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Autore: admin

Capire come difendersi

Quattro storie di vita contemporanea


Anni fa, ho trascorso un periodo di vacanza con un gruppo di amici handicappatiin un piccolo paese della campagna romagnola. Fu l’occasione per alcuni di loroper scoprirsi capaci di stare al mondo. Romano – indimenticabile amico, mortoanni dopo – andò tutti i giorni dal barbiere del paese per farsi fare la barba.
Andammo al mare, e qualche volta a vedere la gente delle località piùaffollate di vacanzieri. Una sera andammo al cinema a Milano Marittima: ciperdemmo nella folla, e i vigili ci aiutarono a ritrovarci per buona parte dellanotte. Ma tutto in un clima fiducioso e tranquillo, senza sentirci troppoosservati e non incontrando ostilità ma gentilezza normale, con persone piùaperte, cordiali e altre più desiderose di non legare. L’unico giorno infelicefu quando ci recammo in una città di cui non dirò il nome. A fatica riuscimmoa trovare un posto dove sederci per mangiare una pizza, invitati però a nontrattenerci molto. E ci arrivammo dopo aver invano tentato in altri locali.Venivamo invitati ad uscire con modi bruschi, magari aggiungendo la scusa chetutto era prenotato. Tornando al nostro paese in Romagna, ci dicemmo che avevamoincontrato della povera gente, in quella giornata. Ma che era stata una giornatautile per capire la realtà, che è fatta anche di gente immiserita – non miriferisco al conto in banca-e resa rozza dal meccanismo del
guadagno. Parlando con quegli amici, capii che per loro, come per tutti noi, èimportante conoscere la realtà, anche ielle sue parti sgradevoli. Come è importante non essere sopraffatti dalla grossolanità, dalla violenza delquotidiano, dall’arroganza dei piccoli e grandi prepotenti. Bisogna difendersi.E quella volta la nostra difesa fu cercare di capire insieme il perché di unagita nell’ostilità.

ACCETTAZIONE E NEGAZIONE

L’intreccio di ostilità e accoglimento, di legazione e solidarietà è nellarealtà. Un handicappato ha bisogno di vivere la realtà, e sarebbe imbrogliatose ci sformassimo di fargli credere che l’ostilità e a negazione non esistono.Però sarebbe più che imbrogliato se incontrasse solo ostilità e negazione.Credo che in ciascuno ci sono, più o meno mescolate e confuse, le duedimensioni; e la mia pretesa i che ci siano davvero tutt’e due, e non prevalgaun sentimento tutto moralistico di accettazione indiscriminata, o – peggiore manon troppo – la repulsione assoluta.
Qualcuno può provare un disagio che cercherò di comprendere. Supponiamo chesia partito dalla sua città per un luogo di villeggiatura, con lo scopoprincipale di riposarsi, divertirsi, cambiare abitudini per qualche tempo. Nelluogo di villeggiatura incontra un handicappato, o un gruppo di handicappati. Ildisagio è probabilmente dovuto al fatto che, senza averlo voluto e previsto, si sta esponendo a informazioni che rischiano diimpegnarlo su temi e problemi molto importanti, fondamentali. Il primo motivo didisagio è per questa "esposizione a informazioni". Il timore,strettamente collegato a questo disagio, è che le informazioni a cui ci siespone mettano in discussione in qualche modo le opinioni consolidate, forse leabitudini. Questa persona può dunque reagire al disagio cercando di convincersiche la presenza di quell’handicappato o di quel gruppo di handicappati non siagiusta né opportuna, che esso o essi non abbiano nulla da guadagnare in unluogo di vacanza che "esige" una certa normalità per essere goduto; eche "ci devono essere" altri luoghi, attrezzati e pensati apposta, pergli handicappati.
Tale ricerca di autoconvinzione può rinforzarsi per il fatto che il nostroipotetico personaggio ritiene di avere dei diritti in quanto ha lavorato, hamesso da parte dei soldi, e paga il periodo di ferie in vacanza. È un clienteche paga. E già dicendo questo, si capisce che potrebbe trovare alleanze ecomplicità in tutti coloro che da questo cliente, e da tanti come lui, traggonodi che vivere. Ho cercato di comprendere questo disagio, ma non posso dire diapprovarne le conseguenze che ho ipotizzato. Quindi non vorrei negare ildisagio dovuto all’esposizione di un’informazione, o a molte informazioni, chenessuno aveva previsto; ma vorrei anche tentare di sviluppare un diverso modo diprocedere e di elaborare il senso di disagio. Credo che, schematicamente, possopensare a due altre prospettive. La prima è di tipo esclusivamenteorganizzativo, e consiste nel cercare di organizzare la situazione in modo chela vacanza possa essere goduta tanto dal nostro personaggio che dagli imprevistihandicappati. È una prospettiva simmetrica: cerco di star bene io vedendo didare una mano perché stia bene anche l’altro. E tutto questo senza implicarsi ocoinvolgersi troppo, senza dover stringere un’amicizia che non era prevista eche risulterebbe forzata. Non mi pare una prospettiva da condannare, e forseevita; atteggiamenti rischiosamente demagogici.
La seconda prospettiva parte dal punto di vista che l’esposizione a nuoveinformazioni può essere interessante: si possono apprendere, con il minimosforzo, notizie sulla ricerca, sulla condizione dei servizi, sul rapporto fra salute e deficit, sulla bioingegneria, sullo sport el’handicap, sulla storia… È la prospettiva secondo la quale, anziché essereesposti passivamente alle informazioni inattese, si può positivamente accoglierle e capirne l’utilità. A prima vista, quest’ultima prospettiva sembraidealistica. Ho constatato che è reale, e che la sua concretezza si appoggia aldiffuso senso di insoddisfazione che molti provano nei luoghi di vacanza per ilvuoto in cui si trovano a vivere. Non dirò che la presenza imprevista di unvilleggiante handicappato diventa un motivo per trasformare la vacanza dainsulsa a vacanza di qualità: ma può essere una scoperta di qualcheimportanza, tale da consentire di saperne di più su molte cose.

QUALI SONO I COLPEVOLI?

Sicuramente vi sono atteggiamenti che devono essere chiamati con il loro nome,che è razzismo. Esiste purtroppo anche questa realtà, ma è la realtà dacambiare, da trasfomare al più presto. Andre Gide diceva che meno il bianco èintelligente e più il nero gli sembra bestia. C’è del vero. Ma è altrettantovero che a volte i veri colpevoli sono defilati e lontani, e gli scontri sisvolgono fra coloro che vivono realtà molto simili, tanto da far parlare di"guerre" tra poveri per contendersi una miseria, mentre altri possonosprecare indisturbati ricchezze che sono di tutti.
Un handicappato può essere vittima di razzismo. E può dunque essere uno deiprotagonisti dell’impegno contro il razzismo e le sue cause. Ho conosciuto unesempio positivo di questo impegno, e mi sembra utile proporlo in queste note diriflessioni che riguardano le vacanze. A Montreal ho conosciuto Luciana Soave,madre di un giovane handicappato "spina bifida". La signora Soave hafondato l’associazione multi-etnica per l’integrazione degli handicappati delQuébec (A.M.E.I.P.H.Q. – 91, rue St. Zotique est – Montreal, Québec, H2S1K7). Quando, poco più di dieci anni fa, Luciana Soave e la sua famiglia sitrasferirono dall’Italia al Québec, avvertirono immediatamente come ledifficoltà che ogni emigrato vive si moltiplicano per la presenza di unhandicappato: difficoltà a
farsi comprendere ed a-capire, difficoltà nel conoscere e nel servirsi delleopportunità che il nuovo paese offre, e tante altre difficoltà immaginabili.Montreal è una grande città popolata da tante comunità etniche: gli italiani,i greci, la comunità di lingua spagnola (di molti paesi del mondo, ma moltilatinoamericani, e fra questi molti cileni), la comunità portogese (anche quimolti latino-americani), la comunità vietnamita e quella cinese … Il primoobiettivo dell’associazione – di cui Luciana Soave è direttrice – èl’informazione. E non solo informazione sul paese che accoglie, ma ancheinformazioni sui paesi di provenienza. Per molti emigrati vi è una totaleignoranza di quelle che sono le condizioni sociali ed istituzionali del paesed’origine, e vi può quindi essere la convinzione che un eventuale ritorno possaessere la perdita di qualsiasi aiuto e di qualsiasi diritto. Chi avevaprogettato di godersi la pensione, una volta raggiunta l’età, ritornando alpaese d,’origine, ritiene di essere stato sopraffatto dalla presènzadell’handicap, e di dover rinunciare al proprio progetto. Avere informazionipuò voler dire decidere con maggiore libertà: forse considerare che un ragazzo cresciuto in un ambiente potrebbe perdere qualcosa a lasciarlo, siapure per andare a vivere nel paese dei suoi nonni e dei suoi genitori. Ma una buona informazione permette una scelta ragionata.Vi è un altro importanteaspetto che l’associazione deve considerare. Nella stessa associazione vi sonogruppi che avrebbero buone ragioni per non incontrarsi o per scontrarsi.Pensiamo soltanto ai cileni, fuoriusciti perché comunisti o presunti tali, edai vietnamiti, fuoriusciti per motivi opposti. Fra loro nell’associazione,,devesvilupparsi una capacità di reciproco rispetto e di convivenza. Si potrebbepensare che la valorizzazione della diversità è l’impegno fondamentaledell’associazione, e che l’identità di ciascuno non deve sentirsi minacciata daquella degli altri.
Sicuramente in luogo di vacanza si realizza rincontro di diversità (culturali,di abitudini, di gusti, di opinioni, di professioni, di provenienze, ecc.),fortemente attenuato dalla tendenza a selezionare i luoghi di vacanza secondol’appartenenza ad un gruppo sociale. Ma le diversità esistono, e l’esempiodell’associazione’
può essere un interessante motivo di riflessione, un motivo positivonell’impegno contro i razzismi che riguardano anche gli handicappati ma non sologli handicappati.

NON DIRE "NORMALE" SE PENSI "HANDICAPPATO"

Mi ha sempre colpito la vicenda di un giovane trisomico, o mongoloide, cosìcome è raccontata attraverso le conversazioni con suo padre (B. ÉCHAVIDRE,Débile toi-méme, Fleurus, Paris, 1979). Benoìt ha ventuno anni e, al momentoin cui vengono svolte le interviste che compongono il volume, lavora da circadieci mesi in un posto di ristorazione, in cucina. Fino a diciannove anni hatrascorso in un centro professionale isolato, in campagna, a quindici chilometridalla sua città. Il padre ricorda quel periodo dicendo che Benoìt daval’impressione di vivere due vite senza alcun rapporto fra loro e la cuigiustapposizione lo disorientava: una vita normale, nei fine settimana infamiglia; e una vita da handicappa-, to durante la settimana. Nel luglio 1976,la famiglia si è informata, facendo una piccola inchiesta, su situazioni diintegrazione, cercando di capire cosa accade in un altro paese, la Danimarca. E questo ha convinto che almeno un terzo, se non i due terzi di coloro che sonoconcentrati in luoghi segregati e isolati rispetto al resto della società,potrebbero essere inseriti nella vita normale. Nelle interviste emergono i temidell’amore, della solitudine, della morte, del divertimento ballando,dell’autonomia, dello scoutismo che ha vissuto positivamente, della poesia (aBenoìt piacciono molto le poesie di Prévert). Benoìt ha messo alla proval’autonomia in una maniera particolare: un sabato sera non è rientrato a casa,ed ha dormito in un albergo. Ha ripetuto altre volte l’esperienza, quasi perverificare se il suo stato di persona adulta e capace di scegliere autonomamentegli venisse riconosciuto. Ha potuto constatare che andando in un hotel eraconsiderato come ogni altro cliente, e questo lo ha certamente gratificato.
Vorrei riferire una breve conversazione fra Benoìt e suo padre, comeconclusione di queste note. Credo che si capisca molto bene, senza annoiare concommenti, la ragione della citazione (che io traduco per comodità) in rapportocon il tema delle vacanze, e forse del tempo libero in generale.
Pierre (il padre): Preferisci le cameriere. Perché? non ti piacciono gli altri?
Benoìt: Mi piacciono gli altri, ma non tutti. Non posso amarli tutti. Ingruppo, viaggiando, è lo stesso. 
P.: In Corsica? (in vacanza) 
B.: Si.
P.: Si. Ti dispiace che siano … come? cosa si dice? che cosa si pensa di loro? 
B.: Ve ne sono altri che sono handicappati. E altri che non lo sono. Questo misecca..
P. E tu, tu sei handicappato?
B. Oh no, io no. Ma non tanto. Ma un pò .
P. Si dice che sei handicappato? 
B. Non lo sono tanto, ma insomma … dicono no,ma pensano così. 
P. Pensano che sei handicappato? 
B. Si. Questo mi secca. Midispiace. 
P. Ti dispiace che gli altri pensino che tu sei handicappato? 
B. Vedi… non dicono niente davanti, ma pensano così dietro.
Forse Benoìt preferisce la cortesia che le cameriere rivolgono a tutti iclienti ed anche a lui, all’amicizia forzata in cui percepisce che si dice unacosa davanti pensandone un’altra dietro.

