla trasformazione, a farci cioè materie duttili a cambiare le nostre forme, a entrare di volta in volta in sagome e figure sempre diverse.
Bisognerebbe spiegare questo concetto a Bruce Lee, che, anche se per lui è difficile da comprendere, va comunque spiegato…
L’uomo con i baffi

Ciao Claudio, sono Francesca, una delle gemelle dell’articolo, meglio la gemella disabile.
Sono entusiasta dell’articolo pubblicato, perché hai perfettamente capito cosa volevo dire e non hai stravolto nessun significato.
Quando Federica torna dall’Università glielo faccio leggere e poi ti dico il suo commento.
A presto “collega disabile”
Francesca Aggio

Cara Francesca,
sono molto contento che l’articolo uscito su www.superabile.it ti sia piaciuto e che ti sia riconosciuta nelle mie parole. Riuscire a descrivere il complesso rapporto che esiste tra fratelli, soprattutto quando si parla di disabilità, non è cosa semplice e tu sei riuscita a farlo davvero con grande freschezza e immediatezza.
Mi piace per questo citare le tue parole quando, a proposito di te e della tua amata-odiata gemella Federica, scrivi: “Appeso al frigorifero in cucina c’è una calamita con su scritto: sorelle per caso, amiche per scelta. È proprio quello che penso, alcune volte ci riusciamo, altre un po’ meno…”.
A parte il fatto che io vado matto per le calamite e che ne ho il frigo letteralmente tappezzato, tante quante i miei avventurosi viaggi in giro per il mondo, questa frase mi ha colpito perché sintesi perfetta delle contraddizioni e dei contenuti più delicati di un tema così affascinante e importante.
Il rapporto simbiotico infatti che quasi sempre si viene a creare, nonostante ci si trovi, come tu sottolinei, a essere uniti un po’ per caso, spesso rischia di degenerare in gelosia da entrambe le parti. Amore e odio, iperprotezione e indifferenza in questi casi sono spesso faccia della stessa medaglia proprio come il nord e il sud dei magneti. Come poli magnetici cioè, ci si attrae e ci si respinge costantemente.
Così come tu aggiungi: “A volte creiamo insieme delle alleanze per combattere i nostri genitori, in due otteniamo risultati migliori, oppure ci diamo una mano a vicenda nella scelta dei regali per i rispettivi fidanzati. Ci capita anche di andare a passeggiare e chiacchierare”.
Il limite tra complicità e conflitto è talmente labile e sottile che, come ci insegna la vostra calamita, diventa una questione di scelta, con cui imparare a misurarsi insieme giorno per giorno.
Che dire? Grazie ancora una volta, Francesca, per le tue parole e per aver condiviso con noi la tua esperienza. Che ne dici, mi porti una calamita?
Claudio Imprudente

Ognuno è qualcuno

Qualche giorno fa ho chiamato il mio amico Said, per sapere come stava. A causa del terremoto dorme in tenda con la sua famiglia. Chiacchierando mi dice che la sua vita è cambiata dal giorno alla notte, per certi versi anche nel bene. Gli chiedo in che senso. Mi dice che in quel campo, è qualcuno anche lui, come gli altri.
Circa un anno fa, in questa stessa rubrica, scrivevo che “si è sempre meridionali di qualcuno” (cfr. “HP-Accaparlante”, 2 -2011), intendendo con ciò la necessità di ridefinire i confini nazionali, non per disegnare nuove cartine ma per riconoscere che, ormai, le cose sono cambiate e che non ci si può tirar fuori dal gioco della globalizzazione.
Forse pensano lo stesso le tante persone che aderiscono ai gruppi neonazisti nati in Europa e che, ora come ora, godono di un certo successo.
Anche loro pensano che non ci si possa più rifiutare di partecipare a questo processo e scelgono di farlo definendo nuove regole, imponendo un pensiero che non si basa sull’indifferenza ma sul riconoscimento delle diversità. Tale riconoscimento si trasforma nel punto di partenza per stilare classifiche e trasformare le differenze in fattori determinanti per l’acquisizione o meno di diritti. Se sei A vai bene mentre se sei B non vai bene, quindi non ti meriti nemmeno i diritti fondamentali.
Ciò che mi interessa di questo ritorno di fiamma del pensiero che definiamo nazista, non è tanto l’estremismo che, ovviamente, mi preoccupa e sento che dovrebbe farci alzare le antenne, soprattutto nei luoghi educativi dove si vive concretamente la relazione con la diversità e dove si formano le future generazioni. Ciò che mi preoccupa sul serio è la quotidianità, i discorsi e gli atteggiamenti che, persone medie, mettono in atto ogni giorno per strada, nei negozi, mentre guidano, bevono un caffè, prendono un aperitivo. Parole di disprezzo, di paura, di sospetto, di rifiuto, di giudizio, di condanna, di volgarità, di offesa.
Parole, mi direte, solo parole.
Solo parole, giusto, che però, come fossero piccoli colpi di scalpello, costruiscono un pensiero, la concezione dell’altro, il modo di accogliere chi arriva. Piccoli colpi che trovano terreno fertile nella paura, nell’ignoranza, intesa in senso letterale, nella non conoscenza dell’altro e della sua cultura. Paura e ignoranza dalla quale nascono pregiudizi e convinzioni sbagliate.
E piano piano, giorno dopo giorno, sguardo dopo sguardo si costruisce la cultura, con le sue altezze e le sue immaturità, che, allo stesso tempo, influenza e viene influenzata dalle persone che la vivono, che cammina tra i vicoli di città e paesi.
Poi, però, a un certo punto, tutt’un tratto succedono cose che non avresti mai voluto ti succedessero, che ti stravolgono la vita, che cambiano totalmente i parametri di riferimento, i tempi, i ritmi, i luoghi, le relazioni. Con conseguenze terribili e dolorose, tragiche e violente.
A un certo punto, in questa quotidianità, succede un terremoto, non simbolico ma reale, quello che fa tremare la terra, il corpo, l’anima.
Non hai più la casa e, se ce l’hai, non sai più se è sicura, non hai più il tuo bar, il tuo negozio, l’edicola, la chiesa, il vicolo… Insomma non hai più i tuoi confini, quelli che in un qualche modo definivano il territorio emotivo, lo spazio della tua identità.
E ti ritrovi in una tenda, a condividere un tavolo, un bagno, un prato, una paura con altre decine di persone che forse avevi incontrato per strada qualche volta ma che non avevi mai considerato, non per cattiveria ma perché, pensavi, non aveste tanto in comune.
E l’esperienza, assolutamente tragica, diventa l’occasione obbligata per fare i conti con gli altri, quelli che volevate vicini e quelli che tenevate lontani, quelli che parlano il tuo stesso dialetto e quelli che, a stento, parlano l’italiano, quelli che “lui è come un fratello” e quelli che “con lui ho chiuso”. Un’occasione, un’opportunità, non priva di ostacoli, soprattutto legati alla gestione dello spazio, delle consuetudini, del cibo.
Tra quelle tende, però, succede ciò che sarebbe auspicabile succedesse tra le vie di una qualsiasi città. Gli abitanti delle tendopoli, abbassate le difese, riescono a vedere l’altro non per ciò che rappresenta ma per ciò che è, uscendo dallo schema del pregiudizio, conoscendo la persona e non l’immagine che hanno di essa. Si definisce, in questo modo, una nuova geografia, con nuovi confini, nuovi punti cardinali, un nuovo territorio relazionale nel quale si è tutti sulla stessa barca. Nel quale, come dice il mio amico Said, ognuno è qualcuno, con la propria identità, la propria storia, le proprie consuetudini. Ciò che cambia, infatti, non sono tanto le persone, quanto il contesto fisico e relazionale, quello spazio dentro il quale ogni singolo si muove e definisce la relazione con l’altro.
Questa relazione è ciò che chiamiamo inclusione.
Concludendo, il mio non vuole essere l’elogio del terremoto, nemmeno il tentativo di trovare un aspetto positivo in una situazione tragica. Ho solamente trovato interessante l’espressione del mio amico Said il quale, con quelle parole, ha raccontato più di tanti discorsi cattedratici sul tema dell’integrazione.
Salutandomi, Said mi dice che deve andare perché è il suo turno di pulire i bagni. Hanno organizzato i turni a seconda della nazionalità… C’è ancora molto da fare.

