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8. L’etica del combattimento: la relazione marziale e l’espressività corporea

Il segreto della spada sta nel non sguainarla; non bisogna estrarre la spada, poiché se desiderate uccidere qualcuno, siete voi che dovete morire. Bisogna uccidere se stessi, uccidere il proprio spirito, a quel punto gli altri hanno paura e fuggono. Siete voi il più forte e gli altri non si avvicinano.
(Taisen Deshimaru Roshi, Zen e arti marziali, Rimini, Il Cerchio editore, 2004)

Con queste parole il maestro zen Taisen Deshimaru Roshi si rivolge ai suoi allievi, giovani guerrieri.
Un insegnamento tanto lontano dal nostro tempo può rivelarsi molto attuale nel momento in cui si consideri il “quotidiano” attraverso la prospettiva del combattimento.
Si combatte dal primo istante di vita fino all’ultimo, per non soccombere alla fame, alle malattie, alla paura, al confronto. Si combatte con i propri limiti, l’inesperienza, le difficoltà economiche, fisiche, culturali.
Si combattono l’ignoranza, la malafede, la cupidigia, il qualunquismo, l’individualismo.
Una prospettiva di questo tipo apre uno spazio di riflessione dove appare evidente come la condizione di partenza da cui muove ogni singolo individuo risulti molto diversificata; c’è chi nasce, per così dire, “armato fino ai denti”, chi invece nasce e cresce in una dimensione molto sfavorevole, conseguentemente alle ragioni più svariate, che possono avere molteplici matrici, da quelle culturali, economiche, fisiche, sociali familiari e altro ancora.
Quel che i giovani guerrieri ricercavano, attraverso lo studio del budo (la via delle arti marziali), prima ancora di una preziosa katana (la spada) e di una solida armatura, era la piena consapevolezza del proprio spirito, del proprio “centro”.
Questi uomini erano consapevoli di quanto l’assoluto controllo della propria persona scaturisca dalla conoscenza più profonda delle emozioni, mai dalla negazione.
Il maestro chiede loro di uccidere il proprio spirito per impedire che venga svelato a chi non dovrà mai conoscerlo, a chi potrebbe ferirli o ucciderli in battaglia.
Il maestro li invita a non farsi sopraffare dalla rabbia, dal rancore, sentimenti che spesso rendono ciechi e deboli, quindi ancor più vulnerabili.
Questa condizione di “vuoto” interiore rappresenta l’aspirazione più alta cui il pensiero zen si riferisce.