Iperprotezione? No grazie

La menomazione del figlio provoca soprattutto nella madre, un annullamento ditutti i progetti e di tutte le sicurezze createsi nei nove mesi di attesa etoglie ogni punto di riferimento identificatore in quanto i genitori si trovanoimprovvisamente di fronte a un’immagine di se che non riescono ad accettare.Questa possibilità di identificazione opera generalmente un rifiuto neiconfronti del figlio handicappato. Tale rifiuto viene mascherato e trasformatoin iperprotezionismo ma ciò non riesce a nascondere il grossissimo senso dicolpa che il genitore si ritrova poiché di fatto si ritiene colpevoledell’handicap del figlio.
Nella mia esperienza personale questi "meccanismi" generali si sonoverificati tutti a differenza che i miei genitori seppero del mio handicapsoltanto quando io avevo due mesi.
Fu una doccia fredda…, i miei genitori non sapevano minimamente cosa volessedire handicap.
Oltretutto lo seppero da un medico che non spiegò loro nulla: "guardi chesuo figlio non camminerà mai, non sarà intelligente, non potrà condurre unavita normale…, l’unica cosa da fare è di consultare uno specialista".
Cominciò così la trafila da uno specialista all’altro perché l’unico punto diriferimento che ai miei genitori rimaneva era la speranza; speranza di portarmi,nel limite del possibile verso la "normalità". L’handicap viene cosìconsiderato come una privazione, un qualcosa meno rispetto al normale, infattila gente comune pensa: "non può camminare", "non puòstudiare", "non può farsi una famiglia". L’handicap è vistosotto una luce negativa quindi l’handicappato è considerato solo come unapersona da dover portare a una condizione "normale". Ma qual è lanormalità? Chi la stabilisce? La nostra società ha costruito l’immaginedell’uomo "tipo": bello, intelligente, ricco, al quale ognuno deveconformarsi se. vuole essere accettato nel mondo. Ora, l’handicappato non puòassolvere del tutto a tale compito quindi o è da nascondere o è da compatire!Questa mentalità comune non fa altro che suscitare insicurezze e frustrazioninon solo da parte del portatore di handicaps ma anche dei genitori. Riguardo aqueste ultime cose, ritengo di essere stato molto fortunato perché fin dapiccolissimo, i miei genitori mi hanno trattato come un qualunque genitoretratta un figlio che ama. Fondamentale è stato per me il sentirmi stimato edaccettato per quello che ero e non per quello che potevo diventare, il sentireche non facevano distinzione tra ciò che sono fisicamente e ciò che sonoinferiormente. Per loro ero Claudio e non Claudio-handicappato. Ricordo che nonsi sono mai vergognati di portarmi fuori, in mezzo alla gente: ai giardini agiocare con gli altri bambini, a guardare le vetrine dei negozi, al ristorante,e la domenica o a fare qualche lungo giro in collina o al cinema. Nelle vacanzepoi, si andava in montagna oppure al mare a prendere il sole sulla spiaggia e afare il bagno. Mi parlavano in continuazione, facendomi partecipe dei loroproblemi e delle loro gioie. Quando si trattava di fare delle scelte, nondecidevano mai per me, questo perché avevano rispetto di me in modo assoluto.Hanno cercato, fin da quando iniziai ad andare a scuola, a rendermiindipendente, ero responsabile delle mie azioni quindi nelle situazioni critiche(litigi coi compagni, rimproveri da parte dei professori) non prendevano semprele mie difensive, pur interessandosi di quello che mi succedeva al di fuoridelle mura di casa, lasciavano che i miei "nodi" li sbrogliassi dasolo. È importante, a mio avviso, che i genitori non prendano il posto delfiglio perché possa maturare responsabilmente.
I miei genitori mi hanno sempre spinto ad uscire dalla piccola cerchiafamiliare, ritenendo indispensabile non solo il contatto con loro e con lascuola, ma anche con gli amici. Questo mi porta ad essere attivo e a prenderel’iniziativa. Sono stato sempre attorniato da amici un po’ per il mio carattereestroverso, un po’ per l’affabilità degli altri. Vorrei sottolineare chel’avere amici o comunque contatti col mondo esterno, comporta necessariamente unatteggiamento quanto mai attivo e una grande disponibilità a fare il primopasso. Spesso purtroppo, capita che nella famiglia di un disabile ci sia ungenerale atteggiamento di vittimismo… come se gli altri debbano riconoscereloro aiuto e "amicizia". Proprio qui nasce la compassione: un’arma adoppio taglio che realizza le aspettative immediate (contatti con gli altri) mache crea falsi rapporti e quindi frustrazioni.
Per cambiare questa cultura sbagliata non bisogna quindi partire dalla societàma da noi stessi, lasciandoci gestire da colui che ci ha desiderati e amaticosì come siamo, e qui vorrei rivolgermi soprattutto agli handicappati e alleloro famiglie, lo credo che il problema non sia nella diversità bensìnell’accettarsie nell’amarsi così come siamo stati creati, che non è rassegnarsi, ma scoprireche in ognuno di noi c’è un piano prestabilito e meraviglioso per realizzarenon solo noi stessi ma il Regno di Dio. All’inizio, anche io ero succube diquesta immagine poi, attraverso la testimonianza di altri, ho compreso la suafalsità e ho scoperto la strada per non lasciarmi schiacciare da essa,intravedendo la possibilità di essere libero nella diversità. Questocambiamento di vedute, ha trasformato la mia vita familiare. Infatti cinque annifa abbiamo intrappreso insieme un cammino spirituale con un padre gesuita, maquello che più mi preme dire è che non avrei mai pensato di poter condividerecon mia madre gli stessi ideali e le stesse speranze. Da qui con alcune giovanicoppie, maturò l’idea di formare una comunità. In questo modo veniva alleviatouno dei più grossi problemi che il portatore di handicaps deve affrontare: il"dopo famiglia".
Ormai convinti di tale progetto comprammo una grande casa nella campagnabolognese. Da quel momento gettammo le basi concrete della comunità che sento,con intensità crescente, come inno di lode e di gioia, infatti l’abbiamobattezzata col nome Maranà-Tha (vieni Signore nostro).

Handicap, religione e alienazione

La mistica della sofferenza credo trovi nell’handicap uno dei suoi terreni piùfavorevoli e questo porta in molti casi a una visione mistificante e alienantedell’esperienza religiosa. Le radici di questo, credo siano molto profonde evadano ben al di là del pietismo da beghina di parrocchia o del solito"offri la tua sofferenza al Signore".
Non ho mai organizzato questi argomenti e mi accorgo di come sarebbero preziosicerti strumenti culturali, ma mi piace correre dietro ai flash che mi vengono inmente, anche perché mi sembra di vedere un filo comune fra tante realtàodierne e la storia, recente e lontana. Streghe al rogo, Rupe Tarpea, i"pazzi" della Grecia classica, gli storpi davanti alle chiesedell’Assisi di San Francesco, le folle di Lourdes, molte interpretazioni dipassi del vangelo, forse anche Pinocchio, animano questi paesaggi dove il divinoe il diverso si incrociano ripetutamente nel male e nel bene.
L’alienazione, se la si può ricollegare agli esempi citati, va quindi cercata ecapita certamente anche nei saggi, ma anche nella storia di ognuno di noi, nellenostre buchette della posta, nelle interrogazioni alla "dottrina",nelle processioni che non guardavamo perché cala-mitati dalle bancarelle deigiocattoli, nelle, per me, mitiche "orfanelle" che non riuscivo mai avedere andando su per San Luca a Bologna con mio nonno. Mi sembra che uno deipossibili fili che legano questi esempi sia quello che queste persone eranoessenzialmente de1 "tramiti", delle occasioni di incontro ravvicinatocol divino. Bruciare la strega era bruciare il male nella sua incarnazionefisica, era bruciare il non-dio che è altrettanto necessario del dio perspiegare la presenza del divino; analogo discorso, anche se con caratteristichediverse, si
Gli storpi di Assisi erano necessari perché Dio potesse vedere la carità deiricchi, e se la carità la facevano davanti a casa sua certamente l’avrebbevista meglio. Anche gli zoppi e i ciechi del vangelo possono essere letti inchiave di tramite, se il miracolo è letto come dimostrazione di una potenzaesterna al miracolato.
E anche Pinocchio è il tramite per i bambini per capire che tra le pressionidel diavolo (il lupo e la volpe, mangiafuoco) e del divino (fatirta) è benescegliere le ultime. Per quanto riguarda Pinocchio, oltre alla vasta letteraturaesistente, è interessante leggere la parte de "La speranzahandicappata" (C. Padovani, ed. , Guaraldi) in cui si fa accenno allafavola.
Essere diversi equivale spesso ad essere vissuti come dei tramiti: dellepresenze demoniache per incutere paura o delle presenze angeliche per redimeree spingere sulla buona strada. Si è sempre in vetrina, mai venditori nécompratori. E stando in vetrina per i "sani" esiste solo il tuobisogno di aiuto, e il loro dovere, sottolineo dovere, di aiutarti. Nella vetrina c’è la tua sofferenza e il cristiano èreduce dalla montagna dovegli è stato detto: "beati coloro che…". Per i sani c’è il tuoessere eterno bambino, e si sa che i bambini "… sono creatureinnocenti".
A volte ancora si è in vetrina, vestiti di sensi di colpa (degli altri) eallora la punizione divina (la nascita di un figlio handicappato) la sibutterebbe volentieri a volte giù dalla finestra.
Ecco allora che la dimensione religiosa si riempie di sofferenza e non lasciaspazio alla gioia, si riempie di doveri e non lascia spazio alle scelte, siriempie di colpe e non lascia spazio al perdono (nel nostro caso il nonpercepirsi come autori di un prodotto deteriorato), si riempie di punizioni enon lascia spazio alla comprensione e alla speranza (dove comprensione significanon annullarsi nel figlio venuto male e occuparsi anche di se stessi, e speranzasignifica non esaurire in quel venuto male tutta l’ipotesi di vita per quelfiglio).
Per chi sta in vetrina come vanno le cose? Storicamente è il mondo cristianoche si è occupato della sofferenza e quindi, volenti o nolenti, nella vetrinaci si è sempre stati. A tanti è stato detto di offrire la loro sofferenza alSignore, e quindi qui niente gioia da offrire; ad altri, di salire sui treni diLourdes e quindi di aspettarsi il miracolo ( = potenza esterna); ad altri, diaccettare la sofferenza e pregare quel Dio "… che aveva volutocosì" (in un certo senso la causa della propria sofferenza); ad altri, disublimare se stessi nell’amore spirituale, che tanto, essendo loro "cosìsensibili…", si sarebbero trovati senz’altro benissimo. Accettare ilproprio handicap non significa adattarvisi passivamente e filtrare ogni propriaesperienza attraverso il fatalismo, ma strutturare una propria identità di cuianche l’handicap fa parte e offrirla agli altri in un cammino comune, in cuiognuno veda riconosciuta la propria dignità di persona unica e irripetibile. Ladiversità è un dono del Signore.

In questi 20 anni

Ho fatto molti traslochi e non sono riuscito a ritrovare i dati del ’67/’68 diquando, cioè, ho cominciato la mia attività. Ho fatto a mente un elenco dellestrutture. C’erano: Villa Torchi e Villa Amati per gli insufficienti mentali eper gli handicappati psichici, c’era Villa Getzemani per i Down; c’era VillaSerena ancora per handicappati psichici, c’era Villa Teresa per le paralisicerebrali, c’era la scuola speciale del Lazzaretto per i caratteriali, c’eranodue Istituti; a Bologna c’era un tessuto di istituzioni per l’intervento neiconfronti dei bambini e dei ragazzi con una serie di problemi. Quindi il puntodi partenza, per quello di cui io posso essere testimone, è questa rete diistituzioni; il punto di arrivo provvisorio, nel senso che poi la storiacontinua è di scomparsa delle istituzioni speciali, di realizzazione di unapolitica di inserimento; ci sono dai nidi alla media, nella fascia da O a 14 anni circa, 512 bambini e ragazzi inseriti nelle struttureeducative a Bologna; ci sono 105 persone nei Centri di formazione speciali, cisono 71 persone assistite nei Centri per gravi. In questi 20 anni ci sono statetante dispute ideologiche e tante cose fatte; è abbastanza difficile, secondome, fare un bilancio, pesando sui due piatti le dispute da un lato e le cosefatte dall’altro; credo che il filo conduttore significativo, al di là dellediverse posizioni di ciascuno, sia stato quello di aver lavorato per renderepalese una condizione occulta. Credo che in questi 20 anni si sia messo in motoun processo che non ha certamente reso Bologna più accogliente ma certamente hamesso in moto gli handicappati, le loro famiglie, gli operatori dei servizisanitari, gli operatori scolastici, quindi una parte dei ‘carciofi’, e tutti glialtri ‘carciofi’ che non sono operatori; gli operatori sono una razza particolare di ‘carciofo’ forse un più pungenteperché abituata a difendersi. Si è messo in moto un processo materiale eculturale che ha implicato e continua ad implicare cambiamenti di condizione,comprese le condizioni materiali, e cambiamenti di mentalità.
Un processo non risolvibile soltanto sul piano dei servizi e delle modifichestrutturali, in quanto richiede anche un salto culturale che non si realizza unavolta per tutte e che quindi va continuamente riconquistato.
Credo che in questo processo abbia svolto un ruolo fondamentale, come ruolo diprotagonista in prima persona, un gruppo di portatori di handicap – che èquello a cui io sono più affezionato, perché appunto ho questo rapportopersonale che dura da 20 anni il cui operato io valuto così rilevante non perragioni emotive ma perché ritengo che con questo gruppo di handicappati, in cuil’handicap sostanzialmente consiste in un impedimento fisico, siamo costrettinon a discutere di "handicap", sull’"handicap", ma adiscutere con chi ha l’handicap. Abbiamo quindi spazi di fuga ideologica moltopiù ridotti, molto più circoscritti, perché in loro è pienamente consapevolela coscienza della propria soggettività come soggettività normale, e dellapropria oggettività come oggettività diversa.