Metodologie e tecniche musicali per le disabilità: un indirizzo di studi per “educatori musicali”

Il Conservatorio “Cesare Pollini” ha raccolto in questi anni un’importante eredità che deriva dalla tradizione iniziata da storiche istituzioni cittadine rivolte all’educazione e formazione di coloro che presentano bisogni speciali con un particolare riguardo verso la formazione musicale.
Tale cultura e sensibilità ha permesso non solo di mantenere viva l’attenzione verso le disabilità nel contatto con il mondo della musica ma anche di cercare di fornire e sviluppare programmi educativi e formativi che possano offrire ulteriori soluzioni e prospettive di relazione e inclusione.
Tra le fondazioni cittadine più importanti in questa direzione è fondamentale la presenza a Padova dell’Istituto per ciechi “Luigi Configliachi” la cui fondazione risale al 1838 a opera del Sacerdote Professore Cavaliere Luigi Configliachi (1787-1864) e oggi a lui intitolato. Primo istituto in Italia organizzato per accogliere esclusivamente persone cieche, istruirle, educarle, indirizzarle a un lavoro personale redditizio, finanziariamente valido e con lo scopo di restituirle alla vita sociale attiva, prevedeva tra gli indirizzi educativi la musica teorico pratica ossia lo studio del pianoforte e dell’organo. Tra le scuole attivate al suo interno, oltre a una scuola di musica creativa, erano presenti tre corsi musicali, di strumento e composizione, pareggiati al Conservatorio di Stato dal 1953. Nel 1960 la scuola a indirizzo musicale divenne sezione staccata del Conservatorio “Benedetto Marcello” di Venezia e, in seguito, con la statizzazione del locale Istituto Musicale Pareggiato “Cesare Pollini”, fu assegnata al Conservatorio padovano. Ancora negli anni ’80 vi si insegnavano pianoforte (3 cattedre), organo e composizione, con le relative materie complementari.
Ancora negli anni ’70, mentre le varie Sezioni staccate di Conservatorio presso i più grossi istituti per i ciechi d’Italia avevano cominciato a chiudere a una a una per effetto della nuova politica di integrazione, la sezione di Padova sopravvisse ancora grazie all’idea di praticare l’integrazione “alla rovescia”: ammettere cioè i vedenti alla scuola dei ciechi. Ciò nonostante, agli inizi degli anni ’90 una circolare ministeriale dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione impose la chiusura anche di questa sezione poiché non aveva più le dimensioni minime per diventare autonoma; fu quindi accorpata alla sede centrale.
La sensibilità del M.tro Claudio Scimone, allora Direttore del Conservatorio permise non andassero perdute la ricchezza di competenze che si erano formate; si attivò con decisione affinché il patrimonio costituito dalla cospicua Biblioteca Braille e dall’esperienza e competenza degli insegnanti fosse valorizzato e potesse svilupparsi ancora. Ottenne dalla Fondazione Cassa di Risparmio più di un finanziamento per l’acquisto di dispositivi tecnologici e per l’avvio di attività a favore della didattica della musica ai non-vedenti.
L’emanazione nel 1999 della legge 509 di riforma dei Conservatori e delle Accademie – anche se a tutt’oggi non ancora pienamente applicata – permise l’istituzione del primo Triennio sperimentale di “Scrittura Musicale Braille e metodologie didattiche per portatori di handicap”. Lo scopo di tale triennio era quello di formare operatori musicali che fossero in grado non solo di insegnare la musica a giovani non vedenti ma che, conoscendo il Braille musicale, fossero di trascrivere le musiche in tale protocollo avvalendosi anche dei programmi informatizzati che si stavano allora diffondendo. Fu in questi anni che ci si aprì ulteriormente alla ricerca sia sull’utilizzo dello scanner per la musica e la sua traslitterazione in codice Braille in collaborazione con alcuni ricercatori del locale dipartimento del Centro Nazionale delle Ricerche, sia a nuove modalità di insegnamento assistito. In questa prospettiva di ricerca alcuni dei docenti impegnati in quest’area parteciparono a importanti gruppi di lavoro internazionali.
La presenza poi nei laboratori di didattica di bambini con difficoltà e la costante frequenza nelle giornate aperte del Conservatorio e nelle visite richieste dalle diverse scuole di studenti con disabilità portò l’attenzione verso una visione più ampia del problema. Non di meno fu la consapevolezza che in Italia, all’interno delle varie Istituzioni formative, non esistevano curricula didattici che potevano riferirsi all’uso di pratiche musicali e tecniche ritmico-corporee orientate a favore dei diversamente abili e in attività di integrazione-inclusione e recupero sociale a fronte di una richiesta purtroppo in costante crescita.
Il corso di Scrittura Musicale Braille nel 2006 si trasformò così nell’ancora sperimentale Triennio in “Metodologie e tecniche musicali per le disabilità” che divenne finalmente corso ordinario nel nuovo ordinamento degli studi dei Conservatori e delle Accademie varato recentemente nel 2010.
Fin dall’inizio il corso dedicato alle disabilità si prefiggeva di dare adeguati strumenti musicali e psico-pedagogici in grado di orientare l’attività musicale agli obiettivi previsti dalle diverse situazioni occupazionali di rilievo pedagogico speciale con attività musicali, nelle aree del sostegno, dell’integrazione e del recupero. La figura professionale che si intendeva formare era di “Educatore musicale professionale” la cui formazione permettesse il suo inserimento come operatore-educatore competente nell’ambito delle didattiche musicali sia nel contesto della scuola dell’obbligo, sia in strutture di formazione extra scolastiche socio-pedagogiche e socio-sanitarie del recupero sociale, del disagio, dell’integrazione in una équipe, affiancando gli altri operatori. Lo scopo era, e rimane, quello di facilitare la comunicazione e l’apprendimento del soggetto disabile attraverso la promozione e la crescita del proprio “vissuto corporeo”, strutturando situazioni favorevoli a un percorso propedeutico o di sostegno nell’insegnamento e uso della musica. Nel caso di persone non vedenti insegnare i primi rudimenti della notazione musicale Braille, assistendoli anche con attività di trascrizione.
La recente riforma degli studi ha favorito l’ulteriore sviluppo del percorso di studi, l’ha trasformato in uno degli indirizzi nel quale si articola oggi il corso di studi per il Diploma accademico di primo livello in “Didattica della Musica e dello strumento” nel Conservatorio di Padova; l’altro indirizzo è “Metodologie della didattica e della comunicazione musicale”. Per tale motivo sono stati in parte rimodulati obiettivi e programmi in conformità con quanto previsto dalle declaratorie nazionali.
Oggi il corso per il diploma accademico di primo livello in “Didattica della musica e dello strumento – Metodologie e tecniche musicali per le disabilità” intende fornire competenze e tecniche artistiche specifiche tali da consentire la realizzazione concreta della propria idea didattico/artistica a favore di soggetti con diversa abilità. A tal fine è dato particolare rilievo all’acquisizione degli strumenti pedagogici e psicologici fondamentali e specificamente orientati, oltre allo studio delle principali tecniche strumentali e vocali e dei linguaggi compositivi relativi all’ambito della didattica della musica. Il fine è di porre il diplomato in grado di orientare e adeguare la propria attività musicale agli obiettivi previsti dalle diverse situazioni occupazionali di rilievo nell’ambito della didattica speciale (o specializzata) con attività musicali, nelle aree del sostegno, dell’integrazione-inclusione e del recupero.
Il curriculum di studi del corso si presenta articolato e complesso tra discipline dell’area musicale (strumentale, pedagogico e didattica, storico musicale e antropologica) e socio-sanitaria (psicologica, medica). Esse provvedono nel fornire agli studenti gli strumenti idonei per affrontare un’utenza che presenta bisogni speciali in situazioni diversificate e complesse e per avere la possibilità di approfondire sempre più quest’area di interesse nelle diverse aree nelle quali la ricerca è oggi attiva. Per tale motivo ampio spazio è dato non solo alle discipline formative e teoriche ma anche alle attività di tirocinio attivo nelle diverse situazioni di bisogno e in differenti fasce d’età attraverso convenzioni con le istituzioni formative non solo del territorio. Per il raggiungimento degli obiettivi importante è la collaborazione dell’Università attraverso una convenzione e fattivo il sostegno dell’Ufficio Scolastico Provinciale.
Il piano del corso di studi è consultabile nel sito web del Conservatorio dove sono presenti le indicazioni per ogni ulteriore chiarimento: www.conservatoriopollini.it.