Nel nostro caso, di “moderni guerrieri”, i pericoli cui incorriamo sono fortunatamente di livello nettamente minore, abbiamo la libertà, se lo desideriamo, di rivelarci agli altri, di raccontarci, di ascoltare racconti.
Ciò non toglie che la ricerca della piena consapevolezza resti il punto di partenza da cui ognuno dovrebbe muovere, per accettare e migliorare se stesso e per andare verso gli altri con serenità.
Per questo motivo non sarà quindi necessario al “moderno guerriero” uccidere il proprio spirito, gli basterà probabilmente arrivare ad accettarlo fino in fondo, a conoscerlo, amarlo e rispettarlo per quello che è: questo potrebbe indurre gli altri a fare altrettanto.
I principi primi cui il combattimento fa riferimento sono esattamente gli stessi che fondano qualsiasi tipo di relazione, partono dalla piena consapevolezza di sé e della propria presenza, procedendo verso l’“altro”, passano attraverso l’ascolto, inteso nella sua accezione più ampia.
Il respiro, lo sguardo, la distanza e poi il contatto.
Dedicando piena attenzione al proprio corpo, all’equilibrio, al respiro, si eseguono movimenti semplici con rigore e concentrazione. Questo studio può proseguire per anni, e quando inizia ad affinarsi può diventare una vera e propria arte.
Le discipline marziali tradizionali hanno fatto così del combattimento un’arte. Al di là della specificità di ognuna di esse, il principio cui attingono si basa, in prima istanza, sulla ricerca dell’equilibrio. Con tale termine si intende, in questo caso, il significato più ampio che a tale condizione possa essere attribuito, dove mente e corpo aspirano al raggiungimento di una perfetta sinergia, dove pensiero e azione coincidono in maniera assolutamente consapevole.
Al di là degli strumenti che si decida di utilizzare, nessuno dovrebbe rinunciare a tale ricerca, che inizia dal “sé” per muovere lentamente verso l’“altro”. Non è importante dunque il grado di consapevolezza da cui si parte, sarà comunque diverso per ognuno, non è nemmeno importante il punto di approdo, che in realtà di per sé non esiste, in quanto può essere continuamente spostato.
L’individuo si appropria, riappropria, acquista, conquista un valore di unicità e rispettabilità, insito nel suo stesso “essere persona”, che scavalca ogni altro parametro esulando completamente da qualsiasi a priori.
A detta dei “maestri”, non esiste un’età giusta per cominciare la “ricerca”, quel che è certo, a detta di noi comuni mortali, infaticabili studenti, è che non basta una vita per “arrivare”.
Quel che davvero conta è il “do”, la via, il cammino. La meta siamo noi, ognuno sarà meta del proprio percorso, partirà da dove si trova e giungerà fino a dove saprà arrivare.
La ricerca dell’equilibrio, del “centro”, del pieno controllo, in statica così come in dinamica, partendo dalla stabilità e dall’instabilità del proprio corpo per giungere alla relazione con quello dell’“altro”: è questa la mia ricerca, la mia proposta, per quanto concerne l’area corporeo-relazionale.
Nell’affrontare un percorso marziale risulta indispensabile attribuire il massimo rilievo alla piena consapevolezza del proprio “esserci”: il qui ed ora è fondamentale. Poco o nulla contano la diversità, l’eterogeneità del gruppo di lavoro: quando i componenti avranno esplorato il proprio equilibrio attraverso l’ascolto del proprio corpo, entreranno in relazione con quello degli altri. La diversità in questo caso rappresenta anzi una preziosa opportunità, una nuova possibilità, per testare le proprie risorse, la propria capacità di cambiamento, di messa in discussione, di ascolto.
Ogni qualvolta le mie certezze vengono destabilizzate si apre una nuova prospettiva per trovare altri equilibri, possibilità ancora inesplorate.
Tutto questo si sviluppa attraverso un’esperienza fisica che contiene un’evidente valenza educativa.
Il corpo è un buon mediatore, spesso il praticante risulta talmente concentrato nella riuscita dell’esercizio che apparentemente non si accorge dell’importanza e della profondità del lavoro che sta svolgendo.
L’elaborazione dei dati acquisiti necessita di un tempo di “decantazione” e passa attraverso il ripetersi dell’esperienza, fino a quando la ripetitività del gesto improvvisamente svela il suo profondo valore, allora il gesto diviene consapevole e “pieno”.
Da qui risulta evidente come il controllo debba essere inteso come la totale consapevolezza delle proprie emozioni e non come negazione delle stesse.
Si è accennato a come i principi che sottendono il combattimento siano gli stessi che fondano qualsiasi tipo di relazione, partono dalla piena consapevolezza di sé e della propria presenza per procedere verso l’“altro”.
Il momento dell’ascolto risulta assolutamente prioritario, così come dovrebbe accadere per qualsiasi relazione sincera si voglia instaurare. Il respiro, lo sguardo, la distanza e poi il contatto.
Nel combattimento tutto si risolve in un unico tempo, il contatto è risolutivo.
Per giungervi si procede per gradi, i tempi si dilatano attraverso esperienze di contatto fisico sempre più intense che costringono il praticante ad allenare l’abitudine a un ascolto pieno e sincero, alla completa messa in gioco del proprio potenziale così come dei propri limiti.
In assenza di tali presupposti l’allenamento risulta inefficace, non ci sarà crescita né sul piano tecnico né su quello emotivo.

Questo tipo di ricerca, proposta all’interno di un contesto totalmente avulso da quello che abitualmente si trova nello studio di un’arte marziale ha offerto spunti eccezionali.
Gli allievi, in questo caso un gruppo eterogeneo di estrazioni disparate, con nessuna conoscenza nel settore, si sono sorpresi a mettere in gioco risorse del tutto inaspettate. La ricerca del centro, dell’equilibrio, della stabilità, il recupero, la perdita, la diversità, sono diventati il perno di un percorso individuale e collettivo. Paradossalmente la tendenza da parte di alcuni a rimanere ancorati ai propri schemi (fisici) si è manifestata prevalentemente da parte di coloro che risultavano più “strutturati” dal punto di vista cognitivo e “verbale”.
Abbiamo giocato, studiato, inventato, distrutto e ricostruito, trovato i limiti per poi superarli; abbiamo rotto gli argini e li abbiamo ricostruiti un po’ più avanti.
Gli “Esquilibri” sono diventati il nostro racconto, la nostra drammaturgia.

“Esquilibri” ha debuttato al Teatro Verdi di Genova nel novembre 2008 ed è stato ripresentato, all’interno del Convegno “Sperimentazioni” al Teatro Modena e alla Sala Mercato del Teatro dell’Archivolto di Genova nel maggio 2009.
Preziosa e insostituibile è stata la collaborazione e la partecipazione nelle fasi laboratoriali e nella realizzazione spettacolare dei colleghi GhianVescovi e Laura Dalla Dea, nonché l’indispensabile apporto tecnico di Alessio Panni.



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