Uno sponsor per l’handicap

Rispetto a tutto questo processo risulta determinante, alla fine, il ruolo delcampo culturale: delle correnti culturali, delle tradizioni culturali checaratterizzano
la scena su cui operiamo. In questo processo pesano, per un verso, lasensibilità, l’abitudine di tolleranza, la capacità di accettare il diverso eper altro verso, pesa la tendenza, invece, a privilegiare gli aspetti dellamassa normale e a dare espressione privilegiata, se volete, alle culture delconformismo. È un campo che permea le amministrazioni e chi ci opera a diversotitolo, le famiglie, gli operatori e gli stessi handicappati. È unaarticolazione del campo culturale che porta, per esempio, alcuni a sottolinearela socialità dell’handicap, l’handicap come fatto sociale; mentre porta altri,invece, ad accentuare il polo della privatezza e quindi a sottolineare comel’handicap sia un fatto personale, famigliare, lo penso che entrambe leproposizioni siano vere e che entrambe poi possano portare a trabocchettiideologici per un verso assistenzialistici. Portare all’estremo la posizione"l’handicap è un fatto sociale" può implicare che competa solo allasocietà organizzata in quanto tale a dare risposte, e tutte le risposte e peraltro verso a tipo chiusura, iperprotettività, chiusura nella privatezza.
Faccio adesso l’amministratore: e enuncio quelli che mi sembrano essere, oggi, iproblemi più importanti sul tappeto; sono legato all’infanzia ed allora vedo dipiù, per deformazione professionale in questo caso, i problemi delle fasce piùgiovani, ma sono pienamente consapevole anche dei problemi delle fasce piùmature d’età. Nel settore dell’infanzia credo che la questione cruciale, oggi,sia quella di mantenere l’opzione della integrazione scolastica, dando strumentidi professionalità, di esperienza professionale, più adeguati, di fronte adattacchi che passano attraverso l’economicismo della critica allo stato sociale ed attraverso ritorni di ordine culturale che,magari privilegiando aspetti di tecnologie della rieducazione svalutano larilevanza della socializzazione.
La seconda questione cruciale è, credo, quella di garantire degli standards di prestazione tecnologica, adeguati al livello di sviluppo delle conoscenzetecnologiche, attraverso l’organizzazione dell’Ausilioteca: è un obiettivo ambiziosoche, tra l’altro, vede come partners dell’ipotesi l’AIAS e il PresidioMultizo-nale della USI 27.
Terzo nodo, è quello di riuscire a superare un’ottica che si illuda dirisolvere assistenzialisticamente tutte le questioni di "offerta diopportunità". È frase circonvoluta che, vorrei tradurre in termini moltosemplici: io penso che dobbiamo perseguire, associazioni ed amministrazioni, unapolitica che riesca a coinvolgere tutte le forze della società, comprese quelleeconomiche, nel problema di fornire maggiori opportunità a chi ha limitazioni.Dobbiamo quindi riuscire a costruire, secondo me è un problema politico, un sistema misto di offerta di opportunità; vale, per esempio, perl’ambito della fruizione culturale in genere; non vedo perché anche in questosettore non si debbano incalzare forze economiche per sponsorizzare una seriedi iniziative. Pongo una ultima questione che mi sembra la più importante:quella di riuscire a mantenere in piedi un sistema che valorizzi le capacità diprodurre. Questo è un discorso che nel settore dell’handicap vale in piùambiti; cito tre esperienze di cooperazione produttiva: quella che porta avantil’Anffas, per esempio "Azzurroprato"; e quelle che si sono realizzatein questi anni, con ottimi risultati anche se poco conosciuti, da parte di exdegenti dell’ospedale psichiatrico, presso l’Area autogestita e nel Laboratoriodi Tessitura della Area autogestita. Infine, esperienze di produzione culturaledi altissimo livello come nel caso della Biblioteca Tamarri-Fortini, che si sonodimostrate in grado di produrre cultura, di produrre strumenti di comunicazione;cosa che magari 20 anni fa, né io né altri avremmo pensato possibili.

È facile gridare allo scandalo

"Meglio che niente" è l’espressione che per prima mi è venuta allamente leggendo le interviste e i commenti all’inchiesta su handicap eprostituzione.
"Meglio che niente" sembra una frase dettata dalla superficialità,dal facile compromesso come filosofia di vita, e spesso infatti diventa uno"stile" nella quotidianità di una persona con handicap. Gli ambiti incui questo stile detta legge sono talmente frequenti che, ribaltando ilproblema, sarebbe interessante scovare situazioni di vita in cui la personahandicappata non sia, per definizione, quella che deve accontentarsi.
Tornando in particolare sul tema, che evidentemente mi porta a deviare…, sipuò scoprire che realtà come quella della prostituzione hanno inaspettatamentepunti d’incontro non troppo artificiosi col mondo dell’handicap, anche se, messain questi termini, è facile gridare allo scandalo.
Ma, in fondo, non penso che le grida saranno mai troppo alte, in fondo "amali estremi, estremi rimedi"; così si dice e così diventa una soluzionepossibile, pensare alla prostituzione come risposta alla domanda di un rapportoaffettivo o sessuale di chi è handicappato. Il tema facilmente potrebbeallargare il campo su altri aspetti della diversità e troveremmo che lesoluzioni non si discostano di tanto.
Fin qui nulla di nuovo: la domanda iniziale "Esiste uno specificodell’handicap nel fenomeno della prostituzione" forse avrebbe già trovatouna risposta adeguata, probabilmente già scontata in partenza. L’handicap, cometema troppo spesso sotterraneo e di pochi, non rappresenta in fondo che unadelle tante facce di un isolamento affettivo molto più diffuso e generale.Così anche per la prostituzione, che normalmente è un aspetto ritenutodistante e diverso e che poi si scopre molto più conosciuto e vicino.
E allora, dov’è il problema? Il dubbio che in definitiva non esista, o che iltutto faccia parte di una falso problema, come spesso viene definito il temadella sessualità quando rapportato all’handicap, è legittimo. E allora i contitornano… peccato che dietro le sigle "A", "B","C", e potremmo tranquillamente arrivare in fondo all’alfabeto, sinascondano persone che sulla propria pelle, e quindi anche sul proprio corpo,vivono i segni tangibili di questo isolamento. Il compromesso, il "meglioche niente", come unica opportunità è molto spesso la chiave comune almondo dell’handicap, a quello della prostituzione e alle persone che abitano inquesti mondi; compromesso per esistere, per sentire, per "sentirsiuomo" come sottolineano alcune interviste. E le donne con handicap? Cosahanno a che fare con una simile soluzione, dove sta per loro un compromesso?Nessuna nota di rivendicazione. Forse solo un altro punto interrogativo: chiscrive è "pur sempre" una donna. E così fare un commento conclusivoad un lavoro che ha avvicinato l’handicap alla prostituzione diventa facile edifficile allo stesso tempo: dipende, guarda caso, dai punti di vista, dai panniche ciascuno desidera rivestire. Allo stesso modo può esser facile e difficileascoltare il racconto di chi, a vario titolo, testimonia le proprie personaliconvinzioni aspettandosi quasi inevitabilmente un giudizio. Il viaggio puòanche concludersi qui e una strada possibile diventa quella di riconoscere ilrischio che facilmente si corre nel frammentare i significati, dimenticando lastoria che comunque costituisce lo sfondo di ciascuna persona

Doctor H

Come potrebbe essere, più in concreto, il vissuto degli handicappati
all’interno dell’Università? Quale i suo rapporto con le strutture, i compagni,
i professori. Stefano Toschi racconta la sua esperienza.

Sono Stefano, dottore in Filosofia, lau reato dal 19 marzo 1987, handicappategrave in una città che si vanta d’essere all’avanguardia per quello cheriguardi l’handicap e che sotto certi aspetti lo è. Il mìo ambiente familiaremi ha indiriz 7atn fin ria ninrnln a considerare importante l’aspetto intellettuale della mia personalità vista anche la gravita delmio handicap che non mi permette nemmeno di poter sfogliare autonomamente lepagine dei libri, per cui terminati gli studi liceali mi sono iscrittoall’Università nell’ormai lontano 1980. Nella scelta del corso di laureainfluirono motivi contingnti come il fatto che alcuni amici avevano optato peril corse di laurea in Filosofia, mentre io avre preferito quello in Storia.Quindi, per ragioni tecniche come accompagnamento e spostamenti da una lezioneall’altra, fui quasi costretto a scegliere Filosofia. Una decisione di cui orasonc molto felice, ma che allora mi faceva ur po’ paura.
Una volta deciso l’indirizzo degli studi è iniziato il confronto con ledifficoltà tecniche ed oggettive che ostacolavano la mia lebera frequenza allelezioni. Per es. ho dovuto cambiare il piano di stud del 1° anno perché lelezioni di Letteratura Italiana si tenevano in un’aula inagibile per portatori di handicap a causadelle barriere architettoniche. Così per un gradino in più o per un ascensorein meno ho dovuto cancellare l’esame di Letteratura Italiana dal mio curriculumdi studi.
Il primo anno io ed Andrea Tinti, un amico e collega sia nell’handicap che neglistudi, seguivamo insieme le stesse lezioni dato che così era più comodospostarci da un posto all’altro essendo accompagnati dalle stesse persone,mentre, verso la fine dei nostri studi, quando ormai avevamo preso confidenzacon il mondo universitario seguivamo ognuno le lezioni che ci interessavanomaggiormente essendo riusciti a far combinare gli orari delle nostre lezioni conquelli di alcuni nostri amici disponibili ad accompagnarci all’Università.Inizialmente credevo che per sostenere un esame fosse necessario frequentare lelezioni mentre poi ho capito che il meccanismo era diverso: bastava accordarsicol professore sul programma da portare per sostenere l’esame e quindi ci sirivedeva il giorno dell’esame. Questo discorso però è valido solo per lefacoltà umanistiche, dato che nelle facoltà scientifiche la frequenza allelezioni è quasi sempre fondamentale per potere sostenere gli esami. All’inizio,quando lo studente è una delle tante matricole, ad usare questi accorgimentinon ci si pensa nemmeno ma poi tutto ciò diventa naturale, si entra inconfidenza con qualche professore, magari quello con cui si sosterrà la tesi, eallora qualche barriera si assottiglia e le difficoltà diminuiscono. L’esempiodi un altro studente handicappato grave che prima di noi si era iscrittoall’Università,Luca Pieri, per me è stato molto importante, dato che se ci riusciva lui asuperare le molteplici difficoltà dell’esperienza universitaria perché nondovevamo farcela noi?
Un altro dei problemi che ho dovuto affrontare è collegato direttamente al mio handicap: ossia le mie difficoltà fonetiche. Se queste difficoltà nonsi presentavano particolarmen-te durante le lezioni, ecco che il problema siripresentava puntuale ad ogni esame.
Infatti ho sempre avuto bisognon][SIZE=5][COLOR=navy][B][COLOR=black][FONT=Arial]??[/FONT][/COLOR][/B][/COLOR][/SIZE][/FONT]
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[FONT=Times New Roman][SIZE=5][COLOR=navche succede durante l’esame, e questo è vero perqualsiasi studente, handicappato o non handicappato.
Altri invece si preoccupavano nel vedermi sudare durante l’esame e mi chiedevanose non volessi fermarmi un po’ a riprendere fiato non capendo invece che quandosono concentrato e parlo è naturale che sudi, mentre fermarmi è negativoperché come qualsiasi altra persona mi deconcentro e perdo il filo deldiscorso.
Alla distanza di un anno dalla tesi riguardando questa esperienza posso dire cheè stata positiva sia per le cose buone che ho visto e sia sopratutto perché hoimparato ad affrontare e vincere le difficoltà che mi si ponevano di fronte,cioè i problemi legati sia al mio handicap specifico sia ad alcuni aspettiumani e tecnici, di cui abbiamo parlato, dell’Università.
Ho scritto queste cose e molte altre ne avrei da scrivere, ma l’intenzione diquesto articolo è soprattutto quella di dimostrare che un disabile, fra milledifficoltà, può arrivare all’alloro ed essere Doctor H.

Prostituzione: una proposta inaccettabile?