“È tutto vero!”. Storia del potenziale creativo presente nello sport

Tutto è iniziato nella Bassa Bresciana, città di Ghedi per la precisione, quando fui coinvolto da un mio collega nella sperimentazione di un laboratorio sportivo rivolto a bambini e adolescenti.
La sperimentazione, almeno dal mio punto di vista, era anche su me stesso: la mia esperienza con il mondo della diversabilità era piuttosto superficiale, la mia visione complessiva su sport e disabilità molto stereotipata.
Unire lo sport e la disabilità, secondo la mia prospettiva da profano, poteva voler dire una corsa con l’handbike (e solo grazie all’esposizione mediatica di Alex Zanardi), una partita di basket in carrozzina o qualche altra “strana” competizione vista in tv durante le Paralimpiadi pechinesi.
Per questo faticavo a capire, a concepire un laboratorio sportivo per ragazzi con handicap che fosse diverso dalle solite tecniche, dai soliti approcci, generalmente più fisioterapici che sportivi.
L’esperienza iniziale di Ghedi ha stravolto le mie convinzioni.
Un gruppo di ragazzini, con età, deficit e qualità differenti tutti coinvolti da protagonisti in questa nuova avventura di gioco-sport adattabile.
Non riesci a correre su una gamba sola? Bene, le usi tutte e due ma lo fai saltellando.
Non riesci a saltare quell’ostacolo? Ok, ne mettiamo uno più basso ma lo salti due volte.
Non riesci a realizzare tiri liberi a canestro perché è troppo alto? No problem, mettiamo il canestro più basso ma hai una sola possibilità.
Questi esempi casuali solo per mostrare l’approccio del laboratorio volto non a cancellare la difficoltà, ma semplicemente a modificarla: anche perché senza la difficoltà manca la sfida e di conseguenza il divertimento.
Rispettare i tempi e i modi di tutti, coinvolgere senza escludere nessuno, utilizzando l’enorme potenziale creativo presente nello sport: con questo pensiero abbiamo attivato dei percorsi “Calamaio e sport” in diversi istituti secondari di primo grado della provincia di Reggio Emilia.
Percorsi strutturati in tre giornate-incontro, animate da due educatori e un ragazzo diversabile, partendo da semplici giochi di ruolo utilizzati come attività di presentazione per conoscere i ragazzi e il loro rapporto (esistente o meno) con la pratica sportiva in generale.
Utilizzare lo sport per costruire integrazione partendo dalla possibilità di variare le regole, di adattarle in base alla specificità di ognuno proprio per rendere tutti protagonisti, disabili o meno.
Il compito assegnato ai ragazzi per l’ultima giornata è proprio questo: inventare un gioco con regole “modificabili” per permettere a tutti di poter partecipare, uomini, donne, giovani, anziani, disabili e normodotati. Tutti in gioco e tutti con un obiettivo preciso da perseguire.
La creatività è inventare nuove regole adattabili a chi gioca, non necessariamente adattarsi alle regole prestabilite. E saranno gli studenti in questione i primi a sperimentare questi possibili “nuovi sport”.
E posso assicurarvi che la fantasia dei ragazzi porta alla creazione di giochi spesso strampalati (forse sarebbe più coerente dire assurdi!), a volte modificati durante la prova stessa, ma sempre molto divertenti e soprattutto integrativi, come da obiettivo.
L’ennesima conferma che è possibile tirare fuori la creatività dallo sport, dal gioco e grazie a questa costruire l’integrazione.
Un esempio concreto è quello del baskin, abbreviazione di basket integrato.
Nel novembre scorso abbiamo partecipato a Cremona, città natale di questo nuovo sport, a un corso di aggiornamento per capirne qualcosa di più: il risultato è stato piacevolmente sconvolgente.
Se la storia dello sport ha sempre corso su due binari paralleli (es. giochi olimpici/paraolimpici) il baskin riesce a superare questi cliché mostrandosi in tutto e per tutto come sport integrante.
Il baskin non è uno sport per disabili, è anche uno sport per disabili.
Alcune tra le caratteristiche fondamentali sono quelle che cerca di trasmettere lo stesso “Progetto Calamaio” anche nelle attività al di fuori del discorso sportivo:

  • fare integrazione significa eliminare l’approccio unilaterale, dunque aiutarsi e venirsi incontro;
  • assegnare dei compiti, degli obiettivi, in base alle diverse capacità di ciascuno, in modo da ottenere un contributo da tutti;
  • cooperare, utilizzare lo sport di squadra come funzione socializzante evitando forme di assistenzialismo che possono minare crescita e capacità di migliorare;
  • norme di comportamento, regole chiare e condivise indispensabili per creare la cooperazione di cui parlavamo sopra;
  • incentivare le responsabilità individuali.

Ho fatto questo accenno al baskin perché ritengo personalmente questo sport esemplificativo se vogliamo parlare di integrazione sportiva.
Un altro laboratorio creativo sullo sport al quale ho partecipato è quello sulla lotta danza, un progetto ormai attivo a Bologna da anni.
La lotta-danza è un metodo psicofisico che utilizza il gioco e il contatto fisico guidato per facilitare la comunicazione dell’individuo con se stesso e con gli altri.
La parte che lega questa attività alle altre che ho portato avanti è proprio questa duplice funzione: fare movimento e fare sport, ma senza mai sottovalutare la funzione sociale che lo sport stesso si porta dentro.
Un laboratorio davvero interessante, rivolto anche a ragazzi con gravi deficit cognitivi disposti a mettersi in gioco e “lottare” per raggiungere anche il minimo miglioramento/obiettivo.
Concluso, fra l’altro, con il saggio finale e la conquista di una coppa per i nostri ragazzi…
Ma l’esperienza più significativa portata avanti quest’anno è quella dell’“Atelier motorio” un progetto nato dalla collaborazione tra la nostra cooperativa “Accaparlante” e la polisportiva “Masi” di Casalecchio di Reno.
L’idea era quella di imitare il progetto sopracitato partito a Ghedi, unire persone disabili e normodotate di ogni tipo, persone con le qualità più differenti, tutte insieme per fare giochi, sport, attività fisica, di tutto di più.
Qui mi sono reso conto ancora meglio dell’importanza di quella duplice funzione di cui parlavo sopra, un inizio sempre leggero, un “social time”, partendo dal nostro quotidiano, dai nostri problemi a scuola o nel lavoro fino alle nostre esperienze piacevoli, gli amori, i concerti, gli spettacoli. Poi tutti pronti a sudare con le più creative (a volte perfino improvvisate, viste le specificità degli utenti) e divertenti attività.
Non ci siamo fatti mancare proprio nulla, come in tutti gli ambienti sportivi che si rispettino, dalle urla di gioia per insperati risultati raggiunti fino ai pianti di dolore per imprevisti infortuni muscolari.
Ragazzi che hanno iniziato il corso con naturali dubbi e perplessità e hanno terminato l’anno sportivo (con pizza e birra tutti insieme) chiedendomi quando si sarebbe ripartiti. Una sentenza sulla riuscita di questo innovativo progetto. Una piacevole conferma sul fatto che è possibile integrare, utilizzando lo sport come strumento.
Immagino che testimonianze di questo genere ne avete già lette su “HP-Accaparlante”.
Questa è solo la mia esperienza.
Indispensabile per farmi capire che è possibile trasformare in fatti tante belle parole.