Partendo dal presupposto che in qualsiasi contesto culturale, almenooccidentale, l’handicappato ha sempre avuto grosse difficoltà ad esprimere lapropria sessualità, e quindi è stato per così dire costretto a ricorrere alla"puttana del villaggio", cerchiamo adesso di capire se e in che misuratale fenomeno è valido ancora oggi come fenomeno abituale. Nel fenomeno dellaprostituzione esiste o no uno "specifico" dell’handicap?Ovvero, imotivi che portano una persona handicappata, ad avere rapporti con prostitute ela relazione con esse, operano in un contesto particolare riferibile solo allapersona handicappata fisica o possono essere generalizzati anche per le altrecategorie di clienti non disabili? Cerchiamo indirettamente di rispondere. Quasiimmancabilmente nei convegni e nelle sedi in cui si parla di handicap esessualità emerge puntuale la problematica che vede l’handicap legato quasi afilo doppio con la prostituzione. Del resto i luoghi comuni che si riferisconoalla figura del cliente della prostituta lo mostrano spesso come un individuocon forti problemi psicologici o difetti fisici.
Per motivi di spazio e tempo abbiamo limitato la nostra piccola indagine alcampo dell’handicap fisico lasciando scoperto tutto quel filone assai complessoche è la diversità psichica. Non è molto il materiale che siamo riusciti araccogliere sul tema e siamo stati costretti a "crearci" i datitramite delle interviste da noi elaborate, diverse a seconda delle categorie dipersone interpellate. Abbiamo individuato tre categorie: persone disabili, operatori/educatori e, infine, prostitute. I tre soggetti socialimaggiormente coinvolti, nonché interagenti tra loro. I limiti del nostro lavorosono fondamentalmente due: il primo si riferisce al genere di personehandicappate intervistate che ha come principale caratteristica un livelloculturale medioalto, sono quasi tutte persone ben inserite nel contesto sociale;il secondo, collegato al primo, è il numero ridotto di persone intervistate.

Le persone con handicap

Ogni persona da noi intervistata vive una propria situazione di rapporto con sestesso e con il mondo, che traspare dalle risposte date alle varie domande. Ilprimo gruppo di domande verte sul modo in cui gli intervistati vivono ilrapporto con l’altro sesso. Dalle risposte emerge una varietà diatteggiamenti: "A" giudica abbastanza buoni i suoi rapporti conl’altro sesso, con il quale però riesce ad avere solo rapporti di caratteresentimentale e sessuale; per "B" sembra che l’handicap non sia ungrosso ostacolo a questo fine. "C" mostra una discreta sicurezza neirapporti con le ragazze, ma al momento di instaurare una relazione’di caratterepiù intimo, puntualmente l’altra persona si tira indietro. "D" è uncaso atipico nell’universo dei nostri intervistati, in quanto pur avendo unrapporto di coppia vi ha rinunciato per motivazioni di carattere religioso.Questo fatto lo si può vedere anche nei rapporti che ha instaurato con l’altrosesso che sono di tutta tranquillità. Con "E" si entra in unaconflittualità molto accesa in cui la donna è vista allo stesso tempo comemeta e
come nemico. "F" attualmente è sposato, vive il suo rapportofelicemente anche se in passato aveva avuto esperienze relativamente tranquille."G" afferma di trovarsi abbastanza bene e di non avere problemi conl’altro sesso. Il secondo gruppo di domande tocca direttamente l’argomento,specifico dei rapporti mercenari; anche in questo caso emerge una varietà diatteggiamenti e risposte al problema. "A" dice: "Non sono andatoancora a puttane, qualche volta ci ho pensato, ma ho concluso che lasoddisfazione era solo sessuale e non affettiva… ma la cosa rimane una ipotesiaperta in futuro".
"B" afferma: "Ho preso in considerazione questa possibilità manon ci sono mai andato, perché non ne ho mai avuto bisogno, ho potuto sfogarmicon altre ragazze". Per "B" è meglio avere rapporti sessuali conla propria ragazza, anche se andare cpn delle prostitute può servire a sentirsipiù "uomo", nonostante l’handicap.
La risposta di "C" è molto conflittuale al suo interno, nel senso chepur non escludendo l’ipotesi, non la mette in atto per motivi etico-religiosi;del resto ci si rende conto che un rapporto mercenario non può certamentesoddisfare le proprie esigenze psico-affettive. Come "B" pensa checomunque possa servire ad affermarsi come uomo nella sfera sessuale e fisica."D" rifiuta in modo categorico l’ipotesi: "Non vorrei avere unamore barattato, l’amore è un valore più grande… e poi non risolve i tuoiproblemi, quando hai scopato sei daccapo". Con "E" si passa allaconcreta attuazione dell’ipotesi: ci va da otto anni,
una volta alla settimana accompagnato da amici. "Quando incontro una che mipiace più delle altre le chiedo dove abita, chi è, vorrei avere un piccolorapporto di amicizia, però è difficile… Ultimamente ho avuto una storia conuna ragazza carina ma dopo dieci volte mi ero rotto i coglioni, mi viene vogliadi cambiare, lo scelgo… Mi sento soddisfatto dopo il rapporto, senti di averefatto una buona scelta…".
"F" dice no: "Non mi piace, mi fa schifo, non mi basta come tipodi cosa, lo trovo molto riduttivo… Faccio fatica a separare il discorsoaffettivo da quello sessuale!". Per "G", "tutti quanti lohanno pensato, sì anch’io, per forza, se una persona non riesce a trovare unapproccio con l’altro partner… allora se li inventa, se li crea con la suafantasia… ma io non voglio, perché ci devo andare per forza, io quellasoluzione la rifiuto personalmente, con tutte quelle belle malattie che ci sonoin giro… Non è l’amore vero, è artificiale". Con "H" si tornaalla concretizzazione del rapporto mercenario: ci va da 10 anni con i soldi el’aiuto di amici. Ci va perché non ne può più di stare senza donne e dopo ilrapporto si sente scaricato. "Preferirei un rapporto normale, ma se ciònon viene continuerò". In ultimo a tutto abbiamo domandato cosa nepensassero dell’istituzione, come avviene in altri paesi, di apposite operatricisessuali per persone handicappate, operatrici anche con una adeguatapreparazione sul problema dell’handicap. Mentre "D", "F" e"G" rifiutano questa possibilità equiparando le operatrici sessuali adelle prostitute, gli altri giudicano favorevolmente la cosa anche se con sfumature diverse, in ogni modo certi problemi, come le esigenzeaffettive, rimangono.

Una prostituta

Questa intervista è stata effettuata in casa della professionista. È stataresa possibile dalla mediazione di una terza persona che l’ha realizzatamaterialmente. È l’unica testimonianza del genere che siamo riusciti araccogliere.
D. Le è mai capitato di lavorare con una persona handicappata fisica?
R. Si, ho due utenti fissi da quindici anni, uno accompagnato dal padre e unodall’operatore.
D. Che tipo di emozione le ha suscitato il suo primo rapporto con una personahandicappata?
R…. con lui (si riferisce all’operatore che ha mediato la nostra intervista,ndr) avevo una conoscenza profonda di fiducia e affetto perché mi aveva risoltoproblemi pratici di ricovero in Istituto per alcuni miei bambini… di frontealla sua richiesta di prestazioni per rallegrare qualche ragazzo che non avevamai avuto delle donne, ho ritenuto di provare, come maestra. In un primo momentol’operatore mi ha umiliato dicendo che avrebbe pagato il servizio, lo lo facevoper fargli un favore. In seguito conoscendo i ragazzi ho avuto meno problemi.
D. Che tipo di prestazioni ha di solito? Come sono i preliminari?
R. Li metto a loro agio, si deve sempre parlare, il tempo è molto più lungorispetto agli altri clienti. Lavorando in casa, nell’attesa, li faccioaccomodare in salotto dove c’è la televisione; poi sono a loro disposizione, lirilasso sul letto con massaggi vari mentre parlano dei loro problemi.
D. La persona handicappata le ha nai fatto confidenze sul perché la venga acercare? Per lei, perché viene?
R. Mi viene a cercare perché non ci sono donne che lo vogliono, le donne nonvogliono una scopata con l’handicappato perché gli fa schifo.
D. Nota delle differenze di comportamento nei suoi confronti tra una persona"normale" e una persona handicappata?
R. L’handicappato è più sensibile nei preliminari ed è molto pudico nellospogliarsi e nella prestazione. Anche se è molto svelto non ha problemi e nonchiede perché se gli metto il preservativo, non fa problemi come gli altri.
D. Ha dei rapporti extraprofessionali con loro?
R. No, sono tutti portati dall’operatore.
D. Cosa ne penserebbe di operatrici sessuali che lavorano in maniera specificacon persone handicappate?
R. Non sono competente, tutto andrebbe delegato alla disponibilità dellasingola persona, salvaguardando la sua situazione personale.


Gli operatori

Gli operatori sono parte attiva nell’eventuale rapporto tra persona handicappatae prostituta per quanto riguarda i problemi logistico-organizzativi (il contattocon la prostituta, il trasporto…). Naturalmente non sono solo gli operatori asvolgere queste funzioni, poiché come trapela dalla nostra inchiesta, moltevolte sono gli amici, o addirittura i familiari, a farlo. Abbiamo però sceltodi ascoltare gli operatori poiché il problema li coinvolge nella loroprofessione.
La sfera della sessualità è ritenuta da tutti gli intervistati come unproblema "aperto", un problema che li ha coinvolti più volte e a cuisi è fatto fronte con difficoltà e mancanza di mezzi. E che sovente li hacolti alla sprovvista. A proposito dell’uso della prostituta per risolvere le esigenze sessuali dei loro utenti, L dice: "non avrei impedimentimorali, fondamentalmente sarei d’accordo, cercherei però di salvare un po’ dicontenuto nel rapporto… comunque non potrei farlo con una persona (utente) checonosco a malapena, ci vuole un minimo di confidenza".
Aggiunge M.: "Individualmente queste sono cose difficili daaffrontare". In altri operatori ritorna la distinzione già incontrata trasfera sessuale e sfera affettiva, che in tale rapporto rimane comunque scoperta.In generale tra gli operatori c’è una certa disponibilità a sperimentare ognistrada che possa essere utile se non alla soluzione comunque a sollevare ilproblema.

Handicap in Camerun

QUESTA VOLTA PER LA RUBRICA "MONDO" ABBIAMO ESAGERATO: IL NOSTRO MONDO
È PER QUESTO NUMERO IL CA-MEROUN (AFRICA). GRAZIA MARINELLI HA UNITO L’UTILE AL
DILETTEVOLE E, ATTRAVERSO ALCUNE INTERVISTE, CI RACCONTA COME È VISTO E GESTITO
L’HANDICAP IN UNA CULTURA COSÌ LONTANA DA NOI.

Sono stata in Cameroun nel dicembre scorso.
Il Cameroun è un paese africano all’altezza dei Tropici, ora repubblica dopoessere stata colonia sia dell’Inghilterra che della Francia; è attualmente unodegli stati africani più sviluppati. Lo scopo del mio viaggio era quello diandare a trovare Sandra, una mia amica che lavora là da un anno e mezzo comevolontaria per l’organizzazione di volontariato Cooperazione Internazionale inqualità di terapista della riabilitazione.
Durante questo mese ho cercato di raccogliere più informazioni possibili sucome in questa cultura viene affrontata la tematica dell’handicap nei suoi variaspetti.
La situazione era per me abbastanza facilitata dal fatto che essendo anche iouna terapista, ho potuto lavorare insieme a Sandra per un paio di settimane neivillaggi intorno alla città di Sangmelima.
Mi è stato possibile venire a contatto con persone camerunesi e non che sioccupano di handicap ma, sia mentre ero all’interno della situazione che ora adistanza di un mese dal mio ritorno, mi rendo conto che è impossibile avere lapretesa di capire anche solamente qualcosa di una cultura tanto diversa dallamia.
Per questo non vi parlerò delle mie impressioni personali, confuse edisorganizzate, ma riporterò 3 delle interviste che ho fatto a persone chelavorano nel settore, dando così ad ognuno di voi l’opportunità di fare le proprie considerazioni.