Lo spettatore inatteso. Il laboratorio di educazione alla visione “La Quinta Parete”

Se il paradosso parte dal palco
Che cosa significa per una persona disabile andare a vedere uno spettacolo? Quello che significa – sarebbe corretto e ovvio rispondere – per uno spettatore qualsiasi… Un’occasione festiva d’incontro, un momento di divertimento e di riflessione, un’esperienza estetica, il tempo di una relazione unica e irripetibile con l’attore e via dicendo.
Eppure non è così, non solo perché la maggior parte dei teatri presentano ancora grossi problemi in termini di barriere architettoniche e di accessibilità, ma anche e soprattutto perché lo spettatore disabile a teatro semplicemente non c’è. Se lo troviamo, il più delle volte accade sul palco, protagonista in realtà di percorsi laboratoriali dagli esiti spettacolari obbligati, all’interno di un processo artistico dalle finalità prevalentemente ludiche e terapeutiche. Tutto questo andrebbe benissimo se, paradossalmente, non ci ponesse subito di fronte alla messa in mostra di un’eccezionalità intrinseca che porta con sé un altrettanto spontaneo e dibattuto problema di ruoli.
Il pericolo principale sotteso a questa dinamica è la ben nota politica della pietà, basata secondo la definizione di Hannah Arendt, sulla distinzione tra esseri umani che soffrono ed esseri umani che non soffrono, in cui emerge l’insistenza di sguardo dei secondi sulla sofferenza dei primi, la svalutazione del processo artistico a favore di quello psicologico, la macabra curiosità nei confronti del “mostro”. A ciò si aggiunge l’autoreferenzialità di una platea composta unicamente da famigliari, operatori del settore educativo, teatranti, in cui il “fuori” non è mai veramente chiamato ad accettare e riconoscere l’attività appresa. Fenomeni e rischi, questi, propri di tutto il cosiddetto teatro sociale, che si estendono dal mondo dell’immigrazione a quello del carcere.
In questo modo lo sguardo dell’altro, ciò che tautologicamente è racchiuso quale essenza stessa della parola “teatro” (letteralmente “il luogo dello sguardo”) viene a mancare in tali contesti dei suoi termini di sfida. Come afferma Salvo Pitruzzella: “Lo sguardo dell’altro può essere fonte di autorizzazione, ma anche negarla: ‘L’inferno sono gli altri’, sosteneva Jean-Paul Sartre. Quello che il regista chiede è di porsi di fronte a questa contraddizione, e trascenderla con uno sforzo eroico, o con un atto disperato” (cfr. S. Pitruzzella, L’importanza dello sguardo dell’altro, in “ Catarsi teatri delle diversità”, 24, dicembre 2002, p.17). Atto che ponga in luce il conflitto, le contraddizioni e gli scontri dei ruoli e della visione. Ma se provassimo allora a fare davvero uno sforzo eroico, a scendere un gradino più in basso e a ribaltare i ruoli a partire dalle nostre stesse posizioni? Ci accorgeremmo che si può parlare di integrazione dal palco come dalla platea, dalla parte dell’attore e da quella dello spettatore, dall’eccezione alla regola e dalla regola all’eccezione.

Entrare, accedere, conoscere
Entrare a teatro, una volta superata la rampa, aver ricevuto l’accoglienza delle maschere, essersi fatti strada tra gli altri spettatori nel foyer, aver riconosciuto e raggiunto il proprio posto nelle prime file presso i corridoi e le uscite di sicurezza, è tutto sommato per una persona disabile un fatto semplice se siamo disposti ad accettarne la logica della lentezza. Accedere invece è qualcosa di più impegnativo, che implica uno sforzo e un’attenzione speciali. Se infatti l’entrata non è che un’azione meccanica e ordinaria, l’accesso implica un’azione creativa ed extra ordinaria, dove la qualità dell’incontro con l’evento coincide con la qualità stessa della sua percezione. In una parola, non si accede senza conoscere.
Al di là di offrirci uno spunto per continuare a ripensare la parola “accessibilità”, c’è ora da chiedersi che cosa un tale assunto può indicare di fronte alla visione di uno spettacolo teatrale e più in generale di fronte alla creazione artistica. Si potrebbe rispondere, per cominciare, che per lo spettatore disabile e non la fruizione passa sempre attraverso l’esperienza e la frequenza di un linguaggio. Sembra scontato ma non lo è. Pensiamo alle numerose volte in cui certi gruppi di tempo libero, case famiglia e cooperative letteralmente parcheggiano nello spazio-teatro i propri utenti, proponendo loro spettacoli di scarsa qualità… Spettacoli amatoriali, dialettali o prettamente legati alle formule dell’infanzia si susseguono per ore di fronte ai consumatori perplessi o passivi, mentre i promotori delle uscite o sono altrove o a malapena conoscono i titoli delle opere. Andare a vedere una performance, andare al bar, al cinema o a mangiare una pizza è la stessa cosa. In questo modo, è indubbio, allo spettatore resta in mano ben poco, pronto a entrare a teatro con la completa certezza di uscirne tale e quale. Se una volta fuori dallo spazio scenico poi, non sentiremo in noi alcun accenno di cambiamento, potremo proprio star sicuri di aver perso del tempo o, ancora peggio, di esserci terribilmente annoiati.

“Non potremmo ammirare la leggerezza del linguaggio se non sapessimo ammirare anche il linguaggio dotato di peso” diceva Italo Calvino (cfr. I. Calvino, Lezioni americane, Milano, Mondadori, 2002, p. 19).

Qualità e consapevolezza sono due passaggi importanti, due elementi costitutivi dell’arte stessa e dello sguardo dello spettatore, che in quest’ottica dovrà saper fare delle scelte che varranno la pena solo se in grado di suggerire rivoluzioni e cambi di prospettiva. È chiaro che la consapevolezza si acquisisce nel tempo e che l’esperienza, quando limitata da un’autonomia parziale, deve essere, almeno inizialmente, indirizzata e mediata. Il discorso quindi vale, a nostro parere, anche per gli operatori e gli accompagnatori normodotati del settore assistenziale e educativo, che dovrebbero provare a confrontarsi sulle proprie offerte in sinergia con figure e professionalità specifiche dell’ambiente artistico.
Cominciare ad ammirare o semplicemente a partecipare alle caratteristiche e ai contenuti di un linguaggio, tuttavia, non significa diventare improvvisamente spettatori critici capaci di maneggiare codici eleganti e complessi, sarebbe un tentativo inutile sia per chi presenta deficit cognitivi importanti sia per chi ha come obiettivo di fondo la mediazione.
Quello che è interessante nell’atto teatrale è piuttosto l’incontro in presenza e la sua connaturata capacità di fare leva su parole come autostima, divertimento e relazione in grado di rendere il disabile non solo il protagonista di un’attività ma anche il fruitore di un’opera di qualità in quanto cittadino parte e partecipe del suo tempo. Integrarsi nel gioco della scena con il resto dei partecipanti sarà allora il passaggio conseguente e successivo. Come arrivarci? Imparando a entrare, accedere e conoscere fino a lasciare delle tracce.

La Quinta Parete
Insieme al Gruppo Calamaio del Centro Documentazione Handicap abbiamo intrapreso quest’anno un primo viaggio nel mondo del teatro, possibile grazie alla visione gratuita di nove spettacoli offertaci dal Teatro Testoni di Casalecchio di Reno e dal Teatro Itc di San Lazzaro, entrambi della provincia di Bologna.
Si tratta di due teatri ben noti alla città, da anni operanti sulle aree periferiche in direzione dell’inclusione e dell’educazione di un pubblico ancora composto, cosa ormai rara, più da gente comune che da addetti.
Qui siamo entrati al solito come gruppo integrato, composto dagli animatori disabili e dagli educatori del Gruppo, per dare vita a una redazione “mista”, La Quinta Parete, in cui si è giocato, scritto e discusso sugli spettacoli a cui, di volta in volta, abbiamo gradualmente avuto accesso. Abbiamo scoperto così che il teatro accade in un tempo e in uno spazio unico e irripetibile ma anche che uno spettacolo può continuare a vivere in noi ben oltre la rappresentazione, che esiste un prima e un dopo la visione e che su questo si possono spendere creazioni, pensieri e immaginazioni. Nel farlo ci siamo fatti aiutare da tecniche di scrittura creativa, dall’intervento di critici teatrali e dall’incontro con gli artisti stessi. Le ombre di Teatro Gioco e Vita di Cane Blu, l’intervista impossibile con l’Antigone delle Belle Bandiere, i lirismi di César Brie o ancora il viaggio Nel profondo degli abissi sul Teatrobus sono solo alcuni degli scenari delle nostre esplorazioni in cui anche voi potrete ora immergervi.
Oltre infatti alla nostra stessa presenza, rumorosa, imprevedibile e dal resto del pubblico visibilmente inattesa, a testimoniare le tracce del passaggio ci ha pensato anche un blog, http://laquintaparete.accaparlante.it/. Integrarsi ha così significato per noi segnalare la nostra entrata in sala con lo scopo di regalare alla cittadinanza tutta nuovi spunti, logiche e aperture sui temi offerti dalla visione, a partire da parole come giustizia, utopia e comunità che riteniamo di valore e importanza comuni.

Scrivere non basta
Fino ad ora abbiamo visto quello che lo spettatore, disabile o non, può fare per approcciarsi più consapevolmente alla fruizione del mondo dell’arte e del teatro. Restano però da capire quali siano oggi in tal senso i compiti del teatro e della sua voce critica.
“Scrivere non basta”, affermava Franco Quadri, il più illustre critico teatrale italiano degli ultimi trent’anni. Il compito della critica, continuava, non sta nel giudicare un’opera quanto piuttosto nel farla esistere, nel fornire delle chiavi di lettura che mantengano stretto il legame e il contatto tra l’opera, lo spettatore e il suo tempo.
Da questo punto di vista l’atto della scrittura è solo la punta di un iceberg, che va a valorizzare il processo creativo da un lato, e il tempo della relazione dall’altro.
Ciò che oggi viene a mancare alla critica è proprio il secondo passo: la conoscenza dello spettatore a cui si rivolge. Il teatro contemporaneo ha già forato la quarta parete, quella tra il pubblico e la scena. Ne resta a nostro parere in piedi ancora una quinta, quella che separa il teatro dalla realtà.
Prima di sfondarla, ci esorta il Calamaio, cominciamo a macchiarla.

Per informazioni:
http://laquintaparete.accaparlante.it/
http://www.itcteatro.it/
http://www.teatrocasalecchio.it/
lucia.cominoli@accaparlante.it 

Disabilità e adozione: scoperta e conquista

È di pochi giorni fa la notizia che la Corte d’Appello ha concesso l’adozione a una famiglia cui era stata negata in prima istanza dal Tribunale dei Minori, in quanto già genitori di un ragazzino disabile. Il tema dell’adozione è sempre molto delicato e riguarda la disabilità sotto molteplici punti di vista, nel caso siano disabili i genitori intenzionati ad adottare, il bambino da adottare o, come in questa circostanza, un fratello. Nel caso in questione, il Tribunale dei Minori aveva definito questi genitori “troppo vulnerabili”, perché completamente dedicati alle cure del figlio disabile. Dunque, secondo questa sentenza, i fratelli di disabili dovrebbero essere tutti soggetti infelici, trascurati, squilibrati. Ora, questo tema dei fratelli di disabili è diventato molto attuale, anche grazie ad “HP-Accaparlante”. Il tema è stato ben sviscerato e affrontato in maniera competente, seria e completa. Dunque, il mio intervento non vuole aggiungere nulla a tutto questo. Se non che, anche io, ho una sorella. Sana ed equilibrata, anche lei, come quasi sempre avviene, dopo la morte dei nostri genitori si è fatta carico della mia assistenza, seppure aiutata da assistenti domiciliari e amici. Tuttavia, chiaramente, lei mi aiuta a coordinare i rapporti con i miei operatori. Ha una sua famiglia e un lavoro, ma, fortunatamente, abita accanto a me. Come spesso succede, la malattia di mia mamma, seppure anziana, ci ha colti alla sprovvista, perché lei aveva quella forza d’animo e quell’energia che solo le mamme dei disabili possono trovare dentro di sé. Nostra madre, nonostante la malattia, ci sembrava immortale. Invece, infine, ci ha lasciati. Aveva sempre pensato lei a me in tutto e per tutto, con l’aiuto di un operatore e di tanti amici, perché, come avviene di frequente, i genitori di figli con handicap hanno l’idea, a ragione o a torto, che nessuno possa occuparsi meglio di loro del proprio figlio. Quindi, io e mia sorella, insieme, ci siamo trovati ad affrontare una ben pesante “eredità”. Il nostro rapporto è certamente cambiato, ma in meglio. Si è fatto più stretto, più confidenziale. Siamo più uniti e più affettuosi, anche se, talvolta, mia sorella mi confida di essere stanca, affaticata e, nei momenti più difficili, mi dice che, se avesse potuto scegliere, questa “eredità” l’avrebbe volentieri evitata. Mi racconta di come, da bambina e poi da ragazza, spesso si sia sentita trascurata e messa da parte da nostra madre che, al di là del carico della mia assistenza, era comunque una donna forte e dalla personalità ingombrante, dunque il rapporto madre e figlia, immagino, sarebbe stato ugualmente un po’ difficile, come solo fra donne sa essere. Ma fortunatamente per lei e anche per me nostro padre era molto presente in famiglia, anche se lavorava parecchio, e noi quattro eravamo uniti. Nonostante questo, nonostante i piccoli momenti di sconforto derivati dai tanti problemi quotidiani e dalla stanchezza, mia sorella è stata capace di rivoluzionare la sua vita per me, di modificare completamente la sua routine, di rendermi totalmente parte della sua famiglia. Si preoccupa per me esattamente come faceva mia madre, naturalmente con uno stile diverso. Ha imparato a fare cose che mai avrebbe immaginato di fare. D’altra parte, in qualsiasi famiglia il figlio maggiore si sente trascurato quando arriva un fratellino o una sorellina, che attira su di sé, inevitabilmente, la maggior parte delle attenzioni e delle cure dei genitori. Racconto tutto questo perché io e mia sorella siamo una ricchezza e un affetto insostituibile l’uno per l’altra. Ma, soprattutto per lei, le difficoltà della quotidianità sono tante. Dunque, pensare che a una famiglia sia stata negata l’adozione perché ha un figlio naturale disabile, mi fa sorgere molti dubbi. È un problema controverso. Certamente, non credo che i genitori del ragazzino disabile abbiano voluto adottare un bambino per trovare un futuro “badante” al loro figlio naturale. Questo mi sembra banale anche senza conoscere il caso specifico. Prima di tutto, come si suol dire, nessuno può sapere che figlio gli capita, anche se si parla di figli naturali. Non tutti i figli sono disposti, una volta cresciuti, a farsi carico del lavoro di cura della famiglia d’origine, sia che si parli di fratelli, sia che si parli degli stessi genitori, una volta anziani. Inoltre, può capitare che anche i ragazzini idonei all’adozione, soprattutto se non sono piccolissimi, abbiano a loro volta una serie di problemi, soprattutto psicologici e di adattamento. Dunque, un ragazzino adottato e uno disabile necessitano entrambi di attenzioni particolari. Qualche tempo fa, alla cronaca era balzato il caso, invece, di un genitore disabile a cui era stata negata l’adozione, nonostante il partner fosse assolutamente normodotato. Si trattava, peraltro, di una disabilità sensoriale, dunque che non inficiava così significativamente la capacità del genitore di assolvere appieno i suoi compiti. Tanto che, peraltro, sono tantissimi i genitori naturali che presentano lo stesso tipo di deficit. Pochi giorni fa, si è tenuta a Milano la Giornata delle Famiglie. Ad essa, ha aderito anche Ai.Bi. Amici dei Bambini, Associazione di ispirazione cattolica, il cui presidente ha preso una posizione molto decisa e, per così dire, audace, sul tema dell’adozione dei bambini disabili. Marco Griffini ha infatti dichiarato che “in assenza di famiglie adottanti, è giusto consentire ai minori con problemi di salute o handicap e a gruppi di fratelli, di essere adottati anche da persone single, com’è peraltro già previsto per l’adozione nazionale, e da adottanti con età superiore ai limiti stabiliti dalla legge vigente”. Una presa di posizione, questa di Ai.Bi., destinata a far molto discutere in ambito cattolico. Al “Family Day” ha provocato fermi rifiuti, ma anche caute aperture come quella di Carlo Casini, presidente del Movimento per la Vita. A noi non resta che raccogliere la sfida, perché credo che, riguardo a questo argomento, la voce delle stesse persone con disabilità, dei loro fratelli e genitori, sia la fonte più autorevole da cui partire per una riflessione approfondita, che non dimentichi di mettere sempre al primo posto il bene dei minori adottati o in attesa di esserlo. Una famiglia composta anche da un membro disabile può essere più aperta e più pronta ad accogliere le difficoltà di un bambino in adozione. Questa non è una regola generale che valga per tutti, ma è una possibilità collegata a tanti fattori. D’altra parte, che ci piaccia o no, la nostra vita dipende da tante casualità fortuite oltre che dalla nostra volontà e dalle nostre decisioni. Nessuno può scegliersi il padre e la madre così come nessuno può scegliersi il proprio figlio, è un dono del destino o, per chi crede, di Dio. Fortunatamente è ancora così, nonostante tutti i tentativi per programmare le caratteristiche e per evitare che nascano bambini con qualche problema. Questa sì che è una vera discriminazione. Così come l’eugenetica e la possibilità di scegliere le caratteristiche estetiche del proprio figlio sembrano un’aberrazione degna di Frankenstein o, più tristemente, di Hitler, altrettanto sarebbe terribile poter scegliere “sul catalogo” un figlio adottivo. Distinguere l’adozione di un bambino disabile o meno, già di per sé dovrebbe aprire qualche questione morale. Per questo, considerare motivo ostativo la presenza pregressa di un figlio naturale portatore di deficit significa quantomeno sottovalutare le capacità sia dei genitori, sia di entrambi i bambini interessati. Certamente, la procedura che porta all’adozione è lunga e complessa, dunque i casi specifici vengono valutati singolarmente, alla luce delle loro peculiarità. Tuttavia, dovendo esprimere un giudizio generale, credo che il deficit di per sé non debba mai essere motivo di limitazione di tutta una serie di azioni che non vengono negate a famiglie in cui l’handicap non è presente. Anche perché la disabilità, purtroppo, può sempre sopraggiungere in un secondo momento per qualche membro della famiglia, e a quel punto non si potrebbe certo revocare l’adozione. Credo, pertanto, che i motivi per cui una famiglia possa essere ritenuta “non idonea” debbano essere altri, ma comunque è giusto valutare caso per caso, come, difatti, la nostra legislazione prevede che avvenga. Il destino o la Provvidenza devono fare il proprio corso. L’uomo deve darsi delle regole ma non può pretendere di prevedere le vicende e di scegliere tutto, anche perché i bambini devono portare meraviglia che nasce dallo stupore.