INTERVISTA A NOUHOU SALI Agente sanitario di MOKOLO (Cameroun)
D:
Qual’è il tuo lavoro?
R: Agente di cure sanitarie primarie. Lavoro per un’organizzazione Canadese,sono in pratica un animatore che si occupa di aiutare gli abitanti dei villaggia far emergere i problemi reali ed individuare le possibili soluzioni ad essi,questo sia in campo sanitario che ambientale ed edilizio.
D: Hai contatti diretti con il settore dell’handicap nello svolgimento del tuolavoro?
R: No, non ho contatti diretti ma mi capita di vedere delle personehandicappate.
D: Quando si parla di handicap cosa si intende?
R: Handicappata è una persona che non è normale, non è formata, non si muoveoppure non vede etc.
D: Chi si occupa della persona handicappata? (famiglia, istituzioni o villaggio)
R: Di solito se ne occupa la famiglia; ogni tanto il ministero degli affarisociali manda delle carrozzine ma senza un criterio ben preciso.
D: Questi bambini frequentano la scuola pubblica?
R: Pochi frequentano la scuola e comunque solamente i portatori di handicapfisico e non psichico.
D: A tuo avviso perché accade questo?
R: Generalmente il problema è di tipo economico oppure è l’ignoranza deigenitori che li porta a credere che il bambino è sbagliato ed è quindi inutileche frequenti la scuola.
D: Come trascorrono la giornata i bambini handicappati?
R: Stanno in casa con la madre oppure giocano con gli altri bambini.
D: Sono accettti bene dagli altri bambini?
R: Si, sempre.
D: Quali sono le possibilità di inserimento nel mondo del lavoro?
R: Dipende; quelli che sono andati a scuola riescono a trovare un lavoro e amantenersi, gli altri generalmente cercano di arrangiarsi, alcuni fanno i sartio i parrucchieri oppure il piccolo commercio; altri ancora fanno i mendicanti.
D: Che tipo di relazioni sociali si instaurano generalmente con gli altri?
R: Sono accettati molto bene, si sposano, hanno figli e conducono una normalevita familiare. Molti uomini cercano di sposare donne handicappate perché dannomolti bambini.
D: Dal punto di vista culturale e/o religioso, qual’è la spiegazione che vienedata dell’handicap?
R: Non ci sono cose che spiegano l’origine dell’handicap, è Dio che l’ha fatto.Qualcuno dice che se ad esempio ad uno manca un piede c’è un motivo per cui Diol’ha creato così, perché altrimenti con entrambi i piedi sarebbe statopericoloso per gli altri. La famiglia comunque non centra niente in questodisegno divino.

INTERVISTA A DANIELA PINELLI, insegnante italiana.
D:
Di che cosa ti occupi qui in Camerun?
R: Insegno matematica generale al C.E.T.I.C. di Sangmelima che è paragonabilead una scuola professionale in Italia; è statale e dura quattro anni, ildiploma è falegname, meccanico etc.
D: Nel tuo lavoro hai contatti diretti con l’handicap?
R: Ho alcuni ragazzi handicappati, ma molto ,eno rispetto alle altre scuole.
Tutti gli alunni saranno circa 550, la maggior parte vengono da fuori, daivillaggi e quindi si devono arrangiare ed essere autonomi. Di handicappati ce nesono una decina.
D: Che tipo di handicappati?
R: Uno solo è in carrozzina, probabilmente un poliomielitico, altri 3 sonozoppi.
D: Secondo te perché sono così pochi?
R: Quello che mi hanno detto i ragazzi è che una volta uscito da casa tua deviarrangiarti, se tu sei handicappato, la struttura non è adeguata e la gente titratta normalmente, non usa accorgimenti, non ti spinge la carrozzina. Nonesiste considerazione dell’handicap dal punto di vista educativo. Ad esempio glizoppi sono esonerati dal fare ginnastica, ma le punizioni corporali le prendonocome tutti gli altri.
D: Che tipo di rapporto c’è con gli altri ragazzi?
R: Vengono accettati molto bene dagli altri; a volte hanno un soprannome tipo"lo sciancato" ma non viene usato con senso di derisione e anche ilragazzo handicappato la prende bene. Ci sono ragazzi zoppi che giocano comunquea calcio o fanno gli arbitri; le ragazze hanno attività meno movimentate. Indefinitiva direi che non c’è proprio alcuna differenziazione.
D: Dal punto di vista delle relazioni sentimentali e sessuali?
R: Non c’è l’isolamento che esiste in Italia, hanno le loro storie come tutti;parlando con loro mi sembra che sia nel sociale che nel privato siano benintegrati e non emarginati (e in questo senso si danno molto da fare), vivonocon gli altri.
D: Esistono in Cameroun insegnanti d’appoggio o programmi differenziati perl’handicap? Ad esempio fino ad ora
abbiamo parlato di deficit motorio, ma rispetto all’handicap di tipo psichico? 
R: Per quel che so io non esistono né insegnanti d’appoggio, né programmidifferenziati. Esiste solo una scuola per ragazzi sordomuti.
Nella mia scuola non ci sono ragazzi con handicap psichico e secondo alcuni mieicolleghi camerunesi non ne troverai mai nelle scuole, tranne forse nei villaggi,perché secondo loro per l’handicap psichico non c’è nulla da fare, sono venutimale e non vale la pena fare nulla per loro.
D: Ritornando alla tua scuola, per quel che puoi sapere, essendo una scuolaprofessionale, le possibilità di inserimento lavorativo dei ragazzi conhandicap sono buone?
R: Per quel che ne so io, per gli zoppi ad esempio, che fanno lavoro di officinao altro direi che le possibilità sono le stesse degli altri, per quelli incarrozzina invece che dovrebbero fare un lavoro d’ufficio di tipo commerciale,il problema è maggiore. Infatti la logica fondamentale qui in Cameroun è cheuno deve essere in grado di arrangiarsi, quindi se non ci sono le strutture nonè possibile svolgere delle attività. Qui l’handicap non è considerato; èuguale agli altri solo se è in grado di arrangiarsi, se nò è tagliato fuori.D’altra parte l’handicappato chiede aiuto solamente se ha assolutamente bisogno.
D: C’è qualcosa che vuoi aggiungere?
R: Si. La mia impressione è che qui l’handicappato sia molto più combattivo,non sente la tendenza ad isolarsi, fa tutto ciò che è in grado di fare.

INTERVISTA A ALESSANDRA PA-SQUI, terapista, italiana
D:
Da quanto tempo lavori qui?
R: Da 14 mesi.
D: Di cosa ti occupi?
R: Sono terapista della riabilitazione ir un centro privato per bambinihandicappati di proprietà dei Padri ConceziO’ nisti italiani e poi lavoro anchesul teni torio.
D: Che tipo di intervento attui in quest due settori?
R: Nel centro lavoro durante il periodc scolare, perché i bambini abitano Imentre per le vacanze tornano a casa Per alcuni di questi bambini mi occupc dirieducazione, per altri il centro è ur punto di riferimento per poter andare èscuola oppure stanno lì perché a casa genitori non se ne occupano.
D: Con che tipo di handicap lavori?
R: Sono tutti bambini poliomelitici tranne uno che è paraplegico, sono unatrentina, tutti in età scolare da 6 e 17 anni.
D: E sul territorio?
R: Ho iniziato un lavoro di ricerca de casi di handicap, villaggio per villaggiovisitando i bambini e spiegando ai geni tori che è possibile fare degliesercizi i casa o servirsi di un apparecchio oppu re mandare il bambino alCentro. Que sto tipo di approccio ha però avute scarsi risultati per diversimotivi: innanz tutto i genitori non sono terapisti quind non sempre eseguono gliesercizi cor rettamente, poi chi si occupa dei barn bini sono le donne che giàhanno une vita lavorativa durissima (dalle 5 di mal lina alle 7 di sera); infineil tipo di approccio (una donna bianca che arriva i chiedere di vedere ibambini senza ur discorso precedente di sensibilizzazione) non eracomprensibile. Successivamente ho cambiato il tipo di impostazione di questolavoro. Mi sono appoggiata ad un infermiere che già ai 5-6 anni si occupadella sanità in 17 villaggi ed ha sensibilizzato la popolazione, individuandoun agente sanitario all’interno di ognuno di essi e cercando di far vedere lacura dell’handicappate come facente parte del discorso sanitàrio. In questomodo è stato possibile anche iniziare un discorso di accettazione, socializzazione e scolarizzazione del bambino handicappato in quanto sirimane nel suo ambiente (il villaggio). Da qui anche il Centro ha cambiato lasua impostazione visto che si tende ad attuare un’integrazione nel villaggio,riducendo al minimo l’internato, al di fuori della costruzione degli apparecchie della rieducazione vera e propria.
D: Uscendo un attimo dallo specifico del tuo lavoro, che tipo di handicap siincontra in questo paese: motorio, psichico o sensoriale?
R: Al Sud ci sono soprattutto poliomelitici ed altri handicap di tipo motorio.La vaccinazione antipolio non è obbligatoria (come nessun’altra) e infatti icasi di pollo sono di meno nelle zone vicino ai dispensari (sempre gestiti damissionari occidentali). Al nord invece ci sono molti non vedenti perbilarziosi o oncocercosi che sono patologie portate dalla puntura di insettiche vivono nei corsi d’acqua soprattutto stagnante. Di handicappati mentali neho visti pochi in quanto nella maggior parte dei casi vengono tenuti in casaanche perché non vi sono strutture in grado di occuparsene.
D: All’interno dell’ordinamento sociale chi è che si occupa della personaportatrice di handicap?
R: Chi se ne occupa è il villaggio, in particolare le donne anziane, poi cisono degli interventi sporadici del Ministero degli Affari Sociali (e non diquello della Sanità) che da qualche sovvenzione o manda qualche carrozzina. Poici sono dei Centri di Rieducazione sia Pubblici che privati sempre intesi comeinternati. Questo accade al sud; al nord invece vengono istituiti dei corsi peri genitori ai quali viene insegnato come rieducare i propri figli.
D: Chi prepara questi corsi?
R: Generalmente ordini religiosi, quindi strutture private.
D: Per quel che riguarda l’accettazione dell’handicap a livello sociale,familiare etc?
R: È accettato come si accetta una cosa venuta male, ma in questaaccettazioneè sottinteso il fatto che l’handicappato se la deve sbrigare da solo. Non sipensa ad esempio alle barriere architettoniche o ad aiutarlo in alcun modo, devefarcela da solo; ad esempio se ne è in grado va a scuola camminando sulleginocchia o a carponi, ma raramente qualcuno lo accompagna. Però il fatto cheuno si sposti a carponi o altro non preoccupa nessuno, è quasi una cosanormale.
D: Esiste qui un discorso di emarginazione?
R: Non è un discorso di emarginazione voluta, però un handicappato avrebbebisogno di attenzioni diverse, strutture, scuole etc e queste non ci sono quindiè emarginato in partenza.
D: E l’inserimento con gli altri?
R: Gli handicappati fanno con gli altri quello che riescono a fare, non vienerifiutato ma è lui che, a seconda delle sue possibilità, si inserisce o menoin mezzo agli altri; se ha un piede torto ad esempio gioca a pallone con glialtri. Non viene rifiutato se cerca di inserirsi, ma nessuno fa comunque nullaperché questo avvenga.
D: Che mi dici dell’inserimento di tipo lavorativo?
R: II discorso è lo stesso, dipende dalle possibilità. Non esistono strutture,lavori protetti o altro. Molti fanno lavori d’ufficio.
D: Esiste una normale vita sentimentale e sessuale per il portatore di handicap?
R: La vita sentimentale è come quella di tutti gli altri e direi anche quellasessuale. Vi sono comunque grosse differenze tra quelli che sono gli interessidei maschi e quelli delle femmine, sono divisi in due gruppi distinti sin daquando sono molto piccoli. Le attività di tipo sessuale sono difficili soltantose la disabilità è molto grave: qui infatti una enorme importanza è rivestitadalla procreazione e soprattutto per le donne handicappate è difficile che cisia sterilità, quindi il loro ruolo fondamentale viene mantenuto.

È tutta colpa delle barriere

Le barriere architettoniche sono considerate dalla maggioranza dei docenti come
una delle cause che più hanno ritardato l’iscrizione di studenti disabili all’università.
ci è stato fatto notare come gli edifici non proprio recenti siano ricchi di
scale, passaggi poco agevoli, aule con banchi non praticabili da una persona che
debba rimanere sopra ad una carrozzella. Le cause di tutto questo? Spesso una
mancanza di volontà da parte dell’amministrazione che da sempre si è trovata a
dover rispondere in primo luogo alle esigenze che interessavano la stragrande
maggioranza degli studenti.


Un esempio di questa mancanza di volontà ci è stato riferito dal prof. Susiniriguardo alle ridottissime dimensioni dell’unico ascensore della facoltà diLettere e Filosofia. "Nella colonna montante che è situata a fiancodell’ascensore non è mai stato attivato un secondo ascensore perchél’amministrazione universitaria non ha mai stanziato la somma sufficiente, cheuna volta era di 2.000.000 mentre ora sarebbe notevolmente maggiore e così lacolonna montante nella quale poteva essere installato un ascensore più grandeè utilizzata come magazzino delle scope".
Il rettore Roversi Monaco ci ha detto che ormai il discorso delle barrierearchitettoniche poteva dirsi in via di risoluzione dato che dal 20.4.1988sarebbero partiti i lavori per l’eliminazione di tutte le barrierearchitettoniche da tutte le aule ed istituti dell’Unviersità (il testointegrale dell’intervista al rettore è stato riportata nel n° 1 diAccapar-lante 1988). Abbiamo cercato di verificare con i presidi di facoltà, con l’Istituto per i Beni Culturali, con la Soprintendenzaper i Beni Ambientali ed Architettonici e con l’Ufficio Tecnico dell’Universitàle dimensioni di questo progetto. I presidi di Facoltà alla nostra domanda sefossero stati interpellati relativamente a questi lavori ci hanno fornitosoltanto risposte negative, anche se ci è stato detto che l’amministrazioneuniversitaria e più propriamente l’ufficio tecnico potevano procedere anchesenza sentire il loro parere. Ma anche le persone più direttamente coinvolte da questo discorso come l’architetto Gremmo (Soprintendente ai BeniArchitettonici ed ambientali) non sono risultate a conoscenza di questo progettoper l’eliminazione delle barriere architettoniche. La Soprintendenza ha infattigiurisdizione vincolante sui palazzi storici che ospitano facoltàuniversitarie, come nel caso della facoltà di Lettere e Filosofia o delDipartimento di Italianistica, e quindi l’Università, in ogni caso, devepresentare il progetto dei lavori alla Soprintendenza.
A questo punto abbiamo preso contatti con l’organo competente allo svolgimentodi questi lavori, ossia l’Ufficio Tecnico dell’Università. Il capo serviziodell’Ufficio Tecnico ci ha detto che sono previsti lavori per l’adeguamento allenorme antiinfortunistiche ed anti-incendio e lavori per l’eliminazione dellebarriere architettoniche. Ora stanno vagliando i progetti presentati dallesingole ditte prima di distribuire l’appalto. I finanziamenti ci sono, però ilavori non partiranno senz’altro prima di settembre e non è detto che si mettamano subito alle barriere. Questa notizia da un lato ci fa piacere perchéconferma la volontà di eliminare le barriere architettoniche, d’altra parte cifa pensare alla leggerezza e alla eccessiva sicurezza con cui il Rettore harisposto alla nostra domanda cercando di fare apparire come immediato un progetto che vedrà la luce a circa un anno di distanza dallesue parole. L’unica cosa che vorremmo sperare è che non si paragoni le esigenzedi uno studente handicappato in materia di barriere architettoniche al pericolodi incendio o di infortunio.
Nel percorso obbligato di ogni studente universitario una tappa decisiva èrappresentata dalle biblioteche. Le tre biblioteche maggiormente frequentatedagli studenti dell’Università di Bologna sono la Nazionale Universitaria, (chenonostante il nome è sottoposta al Ministero per i Beni Culturali),l’Archiginnasio e la biblioteca di Palazzo Montanari (le ultime due dicompetenza comunale). Come tutti sanno queste tre biblioteche sono ospitate intre palazzi ricchi di storia e di barriere architettoniche su cui è difficile,anche se non impossibile intervenire. Questa mancanza di volontà la possiamoriscontrare ad esempio per la biblioteca dell’Archiginnasio. In questo caso ildott. Pisauri (responsabile dell’Istituto per i Beni Culturali) ci ha detto che"non sarebbe necessario porre un ascensore dentro il quadri-porticomonumentale, ma poiché l’Archiginnasio ha un altro ingresso in Via Foscherari,qui potrebbe essere installato un ascensore che condurrebbe in pratica dietro lasala di consultazione della biblioteca". Un modo per rendere accessibilialle persone disabili la quantità di informazioni contenute nelle bibliotechesarebbe quello di rendere operativo un sistema bibliotecario fra tutte questestrutture.
Ci spieghiamo meglio: per sistema bibliotecario la Legge Regionale 27.12.1983n° 42 (Norme in materia di biblioteche e archivi storici di Enti Locali o diinteresse locale – per ora ancora largamente disattesa) intende un collegamentoattraverso una rete di terminali collocati nelle diverse biblioteche, ad un elaboratore centrale checontenga basi di dati bibliografici comuni alle diverse biblioteche del sistema:insomma una sorta di catalogo unico computerizzato fra diverse biblioteche. Inquesto modo una biblioteca senza barriere potrebbe collegarsi con l’elaboratorecentrale e fruire delle informazioni contenute in esso. Questo sarebbe un primopasso per limitare i tempi della ricerca dei testi o dei documenti, sapendo conprecisione dove andarli a cercare. Il sistema non evita però il fatto didoversi recare in una biblioteca che può presentare barriere architettonicheper prendere direttamente il volume richiesto.
Negli ultimi anni tuttavia, ma con costi ancora proibitivi sia per il produttoreche per l’utilizzatore di questo genere di archivi, alcune iniziative sono stateprese in due direzioni e precisamente: la disponibilità di avere attraverso ilterminale il riassunto dell’opera desiderata e la possibilità di ordinaredirettamente dal terminale i documenti desiderati. È auspicabile che anche inItalia si arrivi a questo livello di automazione bibliotecaria, anche se per ilmomento questi possono sembrare discorsi quasi fantascientifici. Una soluzioneal problema delle barriere architettoniche che probabilmente risulta piùpraticabile e sicuramente meno lontana nel tempo di quella prospettata poc’anziè rappresentata dalle possibilità di intervento su quelle che sono le "situazioni inmovimento" a livello di biblioteche bolognesi. Come ci è stato detto daldott. Pisauri "nella stessa Bologna dovrebbe partire un grande progetto disistemazione a biblioteca della ex Sala Borsa dove verrebbe trasferita labiblioteca di Palazzo Montanari. È in questi casi che è più facileintervenire, laddove si progettino modifiche ai contenitori, che non a freddoottenere un intervento ad hoc su un monumento come l’Archiginnasio". Undiscorso analogo interesserà anche Palazzo Poggi (dove è sistemata labiblioteca nazionale universitaria) dove alcune sale saranno ceduteall’Università dal Ministero dei Beni Culturali, mentre altre sale resterannoadibite a biblioteca. È su questi lavori di ristrutturazione che è possibileprogettare anche una eventuale eliminazione delle barriere architettoniche. Edè a tal proposito che cercheremo di sensibilizzare a questa esigenza laSoprintendenza ai Beni Ambientali ed Architettonici e le autorità competentiallo svolgimento di questi lavori di ristrutturazione. In questo articoloabbiamo preso in considerazione l’Università nel suo complesso e cercato didescrivere quali sono le reazioni che provoca l’iscrizione di uno studentehandicappato fisico, ma l’Università è uno dei luoghi dove si produce cultura.Il passo successivo del nostro lavoro sarà proprio quello di vedere qualeimmagine dell’handicap offre la cultura universitaria.

Doctor H: un’altra esperienza

MI CHIAMO ANTONELLA  ED ANCH’IO, COME HA FATTO STEFANO TOSCHI NELLO SCORSO
NUMERO DI ACCAPARLANTE, PORTO COME ESEMPIO QUELLA CHE È STATA LA MIA
ESPERIENZA UNIVERSITARIA; MOLTO MENO POSITIVA DELLA SUA (NON SI È INFATTI
CONCLUSA CON UNA "LAUREA IN…") MA, FORSE PROPRIO PER QUESTO,
ALTRETTANTO VALIDA E SIGNIFICATIVA DI COME POSSA ANCHE ESSERE IL VISSUTO DI UNO
STUDENTE ALL’INTERNO DELL’UNIVERSITÀ. UNO STUDENTE "PARTICOLARE"
COME VEDREMO CHE NON È NATO "DISABILE" MA LO È DIVENTATO STRADA
FACENDO IN ETÀ ADULTA, CON TUTTI PROBLEMI CHE QUESTO COMPORTA SIA DI TIPO
FUNZIONALE E PSICOLOGICO CHE SOCIALE. IN PARTICOLARE AVENDO, COME HO IO, UNA MALATTIA CRONICA O PROGRESSIVAMENTE
INVALIDANTE, QUALE È LA SCLEROSI MULTIPLA.

Ritengo che l’Università riservi poche attenzioni, forse fin poco rispetto, peri propri studenti come dimostrano le difficoltà cui gli iscritti, soprattutto ifuori sede, vanno incontro ancora oggi nonostante tutti gli sforzi, i"buoni propositi" dell’Azienda Comunale per il diritto allo studiouniversitario (come attesta l’intervista di A. Canevaro ad A. Genovese apparsasempre sull’ultimo numero di Accaparlante). Così iscriversi all’Universitàancora oggi non vuole dire solo frequentare le lezioni e dare esami, comepotrebbe sembrare dall’esterno, ma vuole dire anche e soprattutto fileinterminabili in segreteria, file alla mensa, difficoltà a reperire unposto-letto ecc.; in poche parole inconrare tutti quei disservizi di cui una Istituzione (Università) è dotata. In mezzo a tutto questo bisognapoi il più delle volte anche "lavoricchiare" per potersi mantenereagli studi e gravare meno sulla famiglia. Questa è più o meno la situazioneche normalmente uno studente trova all’Università: un ragazzo o una ragazzacome tanti, con due braccia, due gambe, che cammina, salta, corre, sale escende scale, passa da un istituto all’altro in quel famoso "quarto d’oraaccademico". Una continua sfida giornaliera ad impiegare sempre meno tempo,ad escogitare e trovare vie più brevi, nella famosa "caccia ai posti inprima fila" – così il docente ti vede alle lezioni; insomma per intendercilo studente "normodotato". lo al primo anno di Università, facoltàdi Medicina e Chirurgia, ho avuto questo stesso tipo di esperienza e, strano adirsi e a credersi, mi piaceva e affascinava moltissimo questo aspetto delvivere da universitaria; certo potevo permettermelo! Il mio motto è semprestato, e purtroppo vorrebbe esserlo ancora, quel "meglio un giorno da leoni che…".
Ma ad un certo punto ti accorgi che qualcosa sta cambiando e vivi quel momento,nel mio caso non traumatico ma graduale, inesorabile e crudele, in cui avvienequel famoso "salto di qualità" della tua vita: giorno dopo giorno,anno dopo anno, ti accorgi di ritardare sempre più il "quarto d’ora"perché dopo pochi passi senti di doverti fermare, le tue gambe sono sempre piùrigide, pesanti, dolenti, malsicure. Ma l’aspetto era ed è ancora buono…
Questo, per intenderci, è lo studente "particolare" a cui facevoriferimento prima e, nel mio caso, ma cl Narrow][COLOR=blue]6. ???? ??? ?????? ??????? ???? –[COLOR=black]???????? ?? ?????[/COLOR]–.[/COLOR][/FONT][/SIZE][/B]

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82.194.51.232 82.194.62.22?;?Proprio per costruirmi questo "progetto di vita… fino ai massimi livellipossibili" penso oggi di poter tornare all’Università. Primo perchéritengo di avere ancora qualcosa da dire, di avere ancora delle possibilità perriuscire (cosa che non ho avuto a suo tempo) e secondo perché penso così dipotere sfuggire (con una qualifica migliore, con una laurea) alle liste dicollocamento cosiddette "protette"; questo per quanto concerne uneventuale lavoro che oggi "così come sono" non riesco a trovare (maquesto è un’altro angoscioso problema!). Mi chiedo però se l’Università possarealmente essere vista come una "opportunità di inserimento eintegrazione" per uno studente handicappato. Cosa fa l’Università adesempio, nei confronti dell’handicap? Cosa oltre a quello che viene riportatonel Bando di concorso per "interventi a favore di studenti portatori di handicap al fine di favorire(non sarebbe meglio dire "assicurare", come da Sentenza 3 Giugno ’87?)l’accesso all’istruzione universitaria? In tal senso esiste carenza soprattuttodi informazioni e se questo è un problema per tutti lo è ancor di più per undisabile. Le notizie che si riescono ad avere sono sempre frammentarie il che mifa pensare che un discorso di questo tipo non sia stato ancora affrontato o, perlo meno, non in modo corretto e confacente alle esigenze dei disabili. Adesempio mi chiedo come posso recarmi, oggi, a pagare le tasse, come posso andareda un’istituto all’altro per seguire le lezioni, frequentare le esercitazioni, ilaboratori, le cliniche o altro dal momento che la mia facoltà, come moltealtre, è per persone prive di handicap (o nomodo-tati se vi pare)?
Perché certe facoltà (Magistero, Scienze Politiche, Lettere… e poi?) sonopiù favorevoli ad avere fra i loro iscritti studenti handicappati? Accoglienzao tolleranza? Questo di fatto non realizza forse una ghettizzazione e unamancata (o meglio ridotta) socializzazione-integrazione?
Concludo ribadendo il concetto che tutto si può superare o sopportare o viveremeglio, persino malattie come la mia, e si riesce anche a convivere con essa e asorridere perché: "… un sorriso da riposo nella stanchezza,
rinnova il coraggio, illumina le ore buie…"
Mi disturbano sì le cosiddette "barriere architettoniche" (queste avolte a fatica, bene o male, riesco sempre a superarle) ma le "barriereculturali" mi disturbano ancora di più e per riuscire a superare anchequeste mi occorre molto più tempo e fatica.

Più diversi degli altri: parlano gli studenti

Per inquadrare nel modo più esauriente possibile le problematiche che derivano
dall’iscrizione di uno studente handicappato all’università abbiamo voluto
sentire anche i pareri di alcuni organismi studenteschi presenti all’università:
la lega degli studenti universitari, i cattolici popolari e un rappresentante
del collettivo studentesco di fisica.
Abbiamo interpellato soltanto un rappresentante di un collettivo pur sapendo che
in diverse facoltà sono presenti questi organismi: la scelta è stata
condizionata da esigenze di tempo e di spazio ed anche dal fatto che la persona intervistata non era del tutto estranea alla tematica in questione.
Un’ultima notazione metodologica: a tutte e tre le persone intervistate sono
state rivolte le stesse domande.