Il movimento più grande e naturale

Come nelle rubriche precedenti anche in questa racconterò l’arte attraverso l’esperienza di un artista e racconterò l’artista attraverso il mio personale punto di vista, per come lo conosco attraverso la mia esperienza diretta. Che è allo stesso tempo limitata, personale e, per questo, solo un punto di vista.
Pur essendo nato nel 1606, trecentosettanta anni prima di me, Rembrandt Harmenszoon van Rijn è passato spesso nella mia vita e, quasi come un fratello maggiore, mi ha offerto la sua esperienza, raccontata attraverso le sue opere e il suo viaggio interiore.
Qui parlerò in particolare di due opere, non le più famose, che sono state uno stimolo e uno spunto di riflessione.
Rembrandt nasce a Leida in Olanda, quarto dei sei figli sopravvissuti, con il padre mugnaio e la madre figlia di un fornaio. Non per voler vedere in ogni elemento un punto di contatto ma io sono il quarto figlio di una famiglia di fornai. Comunque, proseguiamo.
La sua città natale diventa un importante centro umanistico, grazie anche alla presenza di un’importante università (ricordo che sono nato e vivo tutt’ora a Bologna!), ciò permetterà al pittore di crescere circondato da un’attività culturale vivace e ricca di stimoli.
Rembrandt andò a bottega da alcuni pittori dell’epoca che lo aiutarono ad apprendere prima il mestiere poi l’arte, caratteristica che gli permetterà, nel 1627, di aprire la sua prima bottega. Da quel momento, con alti e bassi, la sua vita sarà quella di un artigiano/artista, generoso anche nell’accogliere molti giovani allievi, sposo con alterne felicità (perderà la prima moglie molto giovane) e padre poco presente, che vedrà morire il figlio prima di lui.
Una vita in attacco, comunque, la sua, alla ricerca di ciò che lui definisce il movimento più grande e naturale. Non sono in  grado di dire se sia riuscito nel suo intento, fatto sta che spesso, quando guardo le sue opere, ritrovo qualcosa di me, un’emozione, un’espressione, una storia. Ed è questo che mi attrae in generale della pittura e, in particolare, di Rembrandt: la capacità di raccontare storie rendendo partecipe lo spettatore, anche a distanza di centinaia di anni, di aver creato davvero un movimento temporale che, al di là degli anni, coinvolge in modo naturale gli spettatori.

Il ritorno del figliol prodigo
Nel 1966, ormai anziano, Rembrandt dipinge uno dei quadri che più amo per la forza con la quale racconta un evento che è allo stesso biblico e personale. Non solo per ciò che riguarda la vita del pittore ma per l’essere umano in generale.
Ho incontrato questo dipinto mentre scrivevo la mia tesi di laura. Il tema su cui stavo lavorando era il ruolo del maschile in educazione e, in particolare, quello del padre. In quei tempi leggevo moltissimi testi che riguardavano il ruolo paterno sia a livello familiare che, più in generale, a livello sociale. Le regole che storicamente e culturalmente hanno definito i confini e la presenza del padre all’interno dei percorsi di crescita dei figli, come procacciatore di cibo prima e di denaro poi, le sue assenze e, ultimamente, la crisi di tale ruolo e la ridefinizione di una presenza alternativa e non emulativa di quella materna.
Il quadro di Rembrandt mi si presentò come la sintesi perfetta tra le tante parole che stavo leggendo in quei tempi e l’esperienza concreta di tanti padri alle prese con un ruolo difficile da decifrare; come se raccogliesse in quelle pennellate un aspetto che spesso rimane nascosto, quando si pensa al compito paterno. Quando dipinge quel quadro, Rembrandt aveva probabilmente forti problemi di vista e, come il figliol prodigo, necessitava di un abbraccio paterno che lo perdonasse, non tanto perché avesse dei peccati da espiare, bensì perché quell’abbraccio rappresenta l’ultimo atto di un percorso di accettazione personale che vede rappresentato il pittore sia nel padre che abbraccia che nel figlio che viene abbracciato ma anche, in parte, nel figlio maggiore che osserva addolorato tale scena.
Ecco allora che il racconto biblico diventa metafora di quello personale di Rembrandt e, di conseguenza, del percorso che riguarda ogni essere umano e, in particolare, quello di ogni padre: la definizione del proprio ruolo si realizza nell’incontro tra il figlio, che rappresenta il nostro passato e il padre, che invece rappresenta il nuovo percorso che siamo chiamati a intraprendere. Ruolo paterno che, come se si trattasse di un cerchio, nasce e si completa in quell’abbraccio che pacifica e ridefinisce, che finalmente rende liberi di agire senza il condizionamento del proprio passato.
Interessanti sono anche i molti particolari del dipinto che hanno attirato l’attenzione dei critici ma anche di psicologi che hanno dato una lettura più esistenzialista.
Le due mani del padre, una femminile e una maschile, a rappresentare quanto il ruolo paterno non si definisca in opposizione ad atteggiamenti femminili; la cecità del padre consumata per aver guardato incessantemente l’orizzonte, fiducia, quindi, nel ritorno del figlio; il colore che ammanta il dipinto che racconta la gioia e il dolore, una varietà di emozioni che coinvolgono tutti i personaggi presenti. Tanti particolari che esplicitano la complessità ma anche la ricchezza del rapporto con la paternità. Quello di Rembrandt ma anche il mio e, forse, anche il vostro.