Cosa ne pensano gli organismi studenteschi dell’iscrizione di uno studentehandicappato? È una parentesi inutile dato che poi gli sbocchi professionalisono molto limitati, è un gesto di rivalsa di persone "sfortunate"nei confronti di chi è geloso della propria normalità, è dettato dalle stessemotivazioni degli altri 65.000 studenti iscritti all’Ateneo più antico delmondo e che ora mostra qualche ruga per i suoi 900 anni?
Per la Lega degli studenti universitari, ideologicamente legata alla F.G.C.I., ci ha risposto Vincenzo Codispoti, studente calabrese, con una forma didisabilità che però non gli preclude l’autonoma deambulazione e non siripercuote sulle sue capacità fonetiche. La Lega degli studenti universitaripensa che "il diritto allo studio universitario sia un sacrosanto diritto acui tutti i cittadini devono accedere, quindi anche i portatori di handicapdevono potervi accedere per una forma di realizzazione di sé stessi. Unostudente handicappato ha qualche cosa da dare come qualsiasi altro ed è quindigiusto che non venga frustrato nelle sue intenzioni. Le motivazioni per cui siiscrive non devono essere vincolanti: se per desiderio di rivalsa o per altroquesto dipende dalla scelta operata dallo studente handicappato. Su questonessuno può discutere. L’importante è che si assicurino gli strumentiaffinchè lo studente handicappato possa giungere al termine dei propri studiuniversitari".
Questo concetto è stato ribadito anche da Fabrizio Nerozzi del collettivo diFisica: "l’iscrizione di uno studente handicappato all’Università non sipuò considerare una rivalsa e neanche una cosa inutile. Questa può avere lestesse motivazioni di un qualsiasi altro studente. È un patrimonio culturale inquanto anche la persona handicappata è un componente della società. (…) Lasocietà deve occuparsi anche delle categorie cosiddette marginali perchéesponenti di un patrimonio culturale".
Per i Cattolici Popolari siamo andati ad intervistare Davide Rondoni,responsabile del settore università. Il suo parere riguardo alle motivazioniche spingono uno studente handicappato ad iscriversi all’Università nondifferisce di molto da quanto detto dagli altri interlocutori: "II primoerrore potrebbe essere nel cominciare a considerare la differenza dal punto divista intellettuale. Per cui tagliando cappati a livello di collettivi. Come componente del collettivo di Fisico possodire di no. Al momento ci occupiamo maggiormente del dibattito che ruota attornoalla scienza: la Scienza e il Disarmo, la non neutralità della scienza,ecc…".
Come sappiamo il peso politico dei Cattolici Popolari all’internodell’Università è molto rilevante e quindi era particolarmente interessantesapere se nei loro programmi avevano mai inserito la tematica handicap."Nei nostri programmi l’attenzione verso il disabile è incentrata piùverso l’Azienda per il diritto allo studio che non nei confrontidell’Università perché oggi il discorso sui disabili riguarda unicamentel’Azienda, all’Università lo studente disabile non è preso in conside-
razione. Noi abbiamo chiesto che i contributi in denaro erogati dall’Aziendavenissero aumentati e soprattutto diversificati per le varie forme di handicap.
Abbiamo chiesto che il 30% dei 70 miliardi destinati ai lavori edilizi perl’Università (adeguamento alle norme antincendio e antinfortunistiche n.d.r.)siano destinati ad opere per gli studenti, intendendo con questo sial’abbattimento delle barriere architettoniche, sia soprattutto la costruzione dinuove aule."
Sia i C.P. che la Lega degli studenti universitari quindi fanno dei richiami neiloro programmi alle difficoltà degli studenti disabili, anche se poi non cisembra che ciò abbia influito
sulle decisioni prese dall’Università o dall’Azienda per il diritto allostudio. Si è limitata ad erogare delle somme di denaro ritenendo così di averegià risolto i problemi. Forse i 2,5 miliardi di residui attivi nel bilanciodell’Azienda hanno appesantito e offuscato le idee al consiglio diamministrazione dell’Azienda stessa.
Questi che abbiamo raccolto sono pareri di alcune organizzazioni studentescheche operano all’interno dell’Università.
Ma a livello di organi decisionali il peso delle proposte studentesche è moltolimitato, forse anche a causa della scarsa partecipazione degli studenti allavita politica all’interno dell’Università.

Quale università per gli handicappati

Oggi è il direi tore del dipartimento di scienze dell’educazione dell’università
di Bologna ma per molti è rimasto ancora l’amico a cui chiedere un consiglio, a
cui chiedere quell’informazione che l’assistente sociale non è riuscita a
recuperare. Andrea Canevaro, docente di pedagogia speciale – una delle tre
cattedre esistenti in Italia, e sono poche ci ha detto – ha risposto volentieri
alla nostra richiesta di intervista per la rubrica: 900 anni di
emarginazione?

Tantissime pubblicazioni sull’handicap alle spalle, un manuale per i suoi studenti, ma soprattutto una lunghissima esperienza di lavoro con gli studenti,al fianco delle persone handicappate e delle loro famiglie. Con le associazionicome l’Aias e l’Anffas, con gli Enti Locali e in giro un po’ dappertutto. ;
Probabilmente è stato un attacco un po’ troppo formale. Con Andrea, in fondo,ci si conosce già da un po’ anche se il tempo per fare due chiacchiere non èmai troppo. Terminato l’anno accademico 87/88 ci serviva però un interventosignificativo che soprattutto fosse in grado di dare delle indicazioni chiareper il futuro, che facesse opinione anche nel mondo universitario. Il"referente per l’handicap" dell’ateneo bolognese – ma attenzione allaghettizzazione!, ha continuato Canevaro – ci è sembrata la persona più adattaad assolvere questo compito.
D.: Partiamo con un esempio. All’estero come si sta? 
R.: Non mi sembra che dalpunto di vista dell’integrazione delle persone handicappate nel mondouniversitario ci siano delle situazioni particolarmente brillanti altrove…Certo ci sono paesi che hanno più ordine, per cui la stessa immagine dell’Università in un campus, con i viali, i prati, lebiblioteche… è diversa.
Noi abbiamo delle Università diverse, mescolate alle città, disordinate, ma èsedimentazione storica. Certe Università molto recenti hanno i bagni miglioridi quelle più vecchie, sono costruite tenendo presente i problemidell’accessibilità, e questo soprattutto nei paesi dove le tecnologie sono piùavanti. La questione delle barriere architettoniche però è utile ma non èspecifica dell’Università, la didattica invece se non la facciamo noi non la fanessuno.
D.: Quindi metteresti la didattica al primo posto al fine di una realeintegrazione nell’Università?
 R.: Si riflette troppo poco sulle questioni cheriguardano la didattica. Gatullo dice spesso: se noi dovessimo indicare ad uncollega straniero tre pubblicazioni di rispetto, di un certo calibro, sulladidattica universitaria in Italia, faremmo fatica a trovarle. Manca unariflessione di metodologia che vada al di là di una didattica molto ora-listica,la lezione, mentre il laboratorio è riservato ad alcune situazioni tecniche. Siconsidera che le materie uma-nistiche non debbano avere laboratori e questopenalizza soprattutto chi è handicappato. Questi studenti avrebbero bisogno diuna "articolazione della didattica", invece si riporta nellasituazione universitaria la condizione per cui l’integrazione, quando c’èstata, si è realizzata nella scuola di base, con la possibilità di utilizzareuna serie di strumenti di mediazione, con una didattica multimedia. La stessacosa vale per le ricerche, per quelle "partecipate" dove glihandicappati non sono oggetto di ricerca ma sono dei collaboratori. Sarebberomolto importanti per affrontare ad esempio le questioni lavorative, sociali,famigliari, sessuali… Varrebbe la pena pensare che una fetta di queste debbano farsi doverosamente, per una convinzionescientifica ed etica, con un modello di ricerca partecipata, favorendo laricerca-azione.
D.: E i finanziamenti? Il nuovo corso dell’Università prevede uno strettorapporto di collaborazione con il mondo dell’industria. Chi sarebbe disposto afinanziare ricerche sull’handicap? 
R.: L’handicap non deve essere visto allastregua di una industria! È la novità di questi anni pensare che l’Universitàpossa essere gestita come un’impresa che abbia rapporti con altre impreseoffrendo dei servizi, tra cui ia ricerca. Non è tanto possibile individuarel’industria disposta a finanziare ricerche in questo settore, potrebbero esserele Ferrovie dello Stato per i trasporti, ma ci potrebbero essere anche moltealtre cose… Bisogna allora pensare che la ricerca sull’handicap è un settoreal quale devono essere date delle garanzie istituzionali anche dall’internostesso dell’Università, e anche per quanto riguarda l’erogazione di fondi.
D.: Torniamo alle barriere architettoniche. Entro l’anno partiranno i lavori perla loro eliminazione, a quali problemi si andrà incontro? 
R.: Ci sarannosicuramente delle questioni da raccordare, problemi con la Sovrintendenza aimonumenti; bisognerà continuare a fare lezione anche in quelle aule dove saranno in corso ilavori. Ma l’importante è che nella commissione che presiederà ai lavori cisia la presenza di persone handicappate; per non commettere degli errori.
D.: Ci sono differenze tra le diverse facoltà? Disponibilità? Tolleranza?Qual’è la situazione del punto di vista dei docenti?
R.: Credo che ci sia una parte di noi docenti – che però non vorreicolpevolizzare – che adotta un certo pietismo. Sempre meglio che essere spieiatima… è sbagliato considerare la persona che ha delle difficoltà dicomunicazione come una persona che farà un esame un pò tirato via. Qualcunonon darà il voto massimo ma c’è comunque una certa disponibilità. Poi ci sonole facoltà che ti fanno subito capire che quello non è il tuo posto, che devidimissionare dalle aspirazioni che avevi, si dividono in fondo in due categorie:quelle dove c’è tolleranza, disponibilità ma talvolta non proprio fino infondo; e quelle dove invece non ci si iscrive neanche, oppure si rimedia nonfacendosi più vedere. D.: Hai in mente un esempio di uno studente condifficoltà che abbia superato con successo il suo rapporto con l’Università? Econ quali costi?
R.: Maurizio Cocchi (oggi presidente della Spep coop di Bologna, ndr) ha avutosicuramente il vantaggio, e lo dico paradossalmente, di essere presenteall’Università in una stagione di grandi assemblee, di grande movimento, e diavere un carattere che voleva imporsi. La miscela di questi due elementi gli hafatto fare un esercizio di "logoterapia" che forse non aveva mai fattoin vita sua. L’assemblea doveva rispettare i tempi di Maurizio che sono andatipoi accelerandosi, ha migliorato la sua organizzazione non solo di oratore maanche l’articolazione, il non-incepparsi… ha imposto uno stile. Le difficoltàche ha avuto le ha vissute come tutti gli altri che hanno delle difficoltà. Nonha richiamato su di sé un’attenzione da "poverino!", erano lenecessità anche degli altri: di avere degli esami in calendario piùaccettabili, degli accessi migliori, le aule, gli spazi…
Sta arrivando gente. Devono parlare con Canevaro di un corso di formazione sullasessualità per una USI di Ravenna e sono costretto ad interromperel’intervista. Riesco però ad avere un’ultima informazione: Canevaro èfiducioso che possa andare a statuto una nuova disciplina per l’Università,"handicap e nuove tecnologie".

Per altri 900 di integrazione

Al termine della nostra ricerca sull’handicap e l’università vorremmo
sottolineare e riproporre quelli che secondo noi sono i temi emersi dal nostro
lavoro.