Autoritratto – 1630
Sorpreso, della sorpresa che ti prende quando vedi qualcosa di strano, che forse fa anche un po’ paura.
Capelli scompigliati, bocca arricciata, occhi tondi e piccoli.
La prima volta che ho visto l’autoritratto che Rembrandt ha realizzato nel 1630, ho pensato: “Ma quello sono io?”. Ho percepito una certa somiglianza con l’artista non solo e non tanto per ciò che ci accomuna a livello estetico (anche io ho spesso i capelli scompigliati, ho gli occhi piccoli, arriccio la bocca…), bensì perché, ancora una volta, il pittore entrava nella mia vita, seppur casualmente, con un profondo significato.
Per Rembrandt l’autoritratto non è solo un esercizio di stile, ne realizzerà, infatti, più di settanta nella sua vita. Sono il segno di come amasse giocare con diversi ruoli, proponendosi di volta in volta come soldato, mendicante, borghese; tanti ruoli, però, che raccontano anche la complessità di una vita interiore che, seppur soddisfatta per ciò che lo circonda, pone il proprio sguardo verso diversi orizzonti, desiderati o sognati. Anche in questo caso, la grandezza dell’artista sta nello svelare qualcosa di comune a tutti, semplice per certi versi, ma che acquista sostanza e significato proprio nel momento in cui ne diventiamo coscienti. Il tema dell’autoritratto, inteso come ricerca e costruzione della propria identità, mi appartiene e mi interessa sia livello personale che in quanto educatore che lavora con persone, bambini o disabili adulti.
Autoritrarsi, in fondo, significa mettersi in contatto con se stessi, guardarsi da un punto di vista differente, dall’esterno, tentando di vedere ciò che vedono gli altri, ri-conoscersi, quindi, scoprendo qualcosa di sconosciuto; è un incontro, in fondo, l’occasione per definire i confini del proprio viso, della propria pelle, i  nostri limiti epidermici e sentirli non come un ostacolo ma come un contenitore, il continuo punto di partenza tra il dentro e il fuori e tra noi e il mondo esterno; è rendere concreto ciò che facciamo in modo troppo scontato, cioè dirci chi siamo per poter continuare a diventare noi stessi.

Chi è Rembrandt, quindi?
Quale autoritratto lo rappresenta di più?
Quale ruolo esprimeva al meglio la sua vera identità?
Difficile dirlo e, personalmente, poco interessante.
Perché ciò che mi colpisce e, quindi, ciò che diventa utile alla mia esperienza, non è tanto il bisogno di una verità storica ma ciò che l’artista definisce come “il movimento più grande e naturale”, l’essenza tradotta in arte che anche oggi ammiriamo, sentiamo e che, in un qualche modo, si mescola alle nostre cellule e ci forma. Per cui mi chiedo: chi sono io? Qual è la mia immagine? Il ruolo che più mi rappresenta?

Il ciclista-pensatore: quando la disabilità è solo un tratto imprescindibile come gli altri

È sempre difficile determinare quello che fa di un film un bel film. Anche quando usciamo da una proiezione con un senso di soddisfazione “estetica” pieno, è complicato stabilire quali siano stati, tra i tanti che compongono un prodotto cinematografico, quegli elementi che ci hanno catturato e convinto. L’operazione, peraltro, sarebbe inopportuna, dal momento che è il modo in cui questi vengono combinati, “sintetizzati”, a restituirci la verità di quello che abbiamo visto. Lo sguardo analitico, pure interessante per indagare la struttura e la composizione di un film, non è sufficiente. Le cose si complicano ancora di più se il film nasce quasi “per caso”, ovvero se al regista la materia filmica capita tra le mani involontariamente, senza che ci sia dietro una volontà esplicita, un progetto ragionato. Perché, in questo “caso”, si tratta di avere quell’intuito, non solo cinematografico, che ti permetta di capire quell’oggetto e di renderlo sotto forma di immagini in un modo che sia, al tempo stesso, rispettoso dell’oggetto e significativo per chi vedrà quelle immagini. A Great Macedonian rientra in questa categoria di film, e il regista, Renato Giugliano, sicuramente in quella categoria di autori che sanno porsi di fronte alla casualità senza timore, con pazienza conoscitiva, con la capacità di mettersi “al servizio” della materia, senza piegarla o enfatizzarla, aprendosi ad essa. Caratteristiche e attitudini che, anche a questo livello forse del tutto casualmente, condivide con il protagonista del documentario nel suo approccio all’esistenza e alle sue “crepe”. Ecco, sembra esserci un’assonanza di fondo, anche precedente alla creazione delle immagini, tra autore e soggetto, ed è forse questa che, con sguardo sintetico appunto, potremmo indicare come elemento di forza e di equilibrio di questo film. Solido nella dolcezza che sa esprimere e nella fluidità mai spettacolare delle sue immagini.
La trama del documentario è molto semplice: nell’estate del 2009 Dejan parte in bicicletta da Skopje, nel cuore macedone dei Balcani, per un lungo viaggio solitario verso la Francia. Un grande impegno, un’avventura contro i propri limiti, alla ricerca di un’armonia interiore, ma allo stesso tempo della prova che la vita può continuare a essere la stessa nonostante tutto. Dejan, infatti, indossa una protesi al posto della gamba sinistra, persa, quattro anni prima, a causa di un incidente con una macchina agricola in una fattoria organica in Francia nella quale lavorava. Anche il piede sinistro, peraltro, ha subito lesioni che non gli consentono un’articolazione perfetta. Sappiamo poi che nel 2010, forte di questo successo, ha attraversato Cile e Argentina, e nel 2011 ha portato la sua bicicletta in Cina per una nuova e più ambiziosa avventura. Ma questo sta fuori dal film che riprende Dejan in occasione del suo primo tentativo di viaggio in solitaria.
In un’intervista, il regista racconta di aver scoperto solo dopo tre giorni la protesi indossata da Dejan, in occasione del loro primo incontro in Macedonia. Una “svista” densa di significato, che Giugliano sembra voler condividere con noi spettatori: è solo al diciottesimo minuto che viene esplicitata la presenza di una gamba artificiale, solo da quel momento la disabilità di Dejan irrompe nel film anche a livello tematico. E, in parte, forse in modo improprio, siamo spinti a re-interpretare quanto detto e raccontato da Dejan fino a quel momento alla luce di questo nuovo dato. In modo improprio perché il suo discorso, anche senza l’“ombra” di questo stato di cose (la disabilità), non solo ha solide basi, ma è rivelatore di verità e portatore di suggestioni ed emozioni di grande intensità. Fino a quel momento possiamo intuire la presenza di un deficit soltanto attraverso piccoli dettagli disseminati dal regista (il più “beffardo”, perché apparentemente insensato, è il cartello all’interno di un centro commerciale che invita a dare precedenza, alla cassa, a persone disabili e donne incinte), cui però attribuiamo rilevanza solo ex post.
Come scrive Chiara Checcaglini su mediacritica.it, “la scelta del regista è lasciare completamente la parola a Dejan, che parla con la voce e col corpo, e con entrambi comunica le sue convinzioni: che il limite è lì per essere superato, che ogni privazione può trasformarsi in stimolo, che la vita non è altro che il continuo trasformare in opportunità gli incidenti di percorso, di qualsiasi entità essi siano”. Un ragionamento complesso sulla necessità della normalità e della sua riconquista, da intendersi, però, soltanto come punto di partenza per modificare quella stessa normalità. La macchina da presa segue Dejan da vicino, lo “accompagna” nello svolgimento di gesti legati alla quotidianità e di azioni legate al suo viaggio, le pedalate, le soste, gli esercizi… Un sottofondo di immagini che valorizza, nella loro intensa e gioiosa sobrietà, le differenze dei movimenti e della gestualità di Dejan e lascia spazio alla forza del suo racconto, sempre in bilico tra “diario di viaggio”, cronaca di quanto fatto e incontrato sino alla breve pausa nella città di Bologna e riflessione sulle ragioni e l’urgenza, non solo personali, di questo mettersi alla prova.
È articolata e ricca di sfumature la sapienza di Dejan: “Negli ultimi due anni, quando sogno, non ho più due gambe come è sempre stato, ma sono così come sono adesso, ma per qualche motivo ho trovato il modo di camminare. È come se fossi su un campo magnetico e riesco a camminare e a correre. È strano. È come se mi accorgessi che è così facile camminare, senza intoppi, regolare”. Poi un ritorno alla dimensione reale, senza smentire quella onirica descritta poco prima: “Non posso dire di godere dei problemi della vita. Godere non è la parola esatta… ma fanno sì che tutto l’insieme appaia… reale, che ne valga la pena”.
Da segnalare la colonna sonora, composta da brani “classici” in voga al tempo della Jugoslavia unita e del regime di Tito, che replicano nel documentario la colonna sonora che accompagna mentalmente Dejan lungo il percorso; rispetto al pedalare da solo, in strade spesso trafficate, Dejan racconta sorridendo: “È così che la vedo, una lunga meditazione. È questione di concentrazione, non di ciclismo. Guardi il tuo spazio sulla carreggiata, di solito è un piccolo spazio, in cui non dovresti dar fastidio alle macchine, altrimenti loro si innervosiscono e ti innervosisci anche tu. Invece ti concentri su una cosa e vai, e ti mette pace. Non penso a niente in particolare, è solo… calma. Non so, pedali… semplicemente… di solito ho delle canzoni in testa, che si ripetono, pezzi famosi della ex-Jugoslavia, forse perché ho attraversato parti della ex-Jugoslavia da cui mancavo da molto tempo, e tutte queste canzoni che non ricordo neanche bene, saranno almeno di venti anni fa. E mi vengono in mente, sono diverse canzoni, e mi si ripetono per tutto il viaggio, come in un jukebox”.
A Great Macedonian è un lavoro difficile da raccontare, ricorrere alle parole di Dejan aiuta solo in parte, perché il regista è molto abile a inserirle in una successione di immagini che svolgono un ruolo più complesso del semplice corredo: non invadono mai il campo, non tendono ad attribuire tratti mitici al protagonista, ma dimostrano, fotogramma dopo fotogramma, che saper raccontare, saper restituire un racconto altrui presuppone sempre una pregressa capacità di accoglienza e di ascolto. A partire da questa, assumendola come irrinunciabile punto di partenza, Renato Giugliano trova la forma più incisiva per disegnare il ritratto di questo solare e affabile ciclista-pensatore, del quale la disabilità è solo un tratto imprescindibile come gli altri.

A Great Macedonian (2009)
Durata: 58’
Regia: Renato Giugliano
Sceneggiatura: Renato Giugliano
Fotografia: Renato Giugliano
Montaggio: Renato Giugliano
Produzione: RLP

“Dopo di noi” in Belgio. Uno sguardo nell’esperienza del servizio “Support-Ahm”

Il tema del “dopo di noi” o “dopo genitori” è sempre più avvertito dalle famiglie che includono persone con disabilità, man mano che l’aspettativa di vita di queste si allunga; tuttavia, i servizi che se ne occupano sembrano ancora poco diffusi, e le loro prassi ancora da consolidare e confrontare. Nella Vallonia, la regione francofona del Belgio, da diversi anni l’AFrAHM – Association Francophone d’Aide aux Handicapés Mentaux (Associazione Francofona di Aiuto ai Disabili Mentali) sostiene i genitori negli accorgimenti da predisporre per i loro figli per garantire al meglio la loro qualità di vita quando essi non ci saranno più, ma solo di recente questo sostegno è stato riconosciuto istituzionalmente come servizio “Support-Ahm” e ha potuto estendersi alla regione di Bruxelles. Abbiamo parlato di questo servizio con Cécile Javaux, direttrice e assistente sociale del Support-Ahm di Bruxelles.

Quando è nato il servizio, e da quali bisogni?
Il concetto di “dopo-genitori” fu pensato negli anni ’70, ed è nato dalle inquietudini dei genitori concernenti il futuro dei propri figli. Il nostro servizio di accompagnamento Support-Ahm + Bruxelles è riconosciuto in quanto tale dal 15 dicembre 2011. Esso esiste in Vallonia da più di 10 anni, e desideriamo che le nostre famiglie di Bruxelles possano beneficiare del medesimo servizio.

Come funziona oggi il servizio?
Il servizio si propone di accompagnare le famiglie nella loro riflessione, di sostenerle nelle loro decisioni, di informarle, di collaborare con i partner coinvolti nella presa in carico della persona con disabilità. Il servizio non si sostituisce ai genitori, al tutore o all’amministratore dei beni: vuole essere complementare agli attori che intervengono sul campo, e agisce in collaborazione, come un legame tra loro, garantendo un sostegno adeguato della persona che ha un deficit intellettivo; a seconda dei bisogni, è presente a riunioni differenti (progetto personalizzato, mediazione…). I desideri dei genitori e le riflessioni condotte insieme sono riprese in un contratto, che evolve lungo tutto l’accompagnamento: è dunque, per il servizio, uno strumento che permette di assicurare un sostegno personalizzato della persona, e questo per una durata di numerosi anni.
Almeno una volta all’anno, il servizio incontra l’utente nel suo luogo di vita e redige un rapporto di visita che trasmetterà alle persone designate dai genitori. Per il servizio, è l’occasione di vedere come vanno le cose per la persona e di agire di conseguenza (sostegno dei parenti, fare appello al giudice, riunire i diversi attori…).

Quante persone fruiscono del servizio? E quanti casi di persone con disabilità che hanno già perduto i propri genitori seguite oggi?
Attualmente accompagniamo 40 persone nel “dopo-genitori”. Queste famiglie sono seguita da assistenti sociali e assistenti psicologhe (se necessario).
Il numero di orfani seguiti ammonta a 8 persone, ma attenzione: occorre sapere che 18 dei nostri assistiti non hanno più che un solo genitore con più di 70 anni, e questo significa quindi che la nostra vigilanza deve essere accresciuta, sapendo che, inoltre, la maggior parte vivono in casa e non potranno purtroppo rimanervi da soli.

Quali problemi e questioni a proposito del “dopo di noi” sono più avvertite dai genitori quando sono in vita?
La questione di base è “come diventerà nostro figlio quando non ci saremo più?”. Finché sono vivi, i genitori sono inquieti riguardo all’alloggio, al sostegno affettivo, al tempo libero e alle questioni concernenti le successioni… Il servizio ha come obiettivo di rimanere una risorsa per la persona con disabilità per lunghi anni, in modo da garantirle una qualità di vita.

Quali soluzioni sono più spesso adottate alla morte dei genitori e parenti, quando la persona con disabilità viveva in casa con loro?
Le soluzioni sono nella maggior parte dei casi ricercate durante la vita dei genitori; noi tentiamo di mettere in opera una rete intorno alla persona, rete familiare e rete professionale. In questo contesto, siamo quindi portati a collaborare con gli altri servizi (centro diurno, centro residenziale, servizio di accompagnamento, ETA [cooperativa sociale di inserimento lavorativo, NdT] …). Delle 8 persone orfane che seguiamo ora, 1 è alloggiato in un centro residenziale adattato alle persone con deficit intellettivi, 3 vivono in famiglia, 3 vivono in casa di riposo per anziani e 1 vive da solo, in autonomia. Di giorno, solo la metà di loro ha un’attività, che sia in centro diurno o al lavoro; le altre sono inattive, e vivono in casa di riposo o in famiglia. Per le persone senza attività, se necessario, si mette in campo un accompagnamento educativo e/o psicologico – gli educatori e/o psicologi fanno parte del nostro servizio.

Avete rapporti con altre associazioni o istituzioni che si occupano dello stesso problema in Europa?
I contatti che abbiamo con gli altri Paesi si svolgono attraverso Inclusion Europe, Inclusion Internationale e l’EDF – European Disability Forum; penso che la problematica sia la stessa in altri Paesi, ma a mia conoscenza nessuna soluzione (simile alla nostra) è stata ancora messa in campo. Abbiamo anche presentato il nostro servizio in occasione di un congresso in Canada, sembravano molto interessati… ma non conosco il seguito.

Per informazioni:
www.afrahm.be