Uno degli elementi che ci sembra doveroso evidenziare e come siano ancora moltoforti le barriere culturali nei confronti dello studente disabile all’internodel mondo accademico anche se vengono nascoste da un moralismo che punta moltosul dover essere e che quindi impedisce di vedere la realtà così com’è.Questo significa che si cerca di eliminare i limiti culturali quasiesclusivamente attraverso i gesti di buona volontà dei singoli e non condecisioni organiche prese dai consigli di facoltà o dagli organismi preposti algoverno dell’Università nelle sue varie componenti, tra le quali nondimentichiamolo, il personale non docente riveste un ruolo importante soprattutto nei confronti degli studenti a mobilità ridotta. Per evitareparte dei problemi che si verificano al momento della presenza a lezione dellostudente disabile ci sembra importante un collegamento più stretto fra lascuola media superiore e l’Università. Tale collegamento esiste in modoparziale come ci ha detto il prof. Tolmino Guerzoni presidente dell’I.R.R.S.A.E.(Istituto Regionale di Ricerca e Aggiornamento Educativi per l’Emilia-Romagna):"Già facciamo adesso incontri di docenti universitari con la classe dovec’è lo studente portatore di handicap affinchè questi possa avere maggiorielementi di valutazione e di riflessione su quello che sarà l’impegno chedovrà poi affrontare". Tali incontri ci sembrano utili non solo per lostudente handicappato, che ha modo di conoscere assieme agli altri studentiqualche elemento del mondo universitario, ma soprattutto per i docenti, che siaper esperienza personale mia (Stefano Toschi), sia da quanto è emerso dallenostre interviste, ci sono sembrati un po’ impreparati oltre che ad avererapporti con studenti disabili, anche a capire le motivazioni per cui questi hanno intrapreso gli studi universitari. Inoltre questa iniziativa dovrebbe esseremaggiormente pubblicizzata dato che anche chi scrive, benché fosse direttamenteinteressato, ne era perfettamente all’oscuro.
Abbiamo già preso in considerazione il discorso edilizio anche per quantoriguarda l’Azienda Comunale per il Diritto allo Studio; l’intervento si limitaquasi esclusivamente ad una erogazione in denaro dato che le strutture degliimmobili gestiti dall’Azienda (ad esclusione della mensa A.CO.SER) sono tali danon poter essere utilizzati da persone disabili. È molto più facile fare unpo’ di beneficenza che intervenire in modo organico sulle strutture. Ad ognimodo riteniamo che lo scambio di informazioni fra scuola media superiore euniversità sia di grande importanza affinchè l’Università sia più pronta adaccogliere le istanze che accompagnano l’iscrizione di uno studente handicappatofisico. Un altro limite culturale che è presente nella mentalità universitariacomune è quello di ritenere che le persone handicappate possano iscriversi soloa facoltà umanisti-che. Questo, pur essendo un dato di fatto che è emersoanche dalle nostre statistiche, non deve essere ritenuto una necessitàinevitabile. Infatti abbiamo ricavato dai nostri interlocutori delle facoltà ocorsi di laurea scientifici una certa disponibilità a superare quelledifficoltà che possono presentarsi con l’iscrizione di uno studentehandicappato.
Diciamo disponibilità perché le facoltà non hanno ancora preso posizioniprecise per tutto ciò che può riguardare l’iter universitario di uno studentedisabile: presenza di una persona estranea agli esami per firmare il libretto esoprattutto eventualmente per amplificare la voce del candidato o per scrivere negli esami che prevedono una prova scritta. Questo probabilmenteperché fino ad oggi gli studenti disabili che si sono iscritti a facoltà ocorsi di laurea scientifici sono stati pochissimi. Ciò dimostra che manca unpiano organico valido per tutte le facoltà per cui solo in quelle dove lapresenza di studenti disabili è più costante nel tempo sono stati sviluppaticerti strumenti e anche una certa mentalità, mentre nelle facoltà in cuiquesta presenza è scarsa o nulla non ci si è ancora posti il problema. Questonon riguarda soltanto il campo specifico degli studenti handicappati: lamentalità di porre degli argini quando il problema è tale da non poter essereescluso ulteriormente è tipico del nostro ateneo anche per quelle questioni cheriguardano una fascia d’utenza ben più vasta di quella rappresentata daglistudenti handicappati.
Un altro aspetto che a nostro avviso dovrebbe essere approfondito è quellodello scambio di esperienze fra docenti che abbiano avuto studenti disabili frai loro uditori e docenti che non hanno ancora avuto rapporti con questapopolazione
studentesca un pò insolita. Tale scambio aiuterebbe sicuramente i docenti asuperare le difficoltà di approccio con lo studente disabile che nella quasitotalità dei casi si sono presentate. Questo sicuramente sarebbe un validoausilio per i professori, forse di più che non i discorsi socio psicologici chegeneralmente si fanno attorno alle persone handicappate. Il nostro lavoro ha loscopo di favorire l’iscrizione e l’inserimento degli studenti handicappatifisici all’Università perché siano convinti che sia un diritto di ogni personail poter proseguire gli studi. Siamo a conoscenza del fatto che sono poche lepersone disabili che proseguono gli studi oltre la scuola dell’obbligo e quindiun numero ancora minore potrebbe iscriversi all’Università. Questo dato devefar riflettere perché se da una parte è giusto che uno studente non si sentaobbligato a proseguire gli studi, d’altra parte ci sembra che la sceltadell’interruzione degli studi o il rivolgersi quasi esclusivamente allaformazione professionale limiti le potenzialità di un individuo e frustri lasua volontà di apprendere.
Un’ultima cosa su cui vorremmo fare qualche considerazione è come l’Universitàpossa essere paragonata ad un’isola più o meno felice a cui uno studenteapproda per un periodo che va dai 4 ai 7 anni e durante i quali riceve deglistimoli ed acquisisce elementi per quella che vorrebbe fosse la sua professionefutura. Ed è proprio qui che rileviamo la nota dolente. Soprattutto per lefacoltà umanistiche, gli elementi che si acquisiscono all’Università, nonforniscono agganci col mondo del lavoro; così lo studente corre il rischio diavere studiato per diversi anni materie interessanti e stimolanti senza poipoter realmente sfruttare questo bagaglio di conoscenze. Se ciò vale per unostudente "normale" possiamo immaginare quanto questo discorso siaindicato per uno studente disabile, verso il quale il mondo del lavoro frapponeun numero ancora maggiore di barriere.
In questo senso il meccanismo è difettoso e qui devono essere rivolte maggioriattenzioni perché l’Università non sia un’isola nell’oceano della società edel mondo del lavoro.

Vocazione alla castita? Chi l’ha detto

Il tema della sessualità nel mondo dell’handicap ha conosciuto negli anni
ottanta una fioritura di articoli e convegni che hanno proposto come chiave di
lettura unica questo pensiero: la sessualità per l’handicappato è un diritto.
Nel mondo cattolico questa riflessione si è sviluppata nella seguente frase:
l’handicap ha la vocazione alla castità. Per me non è così. perché la
vocazione è una chiamata, e ad una chiamata bisogna dare una risposta. io non
ho scelto di essere handicappato, e dunque l’handicap non può scegliere.

Semmai la vocazione è accettare l’handicap. La libertà di questa sceltaconsiste nella decisione di diventare soggetto a pieno titolo oppure rimanereancora oggetto. E da questo dipende anche la possibilità di concepire in modonuovo il tema handicap e sessualità. Perché il problema è la sessualità enon la sessualità dell’handicap. Troppo dì frequente si propone qualeassolutizzante immagine della sessualità il rapporto fisico, ma questosignificherebbe porre un limite. Un solo criterio interpretativo, lo vorreiproporre una visione diversa, a partire da una variazione sull’interpretazionedel rapporto sessuale. Poniamo di avere una torta alla panna e di rivolgeretutta la nostra attenzione alla cilie-gina, solo perché si presenta bene. Inquesto siamo aiutati in vari modi dalle influenze sociali e dei media, che contribuiscono in vari modi a farne un mito.Il mito della ciliegina. Ma se qualcuno volesse proporre di considerare tutta latorta?
Stando al mito, l’handicap non può avvicinarsi alla torta. Se modifichiamo itermini però potremmo chiederci se l’handicap non rientra nei paradigmi o se sono i criteri di giudizio che vanno modificati. La miaproposta investe proprio tali criteri. E mi spingo a dire che l’handicap ha unposto di rilievo in questa tematica, perché fa riflettere sulla sessualità esu un possibile nuovo modo di interpretarla.
Riprendiamo il tema dellavocazione. Definire l’handicap una chiamata alla castità significa relegare ilproblema in una zona franca, dove non disturba e dove non è disturbato. Lasanità vive il suo rapporto con la sessualità, confina in un limbo tral’eroico e il disgraziato l’handicap, e non se ne parli più. Che questa possaessere una risposta della società è anche concepibile. Rientra in una normaleeconomia di pensiero. Ma che l’handicap non faccia niente per smuoverla èpreoccupante. Queste note vorrebbero essere un tentativo di farlo. 
L’handicapdeve trasformare sé stesso da oggetto d’amore a soggetto d’amore. Osserviamouna fenomenologia usuale del rapporto dell’handicappato con il suo corpo.L’handynon cura il proprio aspetto, non si preoccupa dei vestiti che indossa, non usaprofumi o simili. Perché dovrebbe abbellire il proprio corpo? Se un ‘normale’si atteggia a bullo, è un bullo; se lo fa l’handicappato è solo un poveroscemo. Tutto questo dovrebbe cambiare a livello di immaginario collettivo. Bastacredere alle potenzialità offerte dall’handicap. Si dice che I’-handy non puòcamminare, e quindi è impotente; non può parlare, e quindi è impotente; nonpuò decidere, e quindi è impotente. Mi permetto di dire che la mia esperienzaconferma il contrario.
L’handicap è invece una potenzialità che bisognerebbe utilizzare per l’uomo,lo sono diventato soggetto d’amore, ho messo in atto quella potenza che c’è inognuno di noi, handicap o no. E questo ha fatto sì che la gente attorno a me cambiasse e mi offrisse le sue potenzialità.È un fatto normale per tutti, io non amavo la mia situazione e il mio corpo. Michiedevo perché dovessi essere così, senza ‘colpa’ da parte mia. Poi ho presofiducia, considerando questa condizione come una delle tante, necessitante solodi essere messa a frutto. Ora non mi vergogno di essere cosi come sono, perché mi sono accettato. Questo è avvenuto nel miocaso quando mi sono sentito non solo accettato, ma, più ancora, amato, da Dio edagli uomini. Perché quando uno si sente amato che può a sua volta amare lapropria condizione fattuale. Si instaura un fenomeno inarrestabile, come una catena lungo la quale l’amore che si riceve siritrasmette e permette che anche gli altri possano amare. Amare la miacondizione. E così se prima la gente veniva da me per dare qualcosa, ma ilmovimento era univoco, ora è uno scambio reciproco. Questa è la cultura chedeve stare attorno e insieme all’handicap.

Disinformati…soprattutto DISINFORMATI… SOPRATTUTTO

Dopo le difficoltà, le conquiste e l’abbandono in cui si trovano ad operare gli insegnanti, vediamo ora quali sono invece le aspettative … dall’altra parte del banco. è la mamma di chiara a parlare, una bambina handicappata di 7 anni che nel prossimo anno frequenterà la prima classe alla scuola elementare “fiorini”; di bologna. quali sono le speranze, i timori, le esperienze passate ed il livello di conoscenza su quanto effettivamente si fa o si potrebbe fare per questo delicato primo approccio con il mondo della scuola?

D) La sua bambina, l’anno prossimo, andrà alla scuola elementare. Quali sono lesue aspettative?
R) Non mi aspetto tanto di più di ciò che si aspetta un qualsiasi genitore.Prima di tutto spero in un buon inserimento; che Chiara possa trovarsi bene, a suo agio. Penso, infatti, che questasia la cosa fondamentale per iniziare un impegno così importante per tutti ibambini e ancora di più per mia figlia. Spero nell’insegnante, ma soprattuttonell’insegnante di sostegno: spero di trovare lo stesso interesse e la stessapassione ad aiutare Chiara che ho trovato alla scuola dell’infanzia; senzacrearle delle difficoltà e delle differenze nei confronti degli altri bambini.Penso che se un buon numero dei compagni attuali di Chiara, potrà essere conlei anche alla scuola elementare, ciò faciliterà il suo inserimento.
La cosa che più ha aiutato sia me che Chiara in questi anni, penso sia stato il"modo in cui è sempre stata coinvolta in tutte le attività, in tutti igiochi insieme agli altri bambini, pur avendo nei suoi confronti una attenzioneparticolare, un aiuto più diretto.
Vorrei sapere prima quale sarà il programma e il metodo che verrà applicatoper insegnare a Chiara. Non posso immaginare, per come stanno le cose adesso,che possa seguire un programma normale. Non so come la scuola penserà diinsegnare a leggere e scrivere alla mia bambina e non so dove Chiara potràarrivare.
D) Quali sono, al contrario, le sue preoccupazioni, i suoi timori riguardo all’inserimento nella scuola elementare?
R) Ho soprattutto molta confusione dovuta forse al fatto di non conoscere ilprogramma e il metodo. Sono preoccupata non tanto per l’immediato quanto per glianni a venire e mi chiedo: riuscirà Chiara a superare il primo anno di scuola,il secondo, ecc.? Quali saranno le sue reazioni nei confronti del "sofare", "non so fare", "non riesco a fare quello che fannogli altri bambini"?
La paura non è tanto dell’imparare a leggere e scrivere poiché se non imparioggi impari domani o il prossimo anno. Infatti ho visto che fino ad ora è statocosì: magari imparava l’anno dopo, però ci riusciva. Il problema è comeChiara, crescendo, reagirà a questo. Riuscirà a capire che lei è differente,diversa e ciò influirà psicologicamente su di lei? Mi chiedo anche se Chiarariuscirà a stare seduta per quattro ore e fare quello che le dicono; lei èabbastanza ribelle ed inoltre se vede che non riesce a fare qualcosa le viene larabbia.
D) Ecco l’importanza di un colloquio individuale che non esclude, come ripeto, ilmomento assieme agli altri. Come mamma di una bambina con problemi, penso diaver superato molto bene questi anni anche grazie al fatto di stare sempre ecomunque insieme a tutti.
D) Quali contatti ha avuto con la scuola elementare?
R) lo non sono stata chiamata dalla scuola elementare.
Quando sono andata ad iscrivere Chiara, la direttrice non c’era, quindi non hoavuto modo di parlare con lei. In seguito è stata convocata una riunione pertutti i genitori dei bambini che l’anno prossimo frequenteranno la primaelementare, lo ho partecipato e poiché la direttrice ci ha informati che ilnumero dei bambini iscritti al tempo pieno era troppo elevato e, al contrario,gli iscritti al tempo normale troppo pochi per formare una classe, ho dato lamia disponibilità a spostare mia figlia purché il tipo di scuola che sisceglie, sia ciò che va bene per lei. In quella sede, poi, la direttrice mi hachiesto di parlarmi individualmente per assicurarmi che Chiara avràl’insegnante di appoggio.